Spazio
Spazio è un sostantivo polisenso che designa in generale un'estensione compresa tra due o più punti di riferimento. Può essere variamente interpretato a seconda che lo si consideri dal punto di vista filosofico, psicologico, geometrico, fisico, astronomico, geografico, architettonico, pittorico, astronautico e industriale. Le varie accezioni possono essere oggetto di articolate analisi concettuali, ma soltanto un approccio diacronico alla storia della ricerca filosofica rende possibile cogliere le remote premesse di una trama estremamente complessa, sottesa alla moderna problematica dello spazio.
l. La concezione mitica e la geometrizzazione dello spazio
La nozione più diffusa e comune consiste nella percezione di uno spazio 'naturale', il quale è in realtà una proiezione in natura dello spazio a tre dimensioni (tre piani che si intersecano con angoli di 90°), che furono non scoperte ma codificate da Euclide negli Elementi di geometria (3° secolo a.C.). Dal punto di vista del costrutto oggettivo, le tre dimensioni erano già implicite in antiche tecniche egizie, quali la tecnica di costruzione delle piramidi e l'agrimensura, nelle scoperte geometriche attribuite a Talete, nell'aritmogeometria di Pitagora e di altri presocratici. Nel soggetto percipiente e pensante questa nozione elementare di spazio ha origine nell'interazione tra organismo e ambiente e nella sinestesia delle rappresentazioni tattili e visive, ed è recepita a livello dei recettori del sistema nervoso. Di qui la sua pregnanza antropomorfica: le distinzioni destra/sinistra, alto/basso, avanti/dietro, corrispondenti alle tre dimensioni, regolano l'orientamento e la locomozione.
L'intuizione dello spazio tridimensionale, detto euclideo, ha origini immemorabili nella coscienza di Homo sapiens. Prima di pervenire all'intuizione astratta di uno spazio geometrizzato in cui collocare i corpi esterni e il proprio stesso corpo, l'uomo primitivo ha vissuto per tempi probabilmente assai lunghi in uno stato di compartecipazione 'mistica' e animistica con il proprio ambiente, ossia in una simbiosi priva di nette distinzioni tra soggetto e oggetto. La psicologia dell'età evolutiva ha studiato a fondo per via sperimentale i processi di formazione delle rappresentazioni spaziali nella mente infantile; ma si può dubitare che tale processo ricapitoli la filogenesi delle intuizioni dello spazio nella coscienza della specie umana, dato che nel bambino la loro acquisizione è comunque condizionata dall'interferenza di fattori ereditari e culturali recenti. Le analisi etnoantropologiche della mentalità primitiva mostrano invece che presso i popoli senza scrittura le percezioni di luogo e di spazio implicano un insieme di rapporti sensoriali ed emotivi legato non solo ai bisogni vitali e all'istinto, ma alla mitologia e alle rappresentazioni collettive più arcaiche. Prevale nei primitivi, secondo raffinate indagini etnologiche, una nozione qualitativa dello spazio dove ciascun 'luogo' non si inscrive in un reticolo di coordinate metriche oggettive, ma è espressione di percezioni concrete legate alla loro vita sociale, al loro vissuto di cacciatori, raccoglitori, agricoltori, nomadi o stanziali, e soprattutto è carico di significati magici, mitici, cultuali. L'uomo primitivo si orienta perfettamente nell'ambiente con il quale è in simbiosi non mediante le coordinate geometriche a noi familiari, bensì identificando simpateticamente le varie direzioni o regioni dello spazio con gli animali e le tribù che vi vivono, con la vegetazione che vi cresce, con le perturbazioni atmosferiche che ne provengono. Così pure sono di natura simpatetica e magica i confini territoriali di un clan, le delimitazioni delle zone appartenenti a totem familiari o a gruppi tribali, o, ancora, le rappresentazioni dello spazio nei miti circa le origini del mondo. In alcuni miti il caos, lo spazio e la materia si generano assumendo simmetrie di tipo antropomorfico, dove la natura stessa ripete la struttura del corpo umano. Il comune sfondo animistico e antropomorfico proprio delle percezioni spaziali dei primitivi spiega inoltre le distinzioni dei punti cardinali legate ai miti della creazione, le quali si riflettono sia nelle forme architettoniche sia nell'orientamento e nella topografia di edifici di culto, templi, città.
