Sparta
Nel secondo capitolo del libro I dei Discorsi, M., riproducendo quasi alla lettera alcuni dei più importanti luoghi del sesto libro delle Storie di Polibio (→), celebra la costituzione di S., insieme con quella di Roma, come insigne esempio di costituzione «mista», che, in quanto tale, riuniva in sé le forme monarchica, aristocratica e democratica di governo, bloccando la degenerazione a cui ciascuna di queste sarebbe stata altrimenti promessa: «perché l’uno guarda l’altro, sendo in una medesima città, il principato, gli ottimati e il governo popolare» (I ii 27). Se, e come, gli specifici tratti di ciascuna delle forme di governo rispecchiate dalle tre magistrature che consentono di definire «mista» la costituzione di S. contribuissero all’efficacia del reciproco controllo che impediva la degenerazione dell’intero, M. non lo spiega. Né può ritenersi soddisfacente la spiegazione offerta da Polibio (VI x 8-10). Tuttavia, di tale costituzione lo storico greco aveva posto in evidenza con grande chiarezza la particolarissima genesi, del tutto diversa da quella della costituzione di Roma, senza che ciò compromettesse, a suo dire, la stretta analogia del risultato. E, con sostanziale fedeltà alla ‘fonte’ da cui traeva ispirazione, lo scrittore fiorentino introduce questa fondamentale distinzione fin dalle linee iniziali, spiegando che
ad alcune [cittadi], o al principio d’esse o dopo nonmolto tempo, sono state date da uno solo le leggi e ad un tratto, come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani; alcune le hanno avute a caso e in più volte esecondo li accidenti, come ebbe Roma (Discorsi I ii 3).
Delle «leggi» che S. aveva ricevuto da Licurgo M. sottolinea, con parole nelle quali vi è forse un’eco di ciò che aveva scritto Tucidide (della cui opera era disponibile dal 1485 la traduzione latina di Lorenzo Valla) in I xviii 1, tanto l’eccezionale inalterabilità, quanto la pace sociale che avevano assicurato a quella repubblica: «E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno tumulto pericoloso» (Discorsi I ii 4). L’asserto, che M. ribadisce dopo essersi soffermato sull’origine della vita associata e aver illustrato (con importanti modificazioni) la teoria polibiana dell’anakỳklosis (§ 28) – alla quale la saggezza di Licurgo aveva sottratto S. –, dovrà essere in parte corretto alla luce della grave decadenza a cui Agide IV e Cleomene III avevano invano tentato di porre riparo con drastiche riforme. Ma, di questo, a suo tempo.
Se si vuol comprendere come sia accaduto che nel cap. vi alle inequivocabili affermazioni di I ii sulla sostanziale uniformità delle costituzioni di S. e di Roma si sia sostituita un’analisi che rischia di generare un’insanabile contraddizione, occorre esaminare con qualche cura la travagliata vicenda che permise a quest’ultima di raggiungere la «perfezione» della miktè:
Ma vegnamo a Roma, la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la plebe e il senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso (Discorsi I ii 30).
