Abstract
L’ossatura della disciplina internazionale delle attività spaziali è data dai cinque trattati di codificazione elaborati nell’ambito delle Nazioni Unite tra il 1966 e il 1979. Tra questi, il Trattato sullo spazio del 1967 enuncia i principi fondamentali della materia: in particolare il principio di libertà dello spazio e quello della responsabilità degli Stati per le attività private. Negli anni recenti il diritto dimostra una certa difficoltà di adeguamento in relazione agli sviluppi della prassi.
L’avvio delle attività nello spazio extra-atmosferico, con il lancio in orbita del satellite Sputnik da parte dell’Unione Sovietica il 4 ottobre 1957, diede luogo in tempi rapidi alla elaborazione, nell’ambito delle Nazioni Unite, di norme internazionali destinate a regolarle. Dati i rilevanti interessi politici e strategici coinvolti, l’Assemblea generale affidò il compito di preparare i progetti di codificazione della disciplina delle attività spaziali ad un apposito Comitato intergovernativo, costituito ad hoc nel 1958 e reso permanente con la Ris. 1472 (XIV) del 12 dicembre 1959. Il Comitato sugli usi pacifici dello spazio extra-atmosferico (Committee on the peaceful uses of outer space, COPUOS) comprende attualmente 71 Stati (inclusi praticamente tutti quelli impegnati in attività spaziali). A partire dal 1962, i suoi lavori si articolano in due sottocomitati, tecnico-scientifico e giuridico. I progetti di atti normativi sono elaborati in seno al sottocomitato giuridico e approvati dal Comitato in seduta plenaria prima di essere trasmessi all’Assemblea generale.
L’elaborazione normativa si espresse in primo luogo attraverso talune risoluzioni dell’Assemblea generale. In particolare, con la Ris. 1962 (XVIII) del 13 dicembre 1963, contenente la Dichiarazione dei principi giuridici che disciplinano le attività degli Stati nell’esplorazione e nell’utilizzo dello spazio extra-atmosferico, l’Assemblea delineò il quadro dei principi giuridici fondanti, che sarebbero poi stati enunciati e sviluppati per via pattizia. Tra il 1966 e il 1979 l’Assemblea generale procedette infatti ad adottare cinque trattati tesi a codificare in forma vincolante l’intera disciplina delle attività spaziali, per vari aspetti in netto anticipo sui tempi: il Trattato sui principi che reggono le attività degli Stati nell’esplorazione e nell’utilizzo dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, adottato il 19 dicembre 1966 e aperto alla firma il 27 gennaio 1967 (Trattato sullo spazio); l’Accordo sul salvataggio degli astronauti, la restituzione degli astronauti e la restituzione degli oggetti lanciati nello spazio, adottato il 19 dicembre 1967 e aperto alla firma il 22 aprile 1968 (Accordo sugli astronauti); la Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali, adottata il 29 novembre 1971 e aperta alla firma il 29 marzo 1972 (Convenzione sulla responsabilità); la Convenzione sull’immatricolazione degli oggetti lanciati nello spazio, adottata il 12 novembre 1974 e aperta alla firma il 14 gennaio 1975 (Convenzione sull’immatricolazione); l’Accordo che regola le attività degli Stati sulla luna e sugli altri corpi celesti, adottato il 5 dicembre 1979 e aperto alla firma il 18 dicembre (Accordo sulla luna). Al di là delle procedure e delle sedi istituzionali utilizzate, decisivo nel determinare i tratti essenziali della disciplina delle attività spaziali è stato il contributo di USA e URSS.
Tale spinta propulsiva iniziale è però presto venuta esaurendosi. Le attività spaziali hanno continuato ad evolversi, ponendo problemi nuovi, dalla crescente commercializzazione e privatizzazione all’affollamento delle orbite con i pericoli che vi sono collegati alla comparsa delle prime forme di “turismo spaziale”, cui gli Stati non hanno saputo (o voluto) fare fronte con la produzione di nuove norme giuridiche vincolanti o con l’aggiornamento di quelle esistenti. Si è invece ritornati, nei decenni successivi, tanto nell’ambito delle Nazioni Unite quanto in fori a queste esterni, alla produzione di norme di soft law, caratterizzate da un livello di formalità sempre più ridotto: risoluzioni dell’Assemblea generale (è il caso in particolare dei Principi in materia di televisione diretta via satellite del 10 dicembre 1982, dei Principi sul telerilevamento del 3 dicembre 1986 e dei Principi in materia di uso delle fonti di energia nucleare nello spazio del 14 dicembre 1992), direttive promananti dall’attività coordinata delle principali agenzie spaziali, codici di condotta. Fonti indubbiamente di valenza formale non paragonabile a quella dei trattati, ma più flessibili e non necessariamente meno efficaci.
