Spagna
di Raffaele Ruggiero
L’attenzione di M. per le vicende spagnole si muove lungo due filoni principali: l’affermarsi della S. come monarchia nazionale unitaria e potenza europea di primo piano, e i risvolti italiani dell’antagonismo franco-spagnolo. Quest’ultimo aspetto interessa M. nell’arco di tempo che va dal consolidarsi del dominio spagnolo sull’Italia meridionale – indicato all’inizio del Principe come modello di ‘principato misto’, «membro aggiunto allo stato ereditario del principe che [...] acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna» (i 3) –, fino alla lega di Cognac (1526-27) voluta da papa Clemente VII e operativamente tessuta da Francesco Guicciardini, quale estremo tentativo di ridimensionare la presenza ispano-imperiale in Italia.
Durante il Quattrocento la penisola iberica era stata teatro degli atti conclusivi di una lotta per il primato territoriale tra cinque regni: il regno di Castiglia e León – il più esteso e popoloso –, il regno di Aragona con la contea di Barcellona, il regno di Navarra nell’orbita politica francese, il sultanato di Granada – ultimo baluardo della presenza araba in Andalusia –, il regno di Portogallo (R. Menéndez Pidal, Introducción, in Suárez Fernández, de Mata Carriazo Arroquia 1969, p. XII). Il matrimonio fra Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona (→ Ferdinando il Cattolico) era stato concordato dal fratello maggiore di Isabella (Enrico VI) e dal padre di Ferdinando (Giovanni II di Aragona) nel 1457, quando i due bambini avevano rispettivamente sei e cinque anni e nessuno dei due era successore diretto ai rispettivi troni (R. Menéndez Pidal, Introducción, in Suárez Fernández, de Mata Carriazo Arroquia 1969, p. XVII). Invece il connubio, contratto nel 1469 nonostante la sopravvenuta opposizione di Enrico VI, dette avvio all’unione politica dei due regni, pur indeboliti da perduranti lotte feudali intestine (Lynch 1991, pp. 1-2). Per un decennio la Catalogna e Barcellona avevano cercato l’indipendenza dalla corona d’Aragona, finché nel 1472 Giovanni II era riuscito a ottenerne la sottomissione con la promessa di ampie concessioni e amnistie. Nel 1474, alla morte del fratello, Isabella, con l’appoggio del marito e della nobiltà castigliana (accordi di Segovia del dicembre 1474 - gennaio 1475), prevalse sulla figlia di Enrico (Giovanna ‘la Beltraneja’), della quale, in maniera probabilmente pretestuosa, si invocò l’illegittimità; nella battaglia di Toro del 1476 Ferdinando e Isabella sconfiggevano il re del Portogallo, che aveva sostenuto le pretese dinastiche di Giovanna. Infine, nel 1479, Ferdinando succedeva al padre sul trono d’Aragona, realizzando l’unione politica dei due regni. Ferdinando comprese l’importanza strategica della Castiglia e preferì risiedere sempre accanto alla consorte e governare il proprio Stato ereditario per mezzo di viceré (Lynch 1991, p. 3). I progressi compiuti dai ‘re cattolici’ nel promuovere la S. quale potenza europea sono lucidamente rievocati nel ritratto di Ferdinando II che avvia il cap. xxi del Principe: «d’uno re debole, è diventato per fama e per gloria el primo re de’ cristiani» (§ 2). Consolidata l’unione dei due regni, Ferdinando procedeva all’annessione di Granada (1481-92), alla cacciata e spoliazione degli ebrei («né può essere, questo, essemplo più miserabile né più raro», § 5), alla conquista di importanti territori in Nord Africa (1509-11), alle guerre in Italia (per le quali → Napoli), e infine alla spedizione nella Guyenne (cfr. Ritratto delle cose della Magna, in SPM, p. 578, § 51), e all’occupazione della Navarra. M. attribuisce questa esemplare ascesa alla capacità di Ferdinando, mentre i due sovrani, fino alla morte di Isabella nel 1504, erano soliti offrire un’immagine di forte unità facendo riferimento a ogni loro atto come ‘decisione del re e della regina’; pari convergenza d’intenti mostrarono nella politica religiosa e in particolare nel sostegno secolare all’Inquisizione (L. Suárez Fernández, in Suárez Fernández, Fernández Álvarez 1978, pp. 205-12; Edwards 2000, pp. 78-100; Bernal 2007, pp. 183-98).
Tra gli attori della politica europea, l’Italia, la Francia e la S. hanno, secondo M., un carattere in comune: l’essere «tutte insieme la corruttela del mondo» (Discorsi I lv 16); sebbene tra esse l’Italia abbia sicuramente il primato, mentre
la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte; e se in quelle province non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto dalla bontà de’ popoli, la quale in buona parte è mancata, quanto dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù sua ma per l’ordini di quegli regni, che ancora non sono guasti (§ 8).
Il salto di qualità compiuto dalla politica spagnola nell’età di M. consiste, dunque, nell’unità nazionale, raggiunta sotto una monarchia capace di imporre un ordinamento durevole allo Stato (cfr. anche Arte della guerra II 309).
Si comprende come la S. costituisse fonte costante di attenzione per Firenze, prima e dopo la restaurazione medicea del 1512. Una prima segnalazione del non facile rapporto con la corona spagnola cade in occasione della seconda legazione presso Cesare Borgia: scrivendo da Cesena ai Dieci il 18 dicembre 1502, M. appresta una vera sceneggiatura. Un inviato pisano ha chiesto udienza a Borgia, e questi gliela accorda mentre M. attende in una sala laterale («mi apartai e entrò drento el Pisano»): gli Anziani di Pisa annunciano che il re di S. intende sostenerli e rifornirli, mentre Borgia li scoraggia da un’alleanza così pericolosa, «perché e’ vedevano tutti gli Italiani essere Franzesi, el Re di Francia potente in Italia e inimico del Re di Spagna». In conclusione, Borgia minaccia un proprio intervento diretto, eventualmente sollecitato dal re di Francia Luigi XII, mentre esorta i pisani a «mantenersi con el Re di Francia, e fare ciò che quella Maestà voleva» (LCSG, 2° t., p. 504).
