Sovranità
(XXXII, p. 188)
Le diverse concezioni della sovranità
Alla fine del 20° secolo è necessario considerare un fattore che accentua la crisi dell'idea europea di sovranità: il processo di globalizzazione in atto entro settori fondamentali della produzione industriale, della finanza, dei trasporti e delle comunicazioni di massa. Gli Stati nazionali sembrano ormai inidonei ad affrontare i problemi internazionali - la pace, lo sviluppo economico, la protezione dei diritti dell'uomo, la tutela dell'ambiente, l'equilibrio demografico - che hanno assunto una scala planetaria ed esigono strategie, istituzioni politiche e ordinamenti giuridici 'globali'.
Il sistema degli Stati sovrani - fondato cioè sull'equilibrio fra soggetti politici che intrattengono tra di loro rapporti giuridici paritari -, seguito alla pace di Vestfalia (1648), era andato incontro a una crisi molto grave in occasione della Prima guerra mondiale: la guerra provò che l'equilibrio fra le potenze europee non era in grado di garantire un assetto stabile e pacifico delle relazioni internazionali, le quali ormai si estendevano ben oltre l'Europa. La crisi si fece ancora più acuta con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, innescata dall'espansionismo nazionalistico dei regimi fascisti e nazisti. Alla fine del conflitto le potenze vincitrici decisero di dar vita a nuove istituzioni internazionali - le Nazioni Unite - che garantissero la stabilità e la pace mondiale superando il sistema 'anarchico' dell'equilibrio fra Stati egualmente sovrani. La nuova strategia puntava sull'accentramento del potere politico-militare nelle mani di organismi sovranazionali che riducessero notevolmente le prerogative sovrane degli Stati nazionali.
In termini analitici la nozione di s. viene normalmente differenziata in sovranità esterna, espressione con cui si designa il carattere originario e l'indipendenza dello Stato nazionale rispetto ad altre autorità politiche e religiose, e in sovranità interna, espressione che denota la supremazia che lo Stato esercita sui suoi sudditi (o cittadini), oltre che sui poteri e le autorità operanti al suo interno. Sul piano teorico-politico è inoltre fondamentale la distinzione fra una nozione assoluta e una nozione limitata di sovranità. Con la prima si fa riferimento alle concezioni della s., tipicamente espresse da autori come J. Bodin e Th. Hobbes, che hanno caratterizzato i regimi assolutistici delle grandi monarchie nazionali, consolidatesi in Europa fra il Cinquecento e il Settecento. Con la seconda si designano le concezioni della s. statale che sono proprie dei regimi liberali dell'Ottocento e di quelli liberaldemocratici e socialdemocratici contemporanei. Si deve inoltre aggiungere che oggi non mancano autori per i quali l'idea di s., anche in un'accezione 'limitata', è incompatibile con quelle di Stato di diritto e di Stato costituzionale.
Una considerazione a parte meriterebbe l'idea di sovranità popolare, che fra Seicento e Settecento si diffonde nella cultura politica anglosassone, e in particolare nelle colonie della Nuova Inghilterra. Nel Contrat social J.-J. Rousseau elabora filosoficamente questa nozione attribuendole un carattere assoluto e democratico nello stesso tempo. In questa versione l'idea di s. popolare eserciterà una profonda influenza prima sul pensiero rivoluzionario francese e poi sulle ideologie socialista e marxista, con rilevanti sviluppi sino agli ultimi decenni del Novecento.
La sovranità limitata
Fra Ottocento e Novecento, sulla scia di Montesquieu e Tocqueville, giuspubblicisti e teorici dello Stato (H. Preuss e H. Laski) sottolinearono l'incompatibilità di una nozione di s. come potere illimitato - sia esso attribuito a un'autorità monocratica o al popolo - con la concreta articolazione istituzionale dello Stato liberaldemocratico. Al suo interno opera una molteplicità di soggetti pubblici che, pur perseguendo interessi generali, dispone di competenze e poteri limitati, anziché di potestà sovrane nel senso classico. In questa prospettiva teorica la s. cessa di essere la prerogativa che definisce lo Stato come tale e diviene una nozione utile per qualificare uno Stato come dispotico, totalitario, centralista o, al contrario, liberale, democratico, garantista.
