spirito
Nella prima e più antica accezione, il termine greco πνεῦμα (cui corrisponde il lat. spiritus e che viene abitualmente tradotto in italiano con «spirito») indica il «soffio», l’«aria», il «respiro», quindi anche il soffio vitale (analogamente al significato originario di anima), inteso come sottile principio materiale di vita.
Dall’antico significato deriva l’uso nei testi stoici di πνεῦμα per indicare l’anima del mondo, concepito come materia sottilissima (affine al fuoco), causa di moto e di vita del tutto, ma anche come λόγος, principio razionale di ordine cosmico. Contemporaneamente il termine πνεῦμα assume rilievo nelle dottrine mediche per indicare un veicolo di moto, di vita, di sensibilità: in Galeno si fissa la distinzione tra s. vitale (πνεῦμα ζωτικόν) con sede nel cuore, s. animale (πνεῦμα ψυχικόν) con sede nel cervello, s. naturale (πνεῦμα φυσικόν) con sede nel fegato; di qui la presenza in tutta la tradizione medica medievale e rinascimentale, fino al 17° sec., della dottrina degli s., intesi sempre come materia sottilissima, che presiedono alle varie funzioni dell’organismo vivente. Così nella concezione di Descartes del corpo vivente come macchina, gli s. (s. animali, fr. esprits animaux) sono il veicolo della sensibilità e del movimento dei muscoli, scorrendo entro i nervi. L’uso del termine greco πνεῦμα per indicare una realtà distinta e opposta a ogni principio materiale si afferma soprattutto nel Nuovo Testamento (nel Vecchio Testamento, secondo la traduzione greca dei Settanta, lo πνεῦμα è anche il soffio animatore di Dio, e in testi tardi, anche la «sapienza di Dio», πνεῦμα ἅγιον): nei testi neotestamentari lo πνεῦμα è sia il divino S. Santo (τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον), sia il principio superiore proprio dell’uomo distinto e opposto rispetto all’anima (ψυχή) e al corpo (σῶμα) e in rapporto a questa distinzione si configura già in Paolo e poi nei testi cristiani dei primi secoli la distinzione degli uomini in pneumatici (πνευματικοί), psichici e ilici. Nel Nuovo Testamento πνεῦμα indica anche gli esseri superiori, immateriali, intermediari fra Dio e gli uomini. Analogamente, nella terminologia neoplatonica (soprattutto con Giamblico), lo πνεῦμα (anche ἀσώματον πνεῦμα «s. incorporeo») interviene come manifestazione degli dei nei fenomeni di divinazione, negli oracoli, ecc., sempre con ampia gamma di significati: dallo «s. incorporeo», allo «s. luminoso» che «discende» dall’alto quasi come corpo pneumatico o astrale; ma lo s. è anche «veicolo» (ὄχημα) etereo dell’anima oppure sinonimo di δαίμων, intermediario tra gli dei e gli uomini. Si definisce così lentamente, soprattutto nei testi cristiani, un concetto di s. come principio immateriale, che serve a caratterizzare tanto la divinità, quanto ciò che è proprio dell’uomo, separato dalla materialità del corpo. Ma se in sede teologica il concetto di s. come S. Santo garantisce le caratteristiche di immaterialità, eternità, ecc., come attributi propri dello s., parlando dell’uomo le funzioni sue proprie si attribuiscono piuttosto all’anima, alla mens, all’intellectus, che non allo spiritus di cui prevale una concezione come qualcosa di materiale, materia sottilissima veicolo di sensibilità e principio di vita (a volte, come in Agostino, intermediario tra anima e corpo), prevalendo così il significato originario, legato poi, come si è detto, alla tradizione medica.