Non è immune dai residui arcaici provenienti dai miti della creazione la genesi di coppie di concetti astratti come spazio/materia, vuoto/corpo, finito/infinito, formulati dai poeti-filosofi presocratici. In Esiodo e nelle cosmogonie orfiche - come nella Bibbia - si trova la nozione di un caos indistinto (χάος), metafora del vuoto originario, da cui scaturisce il dualismo tra luce e tenebre, la creazione del giorno e della notte. La ϕύσις come forza generatrice o 'natura' di cui si parla nei frammenti dei filosofi ionici implica i concetti di estensione geometrica e di luogo, di pieno e vuoto, nelle idee tra loro alternative di corpo solido e di privazione di corpo.
Taluni frammenti dei physiològoi Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Senofane testimoniano il tentativo di quantificare le distanze e le masse delle meteore, dei corpi celesti e dei loro moti, che implica un concetto di spazio. Il modello sferico, immobile, finito e compatto dell'essere di Parmenide non è solo un'affermazione metafisica, ma un embrionale concetto di spazio 'pieno', che si prestò ai commenti dei seguaci e alle obiezioni dei critici. Melisso introdusse in tale modello la contraddittoria nozione di infinito, implicante il vuoto e il molteplice. La cosmogonia di Empedocle nega l'infinito e racchiude nell'armonia conclusa dello 'sfero' i cicli alterni dell'amore e dell'odio. Zenone di Elea difese l'idea parmenidea dell'essere, sollevando, con i quattro argomenti scettici riferiti da Aristotele, i paradossi derivanti dall'ammettere due tesi opposte riguardo ai minimi intervalli dello spazio e del tempo: sia che si assuma la loro suddivisibilità all'infinito, sia che se ne affermi la suddivisibilità in elementi ultimi discreti, non sarebbe possibile alcun movimento reale di un corpo tanto nello spazio quanto nel tempo.
I paradossi di Zenone erano probabilmente diretti contro la dottrina di Pitagora e della sua scuola, secondo la quale tutto nell'Universo è composto da figure geometriche e numeri, e i fenomeni della natura si lasciano ridurre alle proporzioni tra grandezze finite e alle serie di numeri interi, rappresentabili in figure. Corollario della fede pitagorica nel numero geometrizzato è che lo spazio e il tempo si possono concepire in due modi: come enti composti di punti o di istanti discreti, oppure come un'estensione e un flusso dotati di continuità. La prima caratteristica, la discontinuità, ricade nel regno dei numeri e dell'aritmetica; la seconda, la continuità, appartiene ai processi di generazione propri delle figure geometriche. Ma il dilemma che sorge tra la discontinuità dei numeri e la continuità delle grandezze della geometria infrangeva l'aritmogeometria pitagorica, fondata sui numeri interi (peraltro già in crisi a causa della scoperta delle grandezze incommensurabili), e poneva alternative di notevole portata riguardo all'applicabilità al mondo fisico di queste due scienze.
Una scelta decisa e coerente a favore dello spazio vuoto (κενόν) e della materia disseminata nel vuoto venne formulata dai primi atomisti, Leucippo e Democrito. All'essere parmenideo essi opposero il concetto di un qualcosa nel quale non c'è nulla, "un vuoto che ha una sua natura e realtà". Non si tratta di un dato empirico; l'intelletto, superando l'oscurità dei dati empirici, deve inferire il nesso tra la discontinuità dei minimi componenti della materia - gli atomi insecabili, duri, estesi, dotati di forma - e lo spazio vuoto nel quale essi si muovono, urtano e rimbalzano. Questo spazio è per definizione privo di limiti, esteso in ogni direzione, anche oltre questo mondo. Riguardo all'infinità dello spazio vuoto il pitagorico Archita aveva posto un dilemma mediante un'immagine destinata ad avere grande fortuna: "Se io mi trovassi all'estremità dello spazio, ad esempio nel cielo delle stelle fisse, potrei o non potrei tendere la mano o un bastone fuori di quella?". Gli atomisti di Abdera, seguiti da Epicuro e Lucrezio, risposero affermativamente. Il vacuum o inane di Lucrezio è il ricettacolo omogeneo e universale nel quale si svolge la vicenda cosmica della genesi e della distruzione ciclica dei mondi, secondo leggi puramente meccaniche: moti inclinati di caduta verso il basso (clinamen rispetto a una caduta 'verticale', nozione ipotetica in uno spazio cosmico privo di un unico centro di gravità), aggregazioni, collisioni, rimbalzi. La concezione atomi/vuoto elaborata dagli atomisti ignora qualsiasi gerarchia di elementi, qualità e spazi privilegiati. Essa distingue i minimi della materia soltanto dal punto di vista quantitativo e geometrico, cioè secondo il peso, la forma e la figura.
