Spagna (Ispagna)
D. indica genericamente la penisola iberica come quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire (Pd XII 46-48); inoltre usa il termine Spagna in If XXVI 103, Pd VI 84, XIX 125 e Ispagna in Pg XVIII 102, Fiore CII 8 in relazione a fatti e uomini diversi.
D. conosce la geografia della penisola nelle sue linee generali: la pone all'estremo limite del mondo conosciuto (If XXVI 103), separata dall'Africa da quella foce stretta / dov'Ercule segnò li suoi riguardi (vv. 107-108; cfr. GIBILTERRA); usa come termine di riferimento geografico, 90° a ovest di Gerusalemme, l'Ebro (Pg XXVII 3, Pd IX 89), Cadice (Quaest. 54, Pd XXVII 82, e nel testo di Giovanni del Virgilio Eg I 30) e Siviglia (If XX 126, XXVI 110). Ricorda inoltre i Pirenei che ‛ fasciano ' la sua regione più settentrionale, la Navarra (Pd XIX 144), la città di Calaruega fortunata per aver dato i natali a s. Domenico (Pd XII 52) e Lerida per la vittoria che vi conseguì Cesare (Pg XVIII 101).
Ai tempi di D. la S. come entità nazionale non esisteva ancora: la regione era divisa in vari regni fra loro indipendenti, mentre la parte meridionale era ancora in mano araba (regno di Granata).
Gli stati spagnoli nominati da D. sono: il Portogallo (Pd XIX 139), la Castiglia (XII 53-54, Cv IV XI 14, Mn I XI 12), la Navarra (If XXII 48, Pd XIX 143) e l'Aragona (VE I VIII 9, Pg III 116, Mn I XI 12) che comprendeva anche la Catalogna citata in Pd VIII 77 per indicare l'insieme dei suoi abitanti.
La penisola da una delle sue più antiche popolazioni, gl'Iberi, aveva preso il nome di Iberia che s'incontra negli scrittori greci a partire dal sec. VI a.C., e Iberi si dissero tutte le popolazioni (Fenici, Greci, Ioni) che si stanziarono nella regione attirati dalle sue ricchezze. Dopo la metà del VI sec. a.C. la S. fu sotto l'influenza dei Cartaginesi, la cui attività, prevalentemente di origine commerciale, fu temporaneamente arrestata dalla prima guerra punica (264-241 a.C.); quindi i Romani, tra il 210 e il 206 a.C., riuscirono a conquistare la penisola iniziando una profonda romanizzazione che si attuerà nell'arco di oltre sei secoli. La S., divisa nel 197 a.C. nelle due regioni di Hispania citerior e Hispania ulterior, vide durante il periodo repubblicano frequenti insurrezioni degl'indigeni e alcuni scontri durante la guerra civile fra Cesare e Pompeo (Pg XVIII 102 e Pd VI 64); poté essere pacificata solo durante il principato di Augusto che la divise in tre province: Hispania citerior o Tarraconensis, Hispania ulterior o Baetica, e Lusitania (27 a.C.); successivamente, sotto Diocleziano, fu divisa in sei province.
Alla metà del III sec. la S., ove già si stava diffondendo la religione cristiana, subì le invasioni dei Franchi e degli Alamanni (257 d.C.) e nel V sec. quelle di Vandali, Svevi, Alani e infine dei Visigoti (415). Il dominio visigotico si protrasse, sia pure attraverso alterne vicende, fino al 711, allorché le discordie delle più alte classi sociali indebolirono il regno al punto da non offrire resistenza all'invasione araba: la S. quindi divenne una provincia del califfato di Damasco con a capo un emiro. Nel 756, l'emiro di Cordova Abd-ar-Rahamᾱn I della dinastia degli Omayyadi riorganizzò il paese sottraendolo di fatto al dominio degli Abassidi di Damasco. Ci fu un primo tentativo di riconquista cristiana con Carlo Magno che intervenne in S. nel 778, nel 785 e fra l'801 e l'811 costituì fra i Pirenei e l'Ebro la Marca Hispanica con capitale Barcellona. Dal disgregamento di questa si formarono, nel sec. X, il regno di Aragona e la contea di Barcellona; questi nuovi stati si affiancarono agli altri stati cristiani spagnoli del nord, quali il regno delle Asturie (poi detto Leòn) e la Navarra, nella lotta che conducevano fin dall'VIII secolo contro i Mori.
Sebbene più volte sconfitti, nel corso del sec. XI i cristiani, guidati da Sancio Garcés III (1000-1035) di Navarra, sotto il quale si erano riuniti i vari regni, riuscirono a conseguire alcuni successi; alla sua morte ci fu una nuova divisione di regni, nonché lotte dinastiche, ma la ‛ reconquista ' continuò favorita dalla divisione del califfato (dal 929) di Cordova in molti statarelli (1031) di cui i più importanti furono quello berbero di Granata, quello arabo di Siviglia e quello slavo di Valenza. È questa l'epoca dell'epopea del Cid (fine sec. XI). Nel corso del sec. XII si diffuse in S. il regime feudale, mentre gli Arabi, dopo parziali successi dovuti all'avvento degli Almohadi, indeboliti poi dal sopravvenire di lotte dinastiche, furono definitivamente battuti a Las Navas de Tolosa (1212). I cristiani quindi, e in particolare i regni di Castiglia e Aragona, penetrarono nel sud, abbattendo gli ultimi baluardi musulmani, il cui dominio nel 1270 fu ridotto al solo regno di Granata, che sopravvisse fino al 1492.