Nella lettera machiavelliana a Giovanni Ridolfi del 1° giugno 1504 si annuncia il timore di un’impresa militare contro Firenze condotta da Bartolomeo d’Alviano e forse promossa da Gonzalo Fernández de Córdoba (il ‘gran capitano’ che comandava le milizie spagnole nell’Italia meridionale), una campagna intesa a «mutare questo stato e condurre Toscana a divozione di Spagna» (Lettere, p. 100). L’Alviano minacciò la Toscana per tutto l’anno successivo, e i fiorentini cercarono l’alleanza di Pandolfo Petrucci signore di Siena. In occasione della terza legazione a Siena, il 21 luglio 1505 M. comunicò ai Dieci come Petrucci, ben conscio dell’enorme sproporzione tra le forze eventualmente in campo, volesse accertare «se Bartolomeo fa questa impresa con ordine di Spagna: perché quando la faccia con ordine di quelli re è per governarsi in uno modo; quando sanza, è per governarsi in un altro» (LCSG, 4° t., p. 567).
Due anni più tardi, ancora in una missiva a Ridolfi, commissario generale nella campagna per la riconquista di Pisa, M. riassume a beneficio del destinatario il quadro delle alleanze europee, e in particolare lo informa dell’accordo raggiunto tra Ferdinando II e il genero, Filippo d’Asburgo – figlio dell’imperatore Massimiliano I –, per la Castiglia, rivendicata da entrambi nel 1504 alla morte di Isabella:
L’arciduca è d’accordo con el re di Ragona, perché sono convenuti in Galizia insieme, e fra loro si vede unione grandissima: il che è contro alla espettazione de’ franzesi, che se ne mostrano male contenti (12 giugno 1506, Lettere, p. 124).
Ferdinando e Filippo avrebbero stipulato il 27giugno il trattato di Villafáfila (M. Fernández Álvarez, in Suárez Fernández, Fernández Álvarez 19782, pp. 668-69); morto Filippo nello stesso anno, Ferdinando mantenne la reggenza di Castiglia a nome del nipote Carlo d’Asburgo, il futuro imperatore Carlo V (→).
Nell’estate del 1510 è in atto il rovesciamento di alleanze da parte di papa Giulio II, che rompe l’accordo di Cambrai con la Francia e promuove la lega Santa antifrancese (papa e S., con Venezia, la Svizzera, Enrico VIII d’Inghilterra e l’imperatore Massimiliano): M. si avvede dei primi movimenti in tal senso durante la terza legazione in Francia (lettera ai Dieci da Blois, 18 luglio 1510, LCSG, 6° t., pp. 433-34). In tale quadro Francesco Vettori interroga M. sulla solidità dell’alleanza tra papa, imperatore e corona spagnola:
Ispagna, sanza lo ’mperadore li parrebbe esser debole; con esso dubiterebbe che, se vincessi, avere a perdere non solo il reame [di Napoli], ma la Castiglia e l’Aragonia per le ragioni v’ha su il nipote [Carlo d’Asburgo] (3 ag. 1510, Lettere, p. 213).
M. non ha mai visitato direttamente la S., sebbene probabilmente fosse lui a redigere le istruzioni diplomatiche per Guicciardini in occasione della legazione presso Ferdinando II nel 1512. L’ambasceria guicciardiniana era intesa a giustificare la posizione di Firenze presso il re di S. nel conflitto che vedeva opposti la Francia di Luigi XII alla lega Santa. Com’è noto, Ferdinando riuscì abilmente a persuadere perfino il giovane Guicciardini di non voler rovesciare la Repubblica fiorentina, proprio mentre i fanti spagnoli al comando di Ramón de Cardona si preparavano a saccheggiare Prato e a riportare i Medici in città (cfr. lettera di M. a una gentildonna post 16 sett. 1512, Lettere, pp. 231-35; R. Ridolfi, Vita di Francesco Guicciardini, 1982, pp. 33-45; E. Cutinelli-Rendina, Guicciardini, 2009, pp. 26-31). L’indecisione di Firenze in quell’occasione sarà stigmatizzata da M. nel cap. xxi del Principe, tra i casi in cui la neutralità risulta esiziale: «quando e’ non si può fuggirla [l’alleanza con uno più potente], come intervenne a’ fiorentini quando el papa e Spagna andorno con li esserciti a assaltare la Lombardia» (§ 23; → neutralità).
Dopo essere stato allontanato dalla cancelleria, M. continua a seguire e interpretare costantemente l’avvicendarsi delle relazioni diplomatiche europee.È ancora Vettori a sollecitarlo il 19 aprile 1513, all’indomani della tregua franco-spagnola di Orthez: «se è vera la triegua tra Francia e Ispagna, bisogna di necessità fare conclusione [...] che Ispagna, Francia e lo imperatore disegnino dividersi questa misera Italia» (Lettere, pp. 243-44). Sono contemporaneamente in gioco i destini della Navarra e il crescente potere della S. in Italia, e in risposta M. si impegna in una diffusa analisi nella lettera del 29 aprile 1513:
Voi vorresti sapere [...], quello io creda abbi mosso Spagna a fare questa tregua con Francia [...]. A che io d’Aragona] non sia savio; non di manco a me è egli parso più astuto e fortunato che savio (M. a Vettori, 29 apr. 1513, bella copia, Lettere, pp. 248-49; cfr. minuta autografa p. 255).