Tra i principi fondamentali enunciati nel Trattato occupa un posto centrale quello di libertà, in base al quale lo spazio extra-atmosferico (includendo sempre in tale concetto la luna e gli altri corpi celesti) può essere utilizzato liberamente da tutti gli Stati su base di uguaglianza e in conformità del diritto internazionale (art. I, par. 2) e lo spazio e i corpi celesti non sono suscettibili di appropriazione nazionale né attraverso pretese all’esercizio della sovranità né in qualsiasi altro modo (art. II). Si configura pertanto per lo spazio extra-atmosferico un regime di res communis omnium analogo a quello vigente nell’alto mare o nello spazio aereo a questo sovrastante. Il terzo par. dell’art. I enuncia la libertà della ricerca scientifica nello spazio.
Si può ritenere che il regime di libertà dello spazio si sia presto affermato quale norma consuetudinaria, dal momento che fin dal lancio dei primi satelliti non emersero contestazioni da parte degli Stati il cui territorio si trovava ad essere sorvolato dai satelliti artificiali orbitanti.
Né vale a scalfire l’esistenza di siffatto regime il primo par. dell’art. I, secondo il quale l’esplorazione e l’utilizzo dello spazio devono avvenire a beneficio e nell’interesse di tutti i Paesi e costituiscono appannaggio dell’umanità intera (“the province of all mankind”). Tale clausola si limita ad imporre una particolare attenzione nell’esplicazione della libertà di esplorazione ed uso affinché sia garantito a tutti gli Stati l’accesso allo spazio e specificatamente alle risorse ivi presenti in quantità limitata e che risultano più facilmente esauribili. Del resto la Dichiarazione sulla cooperazione internazionale nell’esplorazione e nell’utilizzo dello spazio a beneficio e nell’interesse di tutti gli Stati, tenendo particolarmente in considerazione i bisogni dei Paesi in via di sviluppo, adottata dall’Assemblea generale con Ris. 51/122 del 13 dicembre 1996, ribadisce (par. 2) che la cooperazione internazionale rimane libera quanto alla ricerca dei partner, al contenuto e alle modalità del suo dispiegarsi.
Il Trattato, che è entrato in vigore il 10 ottobre 1967, vincolava, a fine 2012, 101 Stati, compresi quasi tutti quelli impegnati in attività spaziali. Ad eccezione del principio di libertà e del connesso divieto di appropriazione dello spazio la corrispondenza alla consuetudine internazionale di altre norme del Trattato è dibattuta.
Il Trattato sullo spazio regola in modo nuovo i rapporti tra Stati e privati. L’art. VI, infatti, stabilisce che sugli Stati parte gravi la responsabilità (responsibility) per le attività nazionali nello spazio, comprese quelle poste in essere da entità non governative, e che essi debbano vegliare a che le attività nazionali siano condotte nel rispetto del Trattato. La norma prosegue prevedendo che le attività svolte da entità non governative richiedano l’autorizzazione e la sorveglianza continua da parte dello Stato parte appropriato.
La norma dà luogo a vari problemi interpretativi. Un primo profilo riguarda il concetto di “attività nazionali”: secondo la lettura dominante (anche la prassi sembra orientata in questo senso) esso comprende sia le attività poste in essere da cittadini o da persone giuridiche aventi la nazionalità dello Stato in questione sia quelle che vengono poste in essere a partire dal territorio dello Stato. Il profilo più critico concerne peraltro l’individuazione dello “Stato appropriato”, tenuto ad autorizzare e sorvegliare. Secondo logica esso deve coincidere con lo Stato “responsabile” per le attività private e tenuto a garantire che esse rispettino le norme del Trattato (e indubbiamente anche del diritto internazionale generale). Ma nel caso in cui coesistano più Stati responsabili, è dubbio se sussista un solo Stato appropriato o tutti debbano considerarsi appropriati, dando luogo ad un sistema di licenze multiple e multipli controlli.