Nella direzione teorica di una s. limitata dello Stato procede il padre della moderna dottrina pluralistica della democrazia, J. Schumpeter (nella sua scia si collocheranno autori contemporanei come R. Aron, R. Dahl, R. Dahrendorf, N. Bobbio, G. Sartori ecc.). Per Schumpeter non c'è regime democratico se non in presenza di una struttura pluralistica e concorrenziale del 'mercato politico': un sistema nel quale operino più élites in competizione fra loro per la conquista della leadership e che si affidino, per decidere la contesa, a libere elezioni popolari anziché all'uso della forza. In questa visione 'poliarchica' lo Stato perde i suoi caratteri 'sovrani' di struttura monistica, centralizzata e onnipotente. I suoi organi decisionali divengono sedi del compromesso e della mediazione fra soggetti che operano per conto e in nome di gruppi organizzati - partiti, sindacati, organizzazioni professionali, imprese economiche ecc. - che sono portatori di poteri autonomi e che pertanto incidono in profondità entro i processi decisionali dello Stato.
Nel complesso si può affermare che il pensiero liberaldemocratico propone una nozione di s. che, pur conservando alcune prerogative classiche - il riferimento al potere più alto, ultimo e più generale, oltre che indipendente verso l'esterno -, è tuttavia subordinata all'esigenza di porre limiti al potere e contrastarne la tendenza a trasformarsi in arbitrio. La nozione di s., in altre parole, diviene un predicato dello 'Stato di diritto' e ciò comporta sia l'idea di una ritualizzazione giuridica (anche) del potere supremo, sia quella di una sua articolazione o divisione istituzionale. E comporta soprattutto una limitazione dell'ambito di esercizio delle funzioni potestative che le renda compatibili con i diritti individuali di libertà.
In questa versione fortemente attenuata la s. tende a non riferirsi più a 'persone' o a 'organi' sovrani, come il re e il Parlamento, ma a divenire una prerogativa giuridica astratta e diffusa dei poteri dello Stato. La nozione di autorità sovrana tende così a identificarsi con quella di autorità competente, anche se la nozione viene normalmente riservata alle autorità di più alto grado. Ma anche queste autorità superiori sono in vario modo limitate: lo sono sia perché devono normalmente riferirsi al popolo o all'elettorato come alle proprie fonti di legittimazione politica, sia, e soprattutto, perché con esse concorrono i poteri di numerose istituzioni differenziate e/o decentrate. Se entro uno Stato di diritto si risale dalle competenze inferiori a quelle più elevate, è ormai impossibile trovare al vertice della gerarchia una persona o un organo che disponga di un potere illimitato: tribunali, corti amministrative, assemblee elettive, autorità locali, associazioni professionali ecc. sono soggetti giuridici cui sono attribuite specifiche competenze che non possono essere impunemente derogate da un potere centrale.
Entro lo Stato di diritto la s. continua a essere concepita come un potere finale e generale, e cioè come il potere di prendere, entro un determinato ambito di competenza, decisioni definitive e valide erga omnes. Questa prerogativa non comporta tuttavia né un'assolutezza di tale potere, né una sua irreversibilità: la decisione finale deve comunque sottostare a condizioni procedurali che ne limitano la discrezionalità. E in determinate circostanze essa può essere legittimamente revocata, con l'esclusione soltanto della possibilità che a revocarla siano organi inferiori.
La sovranità negata
Nei primi decenni del Novecento uno dei più autorevoli giuristi europei, H. Kelsen, sferrò un violento attacco contro il 'dogma della sovranità', da lui ritenuto espressione di una concezione antidemocratica e imperialistica dello Stato. Kelsen intese opporsi fermamente alla filosofia politica di Hegel e dei suoi epigoni e nel farlo si ispirò al cosmopolitismo giuridico, proposto da Kant in Zum ewigen Frieden, e più in generale all'epistemologia neokantiana della scuola di Marburgo. Nel saggio Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts (1920) e in numerose opere successive, Kelsen oppone una concezione 'monistica' del diritto sia alla teoria del primato del diritto statale, sia a quella del pluralismo paritario delle fonti del diritto. Per Kelsen esiste un solo ordinamento giuridico che include entro un'unica gerarchia normativa il diritto interno e quello internazionale: l'unità del diritto e il connesso primato del diritto internazionale significano che l'ordinamento internazionale include tutti gli altri ordinamenti, in particolare quelli statali, ed è a essi sovraordinato. Inteso come ordinamento giuridico originario, esclusivo e universale, il diritto internazionale è perciò del tutto incompatibile con l'idea della s. degli Stati nazionali e dei loro ordinamenti giuridici. Per Kelsen quest'idea dev'essere "radicalmente rimossa".