L’epistola prosegue bilanciando vantaggi e svantaggi della tregua alla luce di differenti ipotesi di partenza: che Ferdinando non sia un re «savio», oppure che lo sia, e in questo secondo caso che la tregua sia stata stipulata prima o dopo l’ascesa di Leone X al soglio pontificio. Infine: «Donde io concludo che gli abbi fatto più securo partito fare tregua [...]. Se voi avete notato e consigli e progressi di questo Cattolico re, voi vi maraviglierete meno di questa tregua» (Lettere, pp. 252-53; cfr. minuta pp. 259-60). Segue nella lettera quel significativo ritratto di Ferdinando II che M. riprenderà, articolandolo, nell’avvio del cap. xxi del Principe.
Nel carteggio con Vettori, le ragioni di convenienza per l’accordo tra Francia e S. tornano a essere discusse nell’estate del 1513. Il 12 luglio, l’oratore fiorentino presso la curia pontificia mostra quale sia l’interesse concreto del papa Medici (Leone X) nell’equilibrio di forze tra S. e Francia; e in questo complesso gioco, prosegue Vettori:
Che fine abbi il re di Spagna credo che pochi vi si possino ingannare, perché pensa mantenersi nel governo di Castiglia, pensa assicurarsi che li possa esser tolto il regno di Napoli; e perché l’una cosa e l’altra non si può fare sanza denari, pensa esser tanto stimato et temuto in Italia che possa da tutti e potentati d’essa trarre danari per valersene a questo suo disegno (Lettere, p. 269).
Una nuova tregua franco-spagnola, stipulata il 13 marzo 1514, è l’occasione per M. di tornare a discutere temi politici con Vettori: «Io veggo il re di Spagna, il quale, poi che egli entrò in Italia, è stato sempre il primo motore di tutte le confusioni cristiane, posto in mezzo, al presente, di molte difficoltà» (M. a Vettori, 16 apr. 1514, Lettere, p. 317). Nel dicembre del 1514, sempre convinto dell’inopportunità di restare neutrale, M. aveva consigliato a Vettori (lettere del 10 e 20 dic. 1514) che Leone X si accostasse alla Francia che cercava di riconquistare il ducato di Milano. Dopo lunghe esitazioni, e nonostante esteriori apprezzamenti del parere machiavelliano, la curia romana si alleò invece con spagnoli e svizzeri: i collegati furono battuti dal nuovo re di Francia, Francesco I (→), nella battaglia di Marignano (13-14 sett. 1515), dopo la quale solo l’irresolutezza dei vincitori non segnò la sconfitta definitiva (Discorsi II xxii 7-12).
Un singolare avvicendarsi di relazioni familiari aveva condotto Carlo d’Asburgo a divenire appena ventenne imperatore di un colossale dominio europeo e transoceanico. Rimasto a sei anni orfano del padre Filippo, ereditò la Borgogna e i Paesi Bassi; alla morte del nonno materno Ferdinando II, il 23 gennaio 1516, ereditò il regno d’Aragona e la reggenza di Castiglia, non potendo esercitare il potere la madre Giovanna per un presunto squilibrio mentale (R. Menéndez Pidal, Introducción, in Fernández Álvarez 1982, pp. XIII-XIV); alla morte del nonno paterno Massimiliano I nel gennaio del 1519 si apriva per Carlo la via della successione all’impero: fu eletto il 28 giugno 1519, mentre si trovava a Barcellona, e incoronato ad Aquisgrana il 23 ottobre 1520. Gli anni 1516-19 avevano segnato un riaccendersi del particolarismo spagnolo: Carlo, considerato un principe ‘estraneo’, era mal visto tanto dalla nobiltà castigliana, che perdeva privilegi a causa dei nuovi cortigiani borgognoni, quanto dagli ambienti aragonesi e catalani che trovavano nuove ragioni di separatismo. A peggiorare la situazione furono la necessità di drenare risorse finanziarie in S. per garantirsi l’incoronazione imperiale e infine la nomina di un reggente straniero, Adriano di Utrecht, per governare la Castiglia in assenza del sovrano. Il diffuso malcontento condusse alla rivolta dei Comuneros: non un semplice movimento politico, ma una rivoluzione, la cui portata e le cui conseguenze non sfuggirono a M., il quale vi accenna nell’Instruzione d’uno che vada imbasciadore (ott. del 1522), indirizzata a Raffaello Girolami pochi giorni prima che questi partisse per la corte spagnola di Carlo V insieme con Bardo Corsi e Raffaello de’ Medici. Il conflitto vide esponenti delle classi medie, impegnati soprattutto nelle manifatture tessili, contrastare gli interessi dell’aristocrazia terriera e dei grandi imprenditori commerciali. La rivolta fu avviata dalla città di Toledo il 20 maggio 1520, e nel settembre raggiunse il proprio apice; ma le divisioni interne tra riformatori ed estremisti e la decisione di Carlo di accostare al reggente due figure dell’alta nobiltà castigliana favorirono il fronte dei magnati. I rivoltosi furono sconfitti dalle truppe imperiali a Villalar il 24 aprile 1521; Toledo capitolò in ottobre (Lynch 1991, pp. 51-61).
Nei passaggi conclusivi dell’Instruzione, M. mostra di valutare bene aspetti specifici della politica spagnola e imperiale al principio degli anni Venti: i teatri più problematici per l’azione di Carlo V («se egli sta più volentieri in Ispagna che in Fiandra»); l’ostilità francese e l’ambiguo sostegno della nobiltà castigliana («se di quei [ministri] del re di Francia ha alcuno amico e se sono corruttibili», «se Francia ne potessi corrompere alcuno» [tra i grandi feudatari spagnoli]); la rivolta dei Comuneros e un suo eventuale riaccendersi a opera della Francia («se la Francia le potesse fare fuoco sotto»); i rapporti con Ferdinando d’Asburgo (fratello minore di Carlo e governatore dei domini austriaci); e infine
considererete ancora che fine sia quello dello imperadore, come gl’intenda le cose di Italia, se gli aspira allo stato di Lombardia [...], se gli ama di venire a Roma e quando; che animo egli ne abbia sopra la Chiesa, quanto e’ confidi nel papa [Adriano VI, successore nel 1521 di Leone X] [...] che bene o che male possino i Fiorentini sperare o temere (Instruzione, in SPM, p. 660).