La norma dell’art. VI comporta l’attribuzione allo Stato delle attività spaziali private nazionali, il che determina una divergenza radicale rispetto ai principi generali codificati nel Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati approvato in seconda lettura nel 2001 dalla Commissione del diritto internazionale. La ragione di questa disciplina sta in un compromesso raggiunto tra USA e URSS: i primi, infatti, erano favorevoli alla più ampia libertà di iniziativa privata nello spazio, mentre la seconda avrebbe voluto riservare lo svolgimento di attività spaziali in modo esclusivo agli Stati. Si può comunque ritenere che il severo regime di controllo e responsabilità statale trovi una sua giustificazione in relazione alla pericolosità delle attività spaziali, dal punto di vista delle possibili interferenze dannose con altre attività svolgentisi nello spazio e delle possibili ricadute sulla superficie terrestre. Essenziale per l’attuazione dell’art. VI, così come di altre norme dei trattati, è il ruolo delle legislazioni nazionali in materia spaziale, oggetto di un notevole sviluppo negli ultimi anni.
Gli altri principi portanti enunciati nel Trattato vengono sviluppati negli accordi successivi.
Il Trattato sullo spazio prevede anche, all’art. VII, una disciplina apposita per la responsabilità (liability) per danni causati dagli oggetti lanciati nello spazio, i cui contorni sono precisati nella Convenzione sulla responsabilità. Della Convenzione sono parte tutte le principali potenze spaziali. La disciplina riguarda i danni causati a Stati, persone fisiche e giuridiche da oggetti spaziali (non sono definiti, ma si tratta di tutti gli oggetti lanciati dall’uomo nello spazio): la responsabilità grava sullo Stato di lancio, definito come lo Stato che lancia o fa lanciare un oggetto spaziale o dal cui territorio o dalla cui base di lancio l’oggetto è lanciato. La responsabilità è assoluta nel caso di danni causati sulla superficie terrestre o ad aeromobili in volo (lo Stato di lancio sarà esentato solo dal risarcire i danni che dimostri derivanti dalla colpa di chi li ha subiti); per colpa nel caso di danni causati ad altri oggetti spaziali, al di fuori della superficie terrestre.
La Convenzione persegue chiaramente l’obiettivo di garantire nel modo più ampio possibile la riparazione a favore delle “vittime innocenti” di danni causati dalle attività spaziali. Essa dimostra però la sua debolezza sul piano delle procedure: in caso di controversia è prevista soltanto una forma di conciliazione, seppure “rafforzata”, cui il privato non può direttamente accedere.
D’altra parte la Convenzione non chiarisce i rapporti tra la liability da essa disciplinata e la responsibility di cui all’art. VI del Trattato sullo spazio e ciò può porre problemi in particolare per quanto riguarda le attività spaziali private, che non sono direttamente prese in considerazione. Se è evidente che il sovrano territoriale sia sempre responsabile per danni, quale Stato di lancio, la lacuna è evidente nel caso di lanci effettuati dall’alto mare o dallo spazio aereo internazionale. Per quanto attiene agli Stati parte dei due strumenti occorre ritenere che lo Stato “nazionale” di un privato che lanci o faccia lanciare un oggetto spaziale, o dalla cui base di lancio l’oggetto sia lanciato, si qualifichi automaticamente quale Stato di lancio, proprio perché in virtù dell’art. VI del Trattato le attività del privato gli sono attribuite. La soluzione potrebbe non essere diversa sul piano del diritto internazionale consuetudinario, ove si ritenesse che la norma di cui all’art. VI del Trattato sullo spazio sia ormai entrata a far parte della consuetudine internazionale.