Per corroborare questa duplice tesi Kelsen si impegna a mostrare le incongruenze delle teorie pluralistiche o statalistiche sostenute dalla quasi totalità dei giuristi di cultura tedesca fra Ottocento e Novecento, da G. Jellinek a P. Laband, H. Preuss, H. Triepel, allo hegeliano A. Lasson. Kelsen respinge l'idea che la fonte del diritto internazionale sia l'auto-obbligazione pattizia degli Stati o che l'obbligatorietà delle norme internazionali derivi dal riconoscimento, implicito o esplicito, loro accordato dai governi o dai Parlamenti dei singoli paesi. Per Kelsen il diritto interno degli Stati non è che un 'ordinamento parziale' rispetto all'universalità dell'ordinamento internazionale e sono anzi la piena giuridicità e la validità di quest'ultimo a conferire validità agli ordinamenti statali. Per questa ragione le norme interne non possono mai essere in contraddizione con quelle internazionali, a pena di nullità. E quanto al fondamento della obbligatorietà del diritto internazionale, esso non può essere cercato in qualcosa di esterno all'ordinamento medesimo: la sua validità deve essere postulata in termini logico-trascendentali come immagine giuridica del mondo e, al tempo stesso, come riflesso dell'unità morale del genere umano.
Al vertice della sua teoria pura del diritto Kelsen si richiama all'idea teologica di civitas maxima, riproposta in epoca moderna dalla metafisica illuministica di Ch. Wolff. Nell'assumerla come fondazione ultima del suo cosmopolitismo giuridico Kelsen osserva che questa idea era già presente, prima ancora che nascesse il diritto internazionale moderno, nella nozione di imperium romanum. Essa ha poi attraversato l'intero Medioevo ed è entrata in crisi soltanto agli albori della modernità, con l'affermarsi della s. degli Stati nazionali. Ebbene, sostiene Kelsen, la moderna scienza del diritto è in grado di riscattare il paradigma della civitas maxima e di provarne l'oggettiva validità. Lo può fare intendendo il diritto internazionale come 'ordinamento giuridico mondiale o universale'. E il primato di questo ordinamento mondiale può essere correlato all'idea di una 'comunità giuridica universale comprendente tutti gli uomini', che travalica le singole comunità statali e la cui validità è ancorata nella sfera dell'etica.
Quando l'ordinamento sovrano dello Stato mondiale avrà assorbito tutti gli altri ordinamenti, profetizza Kelsen, il diritto diventerà organizzazione dell'umanità e perciò tutt'uno con l'idea etica suprema. Per Kelsen l'unità dell'ordinamento giuridico è dunque, oltre che una tesi scientifica, il fondamento teorico del pacifismo internazionale che si oppone alla logica di potenza delle moderne concezioni individualistico-statali e relativistiche della s. statale. Sulla base di queste premesse Kelsen avanza la proposta di una 'rivoluzione della coscienza culturale' in senso cosmopolitico. Si tratta di un programma di politica del diritto che propugna un'evoluzione della comunità giuridica internazionale dalla sua condizione 'primitiva', imposta dal dogma della s. statale, a una organizzazione universale dell'umanità nella quale convergano e si integrino, sotto l'egida del diritto, la morale, l'economia e la politica.
Dalla negazione della s. degli Stati e dal riconoscimento dell'unità morale e giuridica dell'umanità discende per necessità logica, argomenta Kelsen, il rifiuto della tradizionale concezione groziana del diritto internazionale come ordinamento i cui soggetti sono esclusivamente gli Stati; al contrario, soggetti di diritto internazionale non possono non essere, accanto agli Stati, anche i singoli individui, e dunque le norme del diritto internazionale devono regolare anche le attività degli individui, esercitando conseguenze dirette nei loro confronti.