Nelle righe successive M. narrerà brevemente come la rivolta degli ottimati abbia abbattuto la tirannide degli ultimi Tarquini e conferito alla costituzione di Roma forma repubblicana (§§ 32-33); ma è significativo che in precedenza quest’essenziale passaggio sia stato sottaciuto, per conferire innanzi tutto la massima evidenza al ruolo svolto dalla «disunione che era intra la plebe e il senato». Sull’origine e le conseguenze di tale «disunione» il capitolo si sofferma subito dopo, narrando, sulla scorta della storia liviana (II xxxii e segg.), che «sendo diventata la nobilità romana insolente [...], si levò il popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta a cedere al popolo la sua parte» (§ 34) – parte che, in concreto, la plebe ottenne mediante la «creazione de’ tribuni», la cui principale funzione fu quella di «ovviare alla insolenzia de’ nobili» (I iii 9). Non sembra che nella ricostruzione di Polibio, così avaro di precisazioni a questo riguardo, la ‘componente’ democratica della costituzione repubblicana di Roma sia rappresentata dai tribuni (ai quali dedicò tuttavia in VI xvi 4-5 un’importante osservazione), poiché VI xii 3 e, in particolare, VI xiv 4-11, probabilmente noti a M., inducono piuttosto a credere che lo storico greco pensasse alle competenze giudiziarie, elettorali e legislative della plebe romana. La diversa scelta del suo moderno lettore racchiude il germe dell’evoluzione che la teoria esposta nel secondo capitolo subisce in quelli che lo seguono. Non può infatti sfuggire che il momento «democratico» della miktè non operava a S. nella stessa maniera in cui operava a Roma. Mentre nella prima esso tratteneva entro i limiti previsti dalla costituzione i principali organi dello Stato, nella seconda dava altresì voce a uno dei due «umori» che lottarono con grande energia fino al giorno in cui la loro contesa non travolse le istituzioni repubblicane. Considerata da questo punto di vista, che è quello dei rapporti di potere, o, se si preferisce, della partecipazione, o non partecipazione, alla gestione dello Stato, la costituzione di S. appare tanto diversa da quella di Roma che in Discorsi I vi M. potrà scrivere: «Sparta fece uno re con uno piccolo senato che la governasse» (§ 7), ‘dimenticando’ l’esistenza dell’apella, evidentemente giudicata poco significativa a questo proposito. Converrà, tuttavia, notare che, malgrado l’indubbio carattere aristocratico del suo governo, la città laconica è inclusa in quel capitolo tra «quelle republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere» (§ 5). Se non si è dimenticato che soltanto la costituzione mista può evitare la degenerazione del sistema di governo, sembra imprudente affermare che la teoria esposta in I ii è stata abbandonata; e se questo è vero, S. deve essere considerata nel medesimo tempo una repubblica aristocratica e una repubblica «mista»: aristocratica, quando dirigiamo lo sguardo verso la distribuzione del potere tra gli «umori» sociali presenti in ogni comunità politica; mista, come la considerava Polibio, quando prendiamo in esame soltanto il controllo che ciascuna delle magistrature presso le quali era concentrato il potere esercitava sulle altre. Questa scissione non si produce nel caso di Roma, perché in quella città la miktè svolge funzioni strettamente interconnesse, e le due prospettive si sovrappongono senza difficoltà, essendo facile intuire che il reciproco controllo delle magistrature trova fondamento nei contrastanti interessi di cui ciascuna di queste aveva cura. A rigore, nulla impedisce di pensare che nel corso della sua meditazione sulla «mistione» M. si sia convinto che a quest’ultimo fine fosse sufficiente la presenza di due soli centri di potere indipendenti e coordinati; tuttavia, più probabile appare che, una volta deciso di esaminare anche la costituzione spartana dal primo punto di vista, quello della distribuzione del potere politico, lo scrittore abbia considerato insignificante e non meritevole di considerazione l’assemblea popolare. In ogni caso la struttura della costituzione appariva tale da permettere a S. di conservare la libertà; da intendersi, in questa accezione, come barriera antitirannica. Vi è, infatti, «libertà» e «libertà», e quella di S. non è quella di Roma – l’unica in grado, per le «cagioni» che cercheremo di chiarire nel corso dell’analisi, di procurare allo Stato la potenza indispensabile per non soccombere alla potenza altrui, come è dimostrato dalla storia della città di Licurgo, che «avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debile fondamento suo; perché seguìta la ribellione di Tebe causata da Pelopida, ribellandosi l’altre cittadi, rovinò al tutto» (I vi 27). Ne segue che, nessun affidamento potendosi fare sulle truppe mercenarie, verso le quali la diffidenza e il disprezzo dell’autore dell’Arte della guerra sono ben noti, per assicurare lunga vita allo Stato è necessario affidare le armi ai propri cittadini e fare ogni sforzo per aumentarne il numero. Ma, e qui è il punto cruciale della questione, «se tu vuoi fare uno popolo numeroso e armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo» (I vi 21). E ciò significa che converrà permettere all’«umore» popolare di partecipare al governo e, per conseguenza, di avanzare richieste che lo pongono in costante contrasto con la classe dominante, sostenendole mediante comportamenti che, in alcune occasioni, anche se non producono danni irreparabili, eccedono il quadro della stretta legalità. Così aveva fatto Roma, avendo ben compreso quanto sia necessario consentire al popolo di «sfogare l’ambizione sua», soprattutto se si ha intenzione di valersene «nelle cose importanti», ossia nella guerra (I iv 8). Decisa a privilegiare la pace sociale, l’aristocratica S. riservò la gestione dello Stato ai due re e al piccolo senato. Di qui la necessità di prendere le precauzioni che costrinsero la città ad accontentarsi di un modesto esercito, del tutto inadeguato alla politica espansionistica da essa sconsideratamente intrapresa.