Nella cosmogonia del Timeo, Platone affidò al protagonista pitagorico del dialogo il mito delle formazione del mondo da parte di un demiurgo. Argomentando sull'essere e sul divenire delle cose secondo i principi della sua speculazione dualistica, Platone distingue tre 'generi' di enti preesistenti al demiurgo: i puri archetipi o idee, i quattro elementi, e un terzo genere, che indica con i termini tra loro intercambiabili di ricettacolo, nutrice, spazio (ὑποδοχή, τιθήνη, χώρα). Quest'ultimo è di difficile definizione: un contenitore neutro che all'inizio della creazione recepisce gli elementi e le loro mescolanze, non solo secondo le elaborate proporzioni geometriche predisposte dal demiurgo, ma pure secondo le proprietà originarie, anch'esse geometriche, dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e inoltre dell'etere. Essi infatti constano di particelle originarie rispettivamente costituite in forma dei solidi regolari, i cosiddetti cinque corpi platonici, e cioè di cubi, icosaedri, ottaedri, piramidi, dodecaedri. Sono queste le 'sillabe' elementari che si combinano geometricamente secondo proporzioni esatte nei vari momenti della creazione, descritti da Platone attraverso metafore ispirate alle tecniche, alla musica e alla geometria, che ritmano l'armonica disposizione e bellezza del tutto. Il processo creativo implica al suo inizio un potenziale stato di vuoto della χώρα, ma Platone insiste sulla negazione di uno spazio permanentemente vuoto: "L'orbita dell'universo, dopo aver accolto in sé i generi, essendo circolare e volendo naturalmente ritornare su sé stessa, comprime ogni cosa e non permette che rimanga alcuno spazio vuoto" (κενήν χώραν, 58b).
Anche Aristotele escluse il vuoto per ragioni fisiche e metafisiche. Argomentò l'horror vacui in natura e la negazione di uno spazio omogeneo distinto dai singoli luoghi occupati da corpi. Il mondo increato, eterno, circoscritto da una sfera di fuoco (empireo), è ripartito in due zone ontologicamente diverse: l'una, sublunare, è dominata dai moti 'imperfetti'; l'altra, sopralunare, dai moti circolari perfetti. Entrambe comprendono 'luoghi', moti e direzioni privilegiate. Per la disposizione gerarchica dei quattro corpi, l'elemento terra si trova nell'infimo dei luoghi 'naturali', concentrata attorno al centro del sistema; seguono, nei rispettivi luoghi naturali, le sfere concentriche degli altri elementi, acqua, aria e fuoco. Queste materie si mescolano tra loro formando gli esseri soggetti ai processi di generazione e corruzione. Tuttavia ogni corpo elementare tende a raggiungere il proprio luogo naturale a seconda dei vari moti e delle direzioni privilegiate proprie di ciascun elemento: i moti sono naturali quando un grave cade verso la terra, l'aria e il fuoco salgono verso l'alto, l'acqua tende a raggiungere la zona intermedia; sono violenti se, al contrario, i quattro elementi tendono ad allontanarsi dalla propria sfera; misti negli altri casi. Al di là dell'orbe della Luna, dove domina la legge del moto circolare 'perfetto', la quintessenza, o etere, si estende negli spazi intermedi tra le sfere dei pianeti che si aggirano circolarmente attorno alla Terra entro i loro orbi cristallini. In questo sistema perfettamente concluso su sé stesso e a suo modo coerente, lo spazio pieno dei cieli e il centro di gravità della Terra sono parti di una fisica tutta qualitativa. Lo schema dell'astronomia geostatica escludente lo spazio vuoto fu completato da Claudio Tolomeo e dominò il pensiero occidentale fino al 16° secolo.