Fortuna di Dante in Spagna. - Varie ipotesi e interpretazioni sono state avanzate a proposito della priorità della conoscenza dantesca in scrittori di lingua castigliana o catalana, ovvero sugli elementi più significativi - contenutistici o formali - nell'individuazione della presenza di Dante. La prospettiva che possiamo ormai ritenere tradizionale è viziata da due atteggiamenti antitetici ed eccessivi: da una parte, si volle sopravvalutare ogni dato in rapporto argomentale con l'aldilà e con la forma allegorica, nella vana pretesa di ricollegare con D. elementi della tradizione cristiana o della cultura del Medioevo; dall'altra, e come reazione, ci fu la tendenza a minimizzare gl'imitatori, mettendo inutilmente in rilievo la distanza che li separava dalla grandiosità del modello. La possibilità del panorama di studio fu aperta da J. Amador de los Ríos (1861) con troppa generosa esaltazione, seguito dal suo discepolo C. Vidal y Valenciano (1869). Con maggior cautela e profondità fu riconsiderato il problema da M. Menéndez y Pelayo (1891), ma si ricadde nella faciloneria con Sanvisenti (1902). A. Farinelli (1895 e 1922) estese il campo con nuovi contributi, ma se ebbe il merito di tener ampio conto della letteratura in catalano, sommerse il tutto in una caotica visione piatta e senza linee di sviluppo. Il problema dell'allegoria viene affrontato da C.R. Post (1915), che nel mettere giustificatamente in guardia contro l'impostazione che legava D. a una qualsiasi macchina allegorica, corre il grave pericolo di esagerare l'influenza francese a scapito di quella italiana e di diminuire eccessivamente la presenza di D. nei poeti castigliani del Quattrocento. Con A.G. de Amezúa (1922) si ebbe un allargamento del panorama - prima limitato quasi esclusivamente al Quattrocento - esteso ora fino al Secolo d'Oro, come aveva già fatto Hutton (1908), che per il resto non superò nemmeno lui i risultati precedenti. Lo studio complessivo più sintetico ed equilibrato è quello di W.P. Friederich (1950), ma formato solo con il succo di tutti i lavori anteriori, compresi i saggi un po' frettolosi e divulgativi di A. Giannini (1921) e C. De Lollis (1921); il quale ultimo dava pure alcune notizie relative ai secoli posteriori che, integrate con altre fonti generali, hanno permesso al Friederich di estendere la sua rassegna fino alla seconda metà del sec. XIX. Restavano con tutto ciò insoddisfatte due esigenze fondamentali: evitare gli estremismi critici suddetti, secondo più ponderati criteri metodologici, e integrare tanti dati dispersi in una visione organica e coerente. Di questa insoddisfazione della critica nell'ambito degli studi ispano-italiani, auspicante per questo nuove vie di ricerca, sono prova saggi pubblicati intorno all'ultimo centenario (M. Morreale, J. Arce, C. Samonà).
Nel trattare simultaneamente del dantismo in castigliano e in catalano si pone anzitutto il problema sia della priorità che delle diverse caratteristiche con cui il fenomeno si presenta nelle due zone linguistiche. Nella letteratura catalana, la presenza italiana è certamente precoce, ma si deve tener presente che l'affermazione è valida per le manifestazioni prosastiche non per quelle strettamente poetiche. Pur ammettendo quindi che i rapporti culturali e politico-economici siano stati più intensi tra il regno catalano-aragonese e l'Italia che non tra questa e la Castiglia, allo stato attuale delle ricerche non si può in alcun modo asserire che il dantismo peninsulare si sia diffuso prima in Catalogna. Non solo, ma nelle terre di lingua catalana l'influenza dantesca fu piuttosto marginale, si presenta mescolata con altre fonti latine o italiane, senza quella rilevanza massiccia che è caratteristica del dantismo castigliano quattrocentesco. Inoltre in Catalogna, più che gli echi retorico-linguistici o tematici, saranno notevoli gli aspetti dottrinali, nella forma di glosse o di commenti.
Intorno dunque al Quattrocento si deve ovviamente incominciare dal genovese-sivigliano Francisco Imperial e dai suoi immediati imitatori (il che significa scartare certe ipotesi d'influsso dantesco tanto su determinate opere catalane di B. Metge [1381] e di A. Febrer [1398], quanto su un'altra opera castigliana, segnalata da Menéndez y Pelayo, l'anonima Revelación de un ermitaño [1382]). Il Cancionero de Baena, che raccoglie più di cinquecento componimenti di poeti cortigiani tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento, rappresenta la prima e più convincente prova dell'introduzione del dantismo in Spagna. Accanto infatti a un gran numero di poesie che ripetono i temi convenzionali della tradizione galiziana e provenzale, e di altre a carattere morale, s'individua pure una corrente di nuove strutture formali - linguistiche, metriche e retoriche - di cui è massimo rappresentante Francisco Imperial. Della sua devozione per D. è significativo non solo il dato statistico che delle 17 volte in cui D. viene citato nel Cancionero ben otto si trovano nei suoi dezires, ma soprattutto che sia proprio D. la guida scelta dall'Imperial nel suo più ambizioso Dezir a las syete virtudes. Innovazioni lessicali e stilistiche d'indubbia origine dantesca danno l'avvio a tutta una scuola riconosciuta teoricamente e praticamente documentabile, seguita persino dal poeta più rappresentativo della metà del secolo, il Marqués de Santillana. E si tratta di un arco di poesia facilmente rintracciabile attraverso strutture formali e situazioni archetipe, che nella poesia castigliana si estende dagl'inizi del sec. XV al primo quarto del Cinquecento.
Altri due poeti sivigliani compresi nel Cancionero de Baena, Ferràn Manuel de Lando e Ruy Pàez de Ribera, devono essere ricordati subito dopo il caposcuola; ma si deve notare che l'ascrizione del primo alla ‛ scuola ' dell'Imperial - e non proprio a quella di D. -, benché proclamata sia dal Santillana che dal suo avversario poetico, il Villasandino, non è oggi tanto evidente, a giudicare almeno dai testi conservati, quanto quella di Pàez de Ribera, che ricalca dall'Imperial, e forse indirettamente da D., forme retoriche ben individuabili. Sempre nell'ambito di questo primo dantismo castigliano-sivigliano si deve far rientrare un significativo poeta e prosatore, Fernàn Pérez de Guzmàn (1376?-1460?). Stretto contemporaneo dell'Imperial, cronologicamente coincide pure, per la sua lunga vita, con i massimi rappresentanti della poesia quattrocentesca appartenenti già alla generazione successiva. Non sappiamo se la mediazione dell'Imperial sia stata decisiva nella presa di contatto con l'opera di D., ma ciò che è indubbio è che Pérez de Guzmàn ne ebbe conoscenza diretta. Nella storia del dantismo quattrocentesco questo poeta occupa un posto a sé: infatti, essendo un letterato moraleggiante e austero, le cui fonti dottrinali sono i testi biblici ed ecclesiastici, adopera anche la Commedia con questa prospettiva e ne ricava sentenze, concetti e isolati elementi lessicali o retorici senza che la sua personale sostanza stilistica ne venga intaccata. Sdegnoso delle favole antiche, D. è per lui " la flor de los florentinos / dulçe poeta vulgar "; e nella Oración a Nuestra Señora, ricrea a modo suo la preghiera di s. Bernardo alla Vergine, derivazione palesemente confessata (" como el graçioso poeta romança "). Inoltre, nella sua opera in prosa Mar de historias cita ancora il poeta italiano e ne traduce una terzina.