Ma vediamo un po’ meglio come M. descrive la costituzione spartana e i rapporti politici e sociali che ne discendono:
Sparta, come ho detto, era governata da uno re e da uno stretto senato. Potette mantenersi così lungo tempo perché, essendo in Sparta pochi abitatori, e avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, e avendo preso le leggi di Licurgo con riputazione (le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de’ tumulti) poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi era una equale povertà, e i plebei erano manco ambiziosi perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo nacque dai re spartani, i quali, essendo collocati in quel principato e posti in mezzo di quella nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità, che tenere la plebe difesa da ogni ingiuria; il che faceva che la plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio, né temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la nobilità e la cagione de’ tumulti, e poterono vivere uniti lungo tempo (Discorsi I vi 12-15).
All’origine di questo passo vi è l’opera biografica di Plutarco (→), e in particolare la Vita di Licurgo, che il grande Segretario leggeva nella traduzione latina di Francesco Filelfo, erroneamente attribuita a un Lapo nella raccolta delle Vite curata da Giovanni Antonio Campano, per la prima volta messa a stampa da Uldericus Gallus nel 1470. Ciò non ostante, omise, come si è notato, le scarne notizie sulle competenze dell’assemblea popolare, che, in verità, dopo la «retra» (decreto) dei re Polidoro e Teopompo (cap. vi) si riducevano al potere di eleggere, nella singolare maniera giudicata «puerile» da Aristotele (Pol. 1271a), i ventotto membri del Senato (cap. xxvi); così come solo incidentalmente citò l’importante magistratura degli efori, dei quali Plutarco dice che, sotto l’apparenza di favorire il popolo, consolidarono la vigente aristocrazia (cap. xxix).
Per spiegare che cosa abbia indotto i cittadini di S. a tollerare la palese condizione d’inferiorità politica che aveva così vigorosamente rifiutato la plebe romana, M. ricorda innanzi tutto l’«equalità di sustanze» voluta da Licurgo; e se si ricorda che il secolare contrasto tra la plebe e l’oligarchia senatoria distrusse la costituzione repubblicana di Roma non appena oggetto della contesa divenne la «roba» (Discorsi I xxxvii), se ne comprenderà la ragione. È pur vero che i «tumulti» non sarebbero stati probabilmente evitati, se la «nobilità» (i membri del senato?) avesse potuto dare libero sfogo alle inclinazioni che ovunque la caratterizzano; ma, a porle freno, provvedevano i due re, che non avevano altro mezzo di «tenere ferma la loro dignità»; talché, difesa da ogni «ingiuria», la plebe non desiderava di avere accesso al potere politico. Dell’azione svolta dai re in favore del popolo, Plutarco, che, come Platone (Leggi 691e-692a), descrive in maniera assai diversa gli interni equilibri della costituzione licurgica (cap. v), in realtà, non parla. E nessun suggerimento offriva Polibio, che non attribuisce alla diarchia alcuna parte attiva in quegli equilibri (VI x 8 e segg.). Né è facile immaginare come potessero i re conseguire il medesimo risultato ottenuto dai tribuni con la tumultuosa partecipazione della plebe. Ma quale che sia la fonte, ammesso che una fonte esista, da cui M. ha tratto le sue informazioni, evidente è la preoccupazione di spiegare l’acquiescenza del popolo; così completa che le ragioni finora addotte dovettero sembrargli insufficienti, e, quasi correggendosi, aggiunse:
Ma due cose principali causarono questa unione: l’una essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi; l’altra, che, non accettando forestieri nella loro republica, non avevano occasione né di corrompersi né di crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano (Discorsi I vi 16).