La guerra tra Francesco I e Carlo V è oggetto di particolare analisi nel carteggio machiavelliano con Guicciardini, soprattutto per la svolta italiana di quel conflitto coincidente con i mutati interessi dell’imperatore e del suo nuovo cancelliere, il piemontese Mercurino Gattinara (Lynch 1991, p. 110). Dopo la sconfitta di Pavia, il re di Francia era caduto prigioniero dell’imperatore e condotto a Madrid: alla vigilia della pace madrilena, con la quale Francesco I veniva liberato sotto pesanti condizioni e lasciando due figli in ostaggio, M. scrive a Guicciardini: «Io sono stato sempre di oppinione, che se lo imperadore disegna diventare dominus rerum, che non sia mai per lasciare il re» (3 genn. 1526, Lettere, p. 415). Segue una diagnosi intorno alla politica spagnola e imperiale in Italia: analisi particolarmente significativa in vista dell’offensiva avviata dalla lega di Cognac. Poco dopo, all’assedio di Cremona, Guicciardini inviò M. a verificare la situazione militare, e M. l’11 settembre 1526 stilò un rapporto dove non si nascondevano le difficoltà e in particolare l’imminente arrivo di truppe fresche spagnole. Le infelici prove militari della lega di Cognac sono poco dopo riassunte da M. nella lettera ‘dal campo’ a Bartolomeo Cavalcanti del 6 ottobre 1526. Infine, nei rapporti agli Otto di pratica del marzo 1527, la discesa delle milizie spagnole e tedesche di Carlo V alla volta della Toscana e di Roma appare ormai incontenibile.
Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini (1513-1527), a cura di G. Inglese, Milano 1989.
Per gli studi critici si vedano: L. Suárez Fernández, J. de Mata Carriazo Arroquia, La España de los reyes católicos (1474-1516), t. 17, 1° vol., di Historia de España, diretta da R. Menéndez Pidal e poi da J.M. Jover Zamora, Madrid 1969; L. Suárez Fernández, M. Fernández Álvarez, La España de los reyes católicos (1474-1516), t. 17, 2° vol., di Historia de España, diretta da R. Menéndez Pidal e poi da J.M. Jover Zamora, Madrid 19782; M. Fernández Álvarez, La España del emperador Carlos V (1500-1558; 1517-1556), t. 20 di Historia de España, diretta da R. Menéndez Pidal e poi da J.M. Jover Zamora, Madrid 19823; J. Lynch, Spain 1516-1598. From nation state to world empire, Oxford 1991; J. Edwards, The Spain of the catholic monarchs 1474-1520, Oxford 2000; J.E. Ruiz-Domènec, El Gran Capitán, Barcelona 2002 (trad. it. Torino 2008); A.-M. Bernal, Monarquía e imperio, Barcelona 2007.
La Fortuna di Machiavelli in Spagna e in Portogallo di Walter Ghia
Dal 16° al 17° secolo. Il Tratado de re militari che compare ad Alcalá de Henares nel 1536 è la prima traccia lasciata in S. dagli scritti machiavelliani. L’estensore del testo dichiara nel prologo di aver seguito le «idee di Machiavelli piuttosto che di altri» (De Salazar, Tratado de re militari, 1536, a cura di E. Botella Ordinas, 2000, p. 101) e rende noto il suo nome – che non compare nel frontespizio – soltanto nell’intestazione del II libro, presentandosi come «il capitano Diego de Salazar». Il volume è per gran parte traduzione dell’Arte della guerra (di cui riprende anche la struttura dialogica e la divisione in sette libri), però è anche adattamento al contesto storico spagnolo: non solo per la sostituzione dei personaggi (al posto di Fabrizio Colonna il Gran Capitán, al posto di Cosimo Rucellai il duque de Najera), ma anche per aspetti che riflettono la configurazione del regime e la diversa visione della politica. Ciò che propriamente vien meno è il modello machiavelliano del cittadino-soldato: così nel Tratado la devozione alla patria non può mai stare senza «el servicio de su rey».
Almeno in S. la figura e gli scritti di M. non sono precocemente interdetti dalle autorità ufficiali. Basti pensare alla traduzione in castigliano dei Discorsi a opera di Juan Lorenzo Ottevanti, che compare a stampa nell’edizione del 1552 preceduta dal privilegio dell’imperatore, e poi nuovamente nel 1555. Più tardi, in un clima assai mutato (1583-84), la richiesta del consenso per una edizione purgata di opere di M. viene avanzata all’autorità inquisitoriale dal duca di Sessa, ma senza alcun esito. L’inserimento del nome di M. nell’Indice ispanico si verifica soltanto nel 1583 (compare nella versione detta di Quiroga), mentre la censura portoghese segue abbastanza da vicino (1561) l’Indice romano di Paolo IV.