Ancora ai primi decenni del Quattrocento appartiene l'unica traduzione completa in castigliano della Commedia (non se ne avranno altre fino alla seconda metà dell'Ottocento), quella attribuita a Enrique de Aragón o de Villena (1384-1434), coetanea di quella catalana di Andreu Febrer, ma portata a termine circa un anno prima, nel 1428. Benché ancora inedita, la traduzione creduta del Villena dimostra, nonostante certe sviste ed errori, l'ingente sforzo dell'incipiente castigliano letterario per assimilare un alto linguaggio poetico.
Nelle terre di lingua catalana, in questa prima metà del secolo, la sopravvivenza della tradizione lirica trovadorica provenzale agì come ostacolo al rinnovamento italianizzante, il cui ritardo nella poesia è ben evidente in relazione alla prosa. Qualche nome si può a ogni modo addurre: quelli del Metge e del Febrer. La distanza tra questi scrittori e la situazione castigliana è palese con lo stesso Bernat Metge (metà sec. XIV-1413), che più che poeta, è da considerare il creatore della prosa umanistica catalana. Il 1381, anno di pubblicazione di un suo poema narrativo, il Libre de Fortuna e Prudéncia, sarebbe la data più antica nella storia del dantismo ispanico se si confermasse come vero il solo riferimento dantesco che è stato addotto: " lo mayor dol ", trapianto della famosa sentenza di Francesca; ma la fonte può essere direttamente Boezio. Più probabile il ricordo dell'opera di D. ne Lo Somni (1398), basato sul Somnium Scipionis, in cui convergono pure fonti italiane. Le connessioni rilevate - descrizione dell'Inferno, la figura di Caronte, la presentazione di Minosse e l'allusione al Limbo - possono essere spiegate benissimo senza tener conto della Commedia; il Metge, benché al centro dell'italianismo umanistico catalano della fine del Trecento, non cita mai, infatti, il nome di Dante.
Veramente importante nella storia del dantismo ispanico è Andreu Febrer (1377?-1440?), perché a lui spetta il merito della prima versione della Commedia in terzine. Mentre la traduzione castigliana era in prosa e la terzina non viene introdotta nella poesia spagnola fino al sec. XVI, la Catalogna vanta dal 1429 una versione metrica, dotata quindi di una dimensione artistica che non la riduce, come quella castigliana, all'interesse culturale. Tuttavia, anche la traduzione del Febrer rimase inedita per secoli e fu pubblicata per la prima volta solo nel 1878.
Nell'ambito della creazione poetica, pure del Febrer erano stati segnalati pochi versi di un Sirventesch del 1398, sulla caduta delle foglie in autunno, messi a confronto con If III 112-114; ma gli elementi comuni sono troppo banali per diventare convincenti Comunque, che D. fosse già entrato nella cultura più che nella poesia catalana dei primi del Quattrocento è confermato da diverse testimonianze: è noto un documento del 1408 in cui il re Martín el Humano in una lettera al governatore di Catalogna cita la Sibilla " que Dant toque en lo seu libre ". Riappare il nome di D., é forse prima di questa data, nelle prediche del frate domenicano s. Vincenzo Ferrer (1350-1419), che vuol mettere i fedeli in guardia contro la lettura dei poeti. E di un altro valenzano, come s. Vincenzo, il papa Benedetto XIII, si sa che dopo la deposizione dal papato, nel 1409, portò con sé a Peñíscola, tra i suoi libri, un esemplare della Commedia con il commento del Boccaccio.
Il lungo rapporto amichevole e letterario che legò Enrique de Villena a Iñigo López de Mendoza marchese di Santillana (1398-1458) contribuì ad avviare quest'ultimo alla poesia dantesca. Questo rapporto ebbe inizio negli anni trascorsi alla corte d'Aragona, al momento della morte del re Fernando de Antequera e della proclamazione del figlio Alfonso V (1416). Il nuovo re si circonderà di poeti cortigiani come A. Febrer, A. March e J. de Sant Jordi, così come nella contemporanea corte castigliana di Giovanni II (alla cui nascita nel 1405 l'Imperial aveva dedicato l'unico dezir databile) ci sarà il centro della cultura umanistica con a capo il Santillana. La bibliofilia del Santillana, che raccolse importanti codici latini, sebbene molti in traduzione italiana, e altri ancora dei grandi trecentisti toscani, gli fa occupare un posto importante nella storia della cultura spagnola.
Benché le opere del Santillana in cui si possano facil mente rintracciare echi danteschi siano molte, non si può parlare in nessun caso d'imitazione della totale struttura, ma solo di adozioni occasionali, accolte per interesse quasi esclusivamente moralistico, di frasi, di paragoni o sintagmi che vengono talora anche addirittura ricalcati. La stessa Comedieta de Ponza (1436?) è da ricollegare solo nell'aspetto retorico-linguistico con la Commedia, mentre il titolo ha potuto trarre in inganno su rapporti strutturali o tematici più evidenti in altre operette minori. È forse da un'opera minore, El sueño, che ha avuto inizio l'abitudine, invalsa poi in questa letteratura di ‛ visioni ' del Quattrocento spagnolo, di fare appelli al lettore, mediante la forma del vocativo, secondo la formula caratteristica dello stile dantesco. E il Santillana stesso crea sulla scia di quelli danteschi nuovi nuclei tematici: così nel poemetto El infierno de los enamorados, che a frammenti procede dalla Commedia (vi si trova persino la coppia Paolo-Francesca); il tema verrà puntualmente ripreso in altri componimenti derivati dal suo, come l'Infierno de amores di Guevara, l'Infierno de Amor di Garcia Sànchez de Badajoz, il Purgatorio de Amor del Bachiller Jiménez, la Sepoltura de Amor di Pedro Manuel Jiménez de Urrea.