L’unico incidente che ha chiamato in causa la Convenzione del 1972 è, ad oggi, quello occorso al Cosmos 954, satellite militare sovietico con fonte di energia nucleare a bordo disintegratosi sopra vasti territori del nord ovest canadese nel gennaio 1978. La caduta non provocò danni a persone o a beni, dato che le zone colpite erano disabitate, ma il Canada diede avvio ad un’ampia operazione tesa a rimuovere dal terreno i frammenti del satellite sovietico, alcuni dei quali altamente radioattivi, e chiese all’Unione Sovietica il risarcimento dei danni, calcolati sulla base dei costi delle operazioni di pulizia e recupero, basando la sua pretesa in particolare sulla Convenzione sulla responsabilità. La soluzione della controversia tra i due Stati non offrì peraltro una risposta certa alla questione se la Convenzione coprisse effettivamente danni ambientali del tipo di quelli lamentati dal Canada: a seguito di negoziato, l’Unione Sovietica acconsentì infatti a versare al Canada la metà della somma richiesta in origine, senza peraltro riconoscere formalmente la propria responsabilità ai sensi della Convenzione. L’incidente fu però rivelatore del pericolo rappresentato dall’uso di fonti di energia nucleare a bordo degli oggetti spaziali, tanto che il COPUOS elaborò dei principi in materia di uso delle fonti di energia nucleare nello spazio, recepiti nella Ris. 47/68 del 14 dicembre 1992 dell’Assemblea generale, contenenti misure di sicurezza miranti a prevenire o a limitare i danni.
L’oggetto spaziale è il mezzo precipuo attraverso il quale vengono poste in essere le attività spaziali e, nel raro caso dei veicoli abitati, la comunità viaggiante che in questo ambiente si muove ed opera. Analogamente a quanto accade per le navi e per gli aeromobili nei rispettivi ambienti, anche l’oggetto spaziale e le persone eventualmente presenti a bordo sono soggetti, nello spazio extra-atmosferico, al potere di governo (jurisdiction) esclusivo dello Stato che immatricola l’oggetto nel proprio registro e che possiamo qualificare “nazionale”, anche se non è formalmente indicato come tale nel Trattato sullo spazio. L’art. VIII di quest’ultimo si limita infatti a stabilire che lo Stato parte sul cui registro è iscritto un oggetto lanciato nello spazio «manterrà sotto la sua giurisdizione e il suo controllo tale oggetto e tutto il suo equipaggio allorquando si trovino nello spazio extra-atmosferico o su un corpo celeste».
Stranamente lo stesso Trattato non impone agli Stati parte di immatricolare gli oggetti spaziali. L’obbligo è stato posto soltanto dalla Convenzione sull’immatricolazione del 1975, che prevede che esso gravi sullo Stato di lancio, la cui definizione corrisponde a quella della Convenzione sulla responsabilità. La Convenzione, che vincola la maggior parte, ma non tutte le potenze spaziali (l’Italia l’ha ratificata solo nel 2005), istituisce anche un registro internazionale degli oggetti spaziali presso il Segretario generale delle Nazioni Unite: gli Stati immatricolanti sono tenuti a trasmettere ai fini della iscrizione su tale registro talune informazioni essenziali. Il registro internazionale funzionava già antecedentemente all’entrata in vigore della convenzione, essendo stato istituito in ottemperanza della Ris. 1721 (XVI) dell’Assemblea generale del 20 dicembre 1961 e tuttora taluni Stati procedono all’iscrizione degli oggetti spaziali su base volontaria, attenendosi alla raccomandazione contenuta nella predetta risoluzione.
Il registro internazionale, pubblico e accessibile on line, svolge una funzione teoricamente di rilievo al fine di garantire trasparenza nello svolgimento delle attività spaziali, ma le informazioni richieste sono molto scarne e l’insieme della disciplina di dubbia efficacia. La pubblicità dei lanci, tra l’altro, dovrebbe facilitare l’identificazione dello Stato responsabile nel caso di danni o di attività illecite compiute da un oggetto spaziale. Lo Stato di immatricolazione, in quanto Stato di lancio, è infatti necessariamente responsabile per i danni causati dall’oggetto spaziale e, allo stesso tempo, deve certamente considerarsi, dal punto di vista della responsabilità per le attività private di cui all’art. VI del Trattato sullo spazio, quale Stato nazionale. Va peraltro ricordato che la responsabilità dello Stato immatricolante non esclude quella di altri Stati “nazionali” o che rientrino nella definizione di “Stato di lancio”.