La sovranità rivendicata
Una concezione della s. in larga parte opposta a quella kelseniana (e a essa polemicamente riferita) è stata avanzata nei primi decenni del Novecento dal giurista tedesco C. Schmitt e, in termini più moderati, da autori come H. Heller e R. Smend. Per Schmitt sovrano non è colui che in condizioni normali detiene il monopolio del potere legislativo o del potere esecutivo. Sovrano è colui che "decide dello stato di eccezione", e cioè colui che di fatto (e perciò anche di diritto) ha il potere di sospendere l'ordinamento giuridico ed eventualmente di fondarne uno nuovo. La s. appartiene perciò non al potere costituito ma al 'potere costituente', secondo la formula introdotta da E. Sieyès. Sovrano è il concreto 'padrone dello Stato', il 'dittatore' che per garantire l'unità, la coesione e l'ordine politico del gruppo si discosta da ogni regola e normalità codificata. La s. è dunque il potere della decisione ultima nelle situazioni di pericolo e di emergenza estrema, poiché è in queste situazioni che emerge il volto autentico del potere e della politica. La politica contiene nelle proprie viscere qualcosa di tragico che inutilmente i formalismi procedurali del diritto moderno tentano di nascondere: la permanente possibilità della catastrofe, dello scatenamento della violenza, dell'esclusione del 'diverso' e dello 'straniero', dell'uccisione fisica del nemico. In altre parole, è sempre presente la sfida dello stato di eccezione, nel quale ogni neutralizzazione giuridica del conflitto si rivela effimera e la politica riafferma la sua logica, che è la logica dell'inimicizia radicale.
In coerenza con le premesse di questo realismo polemologico Schmitt rifiuta ogni idea di superamento cosmopolitico della s. degli Stati nazionali e di distacco dalla tradizione vestfaliana dello ius publicum europaeum in quanto diritto interstatale e non sovranazionale. Assumendo una posizione fortemente polemica nei confronti dell'universalismo razionalistico di Kelsen, Schmitt nega ogni attendibilità all'ideale di una civitas maxima entro la quale la politica, il diritto e l'etica convergano nella celebrazione del primato del diritto internazionale come ordinamento di tutta l'umanità, funzionale alla costruzione di uno Stato mondiale. Per Schmitt il progetto cosmopolitico non è che la suprema neutralizzazione della s., la negazione utopica della sua essenza polemica, l'illusione irenistica che gli uomini si possano dare un ordine politico prescindendo dalle loro profonde differenze, dalle loro irrazionali paure e feroci ostilità. È ignorare che lo Stato non è altro che l'organizzazione del pregiudizio contro altri, inconciliabili pregiudizi.
Per Schmitt l'ordine politico (Ordnung) ha inestirpabili radici nelle accidentalità del territorio (Ortung): senza il particolarismo del 'prendere posto' non esiste alcuna possibilità di ordinare politicamente lo spazio, di tracciare confini, di organizzare al loro interno la sicurezza proiettando all'esterno ciò che è diverso, disomogeneo, ostile. In Nomos der Erde (1950) Schmitt disegna la grandiosa metafora della contrapposizione della terra (e del suo nomos discriminatore) allo spazio indistinto e piatto del mare - lo spazio cosmopolitico dominato dalle potenze navali anglosassoni - dove un ordine stabile è impossibile perché non è possibile costruirsi un rifugio, tracciare confini, distinguersi e difendersi. È impossibile, in poche parole, l'esercizio della sovranità.
Sovranità e Costituzione
Esauritasi nel secondo dopoguerra l'esperienza dei regimi autoritari europei, anche di quelli sopravvissuti alla sconfitta militare del fascismo e del nazismo, in tutta Europa si ristabilisce la tradizione liberale dello Stato di diritto, che tende a svilupparsi nel senso dello Stato costituzionale e del Welfare State. Di conseguenza perdono credito le teorie assolutistiche della s. statale, che erano state riproposte dai regimi autoritari, e riprendono vigore le concezioni della sovranità limitata ispirate alla filosofia liberale.