Certamente non bastano le traduzioni né le indicazioni dei tempi della censura ufficiale a valutare l’incidenza dell’opera di M. nella cultura spagnola. Un prezioso studio condotto da Helena Puigdomènech Forcada nelle biblioteche spagnole attesta l’ampia circolazione clandestina di opere di M. in lingua italiana, e anche l’esistenza, nella Biblioteca nacional di Madrid, di una traduzione manoscritta del Principe che risale alla fine del 16° sec., o agli inizi del 17° (Puigdomènech Forcada 1988, pp. 58 e segg., p. 117). D’altra parte, nel contesto di un modello non nazionale, ma dinastico, S. e Italia sono in quel tempo attraversate da profonde linee di intersezione che coinvolgono insieme alla politica le biografie intellettuali di personaggi di primo piano come Juan Ginés de Sepúlveda (→), Jerónimo Osório, Pedro de Ribadeneira (→ gesuiti), Miguel de Cervantes, Francisco de Quevedo.
Proprio de Sepúlveda risulta a oggi (e non solo tra gli scrittori iberici) il primo critico di M. di cui si abbia notizia. In particolare, il dottore andaluso esprime il suo sdegno contro il Segretario fiorentino nel dialogo De convenientia militaris disciplinae cum christiana religione che compone a partire dal 1532, e che pubblica nel 1535 presso lo stesso editore Blado che aveva dato alle stampe i Discorsi e il Principe. D’altro canto la permanenza in Italia del dottore andaluso, che si sviluppa attraverso uno stretto legame con la corte romana, risale al 1515 e si conclude solo nel 1536. Il nome di M., che è posto in chiara evidenza nel manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. lat., 1896, f. 11), non compare in modo esplicito nell’edizione a stampa (de Sepúlveda 1535, p. 80) dove è celato sotto un generico «qui»: una critica che avesse nominato apertamente M., rischiava di coinvolgere la persona stessa di Clemente VII, e con lui la casa dei Medici. Rispetto alla data della comparsa dell’edizione a stampa, Clemente VII era morto da poco, ma era comunque un atto del suo pontificato il privilegio concesso ad Antonio Blado il 23 agosto 1531, affinché l’editore potesse stampare in forma esclusiva alcune opere di Machiavelli. Certo è che la critica di Sepúlveda prende a oggetto una tematica specifica, e in termini testuali ha come suo preciso bersaglio il capitolo ii, del II libro dei Discorsi (cfr. Prosperi 1979, pp. 509 e segg.). M. è uno scrittore empio che attribuisce al cristianesimo la colpa di aver corrotto ogni virtù civile rendendo gli uomini deboli e inetti all’esercizio del comando: per giunta inclini a consegnare il potere agli uomini malvagi, e comunque inadatti alla pratica di quella virtù guerriera che proprio Sepúlveda – in polemica con Erasmo – vuol dimostrare compatibile con la religione di Cristo.
Più estesa e analitica – ma non dissimile nell’ispirazione – è la critica che troviamo nel terzo libro del De nobilitate christiana del portoghese Jerónimo Osório (pubblicata a Lisbona nel 1542 e ristampata a Firenze nel 1552). Dopo gli studi a Salamanca, Osório abbraccia lo stato ecclesiastico, completa la sua formazione a Parigi e poi a Bologna (1538-42), dove entra in contatto con alcune opere di Machiavelli. In particolare Osório rinvia alle Istorie fiorentine e ai Discorsi indicando in M. l’autore che scrisse «la storia della sua città e affrontò molti temi inerenti alla condizione dello stato». Egli mette prima di tutto in rilievo l’ostentata spregiudicatezza dell’empietà di M. – «non ritenne necessario dissimulare quale fosse il suo atteggiamento in ordine alla religione e a quanto è per noi sacro» (J. Osório, De nobilitate christiana, 1542, poi in De gloria libri quinque, 1584, pp. 302 e segg.). Polemizzando, come Sepúlveda, con le tesi di Discorsi II ii, Osório sostiene che nessuno manifestò tanta grandezza d’animo quanto i martiri, e che d’altra parte la virtù guerriera dei cristiani è attestata da personaggi come Costantino, Carlo Martello, Carlo Magno. Osório sembra avere abbastanza chiare le tesi di M. circa l’incompatibilità fra il cristianesimo e il «vivere libero» (congiunto con la virtù guerriera) della Repubblica romana, anche se lo sviluppo della sua argomentazione sembra poi smarrire l’aderenza al testo machiavelliano, laddove attribuisce al Segretario fiorentino l’ignoranza della legge storica che vede le istituzioni umane soggette al nascere e al morire: il punto di dissenso incolmabile tra i due risiede piuttosto nell’affermazione (Discorsi II v) che la «setta» cristiana non gode del privilegio di chiudere il cerchio lungo il quale una religione succede all’altra.
Non tutti gli scrittori iberici del 16° sec. che vengono in contatto con opere di M. le affrontano da posizioni polemiche: altre volte ne fanno uso nel quadro delle loro dottrine. Fadrique Furió Ceriol (1527-1592) è un umanista valenciano dalla biografia complessa che vede la sua presenza a Lovanio, ad Anversa, a Colonia. In materia religiosa ha tendenze eterodosse e in particolare è favorevole alla traduzione in volgare della Bibbia. La religiosità di Ceriol, proprio perché contempla una figura di credente dotato di autonomia spirituale, è in un certo senso presupposto della sua opera politica stampata ad Anversa nel 1559, El consejo y consejeros del principe. Qui, in diversi passaggi, sono evidenti la conoscenza e l’uso di idee machiavelliane, pur se riprese in un contesto che accentua i temi della struttura amministrativa dello Stato. Proprio perché l’arte politica è destinata a laici competenti e va sottratta all’invadenza dei religiosi, Ceriol apprezza di M. la lettura secolare della storia. Così nel Consejo «assistiamo alla transustanziazione dell’errore in peccato» allo scopo di assegnare particolare rilevanza alla competenza del sovrano e a quella dei suoi consiglieri (A. Hermosa Andújar, El concepto de politica en Furió Ceriol, in Machiavelli in Spagna. La Spagna in Machiavelli, 2010, p. 23): «gli errori e le mancanze del Principe [...] sono peccati che portano con sé la perdizione nostra e sua» (El consejo y consejeros del principe, 1559, p. 8). Il testo machiavelliano non è mai nominato in modo esplicito, ma è spesso riecheggiato nella ricerca di un sapere funzionale all’esercizio del potere:
È indispensabile, in rapporto a ognuno di questi tipi di governo, che il consigliere conosca come si acquisisce, si aumenta, si conserva, si perde lo stato, quali pericoli si corrono, come si può porvi rimedio (El consejo y consejeros del principe, cit., p. 30).