L’attività degli astronauti si caratterizza per gli elevati pericoli che essa comporta: ciò spiega l’attenzione particolare dedicata dal diritto fin dalle prime missioni abitate nello spazio alla loro protezione. L’art. V del Trattato stabilisce che gli Stati parte considereranno gli astronauti «inviati dell’umanità nello spazio extra-atmosferico» e prevede che essi debbano essere assistiti in caso di incidente o di atterraggio di emergenza sul territorio di un altro Stato parte o di ammaraggio in alto mare. Prevede inoltre che nello spazio gli astronauti di uno Stato parte debbano prestare assistenza a quelli di altri Stati parte. Queste previsioni sono ampliate e precisate nell’Accordo sugli astronauti del 1968, anch’esso vincolante pressoché tutti gli Stati impegnati in attività spaziali.
Oggi peraltro, a seguito dei fenomeni di commercializzazione e privatizzazione delle attività spaziali nonché degli sviluppi tecnologici, agli astronauti in senso stretto si sono aggiunti passeggeri paganti di varia natura (scienziati, semplici “turisti”). Risulta difficile sostenere che in particolare questi ultimi possano considerarsi “inviati dell’umanità”. D’altra parte le norme che prevedono obblighi di assistenza degli astronauti in difficoltà corrispondono a principi umanitari che appartengono al diritto internazionale generale e devono applicarsi a tutte le persone presenti nello spazio, per qualunque motivo e a qualunque titolo. Codici di condotta per gli astronauti sono previsti soltanto nel quadro di accordi disciplinanti specifici progetti, come nel caso della Stazione spaziale internazionale.
Nei casi di incidente è prevista la restituzione degli astronauti e degli oggetti spaziali allo Stato di immatricolazione.
Le attività spaziali possono produrre inquinamento tanto nello spazio extra-atmosferico o sui corpi celesti quanto nello spazio aereo e sulla superficie terrestre. Il problema più cospicuo è rappresentato dal debris, costituito dai satelliti ormai non più operativi e dai vari materiali o frammenti rilasciati dalle missioni spaziali o risultanti dalla disintegrazione di oggetti spaziali presenti in orbita, fonte di pericolo sia in vista della più o meno prossima ricaduta sulla superficie terrestre, sia, e ancor più, per gli oggetti spaziali operativi presenti in orbita, a maggior ragione per quelli abitati. L’affollamento è particolarmente grave nelle orbite basse, ma è anche serio nell’orbita geostazionaria, preziosa per le attività di telecomunicazione.
Del pericolo del debris si è presa coscienza relativamente tardi. I trattati non ne fanno cenno, anzi dedicano scarsa attenzione al tema dell’inquinamento. L’unica norma direttamente applicabile al caso, l’art. IX del Trattato sullo spazio, da un lato si preoccupa di prevenire la contaminazione dell’ambiente spaziale e dei corpi celesti e quella dell’ambiente terrestre dovuta all’introduzione di sostanze extraterrestri; dall’altro, in una prospettiva più ampia, impone agli Stati parte di tener conto, nel condurre attività spaziali, degli analoghi interessi degli altri Stati parte e di avviare consultazioni ogniqualvolta ritengano che un’attività che essi o i loro cittadini intendono intraprendere nello spazio rischi di interferire in modo dannoso nelle attività spaziali di altri Stati parte. Questa norma si integra e completa con i principi di diritto internazionale generale formatisi successivamente in materia ambientale, in particolare con il divieto di inquinamento transfrontaliero e con gli obblighi di informazione e consultazione a fronte dello svolgimento di attività potenzialmente dannose per l’ambiente di altri Stati o per gli ambienti non soggetti a sovranità.
Ma tali principi generali risultano insufficienti ad individuare il comportamento richiesto dagli Stati al fine della prevenzione della formazione di debris o della sua riduzione in modo da contenere i danni. Solo in anni recenti si è giunti a una qualche forma di regolamentazione del fenomeno, seppure non attraverso la via maestra del trattato internazionale. Direttive non vincolanti tese alla “mitigation” del debris sono state adottate nel 2002 in seno ad un organismo informale che raggruppa le principali agenzie spaziali del mondo, lo Inter-Agency Debris Coordination Committee (IADC). Analogo codice di condotta è stato adottato da un coordinamento delle agenzie europee nel 2004. Nel 2007 è stato compiuto il passo più significativo, con la trasposizione del contenuto delle direttive IADC nelle Space Debris Mitigation Guidelines adottate dal COPUOS (l’Assemblea generale si è limitata ad esprimere il suo appoggio). Tali direttive prevedono, tra le altre, misure tese a rimuovere dall’orbita i satelliti non più operativi, provocandone la caduta controllata verso terra nel caso degli oggetti situati nelle orbite basse, la proiezione su orbita più alta per quanto riguarda gli oggetti situati sull’orbita geostazionaria.