Una radicalizzazione in senso democratico e garantista di queste posizioni dà vita a correnti di pensiero per le quali l'idea di Costituzione è tout-court incompatibile con quella di sovranità. La nozione di s., come requisito sia interno che esterno dell'autorità dello Stato nazionale, finisce per essere considerata un ingombrante residuo del passato, incompatibile sia con lo Stato di diritto, sia, e a maggior ragione, con lo Stato costituzionale. Le moderne Costituzioni, soprattutto se scritte e rigide, pongono limiti invalicabili anche al potere di legiferare dei Parlamenti democratici. Lungo questa strada si arriverà a sostenere (per es., Ferrajoli 1995) che esiste un'antinomia irriducibile fra il concetto di s. e il diritto moderno: la s. esprime l'idea di un potere libero da regole giuridiche, mentre il diritto è un sistema normativo che ha come finalità primaria la subordinazione del potere a regole formali e, nell'assetto costituzionale contemporaneo, anche sostanziali.
Sviluppi paralleli in questa direzione si hanno, sotto l'influenza dell'esperienza costituzionale statunitense e dell'universalizzazione della dottrina dei diritti dell'uomo, con l'affermazione di ideologie costituzionaliste e garantiste radicali. Prende corpo un'idea di 'democrazia costituzionale' che pone il riconoscimento e la sanzione dei diritti individuali - civili, politici e sociali - come il presupposto assoluto e irrevocabile del 'patto sociale' e cioè come una variabile indipendente rispetto a ogni possibile potere costituente o potere di revisione costituzionale.
In autori come R. Dworkin, per esempio, al riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali degli individui deve essere subordinato non soltanto il potere legislativo, ma lo stesso potere costituente, in una negazione radicale della nozione di s., sia dello Stato sia del popolo. Sovrana è la Costituzione in quanto norma fondamentale a tutela dei diritti soggettivi, non in quanto espressione costituente della s. popolare. Ne emergono nuovi profili della questione, risalente nelle sue formulazioni classiche alle dispute ottocentesche fra liberali conservatori e teorici democratici, circa i limiti del potere costituente, del suo rapporto con il potere costituito e della natura e dei limiti del potere di revisione costituzionale.
Globalizzazione e sistema degli Stati sovrani
Il tema della s. si viene a intrecciare, a fine Novecento, con il problema della 'globalizzazione' e del tramonto del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. I processi di globalizzazione, in atto su scala mondiale nei settori della politica, dell'economia, della finanza e delle comunicazioni, sono un vettore di trasformazione delle relazioni internazionali e pongono in termini drammatici il tema della possibilità di sopravvivenza degli Stati nazionali e della loro sovranità. La globalizzazione dilata a livello planetario la scala delle esperienze, delle comunicazioni e delle interazioni culturali, ed espone nello stesso tempo l'arena politica nazionale all'influenza delle forze, spesso soverchianti e difficilmente controllabili, dei mercati globali. A causa dei crescenti vincoli di interdipendenza la qualità dei rapporti politici ed economici interni a un paese è sempre più condizionata dalla qualità dei rapporti internazionali. I temi della democrazia, della protezione dei diritti dell'uomo, dello sviluppo economico e della tutela ambientale sembrano ormai non trattabili al di fuori di un quadro di riferimento che tenga conto delle strategie perseguite dalle maggiori potenze politiche ed economiche, dalle corporations internazionali e dagli organismi finanziari da esse controllati o influenzati.
Una prima conseguenza rilevante in tema di sovranità politico-giuridica degli Stati è la crescente pressione di normative e di giurisdizioni sovranazionali che limitano la s. degli Stati nazionali, in particolare di quelli che non si trovano al vertice della gerarchia politica ed economica internazionale. Secondo numerosi autori - N. Bobbio, A. Cassese, R. Falk, D. Held ecc. - questa tensione può rivelarsi 'espansiva' e 'inclusiva', nel senso che l'interferenza delle normative internazionali con gli ordinamenti giuridici degli Stati potrebbe dilatare e rendere più concreta la capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il ricorso ad autorità giudiziarie dotate di una s. sovranazionale. Altri autori, fra i quali H. Bull, oppongono a questo ottimismo cosmopolitico - ottimismo circa la realizzabilità di uno Stato di diritto planetario e di una cittadinanza cosmopolitica - la permanente divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in un gran numero di paesi poveri e deboli. In questa situazione si esclude che sia possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso della 'eguaglianza sovrana' degli Stati, pur formalmente ribadito dalla Carta delle Nazioni Unite. E d'altra parte si sostiene che la funzione degli Stati nazionali, e della loro, per quanto limitata, s., non può essere frettolosamente dichiarata obsoleta. La protezione delle diversità culturali, la tutela dei diritti soggettivi sulla base del rule of law e la stessa legittimazione degli Stati come soggetti del diritto internazionale continuano a dipendere dal rapporto 'sovrano' che gli Stati medesimi mantengono con il loro territorio e la popolazione che vi risiede.