In questo senso l’uso del termine continua la sua fortuna nel Medioevo e nel Rinascimento, oscillando il significato fra una concezione trascendente di s. ‒ come persona della Trinità ‒ e una concezione medico-naturalistica (senza dire della ripresa dei motivi stoici in rapporto allo spiritus come anima del mondo, e dell’uso alchemico, ove variamente spiritus indica elementi alchemici come l’acqua solvens, lo zolfo, ecc.). Il definirsi dell’uso di s. come principio proprio dell’uomo, distinto dalla materia, indicante la sua facoltà razionale, sinonimo di mente o Io, si afferma nel pensiero moderno fra Seicento e Settecento. Già nella traduzione francese delle Meditationes de prima philosophia (1641; trad.it Meditazioni metafisiche) di Descartes, il termine mens è reso con esprit, e posto come equivalente di intelletto e ragione (ma in questo senso Cartesio usa esprit nelle opere francesi, ma non il latino spiritus; sicché il cartesiano N. Chauvin nel suo lessico mantiene il prevalente senso di spiritus in fisiologia e registra l’equivalenza di spiritus = res incorporea o mens come prevalentemente teologica). Leibniz indica con s. l’anima ragionevole, e più propriamente pone l’equivalenza tra Io e «sostanza, monade, anima, s.»; lo s. non è solo uno specchio vivente dell’Universo delle creature, ma anche un’immagine della divinità, capace di conoscere e volere; e tutti gli s. («sia degli uomini sia dei geni») costituiscono con Dio – monade suprema, s. per eccellenza – «la più perfetta repubblica composta da tutti gli spiriti». Di sostanza che chiamiamo «spirito» parla Locke come di ciò a cui noi riteniamo di dover riferire – come a presupposto sostrato – le operazioni della nostra mente, cioè ragionare, sperare, temere. Assai rilevante l’accezione del termine s. in Berkeley: egli nega l’esistenza di una sostanza corporea come qualcosa di oggettivo e indipendente dall’idea presente «o nella mente di un qualche s. creato o nella mente di uno s. eterno»; non resta altra sostanza dunque che lo s., inteso come essere semplice, indiviso, attivo, che «in quanto percepisce idee si chiama intelletto, in quanto produce idee o opera in altro modo su di esse, si chiama volontà». Di s. come facoltà delle idee legate strettamente a un’origine sensibile – e anche come complesso delle idee – tratta Helvétius; mentre in contesti materialistici – per es. in d’Holbach – la nozione di s. viene respinta come illusoria presupposizione di forze e qualità occulte, addotte a spiegare fenomeni di cui si ignorano le reali cause fisiche. D’altra parte va tenuto presente un altro significato che il termine s. viene contemporaneamente assumendo: come ciò che permette di cogliere qualcosa che a prima vista sfugge, di andare al di là della prima immediata impressione, e che pure costituisce la caratteristica più propria di qualcosa: è un significato questo di s. (soprattutto nel francese esprit) che si può riallacciare alla distinzione neotestamentaria (Paolo) tra lo s. che vivifica e la lettera che uccide; in questa prospettiva s. viene a indicare tanto il significato più vero di qualcosa, quanto la particolare facoltà, la particolare attitudine che permette di coglierlo (così, per es., l’esprit de finesse di Pascal). Sempre nello stesso ambito si colloca l’esprit des lois – lo s. delle leggi – secondo l’uso di Montesquieu, che indica il carattere di quell’insieme di norme che regolano i rapporti di una determinata nazione, in relazione alle condizioni ambientali, sociali, storiche di ciascun popolo; in questo senso anche esprit des nations (per es., Voltaire).