Gli usi militari dello spazio rivestono, tutt’oggi, un’importanza fondamentale. Anzi, il rischio che la colonizzazione militare dello spazio si faccia sempre più pervasiva è concreto. Il diritto vigente si contenta di porre alcuni limiti. L’art. IV del Trattato sullo spazio proibisce la collocazione in orbita intorno alla terra o in qualunque altro modo nello spazio di armi nucleari o di altre armi di distruzione di massa, cioè di armi chimiche e biologiche. La norma non intacca la questione della liceità del lancio di missili balistici intercontinentali trasportanti ordigni nucleari, che attraversano sì lo spazio orbitale, ma non vengono “collocati” in orbita, poiché nel loro tragitto compiono solo un breve tratto di orbita intorno alla terra e non un’orbita completa. La previsione va integrata con quella del Trattato dell’8 agosto 1963 per un divieto parziale degli esperimenti nucleari, che proibisce, tra gli altri, gli esperimenti nucleari nello spazio extra-atmosferico.
Ben più pregnanti sono i divieti contenuti nel secondo paragrafo dell’art. IV in relazione alla luna e agli altri corpi celesti: la norma prevede che questi siano usati esclusivamente a scopi pacifici e che la costituzione sui corpi celesti di basi militari, la sperimentazione di qualunque tipo di arma e la condotta di manovre militari siano proibite, rimanendo lecito l’utilizzo di personale militare o di equipaggiamento a fini di ricerca scientifica o per altri scopi pacifici. Non vi è dubbio che la norma bandisca completamente qualunque utilizzo militare della luna e degli altri corpi celesti.
Rimane libero, invece, qualunque diverso utilizzo militare delle orbite e dello spazio vuoto, il quale si mantenga nei limiti fissati dallo ius ad bellum (ricordati anche dall’art. III del Trattato sullo spazio) e dallo ius in bello. Il Trattato del 1972 tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sulla limitazione dei sistemi antimissili balistici (Trattato ABM), che vietava l’installazione (tra l’altro) nello spazio extra-atmosferico di componenti di sistemi tesi ad intercettare i missili balistici dell’avversario (il c.d. scudo spaziale) è stato denunciato nel 2002 dagli Stati Uniti. I tentativi fatti negli ultimi anni in seno alla Conferenza sul disarmo di elaborare un trattato che bandisca o quantomeno limiti la weaponization dello spazio, la cui pericolosità non necessita di dimostrazione, non sono ad oggi andati a buon fine.
L’Accordo del 1979, pur essendo entrato in vigore nel 1984, ha importanza ridotta: a fine 2012 vincolava soltanto tredici Stati, nessuno dei quali impegnato in attività spaziali in modo significativo. Il dato va ricondotto alla previsione del principio del patrimonio comune dell’umanità, che l’Accordo applica alla luna e alle sue risorse naturali (art. 11.1; l’art. 1.1 precisa che le disposizioni che riguardano la luna si estendono anche agli altri corpi celesti del sistema solare, ad eccezione della terra). A differenza peraltro della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 (in relazione alle risorse dei fondi marini al di là dei limiti delle giurisdizioni nazionali), l’Accordo del 1979 non articola il regime internazionale in base al quale lo sfruttamento delle risorse della luna potrà avere luogo, limitandosi a prevedere, all’art. 11.5, che tale regime dovrà essere istituito in sede di revisione dell’Accordo non appena lo sfruttamento in questione stia per diventare fattibile e a stabilire gli obiettivi generali dello stesso (art. 11.7): una valorizzazione ordinata e sicura delle risorse della luna, una loro gestione razionale, lo sviluppo delle possibilità di utilizzo delle stesse e la ripartizione dei benefici che ne derivano tra tutti gli Stati, tenendo in particolare considerazione le esigenze dei Paesi in via di sviluppo nonché gli sforzi di quelli che abbiano maggiormente contribuito all’esplorazione della luna.