Riferimento esplicito ai testi machiavelliani (in particolare ai Discorsi) si riscontra in Bartolomé Felippe (J.M. Forte Monge, Un lector de Maquiavelo... Bartolomeu Filipe, in Machiavelli in Spagna. La Spagna in Machiavelli, 2010, p. 43): nato a Lisbona, completa gli studi giuridici a Salamanca e poi a Coimbra e si dedica all’insegnamento in tale università fino a quando è costretto all’esilio in Spagna. Pubblica nel 1584 il Tractado del consejo y de los concejeros de los principes, opera in spagnolo che vede una nuova edizione nel 1589, e una traduzione inglese dello stesso anno, e anche una traduzione italiana (1599). Felippe non invoca soltanto Tacito, come talvolta si sostiene (de Albuquerque 2007, p. 82): non esita anzi a impiegare direttamente il nome di M. persino nell’indice dei nomi e nelle note a margine, e traduce l’intero cap. xviii del I libro dei Discorsi (1589, ff. 106r-107). Nonostante le ovvie concessioni alla pietas, si colloca – come Ceriol – al di fuori di una prospettiva provvidenzialistica, e pone al centro del Tractado la logica intrinseca all’agire politico. Così per Felippe non importa la virtù di chi esprime un consiglio, ma la qualità oggettiva di ciò che viene consigliato: «perché sono i consigli quelli che conferiscono autorità alle persone, e non le persone ai consigli» (1589, f. 84).
A concludere il secolo in direzione decisamente antimachiavellica è il gesuita Pedro de Ribadeneira di cui compare nel 1595 il Tratado de la Religion y Virtudes que deue tener el Principe Christiano, para gouernar y conseruar sus Estados, il cui sottotitolo ben chiarisce l’intenzione polemica: Contra lo que Nicolas Machiavelo y los Políticos deste tiempo enseñan. «Uomo empio e senza Dio», M. esorta all’uso politico della religione a prescindere dal suo valore di verità; invocando il principio della conservazione dello Stato, esorta all’impiego di qualunque mezzo che sia in grado di promuoverla,
e pone fra tali mezzi la nostra santa religione insegnando che il principe non deve tener conto di essa se non per quanto conviene al suo stato, e [...] deve talvolta mostrarsi pietoso senza esserlo, e altre volte abbracciare qualsiasi altra religione per quanto insensata (P. de Ribadeneira Tratado de la Religion y Virtudes (1595), in Id., Obras escogidas, 1910, p. 455).
Il padre gesuita indica in M. il capostipite dell’empietà, ma per altro verso si proietta oltre il testo machiavelliano e riverbera l’interazione fra differenti aspetti della storia europea: non solo la secolarizzazione dell’arte politica, ma anche l’avanzare delle alternative fra diversi culti. Così Ribadeneira include nella categoria dei «politicos» François de la Noue, Philippe du Plessis de Mornay, Jean Bodin, con chiaro riferimento alle guerre di religione in Francia. È qui evidente, sia per la convergenza dei nomi, sia per l’uso del termine políticos la traccia lasciata dal Iudicium del gesuita Antonio Possevino (1533-1611), che era comparso a Roma tre anni prima.
Rispetto agli autori esaminati Miguel de Cervantes occupa in qualche modo una posizione atipica. Non è un chierico, non è un diplomatico, non è un giurista. Tuttavia è assai vivace la sua curiosità per gli scrittori italiani, anche perché la sua permanenza in Italia si estende per un periodo considerevole(1569-75). È difficile non cogliere nel suo capolavoro una traccia evidente dell’incipit del cap. vii del Principe, in particolare nella circostanza in cui don Chisciotte rinnova a Sancho – ben poco provvisto di virtù guerriera e di competenza politica – la promessa del governo di un’isola. Rivolto al suo malandato scudiero, e in riferimento all’isola che ha promesso di donargli, don Chisciotte domanda:
Che mai sarebbe di te se, conquistandola io, te ne rendessi signore? [...] Perché devi sapere che, nei regni e nelle province nuovamente conquistate, gli animi degli abitanti non sono mai tanto quieti né tanto amici al nuovo signore che venga meno il timore che abbiano a fare qualche innovazione per alterare di nuovo le cose (Quijote I xv, a cura di F. Rico, 2004, p. 277; cfr. Principe, vii, 1-4, ii 6 III 1).
È un segno evidente della diffusione di M. anche presso figure intellettuali che non mettono al centro del loro interesse l’arte dello Stato. Proprio per questo è giusto precisare che tale traccia machiavelliana non fa di Cervantes un seguace delle dottrine del Fiorentino, in un senso propriamente politico. Di M., l’autore dell’«ingenioso hidalgo» ammirava piuttosto l’arguta e libera intelligenza che si manifesta nel Principe e anche, forse, l’«ingenioso huomo» autore di commedie (l’espressione compare nel frontespizio dell’edizione 1537 della Clizia).