La distinzione, non molto perspicua, tra le «due cose principali» dalle quali dipese l’«unione» degli Spartani cela in sé, o, per lo meno, non rende esplicito, il nesso tra l’«essere pochi gli abitatori di Sparta», che fece sì che potessero «essere governati da pochi», e il rifiuto di accogliere i «forestieri». Nel quale M. non scorge soltanto, come Plutarco (cap. xxvii), il mezzo che aveva tenuto lontana da S. la corruzione delle altre città greche, ma, anche, e soprattutto, quello che aveva consentito di conservare la pace sociale. A ciò probabilmente pervenne mediante un personale e dubbio svolgimento del cenno del biografo greco al desiderio di evitare che gli stranieri introducessero «nuove passioni, discordi dalle istituzioni dello Stato». E il sostanziale scostamento del grande Fiorentino dalle ‘fonti’ di cui si stava servendo è molto significativo, perché del divieto di accogliere nuovi cittadini fa, in sostanza, una conseguenza della necessità di mantenere i dominati in una condizione di relativa debolezza – soprattutto, è necessario aggiungere, se si voleva evitare che, affidate loro le armi, come accadeva a S., costituissero un serio pericolo per i dominanti.
Sebbene ciò resti implicito nelle pieghe del discorso, è confermato dal fatto che, costretta dalla sua struttura aristocratica ad affrontare, nei tempi moderni, un analogo problema, Venezia, non avendo posto alcun limite all’ingresso di nuovi «abitatori», dovette rinunciare a reclutare i propri cittadini, e fu per questo costretta a fare ricorso alle truppe mercenarie, con un esito non meno catastrofico di quello che aveva posto fine all’egemonia spartana.
Se è così, occorre riaprire l’indagine sul rapporto tra i «nobili», quali che essi siano, e il popolo di Sparta. In Discorsi I v, M. aveva detto che la «libertà di Sparta e di Vinegia» aveva avuto «più lunga vita che quella di Roma» (§ 6) e il capitolo successivo l’aveva confermato. Quando scriveva quelle parole l’antico Segretario si riferiva senza dubbio alla durata della costituzione repubblicana. Ma si legga ora attentamente il passo di I xxxvii in cui lo scrittore, nonostante l’infelicissimo esito della contesa agraria, difende la sua positiva valutazione del conflitto sociale,
perché gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta per avventura molto più tosto in servitù, quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili (§§ 22-23).