Una seconda conseguenza della globalizzazione riguarda più in generale la struttura delle istituzioni internazionali - in primo luogo le Nazioni Unite e l'Unione Europea - e il loro rapporto con la domestic jurisdiction degli Stati. I processi di integrazione planetaria in corso, si sostiene, esigono un superamento definitivo del 'modello di Vestfalia' e il passaggio a un'organizzazione internazionale nella quale venga concentrato un rilevante potere politico e militare, in grado di decidere l'agenda internazionale, a cominciare dal problema della guerra e della pace.
Secondo il 'modello di Vestfalia' i soggetti del diritto internazionale erano soltanto gli Stati e lo erano non sulla base di un riconoscimento internazionale, ma in virtù del mero fatto della loro connessione potestativa con un determinato territorio e la popolazione insediata su di esso. Non esisteva un 'legislatore internazionale' dotato del potere di emanare norme che valessero erga omnes: fonte del diritto internazionale era l'autorità sovrana degli Stati in quanto essi sottoscrivevano trattati bilaterali o multilaterali o in quanto riconoscevano la vigenza di norme consuetudinarie. L'ordinamento giuridico internazionale era costituito quasi esclusivamente da norme primarie o di condotta, mentre mancavano le norme secondarie o di organizzazione. In particolare, non esisteva alcuna giurisdizione obbligatoria che accertasse l'esistenza e l'eventuale violazione delle norme internazionali. Questa funzione era affidata o agli apparati interni di ciascuno Stato o a procedure pattizie come l'arbitrato.
Nel sistema vestfaliano l'eguaglianza giuridica e l'autonomia normativa degli Stati erano un principio incondizionato. Il diritto internazionale non dettava alcuna norma sulle strutture politiche interne ai singoli Stati o sui loro comportamenti nei confronti dei cittadini, né prevedeva alcun potere di ingerenza di un'organizzazione internazionale o di uno Stato negli affari interni di un altro Stato. Ormai decaduta l'autorità del Papato e, con essa, la dottrina del iustum bellum, ogni Stato aveva inoltre pieno diritto di ricorrere alla guerra o ad analoghe misure coercitive per tutelare o promuovere i propri interessi. Gli illeciti internazionali erano una sorta di fatto privato fra lo Stato autore dell'illecito e la sua controparte. Nessun altro Stato e nessuna organizzazione o autorità internazionale avevano il diritto o il dovere di intervenire a favore dell'uno o dell'altro contendente.
In epoca di globalizzazione si propone in sostanza che al vecchio modello vestfaliano degli Stati sovrani si sostituisca pienamente il cosiddetto modello della Carta delle Nazioni Unite che è venuto profilandosi sulla base del disegno normativo della Carta delle Nazioni Unite. Secondo questo modello soggetti del diritto internazionale non sono soltanto gli Stati nazionali: anche le organizzazioni internazionali lo sono, in modo tutto particolare le Nazioni Unite. Un ruolo, sia pure molto limitato, viene concesso anche agli individui, alle organizzazioni non governative e ai popoli dotati di strutture rappresentative. Nel contempo sono entrate gradualmente in vigore norme internazionali che tentano di obbligare gli Stati a rispettare i diritti fondamentali degli individui: si è verificata, insomma, una parziale 'erosione della sovranità giuridica interna'. E si sono affermati dei veri e propri 'principi generali' dell'ordinamento giuridico internazionale che non solo sono ritenuti vincolanti per tutti gli Stati, ma, almeno in linea teorica, prevalgono, come ius cogens inderogabile, sui trattati e le norme consuetudinarie. Fra questi principi può essere incluso il divieto dell'uso della forza per la soluzione delle controversie: lo stesso diritto degli Stati a ricorrere alla guerra è stato rigorosamente limitato alla legittima difesa. L'uso sanzionatorio della forza è stato infatti sottratto alla s. militare degli Stati nazionali ed è stato affidato all'esclusiva competenza di un organo centralizzato, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E il mancato rispetto delle norme internazionali non è più un affare privato fra singoli Stati, ma è considerato un affare pubblico che coinvolge l'intera comunità internazionale e può autorizzare consistenti eccezioni al principio della s. esterna degli Stati.