È difficile dire se il principio del patrimonio comune abbia acquisito in relazione alla luna e ai corpi celesti e alle loro risorse valenza di diritto consuetudinario: esso non fu avversato in quanto tale in sede di negoziazione dell’Accordo, anche se le potenze spaziali hanno successivamente preferito mantenere le mani libere. Il fatto è che il principio in quanto tale, in assenza di un regime internazionale che lo concretizzi, non dice granché, ad esempio sulla liceità o meno dello sfruttamento unilaterale delle risorse.
Allo stato degli atti, la discussione verte però sull’interpretazione dell’art. II del Trattato sullo spazio laddove esso vieta l’appropriazione nazionale dello spazio e dei corpi celesti, tra l’altro, «tramite uso o occupazione o qualsiasi altro mezzo» e dell’art. 11.3 dell’Accordo sulla luna che a tale previsione ne aggiunge una più specifica secondo cui «né la superficie né il sottosuolo della luna, né una porzione qualunque di questa o le risorse naturali che vi si trovano possono divenire proprietà di alcuno Stato, organizzazione internazionale, ente non governativo o persona fisica»; d’altra parte l’art. 6.2 dell’Accordo precisa che gli Stati parte hanno il diritto, nell’effettuare ricerche scientifiche sulla luna, di raccogliere esemplari di minerali e altre sostanze. Le disposizioni dell’Accordo sembrano poco compatibili con qualunque attività di sfruttamento unilaterale da parte di Stati o privati, in attesa della istituzione del previsto regime internazionale. La questione è molto più controversa alla luce della scarna disposizione del Trattato né possono ricavarsi indicazioni dalla prassi, tuttora inesistente. Ciò che è certo è che qualunque pretesa, da parte di chiunque, all’esercizio di diritti di proprietà su porzioni del suolo lunare o dei pianeti o asteroidi è nulla alla luce dell’art. II e, occorre ritenere, del corrispondente diritto internazionale generale.
Varie attività spaziali sono svolte in cooperazione tra più Stati: la cooperazione consente di ridurre i costi gravanti su ciascuno Stato e di mettere a frutto le diverse esperienze e competenze. Un esempio cospicuo è dato dalla Stazione spaziale internazionale, la più grande struttura orbitante e l’unica permanentemente abitata, costituita sulla base di un Accordo intergovernativo del 29 gennaio 1998 tra Stati Uniti, Canada, Federazione Russa, Giappone e undici governi di Stati membri dell’Agenzia spaziale europea tra i quali l’Italia. In tale accordo si ritrovano soluzioni interessanti e a volte innovative a questioni di immatricolazione, giurisdizione e controllo e in particolare giurisdizione in materia penale, responsabilità, proprietà intellettuale.
La cooperazione in vari casi si è tradotta nella creazione di organizzazioni internazionali, quali quelle operanti nel campo della gestione di sistemi di telecomunicazione internazionale via satellite (Intelsat, Inmarsat, Eutelsat), in anni recenti interessate da processi di parziale privatizzazione.
Tra le organizzazioni internazionali operanti nell’ambito spaziale merita un cenno particolare l’Agenzia spaziale europea (ESA), attraverso la quale si organizza una parte cospicua delle attività spaziali svolte da diciassette Stati europei. L’ESA si qualifica, in particolare, quale agenzia di ricerca e sviluppo tecnologico, effettuando da un lato missioni di esplorazione scientifica, dall’altro sviluppando applicazioni spaziali la cui gestione è poi affidata ad altri attori. Proprio di alcune applicazioni spaziali si è venuta sempre più interessando negli anni la Comunità europea (oggi l’Unione). Essa ha avviato una collaborazione sempre più intensa con l’ESA, in particolare per l’attuazione dei programmi Galileo, teso alla realizzazione di una rete europea indipendente di satelliti per il posizionamento e la navigazione, e GMES, mirante a costruire un sistema integrato terrestre e spaziale per il monitoraggio a fini di protezione ambientale e di sicurezza. La realizzazione di tali programmi è in corso, pur tra mille ritardi e difficoltà. La cooperazione ESA-UE si è tradotta nella stipulazione di un Accordo quadro tra le due organizzazioni nel novembre 2003 e nell’approvazione congiunta, nell’aprile 2007, di una Politica spaziale europea, documento programmatico comune. La competenza dell’Unione europea in materia spaziale è stata consacrata formalmente solo di recente dal Trattato di Lisbona, traducendosi nelle previsioni dell’art. 4.3 e 189 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il quale ultimo stabilisce, tra l’altro, che l’Unione «instaura tutti i collegamenti utili con l’Agenzia spaziale europea» (par. 3).