Ben diverso il caso di Francisco de Quevedo y Villegas, un grande scrittore, ma anche un diplomatico e un uomo di corte, che si avvicina all’arte politica con un ruolo professionale. Da un lato – come nella Isla de los Monopantos – Quevedo si atteggia a campione del più radicale antimachiavellismo; dall’altro lato, come nel Marco Bruto, egli attinge in forma tanto dissimulata quanto compiaciuta al repertorio machiavelliano: «non seguire le vie del mezzo», «non mantenere la fede», far ricadere su altri la colpa di una repressione violenta, mostrarsi virtuoso senza esserlo. Quanto alla dissimulazione, non solo è diffusamente elogiata, ma è elevata a primaria risorsa strategica per la fondazione dell’impero a Roma. Quasi a voler superare M. in sottigliezza, Quevedo sostiene che Giulio Cesare era ben consapevole di quel che si stava tramando contro di lui, ma finse intenzionalmente di ignorarlo. Lasciare che la congiura conseguisse il suo esito, rinunciare alla repressione dei congiurati, rivestendo anzi il ruolo della vittima era la via maestra per gettare le fondamenta dell’impero: proprio in virtù di questa deliberata strategia Cesare «non poté essere imperatore, ma il suo cadavere riuscì a fondare l’impero» (F. de Quevedo, Obras en prosa, a cura di F. Buendía, 1990, p. 743).
La distanza delle dottrine di Quevedo rispetto a M. non si misura sull’asse politica/morale, quanto piuttosto per la chiusura dell’arte politica all’interno della ristretta cerchia del gubernaculum, e per la lettura delle vicende storiche in una chiave eminentemente psicologica.
Di Benito Jerónimo Feijóo esce nel 1733 il tomo V del suo Teatro crítico universal, il cui Discurso IV reca il significativo titolo Maquiavelismo de los antiguos. Nel saggio troviamo diversi riferimenti tratti dall’ampia letteratura sullo scrittore italiano: testi e giudizi di Paolo Giovio, Traiano Boccalini, Abraham Nicolas Amelot de la Houssaye, e anche la tesi che considera il Principe un’opera intesa ad ammaestrare i popoli circa le arti dei tiranni. Feijóo sembrerebbe allinearsi alla voce del Dictionnaire di Pierre Bayle (laddove riprende la recensione alla terza edizione della traduzione di Amelot): «È sorprendente che siano tanto pochi a rifiutare di credere che M. insegni ai principi una politica dannosa; perché al contrario sono stati i principi ad insegnare a M. quel che ha scritto» («Nouvelle de la république des lettres», janvier 1687, p. 99). Tuttavia nel padre benedettino, esponente di un illuminismo assai temperato, la tesi che riconosce nelle azioni dei principi l’origine delle dottrine di M. ha un suo esito specifico, che ben si adatta alla S. del suo tempo. Intanto la tesi è di fatto spogliata del suo carattere corrosivo, in quanto Feijóo distingue tra i comportamenti relativamente moderati dei principi del suo tempo rispetto all’efferatezza di quelli del mondo antico (i soli che rappresentano gli autentici ispiratori delle dottrine machiavelliane). Ma soprattutto, l’affermazione che «il machiavellismo deve la sua originaria esistenza ai più antichi principi del mondo e a Machiavelli soltanto il nome» (Maquiavelismo de los antiguos, in Teatro crítico universal, t. 5, 1733, poi 1778, p. 78) tende a spogliare la figura del Fiorentino di ogni grandezza: per quanto ateo e malvagio, egli ha avuto nella storia un peso inferiore a quello che gli si attribuisce, e la sua opera in altro non consiste che in un elenco di massime, peraltro di dubbia efficacia.
La vicenda di Antonio Eximeno ben riflette il clima ideologico e politico della S. sul finire del Settecento. Il padre gesuita è costretto ad abbandonare la S. per Roma a seguito dell’espulsione del 1767, circostanza che lo induce anche a lasciare l’abito e a farsi secolare. Nel 1795 pubblica Lo spirito del Machiavelli, ossia riflessioni [...] sopra l’elogio di Nicolò Machiavelli detto [...] dal Sig. Gio. Battista Baldelli. Il testo viene poi arricchito nell’edizione spagnola (1800) della quale l’Inquisizione ordina il ritiro di tutti gli esemplari: eppure Eximeno non aveva prodotto un’apologia di M.; anzi aveva criticato l’elogio di Baldelli per le accuse direttamente rivolte ai gesuiti, e anche per l’interpretazione obliqua che leggeva il Principe come opera intesa a mettere in guardia contro la tirannia. D’altra parte, gli atti del processo inquisitoriale nel motivare la requisizione dell’opera di Eximeno non ravvisano alcun errore teologico: piuttosto affermano la convinzione che in tempi tanto difficili non è il caso di riportare alla memoria il nome di M., neppure per analizzare le sue opere e per disputare intorno a esse, sia pure da posizioni critiche (cfr. Bono Guardiola 1996).
Il 19° sec. vede le prime edizioni del Principe in lingua spagnola. La prima tra esse, quella del 1821 (Madrid, per i tipi di L. Amarita) appare, non casualmente, nel ‘trienio liberal’ e, pur non recando nel frontespizio il nome dell’autore della traduzione, consente tuttavia di identificarlo in quanto firmatario del prologo del traduttore: si tratta di Alberto Lista, intellettuale liberale, almeno inizialmente afrancesado, e figura di rilievo nella S. del primo Ottocento (Arbulu Barturen 2006). La traduzione che compare nel 1842 a Barcellona (per i tipi di Tomás Gorchs) nasconde invece il nome del traduttore sotto la lettera iniziale ‘B’.
Nel 1920, con la firma e il prologo di Josep Pin i Soler, compare la prima traduzione catalana del Principe, seguita poi nell’anno successivo, a opera dello stesso traduttore, da una raccolta di scritti narrativi teatrali e poetici (Barcelona, Librería Antiga y moderna de S. Barbara).