Il progresso dell'ordinamento giuridico internazionale, si ritiene, non può che andare nel senso di un rafforzamento del 'nuovo modello' introdotto dalla Carta delle Nazioni Unite e di un totale superamento del vecchio 'modello di Vestfalia': quest'ultimo rifletteva le caratteristiche primitive e 'individualistiche' delle relazioni fra gli Stati nell'Europa del Seicento e del Settecento, mentre è soltanto con la Carta delle Nazioni Unite che è stato fondato un moderno assetto giuridico internazionale.
Sovranità cosmopolitica e pace mondiale
Un'altra conseguenza che viene fatta derivare dal fenomeno della globalizzazione è l'esigenza di nuove strategie per il mantenimento della pace internazionale. Autori come N. Bobbio, D. Held e L. Ferrajoli propongono nuove forme di 'pacifismo istituzionale' e una conseguente riforma delle Nazioni Unite. Per questi autori, che si ispirano direttamente a un'opera di Kelsen, Peace through law (1944), il rimedio per eccellenza è l'istituzione di un Superstato o Stato mondiale, dotato di una s. universale (anche se non illimitata). Ciò che rende inevitabile l'uso della forza militare sul piano internazionale, essi sostengono, è la mancanza di un'autorità superiore ai singoli Stati che sia in grado di decidere chi ha ragione e chi torto e di imporre la propria decisione con la forza.
Il ragionamento che sta alla base di questa teoria è la cosiddetta domestic analogy: allo stesso modo in cui, per passare dall'anarchia alla società politica, gli individui hanno dovuto rinunciare a farsi giustizia da sé e attribuire la facoltà di usare la forza a un potere centralizzato, così gli Stati, per superare l'anarchia internazionale, devono trasferire il loro potere a un organo nuovo e supremo, che abbia nei confronti degli Stati nazionali lo stesso monopolio della forza che lo Stato ha nei confronti dei singoli individui. Alla luce di questa prospettiva teorica Bobbio ritiene che l'organizzazione delle Nazioni Unite rappresenti un'anticipazione e quasi il nucleo generatore di quelle 'istituzioni centrali' che saranno in grado di garantire in futuro condizioni di pace più stabili e universali. Altri giuristi, seguendo la lezione sia di Kelsen sia di Bobbio, propongono una riforma delle Nazioni Unite che realizzi una limitazione della s. degli Stati mediante l'introduzione di garanzie giurisdizionali contro la violazione della pace al loro esterno e dei diritti umani al loro interno. A questo fine essi propongono che la competenza della Corte internazionale di giustizia dell'Aia venga estesa ai giudizi di responsabilità in materia di guerre, minacce alla pace e violazioni dei diritti fondamentali e chiedono che la sua giurisdizione divenga obbligatoria. La legittimazione ad agire di fronte alla Corte dovrebbe essere estesa agli individui e, secondo l'esempio del Tribunale di Norimberga, dovrebbe essere affermata la responsabilità personale dei governanti per i più gravi illeciti internazionali.
Questo cosmopolitismo giuridico trova argomenti ulteriori nel fenomeno, relativamente nuovo, del diffondersi della violenza privata a livello internazionale. I gruppi criminali che praticano il commercio clandestino delle armi, il traffico della droga e lo sfruttamento delle donne e dei minori si stanno moltiplicando e rafforzando a livello planetario. La mafia, ad esempio, è un fenomeno che dall'Occidente si è esteso anche in Russia e in Cina. E si tratta di organizzazioni criminali molto potenti, che hanno a disposizione grandi risorse finanziarie e anche militari. Di fronte a questo fenomeno il potere di repressione di cui dispongono i singoli Stati, si sostiene, è del tutto insufficiente. La loro stessa s. potrebbe essere soverchiata dallo strapotere delle organizzazioni criminali, come è in qualche modo accaduto nella seconda metà degli anni Novanta sia nella ex Iugoslavia che in Albania. Soltanto una giurisdizione e una polizia sovranazionali potrebbero essere in grado di controllare questo nuovo tipo di violenza internazionale. In questa prospettiva cosmopolitica anche i processi di integrazione regionale degli Stati - in modo tutto particolare l'Unione Europea - vengono guardati con favore. L'Unione Europea, nonostante associ fra loro e rafforzi alcuni degli Stati più ricchi e potenti del pianeta, segna comunque il successo della tendenza al superamento della dispersione del potere e alla sua concentrazione in organismi sovranazionali.