L’interpretazione di queste importanti linee, nelle quali qualcuno ha scorto soltanto la volontà di difendere una tesi condannata dalla storia, è irta di difficoltà (→ guerre civili). Che cosa intende M. con «rovina»? Evidentemente la «servitù» di cui scrive subito sotto. Ma a quale «servitù» allude? Una lettura troppo rapida potrebbe indurre a rispondere: quella in cui cadono le repubbliche quando si danno forma monarchica. Ma è davvero così? Perché mai, non ostacolata, «l’ambizione de’ grandi» dovrebbe fare una monarchia di una repubblica? Si potrebbe pensare che l’ambizione li induca a lottare tra di loro al fine d’instaurare il potere di «uno», come accade nelle città «corrotte» (Discorsi I xvii 4). Ma non sarebbe facile spiegare perché l’antidoto sia costituito dagli «appetiti» dell’ordine plebeo; mentre, se si richiamano alla mente i molti testi machiavelliani che denunciano l’inflessibile volontà dei grandi di dominare e opprimere il popolo, se ne dovrà trarre la conclusione che questa, e non altra, è la «servitù» alla quale sta pensando lo scrittore. E non sorprende che sia fatta coincidere con la «rovina», quando si tenga presente ciò che si legge in I vi circa il destino degli Stati che, non offrendo al popolo alcuna possibilità di manifestare, e far valere, la propria volontà, non possono servirsene per svolgere una vittoriosa politica di conquista. Evitata la «servitù» che il tiranno impone alla «città», S. ne aveva conosciuta un’altra, forse meno grave, ma certamente meno evidente, quella a cui allude il passo di I xxxvii – come ha lasciato intendere l’analisi delle considerazioni faticosamente addotte da M. per spiegare come mai il popolo spartano avesse sopportato, senza rivoltarsi, una condizione che quello romano non avrebbe mai tollerato.
Si dirà, con M., che S. aveva avuto una lunghissima vita, avendo prosperato fino al disastro di Leuttra. Ma la sua vita fu lunghissima perché, fino a quel giorno, non aveva mai dovuto confrontarsi, da sola, con una grande potenza. Non più breve fu, del resto, la vita di Roma: più breve fu la durata della sua «libertà». Tuttavia, la «libertà» di cui aveva goduto per circa tre secoli le procurò la potenza che le permise di prolungare la sua esistenza sotto forma imperiale; mentre la «libertà» di S. non le impedì di crollare non appena la «fortuna» smise di assisterla, costringendola a mettere alla prova la sua forza. È vero che M. abbozza il progetto di uno Stato pacifico e validamente difeso, che non solo scoraggi gli aggressori, ma non dia motivo di aggredirlo; come è vero che giunge ad affermare che proprio questo «sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete di una città», se mai fosse possibile «tenere la cosa bilanciata in questo modo» (I vi 33). Il carattere ipotetico del periodo avverte, tuttavia, che si tratta di un miraggio della «ragione», destinato a essere dissolto dal concreto dinamismo della storia. E il geniale Fiorentino lo rende esplicito: «Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità» (§ 34). Talché conquistare può rivelarsi, appunto, una necessità, e non esservi preparati significa andare incontro a sicura rovina.
Ricordata ancora una volta la necessità di sacrificare la pace sociale alla potenza e di concedere al popolo il potere che le repubbliche aristocratiche gli negano, questo rapido esame del cap. vi potrebbe aver termine. Ma le iniziative di Agide IV e di Cleomene III ricordate dal ix (§§ 15-18) e dal xviii (§ 30) rendono necessario che sulla storia di Sparta, nei cui confronti M. non condivide la generale ammirazione che si protrasse, non senza contrasti, fino al 18° sec. – e fu sciaguratamente utilizzata nel 20° –, ci si soffermi ancora; poiché, nonostante ciò che sostiene I ii, occorre ammettere che nel corso del tempo anche la sua esemplare costituzione subì importanti alterazioni, alle quali i due re si erano sforzati, in tempi diversi e con diverso successo, di porre rimedio. In I ix M. narra che,
desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua città avesse perduto assai di quella antica virtù, e per conseguente di forze e d’imperio, fu ne’ suoi primi principii ammazzato dagli efori spartani come uomo che volesse occupare la tirannide (§ 15).
Il progetto di Agide, che regnò dal 250 al 240 a.C., fu però ripreso da Cleomene che, una volta sterminati gli oppositori, lo stava conducendo al successo, quando, nel 222 a.C., fu attaccato e costretto all’esilio dalla lega acheo-macedone (§§ 16-17).