Accanto al Santillana è quasi di prammatica trattare di Juan de Mena (1411-1456), nel quale peraltro è assai scarso il peso dell'imitazione dantesca. Alcuni critici ossessionati dal carattere allegorico del Laberinto de Fortuna (1444), hanno stabilito un legame che non è qui pertinente proprio perché la cultura latina di I. de Mena, acquisita direttamente, non lo costringe necessariamente alla letteratura italiana. Non si può negare a ogni modo qualche isolata traccia di una conoscenza di D., derivata forse più dalle opere minori che dalla Commedia. Più funzionali nell'ambito di questa ricerca si presentano alcuni epicedi celebrativi composti per la morte del Santillana (il quale va forse considerato il creatore di questo genere encomiastico: egli stesso aveva scritto la Coronación de Mossén Jordi, imitata da J. de Mena, che dedicò al marchese ancora vivente un'altra Coronación): il Planto de las Virtudes e Poesía, composto dal nipote Gómez Manrique; e El Triunfo del Marqués, opera del suo fedele segretario Diego de Burgos. Gómez Manrique (1412?-1490?), il quale riteneva che solo Pérez de Guzmàn sarebbe stato in grado di rendere all'estinto il dovuto omaggio, appartiene piuttosto alla schiera di questo anziano poeta. Tranne che per la citazione del nome di D. e per la ripetizione di strutture schematiche di tipo dantesco, legate forse al l'Imperial e allo zio più che al poeta italiano, il componimento non merita speciale ricordo. Il poema di Diego de Burgos è invece degno di attenzione per la sua compattezza strutturale e per la pretesa di nobiltà stilistica. La lingua di D., a un livello non solo lessicale ma anche stilistico, nutre certamente il poema che non tende però ad altro che alla glorificazione del Santillana. Come nel Dezir a las syete virtudes dell'Imperial, qui è lo stesso D. che guida il poeta fino al " templo de gracia " dove assiste al trionfo del marchese; quando il poeta si sveglia, la visione svanisce: " no pudo seguirle más la memoria / que Dante y el sueño de mí se partieron ".
Un brevissimo cenno alle opere castigliane in prosa della metà del Quattrocento ci porta a far notare la parte assunta da Diego de Valera (1412-1488?), autore di opere storiche e trattati dottrinali diversi; egli cita D., esclusivamente come autorità di dottrina, nel suo libro Defensa de las virtuosas muïeres, sia quando discute il concetto di Fortuna che quando ricorda il fiume Lete. In un altro scritto, l'Espejo de verdadera nobleza, il Valera sottolinea poi che " la nobleza no es virtud, segunt el Dante quiere tener ". Qualche influsso dantesco è stato rilevato in altre opere narrative di questo periodo, quali la Sátira de felice e infelice vida di D. Pedro de Portugal (1429-1466) ed El siervo libre de amor di Juan Rodríguez del Padrón. Menéndez y Pelayo, che riporta la prima senza altre precisazioni all'imitazione dantesca, crede che l'autore tenesse presente la Vita Nuova, opera dalla quale anche il Rodríguez avrebbe potuto ricavare l'idea di mescolare la prosa e il verso. Comunque, per questi riferimenti alle opere minori di D. nei quattrocentisti spagnoli, è forse ancor oggi prudente attenersi, in mancanza di argomentazioni più scientificamente consistenti, all'affermazione del Farinelli: " Tutto Dante era per loro nella Commedia ".
Nella letteratura catalana coetanea dei grandi poeti della Castiglia, il primo nome rappresentativo è quello del francescano Joan Pasqual, autore di un Tractat de les penes particulars d'Infern (1436), che non è che parte o appendice di una Summa de l'altra vida (1436). Mentre componeva la Summa, sembra che il Pasqual abbia conosciuto la Commedia, col commento di Pietro Alighieri, ancora una volta fruita nel Tractat a scopo moralistico, anche con citazioni dirette del testo. È significativo tale atteggiamento e non è quindi un caso che del commento al Purgatorio del Landino ci sia una traduzione catalana e che si siano trovati certi fogli col testo originale della Commedia, ma con glosse in catalano.
Quanto alla lirica, importanti per la storia del dantismo catalano sono Ausias March (1397-1459) di Valencia e Jordi de Sant Jordi (?-1424?), ambedue vissuti alla corte di Alfonso V. Ma bisogna ancora insistere sul fatto che l'influenza letteraria italiana predominante, ancorché limitata, è quella petrarchesca e i ricordi di D., se ce ne sono (il nome del poeta è citato una volta sola dal March), si presentano fusi con movenze che al massimo potrebbero essere riportate allo stilnovismo.
Solo oltrepassata la metà del secolo la letteratura catalana annovera un componimento che per il contenuto e per la metrica può essere riportato decisamente all'ambito della poesia dantesca: La glória d'amor di Bernat Hug de Rocabertí, che, scritta dopo il 1467, rappresenta il culmine dell'imitazione di D. nella poesia catalana del Quattrocento. L'opera è divisa in dieci canti, i primi dei quali, denominati comédias, sono redatti in versi, ma hanno un prologo in prosa. Interessa qui rilevare inoltre la forma metrica di alcuni canti in terzine di endecasillabi, dove l'autore adotta una forma molto insolita di terzina, libero il secondo verso. Il poeta, guidato dalla Coneixença, e in situazioni note al lettore della Commedia ma che pure si rinnovano, penetra in un bel giardino dominato da Venere; qui gli vengono incontro coppie famose, che dialogano con lui con procedimento narrativo analogo a quello dantesco; oltre alla " Francescha del Dant " e ad altri personaggi antichi e medievali, il Rocabertí incontra " dins lo foch d'amor / lo sabent Dant con sua Beatrice ".
Nella prosa narrativa catalana, la conoscenza di D. è testimoniata soprattutto dal romanzo anonimo Curial e Güelfa, della metà del secolo. Accanto ad altri legami con letterati italiani e latini, l'autore dimostra pure una tale dimestichezza con D. che i riferimenti si fanno frequenti e si arriva persino alla citazione nella lingua originale. Una minore ma non meno significativa testimonianza è costituita inoltre dal romanzo cavalleresco Tirant lo Blanc (1490), di Joanot Martorell e Martí Joan de Galba, nel cui prologo è menzionato D., con Virgilio e Ovidio. In altre opere d'ambito letterario anche diverso non solo compare esplicitamente il nome del poeta - così nei Paradoxes (1450) dell'umanista Ferran Valentí (" aquella gran trompa de vulgar poesía, Dant Aldagier "), o nella Sort (1458) del notaio e poeta Antoni Vallmanya, che cita l'Inferno, o ancora nello Spill (1460) del medico Jacme Roig -, ma sono spesso citati anche i personaggi più famosi della Commedia, come fa il valenziano Francesc Carrós nel rivolgersi a " vosaltres, oh Paulo e Francisca... segons Dant recita " (Regoneixença e moral consideració, seconda metà sec. XV).