Il confine preciso tra spazio aereo e spazio extra-atmosferico non è mai stato fissato. Tuttora difetta un accordo tra gli Stati sulla stessa necessità di procedere ad una delimitazione. Alle tesi (“spazialiste”) di quei paesi che sostengono che la fissazione del limite inferiore dello spazio è imposta dalla differenza di regime rispetto allo spazio aereo (quello sovrastante il territorio degli Stati è in effetti soggetto alla loro sovranità) si contrappongono le tesi (“funzionaliste”) di altre potenze spaziali, secondo cui la disparità tra regimi aeronautico e spaziale si risolve su un piano funzionale anziché spaziale. Si può peraltro ritenere che esista un accordo di fatto sull’appartenenza allo spazio extra-atmosferico delle orbite circumterrestri e dunque sul fatto che lo spazio inizi quantomeno ad un’altitudine compresa tra i cento e i centodieci chilometri. Problematici risultano, peraltro, l’assenza di disciplina internazionale specifica per attività non qualificabili con certezza come aeronautiche o spaziali (quale il lancio di veicoli suborbitali) e l’assenza di un regime di passaggio inoffensivo degli oggetti spaziali attraverso lo spazio aereo di altri Stati, testimoniata dalle prese di posizione degli Stati in seno al COPUOS.
La pretesa avanzata da alcuni paesi equatoriali con la Dichiarazione di Bogotà del 3 dicembre 1976 alla sovranità sul segmento di orbita geostazionaria (situata a quasi 36.000 chilometri di altezza) situato sopra il loro territorio non è mai stata presa seriamente in considerazione dagli altri Stati ed aveva del resto la valenza di una rivendicazione politica a poter beneficiare in modo equo di tale risorsa, essenziale per la collocazione di satelliti di telecomunicazione. Tale presa di posizione ha avuto qualche effetto nell’ambito dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (UIT), la quale ha proclamato l’orbita geostazionaria (e successivamente tutte le orbite) risorsa naturale limitata, disponendo per l’applicazione di deroghe alla regola generale first come first served che presiede all’assegnazione delle frequenze e delle correlate posizioni sull’orbita a favore di una pianificazione a priori che consentisse ad ogni paese di accedere alle suddette risorse: in applicazione del principio del beneficio comune dell’umanità posto dall’art. I, par. 1, del Trattato sullo spazio.
Fonti normative
Treaty Banning Nuclear Weapon Tests in the Atmosphere, in Outer Space and Under Water, aperto alla firma l’8 agosto 1963, entrato in vigore sul piano internazionale il 10 ottobre 1963; Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies, adottato con ris. 2222 (XXI) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 19 dicembre 1966, aperto alla firma il 27 gennaio 1967, entrato in vigore il 10 ottobre 1967; Agreement on the Rescue of Astronauts, the Return of Astronauts and the Return of Objects Launched into Outer Space, adottato con ris. 2345 (XXII) dell’Assemblea Generale del 19 dicembre 1967, aperto alla firma il 22 aprile 1968, entrato in vigore il 3 dicembre 1968; Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects, adottata con ris. 2777 (XXVI) dell’Assemblea generale del 29 novembre 1971, aperta alla firma il 29 marzo 1972, entrata in vigore il 1° settembre 1972; Convention on Registration of Objects Launched into Outer Space, adottata con ris. 3235 (XXIX) dell’Assemblea generale del 12 novembre 1974, aperta alla firma il 14 gennaio 1975, entrata in vigore il 15 settembre 1976; Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, adottato con ris. 34/68 dell’Assemblea generale del 5 dicembre 1979, aperto alla firma il 18 dicembre 1979, entrato in vigore l’11 luglio 1984.
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