A Coimbra, nel 1935 (Atlântida, Livraria editora) appare la prima versione in portoghese del Principe, recante la firma di Francisco Morais (esponente dell’ala radicale del salazarismo), che fa precedere il testo, a guisa di introduzione, dalla traduzione parziale dell’articolo Preludio al Machiavelli pubblicato nel 1924 da Benito Mussolini su «Gerarchia».
Tra le interpretazioni del pensiero di M. che prendono corpo in ambito iberico merita ricordare quella di Ortega y Gasset (1883-1955). Il filosofo madrileno richiama l’opera di M. nel quadro della sua filosofia della «razón vital», ma anche e soprattutto in funzione delle prospettive prossime della storia nazionale ed europea. Ortega legge M. in una chiave rigenerazionista ed è particolarmente interessato alle pagine su Ferdinando il Cattolico: «nessuno fu tanto colpito dall’opera di Ferdinando come il sagace segretario della Signoria. Il suo Principe è, a rigore, una meditazione su quel che fecero Ferdinando il Cattolico e Cesare Borgia» (J. Ortega y Gasset, España invertebrada, 1922, ora in Obras completas, 3° vol., 2005, pp. 451 e segg.). Il Segretario fiorentino è l’uomo di genio che nella descrizione della politica di Ferdinando sa cogliere la concreta affermazione di un principio capitale, ossia il primato della politica estera come via alla costruzione dello ‘Stato nuovo’ inteso come impresa politica che si proietta verso il futuro, amalgamando popoli diversi per tradizione. Ortega fa riferimento al Principe, ma soprattutto alla corrispondenza con Francesco Vettori: le singole affermazioni nella politica internazionale non valgono ciascuna per sé, ma piuttosto per la loro capacità complessiva di «muovere gli animi».
In anni recenti, con l’avvicinarsi del quinto centenario della redazione del Principe, si sono registrate molte iniziative scientifiche: merita qui ricordare i due convegni internazionali tenutisi a Madrid il 25 e 26 novembre 2007 (Maquiavelo y España, 2008), e a Barcellona il 5 e il 6 novembre 2009 (Machiavelli in Spagna. La Spagna in Machiavelli, «Quaderns d’Italià», 2010, 15).
Bibliografia. Fonti: J.G. de Sepúlveda, De convenientia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus, qui inscribitur, Democrates, Roma 1535, poi a cura di J. Solana Pujalte in Obras completas, 15° vol., Pozoblanco 2010, pp. 80-192; D. de Salazar, Tratado de re militari, Alcalá de Henares 1536, poi a cura di E. Botella Ordinas, Madrid 2000; J. Osório, De nobilitate christiana, Lisboa 1542, poi in De gloria libri quinque, Basilea 1584, pp. 219-330; F. Furió Ceriol, El consejo y consejeros del principe, Anversa 1559 (trad. it. Il consiglio e i consiglieri del Principe, a cura di L. D’Ascia, Roma 2007); B. Felippe, Tractado del consejo y de los concejeros de los principes, Coimbra 1584, poi Torino [i.e. Londra] 1589; P. de Ribadeneira, Tratado de la Religion y Virtudes que deue tener el Principe Christiano, para gouernar y conseruar sus Estados. Contra lo que Nicolas Maquiavelo y los Políticos deste tiempo enseñan (1595), in Id., Obras escogidas, Madrid 1910, pp. 449-587; B.J. Feijóo, Maquiavelismo de los antiguos, in Teatro crítico universal, t. 5, Madrid 1733, poi Madrid 1778, pp. 72-102; A. Eximeno, Lo spirito di Machiavelli ossia riflessioni [...] sopra l’elogio di N. Machiavelli detto [...] dal Sig. Gio. Battista Baldelli, Cesena 1795; J. Ortega y Gasset, España invertebrada, Madrid 1922, poi in Obras completas, 3° vol., Madrid 2005; F. de Quevedo, Obras en prosa, a cura di F. Buendía, Madrid 1990.
Per gli studi critici si vedano: A. Prosperi, La religione, il potere, le élites. Incontri italo-spagnoli della Controriforma, in Colloquio internazionale del 1977 su Potere ed élites nella Spagna e nell’Italia spagnola nei secoli XV-XVII, «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», 1979, 29-30, pp. 499-529, in partic. pp. 509-15; L. Torgal Reis, Ideologia política e teoria do Estado na Restauração, 2 voll., Coimbra 19811982; J.A. Maravall, Estudios de historia del pensamiento español, Madrid 1984; J.A. Fernández-Santamaria, Razón de Estado y política en el pensamiento español del barroco (1595-1640), Madrid 1986; H. Puigdomènech Forcada, Maquiavelo en España, Madrid 1988; R. Bireley, The counter-reformation Prince. Anti-Machiavellianism or catholic statecraft in early modern history, Chappel Hill-London 1990; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; M.J. Bono Guardiola, El espíritu de Maquiavelo de Antonio Eximeno, in Españoles en Italia e Italianos en España, IV Encuentro de investigadores de las universidades de Alicante y Macerata maggio 1995, a cura di E. Giménez, M.A. Lozano, J.A. Ríos, Alicante 1996, pp. 39-52; M.B. Arbulu Barturen, La primera traducción española publicada de Il principe de Maquiavelo, in Maquiavelo y Beccaria en ámbito iberoamericano, a cura di M.B. Arbulu Barturen, S. Bagno, Padova 2006, pp. 45-90; M. de Albuquerque, Maquiavel e Portugal, Lisboa 2007; Maquiavelo y España. Maquiavelismo y antimaquiavelismo en la cultura española de los siglos XVI y XVII, a cura di J.M. Forte, P. López Alvárez, Madrid 2008; Machiavelli in Spagna. La Spagna in Machiavelli -Maquiavel a Espanya. Espanya a Maquiavel, «Quaderns d’Italià», 2010, 15; W. Ghia, El Príncipe ante el V Centenario. España y Maquiavelo, Vigo 2013.