Le discussioni sullo spazio che si svolsero nella scolastica medievale, entro i limiti della cosmologia tolemaica incorporata nei trattati didattici correnti De sphaera, si richiamarono al mito del Timeo platonico o, più tardi, alla Metafisica, alla Fisica e al De caelo di Aristotele, ed ebbero implicanze essenzialmente teologiche. Ci si interrogava circa la creazione del mondo nello spazio, la disposizione della materia in una catena dell'essere ascendente dal regno corporeo fino alle gerarchie angeliche, i rapporti tra lo spazio celeste o etereo e la presenza divina. Una particolare suggestione fu esercitata, nella cultura del primo Rinascimento, dalla cosmogonia platonizzante dei trattati del Corpus hermeticum, raccolta di testi iniziatici spuri attribuiti al mago egizio Ermete Trismegisto, dove lo spazio è percorso da misteriose presenze e da voci sovrannaturali. Nel filone ermetico confluì anche la nozione di uno spazio divino proveniente dai libri sacri della tradizione mistica e del folklore ebraici, come il Talmud o lo Zohar. Il termine makom, che indicava originariamente un luogo sacro, si ampliò in un concetto teologico sempre più astratto e universale, fino a designare l'onnipresenza e l'ubiquità di Dio.
Con l'avvento dell'astronomia copernicana, oltre la metà del 16° secolo, la progressiva frantumazione del cosmo aristotelico comportò la distruzione della fisica geostatica e dei quattro elementi, con i relativi luoghi e moti qualitativi. La crisi radicale dell'astronomia tolemaica pose l'esigenza di una nuova concezione dello spazio nel quale collocare un sistema del mondo ormai privo di luoghi privilegiati. Non si trattava soltanto di rimuovere la Terra dal centro del sistema e di proiettarla in una delle orbite circumsolari, ma di modificare ab imis fundamentis le premesse a fondamento della scienza del moto, dilatare i confini apparenti della sfera celeste discernibili a occhio nudo, e avviare un processo illimitato di infinitizzazione dello spazio.
Alla fine del 16° secolo il più audace degli interpreti di N. Copernico fu indubbiamente, sul piano filosofico, G. Bruno, che attinse alle fonti di un sapere iniziatico-ermetico e sviluppò per via speculativa la sua rivoluzionaria concezione di un'infinità di mondi dispersi in uno spazio privo di limiti e dotato di infiniti centri. Respinto l'aristotelismo e ogni altro principio di autorità, Bruno elaborò una metafisica della materia e dello spazio ispirata all'aritmologia qualitativa della tradizione platonica, pitagorica, cabalistica e magico-ermetica. Si trovò in tal modo a condividere alcuni motivi della rivoluzione astronomica già in atto e ad anticiparne altri. Reagì tuttavia contro i metodi dello sperimentalismo, e contro l'applicazione del calcolo alla fisica e all'astronomia, poco prima che G. Galilei e G. Keplero fondassero la nuova meccanica e fisica celeste. Al centro dell'opera dei due pionieri è l'estensione delle medesime leggi del moto ai fenomeni terrestri e celesti, non più distinti tra loro in senso ontologico, ma concettualmente equiparati sotto la guida della geometria, del calcolo, dell'osservazione e dell'esperienza. La scienza dell'aria, o pneumatica, attaccava direttamente l'aristotelismo su un altro punto. Galileo, E. Torricelli e B. Pascal confutarono il dogma aristotelico dell'horror vacui mediante l'invenzione del barometro, dimostrando per via sperimentale il rapporto, variabile a diverse altezze, che sussiste tra la pressione dell'aria e la salita dei liquidi nei vasi capillari, e la connessa possibilità del vuoto. R. Boyle, a fine 17° secolo, userà la pompa pneumatica per svuotare d'aria campane di vetro e tentare in vacuo vari esperimenti meccanici, chimici e biologici.