Altri autori obiettano che un sistema politico mondiale in cui da una parte ci siano gli individui e dall'altra i poteri accentrati di uno Stato mondiale, senza più la mediazione di strutture politiche intermedie, rischia di riproporre a livello mondiale la figura della s. assoluta hobbesiana. Una volta soppressa la s. dei 'Leviatani' nazionali, perché ritenuta responsabile dell'anarchia internazionale e della guerra, la s. dispotica o totalitaria del 'Leviatano' può ricomparire, e notevolmente rafforzata, nelle vesti dello Stato universale che unifichi in sé la totalità del potere internazionale, prima diffuso e disperso in molti rivoli. E il 'Leviatano' sarebbe inevitabilmente rappresentato da un ristretto direttorio di grandi potenze economiche e militari. Anche per quanto riguarda l'Europa, sottolinea per es. R. Dahrendorf, il processo di unificazione comporta notevoli rischi per i diritti e gli interessi dei soggetti europei più deboli. L'Unione Europea è lontana dal modello dello Stato costituzionale o semplicemente dello Stato di diritto e non sembra emergere una 'società civile europea' che possa legittimare democraticamente uno Stato federale europeo a s. limitata e ripartita. Occorre aggiungere che accanto alle correnti che si oppongono alla prospettiva cosmopolitica in nome della s. dello Stato nazionale, a favore del quale rivendicano una persistente funzione interna e internazionale, ci sono correnti che si oppongono all'unificazione politica del pianeta in nome della libertà dei mercati globali. In questo caso la classica rivendicazione liberale dell'autonomia delle leggi del mercato e la conseguente opposizione all'intervento economico dello Stato assumono la forma di una critica di qualsiasi progetto di regolazione politica globale delle relazioni industriali e finanziarie. Autori come K. Ohmae (1995), per esempio, sostengono che le moderne corporations transnazionali, concentrate nelle tre aree dell'America Settentrionale, dell'Europa e del Giappone, sono le sole agenzie in grado di assicurare un processo razionale di allocazione delle risorse economiche grazie al gioco della domanda e dell'offerta su scala globale. Qualsiasi interferenza di autorità politiche, nazionali o sovranazionali, produrrebbe distorsioni diseconomiche di questo processo.
Verso una giurisdizione penale internazionale. - Un'ultima tendenza presente a livello giuridico internazionale, che può essere collegata ai processi di crescente interdipendenza politica, è l'istituzione di Tribunali penali internazionali. Riprendendo in qualche modo l'esperienza del Tribunale di Norimberga e di quello di Tokyo, rispettivamente creati dalle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale per giudicare i criminali nazisti e i criminali di guerra per l'Estremo Oriente, sono stati istituiti nel corso degli anni Novanta il Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. I due Tribunali, voluti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, hanno competenza a giudicare dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità (come il crimine di genocidio: v. in questa Appendice) commessi da civili e militari nel corso dei conflitti armati che hanno coinvolto i Balcani e l'Africa centrale.
Anche in questa forma si afferma indubbiamente la tendenza a concentrare una parte consistente del potere degli Stati nazionali in organismi sovranazionali. Di più, in linea con quanto Kelsen aveva auspicato in Peace through law, è stato approvato nel luglio 1998 lo Statuto della Corte penale internazionale (v. diritto: Diritto internazionale, in questa Appendice), con giurisdizione permanente e generale per i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità, che dovrebbe emettere i suoi verdetti sulla base di un Codice penale internazionale. Si afferma dunque la tendenza a costruire il sistema giuridico internazionale non più come una associazione fra Stati, più o meno sovrani, ma come includente, come soggetti di diritto, tutti i cittadini di tutti gli Stati. E sembra dunque rafforzarsi la possibilità che a partire dal terzo millennio gli individui non siano più semplicemente cittadini di un singolo Stato, ma siano (anche) cittadini o soggetti di entità politico-giuridiche sovranazionali. Se tutto questo accadrà effettivamente, la vecchia idea europea di s. subirà una trasformazione radicale.
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