Come ben vide Alexander Haggerty Krappe (Quelques sources grecques de Niccolò Machiavelli, «Études italiennes», 1924, 6, pp. 80-90) circa cento anni or sono, la ‘fonte’ principale alla quale attinse M. è costituita dalla traduzione latina delle Vite di Agide e di Cleomene dovuta ad Alamanno Rinuccini, e attribuita per errore ad Antonio Tudertino nella citata raccolta delle biografie plutarchee curata da Campano, dove manca la comparatio con i Gracchi, delle cui «vite» era presente, in quella raccolta, la traduzione di Leonardo Bruni. E, nella biografia di Agide, M. avrà letto della grave corruzione insinuatasi in Sparta e della condizione d’indigenza nella quale la concentrazione della ricchezza, resa possibile dalla «retra» di Epitadeo, aveva costretto la maggior parte degli spartiati, il cui numero si era ridotto a settecento (capp. iii e v). Ma per risalire all’origine della crisi, occorre tornare alla Vita di Licurgo, dove l’autore ricorda l’errore commesso da Lisandro che, mosso dal lodevole intento di accrescere le finanze pubbliche, aveva introdotto in patria l’ingente quantitativo di metalli preziosi di cui si era impadronito nel corso delle sue fortunate campagne belliche, suscitando negli Spartani un riprovevole desiderio di ricchezza (cap. xxx). Il positivo giudizio di M. sul riformismo cleomenico, considerato idoneo «a fare risuscitare Sparta», richiede che si tenti di comprenderne la ragione: il sesto capitolo aveva infatti recato alla luce gli insuperabili limiti – che l’intenzione di riscattare il disastroso esito della battaglia di Leuttra avrebbe reso urgente rimuovere – delle «leggi di Licurgo», ripristinate «in tutto» da Cleomene. Dobbiamo dunque domandarci che cosa abbia indotto l’autore dei Discorsi a condividere l’ammirazione di Plutarco verso il riformatore spartano, piuttosto che il negativo giudizio di Polibio. Difficilmente M. avrà avuto occasione di conoscere un importante passo (IV lxxxi 12-14) che non figura nella traduzione dei primi cinque libri delle Storie dovuta a Niccolò Perotti, messa a stampa a Roma nel 1472; ma non dovrebbe essergli sfuggito che in II xlvii 3 Cleomene è accusato di aver trasformato in tirannide l’autorità che legittimamente possedeva («Iam uero procedente bello, cum Cleomenes pessundata republica legitimo imperio in tyrannidem uertisset»). Ma è anche vero che in quella lacunosa e non sempre fedele traduzione il giudizio di Polibio appare particolarmente incerto e oscillante. In compenso, netto è in De Officiis II xxiii 80 quello di Cicerone su coloro che, come Agide (e, per conseguenza, Cleomene), cercavano il favore del popolo mediante la remissione dei debiti e la ridistribuzione della terra coltivabile:
Ac propter hoc iniuriae genus Lacedaemonii [...] Agim regem, quod numquam antea apud eos acciderat, necauerunt; exque eo tempore tantae discordiae secutae sunt, ut et tyranni existerent et optimates exterminarentur, et praeclarissime costituta res publica dilaberetur. [...]. Quid? Nostros Gracchos [...] nonne agrariae contenmtiones perdiderunt?
Per simili ingiustizie gli Spartani [...] uccisero il re Agide, caso che non si era mai verificato a Sparta, e ne ebbero origine tante discordie, e poi le tirannie, e la cacciata degli ottimati, e quello stato, così ben ordinato, rovinò del tutto [...] E che? Da noi i Gracchi [...] non andarono forse incontro alla rovina per le loro lotte sulla questione agraria? (Cicerone, I doveri, trad. it. di A. Resta Barrile, 1987).
M. avrà certamente conosciuto quest’importante luogo, che, con diverso intento, richiama l’attenzione sul parallelo istituito da Plutarco con i due fratelli romani. E, come spesso gli accadeva, non avrà condiviso l’opinione di chi lo prospettava.