Il concetto di spazio è stato al centro di una complessa problematica geometrica, fisica, astronomica tra il 17° e il 20° secolo. Tuttavia i protagonisti della rivoluzione scientifica rilessero inizialmente il libro della natura con gli occhi dei naturalisti e dei matematici antichi eclissati dall'ipse dixit di Aristotele: Democrito, Epicuro, Lucrezio, Eudosso, Archimede, Apollonio di Perge, Euclide e altri. Per questa via Keplero, Galileo, ma soprattutto R. Descartes, I. Newton e i loro seguaci svilupparono tecniche originali di ricerca e nuove ipotesi di lavoro le quali presupponevano, in fisica e in astronomia, un assioma indimostrabile: il principio d'inerzia. La fisica inerziale postulava a sua volta il concetto di uno spazio omogeneo e vuoto, ereditato dalla filosofia corpuscolare degli atomisti antichi, fissando come cardine della scienza meccanica l'equivalenza tra lo stato di moto rettilineo uniforme e lo stato di quiete di un corpo: "Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché non sia costretto a mutare il suo stato da forze esterne". La prima lex motus di Newton, la cui formulazione è stata attribuita anche a Galileo e Descartes, fu in realtà l'esito di una 'geometrizzazione a oltranza' del mondo fisico, alla quale contribuirono in diversa misura tutti i protagonisti della rivoluzione scientifica. Non fu facile pervenire alla formula astratta e generale, giacché la definizione di quiete o moto di un sistema inerziale implicava a sua volta le idee di tempo e spazio assoluti, come termini di riferimento sottratti per definizione all'esperienza dei sensi. Galileo si limitò a esperimenti mentali immaginando il comportamento di sfere in moto, in assenza di attriti, su piani tangenti alla sfera terrestre ma comunque soggetti alla forza di gravità. Descartes adottò la concezione corpuscolare della materia, ma eliminò il vuoto, identificando spazio e res extensa: "Luogo e spazio non significano nulla che differisca veramente dal corpo, che noi diciamo essere in qualche luogo, e ci indicano solamente la sua figura, situato com'è fra gli altri corpi" (Principia philosophiae, II, 13).
Coerentemente, Descartes formulò una legge 'relativistica' del moto, nei termini di una semplice traslazione di una particella di materia dalla vicinanza di alcuni corpi alla vicinanza di altri. Eppure il suo concetto del moto nel plenum non gli impedì di formulare due leggi meccaniche nelle quali si può riconoscere un embrione del principio d'inerzia: "La prima è che ciascuna cosa continua ad essere nello stesso stato per quanto può, e mai lo cambia se non per l'incontro di altre [...]. Se una parte della materia è in riposo, non comincia a muoversi da sé stessa. Ma quando ha cominciato una volta a muoversi da sé, proseguirà il moto all'infinito" (II, 37). In assenza di un vuoto reale questo principio è un puro e semplice caso-limite. Vi si richiamò testualmente in un abbozzo Newton, anche se la sua formulazione finale del principio d'inerzia comporta un diretto confronto polemico: "Il moto cartesiano non è moto - si legge nel saggio giovanile De gravitatione et aequipondio fluidorum - né fa percorrere alcuno spazio, alcuna distanza". Le definizioni di luogo e di moto locale sono contraddittorie in assenza di un sistema di riferimento immobile, ossia lo spazio inteso come contenitore universale dei corpi. Com'è chiaro da altri appunti e saggi giovanili, Newton recuperò dagli atomisti antichi la filosofia corpuscolare della materia e la connessa nozione di vuoto, ma reinterpretò quest'ultima sia attraverso la concezione tridimensionale euclidea dello spazio, sia attraverso la fede nell'onnipresenza e ubiquità di Dio, probabilmente ispirata agli scritti del mistico H. More e, più indirettamente, al makom della tradizione ebraica. Lo spazio viene infatti definito da Newton come "l'effetto emanativo di Dio" oppure "il sensorio di Dio": un ente che esprime, insieme con il tempo, "la quantità di esistenza di Dio"; ma esso viene anche descritto come una struttura omogenea, eterna, immutabile e isotropa, che contiene "i generi di tutte le figure: ovunque cubi, ovunque triangoli, ovunque rette, ovunque linee circolari, ellittiche, paraboliche […] anche se non visibilmente tracciate". L'analogia con la χώρα di Platone sembra evidente. Lo spazio e il moto assoluti, che Newton tentò anche di dimostrare con l'esperimento mentale di un secchio sospeso e pieno d'acqua al quale è impresso un moto rotatorio, stanno a fondamento della fisica inerziale; ma, come il tempo assoluto, non appaiono pienamente comprensibili se non si tiene presente il retrostante sfondo teosofico. Anche se di questo sfondo non resta quasi traccia nella versione a stampa che segue le definizioni di tempo e spazio, nel celebre scolio annesso alle Definitiones del primo libro dei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), i contemporanei e successori di Newton ne colsero perfettamente il significato. Discussero, rifiutarono, accolsero le implicanze teologiche del concetto di spazio in una complessa controversia, alternativamente teologica e fisico-matematica, che fu aperta da G.W. Leibniz e G. Berkeley e si prolungò per buona parte del 18° secolo a margine della sintesi newtoniana.