Il dantismo catalano quattrocentesco si chiude con un'opera di Jaume Ferrer de Blanes. Le sue Sentencias Catholicas del divi poeta Dant fiorenti furono raccolte da un suo ‛ criat ' e pubblicate postume, nel 1545, accanto a una Meditazione sul Calvario e a certe lettere scambiate dall'autore con i Re Cattolici e con Cristoforo Colombo (l'estrema rarità dell'edizione del 1545 portò a ristampare nel 1922 un facsimile di cento copie dall'unico esemplare completo). L'opera del Ferrer riporta in italiano una serie di terzine relative a nozioni di scienza e a conclusioni morali. L'originalità del testo, nella storia del dantismo ispanico, risiede nella preferenza accordata al Paradiso e al Purgatorio e nell'inserimento di lunghi frammenti in italiano. Il Ferrer fruisce inoltre di D. per trattare del corso dei cieli, degli elementi e delle pietre preziose, materia dove s'inserisce l'oriental zaffro; parla poi dei proverbi del Santillana, discorso che non è fuori luogo, secondo l'opinione dell'autore, perché il marchese " fou molt gran Dantista " e D. fu " preclarissim Poeta divinal y gran Theolech ".
Il dantismo castigliano raggiunge il periodo di massima fioritura nei poeti vissuti tra la fine del Quattrocento e gl'inizi del Cinquecento. È certamente un momento storico e politico eccezionale, coincidente tra l'altro con la diffusione delle prime opere stampate. In un giro d'anni che abbraccia l'ultimo quarto del sec. XV e il primo del XVI sorge la più fedele e impegnativa imitazione della Commedia; e non è senza significato che la prima e unica traduzione (anche se del solo Inferno) che si stampa in Spagna prima dell'Ottocento sia di questi anni. Tre nomi soprattutto rappresentano questo periodo di transizione: Diego Guillén de Avila (? -?), Pedro Fernàndez de Villegas (1453-1536) e Juan de Padilla (1468-1522?).
Nel Panegírico a la Reina doña Isabel, terminato nel 1499, Guillén de Avila presenta sé stesso " caminando por una floresta, tan alta y espessa " verso un palazzo dove sono raffigurate le storie del passato, del presente e del futuro. Ma l'autore è più strettamente legato all'imitazione dantesca con il poemetto, che continua il precedente, Loor del reverendissimo señor don Alonso Carrillo, dove si ritrova ancora il poeta in una valle profonda; segue una descrizione dell'Inferno con motivi tratti dall'Eneide. La guida però che accompagna il poeta è D., come nel Dezir dell'Imperial e nel Triunfo del Marqués di Diego de Burgos. Tanto la metrica quanto lo stile del Loor servono a rafforzare la connessione tra Guillén de Avila e la linea rappresentata da Imperial-Santillana, il che porta a dedurre la compattezza, a livello formale, del dantismo castigliano del sec. XV. Al di fuori delle vere e proprie imitazioni, abbiamo anche in questo periodo esplicite testimonianze del valore attribuito alla poesia di D., come la dichiarazione di Francisco de Avila in La vida y la muerte (1508): " Y aquel sotil elegante / poeta gran decidor / florentino, qu'es el Dante ".
Nel 1515 si stampa a Burgos la traduzione castigliana dell'Inferno, dovuta a Pedro Fernández de Villegas con un lungo commento in parte derivato dal Landino. Composta nel medesimo schema metrico in cui sono stati scritti i poemi più impegnativi finora considerati, la cosiddetta " copla de arte mayor ", la versione pretende di essere fedele al più alto stile quattrocentesco e così cade, esagerandone i difetti, nell'ibridismo linguistico di J. de Mena. Con tutto ciò questa versione non è solo la prima stampata in Europa, ma anche l'unica a disposizione degli scrittori del Secolo d'Oro. Questi tuttavia, a quanto pare, se ne servirono ben poco, perché tanto lo schema metrico quanto la lingua in cui fu redatta la traduzione vennero ben presto giudicati arcaici. Solo per curiosità erudita vale la pena di ricordare a questo punto una precedente traduzione, manoscritta e anonima, del primo canto dell'Inferno con un prologo che è in parte breve sintesi del commento di Benvenuto e in parte è costituito da osservazioni lessicali e fonetiche sull'italiano. La traduzione, inedita fino al 1965 (si veda M. Penna, Traducciones...) intende soltanto dichiarare l'originale e non segue alcuno schema metrico, pur conservando, quando sono identiche, molte rime del testo italiano. Posteriore a questa, che pare databile ai primi decenni della seconda metà del sec. XV, è la traduzione di Hernando Díaz, coetanea della versione di Fernández de Villegas e composta nello stesso metro. Di quest'ultima però si conoscono soltanto sei stanze. Di poco posteriore al 1516, è un'altra traduzione anonima del Purgatorio, in verso tradizionale spagnolo, e cioè in " quintillas " di ottonari. I diversi frammenti di questa versione, stampati nel 1901, servono a confermare che il metro adoperato deforma la struttura formale dell'originale; è questa probabilmente la ragione per cui l'autore dà anche un saggio di traduzione in terzine endecasillabiche, tentativo che risulta chiaramente fallito. Se è dunque evidente in questi primi decenni del Cinquecento l'interesse culturale per il tema dantesco, non si devono però sopravvalutare quelle che possono considerarsi soltanto isolate e modeste testimonianze.
Juan de Padilla è autore del poema più impegnativo e complesso nell'ambito dell'imitazione dantesca castigliana, sempre che si pensi ovviamente a Los doce triunfos de los doce Apóstoles (1521) e non, come erroneamente affermato dal Farinelli e dal Giannini, al Retablo de la vida de Cristo (1505). I Doce triunfos, titolo che dimostra pure la connessione col Petrarca, è l'opera che presenta maggiore possibilità di raffronti con la Commedia a tutti i livelli, dalla concezione strutturale - il viaggio attraverso i tre regni dell'oltretomba -, al modo degl'incontri con i diversi personaggi; dagl'innumerevoli prestiti lessicali all'adozione di perifrasi, metafore e paragoni.
Nei due primi decenni del Cinquecento si arriva quindi al culmine e al successivo tramonto della corrente prerinascimentale d'impronta dantesca, subito sostituita dal rinascimento lirico petrarcheggiante. Nessuna di queste opere sarà tuttavia ristampata nel Cinquecento, mentre saranno invece stampate le Sentencias catalane di Ferrer de Blanes, attraverso le quali una serie di terzine dell'originale italiano formeranno, con la traduzione castigliana dell'Inferno, l'unico materiale dantesco edito nella Spagna del Secolo d'Oro. Delle edizioni antiche, basti ricordare che ben sei incunaboli della Commedia col commento del Landino, tutti del decennio tra il 1484 e il 1493, si trovano alla biblioteca Nazionale di Madrid.