Lo Scrittore non dice quale fosse il concreto contenuto delle riforme progettate da Agide, e in gran parte attuate da Cleomene. Tuttavia abbiamo visto che la caratteristica saliente della legislazione licurgica, integralmente ripristinata da quest’ultimo, era l’«equalità di sustanze». Cosa che, nonostante la loro incontestabile diversità, consentiva di avvicinare i riformatori spartani ai due tribuni romani, dei quali, in Discorsi I xxxvii, M. aveva aspramente condannato le rivoluzionarie iniziative – che, prese quando il tempo utile era ormai trascorso da più di due secoli, avevano accelerato la rovina della Repubblica – ma non, ed è importante notarlo, l’«intenzione». Al contrario dei Gracchi, Cleomene, al quale solo «la potenza de’ Macedoni e la debolezza delle altre republiche greche» (Discorsi I ix 17) avevano impedito di avere successo, non poteva dunque essere condannato. Meritava, anzi, ammirazione per aver preso un’iniziativa atta a contrastare il declino al quale l’eccessiva diseguaglianza economica condanna le repubbliche. Diverso è, senza dubbio, il caso di Nabide (→), che aveva adottato analoghi provvedimenti tra il 207 e il 192 a.C.: benché gli antichi storici pervenutici, e lo stesso Livio, lo descrivano come un feroce tiranno profondamente odiato dai sudditi, tanto nel cap. ix del Principe, quanto in Discorsi I xl, Nabide è celebrato come esemplare figura di principe che aveva saputo conquistare il favore del popolo. Mentre Cleomene è il simbolo dell’energica praxis che consente a una repubblica di conservare la propria forma costituzionale, Nabide costituisce la dimostrazione di come un principe debba agire quando la gravità della corruzione esige l’abbandono della forma repubblicana. Ciò non ostante, enfatizzare la contraddizione, che la vicenda dei tardi riformatori di Sparta apre con le perentorie affermazioni di Discorsi I ii circa la lunghissima «quiete» assicurata alla città greca dall’inalterabilità della sua costituzione, significherebbe preferire la coerenza formale alla sostanza concettuale: a ben guardare, infatti, in quel capitolo M. nulla aveva concesso alla pretesa che la costituzione mista fosse in grado di espellere definitivamente da se medesima il tempo e la «fortuna».
Bibliografia: Fonti: Polibio, II xlvii 3, IV lxxxi 12-14, VI iii-xviii; Plutarco, Licurgo, Agide e Cleomene, Tiberio e Caio Gracco; Livio, XXXII vi-vii, xxxviii-xl; XXXIII xliv 8; XXXIV xxii-xl, xlviii 3-6.
Per gli studi critici si vedano: G. De Sanctis, Licurgo, in Enciclopedia Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 21° vol., Roma 1934, ad vocem; G. De Sanctis, Storia dei Greci dalle origini alla fine del secolo V, 1° vol., Firenze 1939, pp. 484-500; F. Pozzi, Sparta e i partiti politici tra Cleomene III e Nabide, «Aevum», 1970, 44, 5, pp. 398-414; G. Marasco, Commento alle biografie plutarchee di Agide e di Cleomene, 2 voll., Roma 1981; G. Sasso, Machiavelli e la teoria dell’“anacyclosis” e Machiavelli e Polibio. Costituzione, potenza, conquista, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, rispettiv. pp. 3-65, 67-118; G. Cadoni, Machiavelli e i tardi riformatori di Sparta, in Id., Crisi della mediazione politica e conflitti sociali. Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Donato Giannotti di fronte al tramonto della Florentina libertas, Roma 1994, pp. 47-91; D. Musti, Storia greca, Roma-Bari 2006, pp. 141-47, 726; G.G. Balestrieri, Machiavelli e la doppia fondazione della dottrina dei conflitti sociali, «La cultura», 2010, 48, pp. 459-502, in partic. pp. 484-90; G. Cadoni, Contributo all’esegesi dei primi nove capitoli dei Discorsi, di prossima pubblicazione nel «Pensiero politico». Cfr. inoltre le voci Gracchi, Nabide e principato: principato civile, della presente Enciclopedia machiavelliana.