Va vista in tale contesto anche la soluzione del problema dello spazio proposta da I. Kant attorno al 1770, nel saggio Sulla direzione delle figure nello spazio e nella Dissertazione sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile. Leibniz, seguito da Ch. Wolff e molti altri, aveva opposto a Newton un'idea puramente 'relativa' dello spazio, inteso non come un ente reale ma come 'l'ordine della coesistenza dei corpi'. Eulero, al quale Kant si richiama, aveva insistito sul fatto che siccome l'intera meccanica razionale si fonda sul principio d'inerzia, non può rinunciare al sistema di riferimento dello spazio assoluto. Kant, a sua volta, introdusse curiose considerazioni sulle differenti 'direzioni' dello spazio (per es., l'impossibilità di giustapporre su un medesimo piano due oggetti identici come le due mani, l'orientamento destrorso o sinistrorso di certe creature viventi), riferendo tutto ciò allo spazio assoluto di Newton. Tuttavia, nella Dissertazione, 'deontologizzò' lo spazio, negando che fosse un ente teologico-metafisico oppure una cosa in sé, ma affermando che si tratta della forma a priori del senso esterno : "lo spazio è qualcosa di soggettivo e ideale che deriva dalla natura della mente come uno schema destinato a coordinare tutte le sensazioni esterne"; cioè, un'intuizione (intuitio) pura, che da un lato è fonte di tutti i giudizi e costruzioni della geometria, dall'altro - con il tempo - è condizione e fondamento di ogni percezione sensibile proveniente dai fenomeni della natura. Con la sua analisi epistemologica della soggettività trascendentale dello spazio e del tempo, Kant intese sottrarre a ogni dubbio scettico non soltanto la geometria e la meccanica, ma le stesse basi concettuali della fisica e dell'astronomia newtoniana, eliminando le equivoche nozioni metafisiche dello spazio e del tempo come entità assolute, inattingibili ai sensi, oggetto di speculazione metafisica e teologica. Anche se i neokantiani l'hanno spesso negato, è certo che la rifondazione trascendentale tentata nella Critica della ragion pura (1781) e nei Principi metafisici della scienza della natura (1786) aveva un punto debole: implicava l'unicità del modello euclideo, dato che la concezione dello spazio a tre dimensioni era il presupposto della fisica e della meccanica classiche. Ma i fondamenti della geometria euclidea, intesa come espressione 'naturale' dello spazio e come unica descrizione possibile del mondo fisico, erano entrati in quegli stessi anni in una profonda crisi. Il ridimensionamento della geometria euclidea passò attraverso la dimostrazione del quinto postulato di Euclide (delle parallele), tentata da G. Saccheri all'inizio del Settecento, ma negata da K.F. Gauss, N.I. Lobačevskij, J. Bolyai, i pionieri delle concezioni non euclidee dello spazio e della formulazione di nuove geometrie. Ammessa la coerenza dei postulati iniziali come unica garanzia della validità delle nuove geometrie, il problema se lo spazio del mondo fisico fosse euclideo o non euclideo apparve non più risolvibile sul piano filosofico e speculativo, ma su quello della verifica empirica. Una svolta decisiva riguardo all'analisi della struttura matematica dello spazio si deve a B. Riemann, autore della memoria Le ipotesi che stanno a fondamento della geometria (1854), che aprì la via alla concezione dello spazio a n-dimensioni. Lo spazio tridimensionale euclideo era valido solo come prima approssimazione - su scala umana - alla misura delle distanze e delle altre proprietà dello spazio. La lunghezza della traiettoria di un punto nello spazio non è necessariamente la più breve, ossia una retta, ma dipende dall'interazione delle forze agenti sul suo movimento. Si apriva così la complessa evoluzione del pensiero geometrico che condusse a introdurre lo spazio-tempo (cronotopo) come quarta dimensione, e di conseguenza alla rivoluzione relativistica di A. Einstein. Nel suo insieme, la fisica classica appare anch'essa, dal punto di vista della relatività generale, valida solo come prima approssimazione al moto dei corpi macroscopici. Quanto al concetto di spazio, si può dire che dopo Kant esso ha perduto ogni caratteristica naturale, antropomorfa o psicologica, ed è uscito dall'antico involucro speculativo per essere trattato, con il tempo, come un capitolo centrale, tuttora assai discusso, della fisica relativistica e quantistica.
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