Il rinnovamento di forme e contenuti attuato dalla generazione lirica di Boscán (1490 circa - 1542), e di Garcilaso de la Vega in particolare (1503-1536), condizionerà non solo la storia della poesia spagnola ma anche quella del dantismo ispanico: saranno infatti d'ora in poi Petrarca e i petrarchisti i nuovi idoli e la nuova scuola poetica. E a questo carattere differenziale tra l'italianismo maturo del Cinquecento e il prerinascimento italianeggiante si aggiunga l'interruzione del dantismo bilingue in Spagna, per l'assunzione del castigliano a lingua letteraria nazionale. Sebbene barcellonese, Juan Boscán, che già sente e proclama la differenza nell'uso dell'endecasillabo tra D. e Petrarca, scrisse esclusivamente in castigliano. Questa seconda fase quindi del dantismo ispanico dev'essere interpretata secondo una diversa angolazione metodologica. Non dobbiamo esagerarne certi dati o certi elementi, che devono essere interpretati in funzione dell'ambito culturale molto più complesso, ma nemmeno attribuire loro un significato inerte. Occorre evitare il ricadere nei luoghi comuni dell'assoluta dimenticanza dell'opera dantesca nel Secolo d'Oro attribuendola tra l'altro alle censure inquisitoriali. Aveva ben supposto il Friederich affermando che D. dovette essere molto più noto nel Cinquecento e Seicento spagnolo di quanto risultasse dalle testimonianze degli eruditi; sebbene sia quasi di prammatica affermare il contrario, D. viene nominato decine e decine di volte. Certo, la fortuna di un poeta non può essere misurata dal numero delle menzioni; ma anche ammettendo una sostanziale ‛ assenza ' del poeta, occorre chiarire che non si tratta di disinteresse o d'ignoranza, ma di una ben diversa valutazione letteraria: D. è un nome che compare generalmente negli elenchi dei grandi autori, ma non lo si sente vivo e attuale in quanto poeta, ed è perciò discusso e persino biasimato.
Molto significativa, nell'aspetto tecnico-retorico, è la terzina dantesca, che viene introdotta nella poesia castigliana non attraverso le imitazioni della Commedia, ma (e non prima del decennio 1530-1540) nell'adattamento della strofa da parte dei petrarchisti spagnoli al genere dell'epistola e della satira. Se qualche isolata traccia dantesca è stata segnalata anche nella poesia di Garcilaso, più inconfondibili echi sono quelli rilevati in Luis de León (1527-1591), che pare essersi ispirato ad alcuni sonetti della Vita Nuova e che coincide con D. - secondo O. Macrí - nella visione di un Dio musico e architetto dell'universo.
Nei Comentarios alla poesia di Garcilaso (1580), Fernando de Herrera (1534-1597) cita D. cinque volte e ne riporta versi del Purgatorio e dell'Inferno. E nel poeta Francisco de Aldana (1537?-1578) il Meregalli ha colto " le abitudini espressive di Dante e le sue immagini che ritornano ". Sempre nel Cinquecento, tanto uno storico come G. Fernández de Oviedo (1478-1557), quanto un poeta epico come Jerónimo Arbolanche (nel 1566) e un trattatista di mitologia come Martín de Azpilicueta (nel 1594) fanno riferimento a Dante. Molto più abbondanti sono le citazioni - circa una quarantina di versi in italiano - riportate da P. Sánchez de Viana nelle sue Anotaciones alle Metamorfosi ovidiane (1589). Su un'altra via, già nel 1527, Alfonso de Valdés aveva proposto a Erasmo da Rotterdam di curare un'edizione della Monarchia. Ma l'evidente mutamento di gusto è esplicito in Hernando de Hozes, traduttore dei Trionfi petrarcheschi (1554), che se non dubita di chiamare D. " persona muy docta ", giudica il suo stile " menos polido " di quello del Petrarca. E a un giudizio già palesemente negativo si arriva alla fine del secolo con Luis Zapata che, nella sua Miscelánea (1591-1595), dice con innegabile disinvoltura: " Dante es tan pesado que jamás pude leer una hoja [pagina] entera de él ", mentre fa invece un elogio del Petrarca.
La posizione assunta dall'Inquisizione spagnola si è limitata ai seguenti punti: nell'Index del 1583 appare proibita la Monarchia, come già nell'Index portoghese del 1581. Incominciano, sempre nel 1583, le condanne generiche del commento del Landino. Soltanto nel Seicento, e precisamente nell'Index del 1612, appare non solo proibito il " Dantis Monarchia " e i commenti del Landino e del Vellutello, ma la stessa Commedia " no corrigiendo ". I versi da espurgare sono esattamente If XI 8-9, XIX 106-117, Pd IX 136-142. Un totale quindi di 21 versi, la cui proibizione si è mantenuta fino all'Indice ultimo del 1790. Nessuna condanna dunque del testo globale del poema, sicché erra chi vorrebbe addurla come causa della perdita di prestigio letterario della Commedia nel sec. XVII. Del resto le menzioni e citazioni di D. nel Seicento sono, allo stato attuale delle ricerche, molto più frequenti che non nel secolo precedente, quando la reazione di gusto petrarcheggiante era più viva. Solo in un romanziere e trattatista come C. Suárez de Figueroa, D., " varón doctísimo ", viene nominato e citato direttamente in almeno tre delle sue opere, composte tra il 1609 e il 1617. Altri riferimenti a D. nella letteratura secentesca - quasi sempre citato come valore culturale indiscusso - si trovano sia nel mitologo Baltasar de Vitoria (1620), sia nel teatro popolare e colto, nella narrativa, nella storia e soprattutto in alcuni poeti epici, come N. Bravo (1604), C. de Mesa (1611), D. de Hojeda (1611) - la cui demonologia e certe caratteristiche formali dimostrano una connessione più intima -, B. de Balbuena (1624) - dove sono state segnalate situazioni ed espressioni caratteristicamente dantesche -, R. de Carvajal y Robles (1627), A. Enríquez Gómez (1649 e 1656), F. de Trillo y Figueroa (1651), il quale ultimo censura il linguaggio basso e grossolano della Commedia.
Sarebbe giusto domandarsi a questo punto quale fu l'atteggiamento nei confronti di D. di alcuni tra i grandi autori spagnoli del Secolo d'Oro. Rinviando alle singole voci a loro dedicate in questa Enciclopedia (si vedano soprattutto Cervantes Saavedra, Miguel de; Quevedo y Villegas, Francisco Gómez de; Vega, Lope de); si ricorderanno qui Diego de Saavedra Fajardo e Baltasar Gracián. Il primo, nella República literaria (del 1612, ma pubblicata postuma nel 1655) dimostra chiaramente, in un affrettato giudizio, che D. si trova al sommo di un crinale che li lascia perplessi: " El Dante, queriendo mostrarse poeta, no fue científico, y queriendo mostrarse científico, no fue poeta ". Gracián, nella sua massima opera El Criticón (1651-1657), chiama per due volte D., come aveva già fatto Lope de Vega, " Alígero ", giocando con il cognome del poeta italiano (" al fin Alígero per su alado ingenio ") e riferisce un aneddoto - che aveva già ricordato nell'Agudeza y arte de ingenio (1648) - sulle pronte e argute risposte del poeta. Questo aspetto aneddotico quindi ha pure un riflesso nella letteratura spagnola, perché la stessa storiella era stata già raccontata da Luis Milàn in El Cortesano (1561), libro in cui si riproduce l'altro aneddoto ben noto dell'ingegnosa risposta di D. al buffone. Ancora Lucas Gracián Dantisco nel Galateo español (1593) ne narra una terza, il che dimostra che nemmeno questa proiezione pseudo-biografica e mitica dell'uomo D. è stata assente nel Secolo d'Oro.
Nel Settecento si assiste a un maggiore ed effettivo allontanamento della cultura dall'opera dantesca. I modelli più vivi tra i classici italiani, nella Spagna di allora, sono indubbiamente Petrarca e Tasso. D. in pratica scompare non solo come fermento d'ispirazione ma anche come citazione erudita. Il più sintomatico dato è fornito dallo scrittore più caratteristico dell'illuminismo spagnolo, G.M. de Jovellanos (1744-1811) del quale conosciamo le vaste letture tanto di autori nazionali quanto degli stranieri: ma invano si cercherà il nome di D., che compare invece, citato di passaggio accanto a Petrarca, Tasso e Maffei, in Los eruditos a la violeta (1772) di José Cadalso. Ancora, nella seconda edizione della Poética di Luzán (1789) D. è considerato tra " los restauradores de la buena poesía ": il che vale a dire che solo dopo il 1770 ricomincia timidamente ad affiorare il ricordo del poeta italiano. Un'importanza particolare rivestono i gesuiti estromessi dalla S. nel 1767, molti dei quali passarono in Italia: tra essi Javier Lampillas (1731-1810), che ripete l'elogio che di D. fa il Bettinelli; Esteban Arteaga (1747-1798), che considera D. un genio ma rozzo; Juan Andrés (1740-1817), che sebbene riconosca la parte rappresentata da D. nella storia della cultura occidentale, non ne comprende le " stravaganze " e quel mescolare nel poema elementi tanto diversi.
Dei primi decenni dell'Ottocento ci mancano pure testimonianze di simpatia o di conoscenza dell'opera dantesca. Solo dopo la prima importante rivista degl'inizi del romanticismo spagnolo, " El Europeo " (1823), il nome di D. si farà sempre più frequente, fino all'apparizione di un giudizio sulla Commedia, dovuto a L.A. del Cueto, su " El Laberinto " (1843) e di un altro articolo di specifica critica dantesca su " El Fénix " di Valenza (1849). Ma il poeta italiano era già considerato, prima del 1840, come uno dei maestri della nuova sensibilità accanto a Shakespeare e Calderón.
Un'altra via che permette di studiare la restaurazione della poesia dantesca nell'ambito della cultura romantica sono i libri di critica e di storia letteraria. Il primo critico spagnolo che fece uno studio d'insieme sul poeta italiano, apparso in otto puntate su un quotidiano di Barcellona nel 1856, fu M. Milá, y Fontanals (1818-1884). Verranno subito dopo le grandi trattazioni complessive, che indagheranno i rapporti di D. con la letteratura castigliana, di José Amador de los Ríos (1818-1878) e di Marcelino Menédenz y Pelayo (1856-1912). Da questo momento quindi il tema dantesco resta incluso nei manuali spagnoli di storia letteraria. Ed è questo periodo finale dell'Ottocento il momento delle traduzioni complete della Commedia (oltre la ristampa dell'Inferno di P.F. de Villegas, nel 1868, e la prima edizione della versione catalana di A. Febrer, nel 1878) sia in prosa - M. Aranda y Sanjuán (1868), B. Puigbó (1868), C. Rosell (1871-72), J. Sànchez Morales (1875), J.A.R. (1882), E. de Montalbán (1888) - che in verso - J. M. Carulla (1874-79), Conde de Cheste (1879) e l'argentino B. Mitre (1894) - Ancor oggi si ristampano, e non proprio per i meriti intrinseci, le traduzioni di Aranda, Cheste e Mitre. Il fatto che qui importa segnalare è che, comprese le ristampe, più di 20 edizioni della Commedia tradotta furono pubblicate in S. tra il 1868 e il 1900.
Ma molto più importante che i rinati tentativi della critica erudita e delle versioni, è la possibilità degl'influssi sui poeti spagnoli della fine del sec. XIX. I romantici infatti avevano ricordato ed esaltato D. ma non furono sensibili, per quanto ci risulta, al genere della poesia dantesca e non è facile individuare nelle loro opere tracce convincenti. Un solenne e retorico componimento in terzine intitolato A Dante aveva scritto il poeta G. García y Tassara (1817-1875), ma si rimane nell'ambito di quello che possiamo chiamare l'omaggio poetico, che ancora nel 1878 e poi nell'anno finale del secolo troverà più compiuta espressione in due libri del poeta M. Reina (1806-1905). Al di fuori di questo riconoscimento di poeta prediletto, ci sono altre vie più suggestive per lo studio, che vanno dalla ricreazione lirica di una situazione della Commedia, come fa Gustavo Adolfo Bécquer (1836-1870) nella XXIX delle sue famose Rime, a una vera e propria imitazione, come in La selva oscura (1879) di G. Núñez de Arce (1834-1903), che nel titolo, nella forma metrica e nell'intenzione simbolica costituisce, in due brevi canti, il più serio tentativo di riadattamento del poema dantesco.
Diversa è l'utilizzazione del materiale di D. nell'opera troppo pretensiosa di Ramón de Campoamor El drama universal (1853), vasta rappresentazione simbolica della vita e delle passioni umane divisa in sette giornate. Il poema, che non ha stilisticamente nulla della Commedia, inserisce, tra altre leggende e altri personaggi, El último sueño de D., in cui il protagonista sogna di essere rinchiuso dai guelfi nella Torre della Fame e di veder giustiziare Beatrice. L'episodio di Francesca, come già in Bécquer, è il tema di due opere drammatiche tra i due secoli, la Francisca de Rimíni (1897) di Vicente Colorado, e La tragedia del beso (1910) di Carlos Fernández Shaw. A un genere più impegnativo, nonostante le apparenze, ci porta O Divino Sainete (1880) del poeta galiziano M. Curros Enríquez, personalissima ricreazione parodistica di motivi danteschi. Tra i grandi romanzieri della fine del secolo devono essere ricordati, in questa prospettiva, Emilia Pardo Bazán (1851-1921), Juan Valera (1824-1905) e Benito Pérez Galdós (1843-1920). La prima, oltre a uno studio biografico complessivo, più retorico che critico (fa parte di Los poetas épicos cristianos del 1893), scrisse tre brevi racconti dai significativi titoli: La Noche Buena en el Infierno, La Noche Buena en el Purgatorio e La Noche Buena en el Cielo, in cui appaiono espressioni e situazioni dei condannati ricavate direttamente dal modello. In quanto a Valera e Pérez Galdós, non solo essi hanno espresso giudizi positivi su D., ma dimostrano anche una non mediocre conoscenza del testo della Commedia testimoniata da alcune citazioni.
Nel nostro secolo la simpatia verso D. è molto più evidente nei grandi scrittori. In Rubén Dario (1867-1916) affiorano ricordi delle opere e della personalità di D., oltre a suggestioni verbali e metaforiche. Più massiccia presenza culturale ha D. nell'opera di Miguel de Unamuno (1864-1936), che cita spesso il poeta, lo inquadra tra altri grandi dell'umanità e crea dei poemi in cui iniziali citazioni dantesche sono poi sviluppate liberamente.
Anche un'opera di R.M. del Valle-Inclán (1869-1936), Luces de Bohemia, è stata interpretata come parziale tentativo parodistico di qualche personaggio o situazione della Commedia. Oltre all'inserimento spontaneo di sintagmi o frasi dantesche nei propri scritti, Antonio Machado (1875-1939) riesce a creare brevissimi componimenti in cui si fondono umoristicamente elementi aulicamente danteschi e altri colloquiali e quotidiani. Juan Ramón Jiménez (1881-1958) intitola A Dante una sua lirica, nata dalla lettura di un sonetto della Vita Nuova. J.M. Pemán intitola una sua poesia Vita Nuova, e lo stesso titolo giunge a fruizione prosastica nel romanzo di R. Sáchez Mazas La vida nueva de Pedrito de Andía (1951). Il ricordo, l'esaltazione o la devozione verso D. sono presenti anche in altri poeti, da F. Villaespesa ed E. Marquina a León Felipe; e si avvertono persino lontani e non superficiali echi danteschi in certi poeti surrealisti.
A un ambito diverso ci conduce la critica e la citazione culturale. Un saggista come Juan Maragall (1860-1911) si ricorda sovente di D. in una serie di articoli dei primi anni del secolo, e non solo in quelli con titoli significativi (Vida nueva, Beatriz), ma soprattutto in De la poesía, dove cita versi della Commedia e dove tenta di darne una personale interpretazione. Tuttavia il contributo massimo della S. agli studi danteschi è indubbiamente rappresentato dall'arabista M. Asín Palacios (1871-1944), la cui monografia sulle fonti musulmane della Commedia ha aperto un nuovo orizzonte di scambi culturali, rafforzati in seguito con scoperte che dimostrano la fecondità della tesi. Al nome di Unamuno, sulla scia di una letteratura di portata filosofica, si possono affiancare i nomi di Eugenio D'Ors (1882-1954) e di J. Ortega y Gasset (1883-1955). Il primo nomina spesso D. ma più per il suo significato umano e politico che non per quello poetico; Ortega invece ha presente D. in un'importante parte dei suoi scritti, sia che lo citi direttamente o se ne serva per le sue riflessioni o lo riecheggi nella sua raffinata prosa, il che dimostra una vera assimilazione dell'espressione dantesca. All'ambito della citazione culturale ci riporta pure qualche opera teatrale di Jacinto Benavente (1866-1954). Per quanto riguarda le edizioni, quasi tutte le traduzioni di opere dantesche della fine dell'Ottocento sono ora stampate e ristampate senza sosta. Una cinquantina almeno di traduzioni della Commedia si pubblicano tra il 1900 e il 1970. Tra le nuove versioni recenti in castigliano devono essere annoverate quella in endecasillabi sciolti del poeta Fernando Gutiérrez (1960) e un'altra, in prosa, di A. J. Onieva (1965). Ma oltre alle edizioni di traduzioni spagnole nei paesi latino-americani, devono essere rilevate le versioni in catalano, da quella in endecasillabi sciolti di Narcís Verdaguer (1912), a quella di J.M. de Sagarra in terzine (1947) attraverso quella del marchese di Balanzò (1923-1924). E non manca l'edizione delle opere complete (1956 e 1965) né di altre opere separatamente, il Convivio e la Monarchia; il primato dopo la Commedia spetta alla Vita Nuova con quasi una trentina di traduzioni, comprese le ristampe e quella in catalano di M. de Montoliu (1903 e 1937).
I due centenari danteschi del nostro secolo non sono passati inavvertiti in S.: del 1921 restano isolati contributi critici e traduzioni che testimoniano un fervore più spiccato nella Catalogna (M. Casella ne fece un'accurata rassegna su " Studi d. "). Nel 1965 ci furono delle riviste che dedicarono speciali numeri al poeta italiano (" Revista de la Universidad de Madrid ", " Atlántida ", l'edizione in spagnolo dell'omaggio dantesco di " Books Abroad "); si ebbero la traduzione di Onieva con le belle illustrazioni di J. Vaquero Turcios e altri contributi. Non mancano da allora nuovi elementi di relazioni: si ricordi un volumetto di poesie di Manuel Padorno che porta il titolo Papè Satàn (1970). E nel raccogliere tutta la sua produzione poetica (con già qualche ricordo di D.), nel 1971 Angel Crespo intitolò il suo volume En medio del camino, titolo che si riallaccia non solo a un già lontano componimento in terzine di A. Cánovas del Castillo, La mitad de la vida (1863), ma anche alla raccolta di L.F. Ardavín, A mitad del camino (1944). E dello stesso Angel Crespo è recentissima (1973) la traduzione in terzine incatenate dell'Inferno, cui seguiranno quelle delle altre due cantiche.
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