Nell’ambiente romantico lo s. del popolo (ted. Volksgeist) viene a indicare l’unità organica caratteristica di ciascun popolo, ed è sovente contrapposto (quindi anche in polemica con Montesquieu) alle sue formali istituzioni giuridiche, soprattutto quanto più queste – con il dispotismo illuminato e il regime napoleonico – tendevano ad avere il carattere di uniformità razionale; tale s. del popolo viene individuato nella lingua, nelle tradizioni popolari, nella letteratura, nel costume, e costituisce ciò che caratterizza e individua ogni popolo (di qui anche l’uso di espressioni come spirito di un’epoca, di un tempo, ecc.). Al significato di s. come facoltà o attitudine capace di cogliere qualcosa che non cade immediatamente sotto i sensi, che non è oggetto di conoscenza intellettiva, si congiunge l’uso di Geist (spirito) in Kant: «Spirito nel significato estetico è il principio vivificante del sentimento. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che conferisce slancio finalistico alla facoltà del sentimento e la pone in un grado che si alimenta di sé e fortifica le facoltà stesse da cui risulta» (Critica del giudizio, 1790, § 49). Lo s. si colloca così nell’ambito della problematica estetica (con connessioni con il concetto di genio), a indicare l’«originalità del pensiero», la spontaneità e la creatività. Il concetto di s. svolge quindi un ruolo centrale nella filosofia di Hegel, e resta fondamentale in tutto il posteriore idealismo. Dicendo che «l’assoluto è lo s.», si dà «la più alta definizione dell’assoluto»; Hegel distingue tre momenti dello s., lo s. soggettivo (quel che si dice anima, intelletto, ragione individuale), lo s. oggettivo (il complesso delle istituzioni fondamentali del mondo storico umano: «nella storia del mondo lo s. trova la sua realtà completa»), lo s. assoluto, che si realizza attraverso l’arte, la religione e la filosofia in cui si attua la piena autocoscienza, «unità che è in sé e per sé, ed eternamente si produce: lo s. nella sua verità assoluta». Il significato e i vari usi hegeliani del termine spirito (come fenomenologia dello s., s. del popolo ecc.) avranno importanza fondamentale in tutto il pensiero dell’Ottocento, e soprattutto nelle varie forme di idealismo, come infine nel neoidealismo italiano. Croce delinea una «filosofia dello s.», in cui lo s. è la realtà tutta che si scandisce nell’unità-distinzione di quattro forme di attività spirituale; Gentile, nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), lo pone come attualità assoluta. Collegata all’uso hegeliano è anche la problematica delle scienze dello s., scienze che hanno per oggetto il mondo propriamente umano, storico: accanto alle scienze della natura – nota Dilthey, che è il massimo esponente di questa problematica – vi sono discipline come la storia, l’economia politica, le scienze della religione, lo studio della letteratura, della poesia, dell’arte, della filosofia, del linguaggio, che tutte si riferiscono al mondo umano; sono queste le scienze dello s. che hanno per oggetto dunque «la realtà storico-sociale»), che indagano con un metodo (comprensione dell’individuale) diverso da quello delle scienze della natura (definizione dell’universale).
Il termine s. è largamente usato nella storia delle religioni: tuttavia non se ne potrebbe dare una definizione precisa anche perché i fenomeni che con esso s’intende designare non sono chiaramente distinti nelle religioni in cui compaiono, e anzi si potrebbe dire che è loro caratteristica l’esser vaghi e indefiniti. Nel linguaggio storico-religioso, poi, è difficile stabilire una precisa differenza tra s., demoni, geni, ecc. perché gli autori o non definiscono il senso preciso in cui usano questi termini o li definiscono ciascuno a modo loro. Per evitare l’abuso che spesso si fa del termine s. è bene tracciare un limite sia tra s. e divinità, sia tra s. e anima; evitare, cioè, di chiamare s. anche grandi dei (come accade quando Dioniso e Osiride vengono definiti s. della vegetazione) e applicare il termine tutt’al più a quelle entità che non hanno una marcata personalità-mitica, né un culto distinto per tratti individuali; e così, parlare di s. dei morti è giustificato solo nel caso in cui le anime dei morti non sono pensate relegate in un aldilà e definitivamente separate dai vivi, bensì agiscono sulla terra, o in semplici apparizioni (in tal caso però si possono chiamare spettri), o intervenendo attivamente in favore o a danno dei vivi. In certi casi si ha un’estensione animistica, a partire dallo s. del morto, ai fenomeni o oggetti della natura: i singoli alberi, fiumi, monti, ecc. possono esser dotati di s., che spesso, per la loro derivazione dagli s. dei morti, hanno lo stesso carattere temibile di questi; perciò gli s. si confondono con le cosiddette divinità minori e in partic. con quelle che appaiono in gruppi, con carattere di specie, non individuali. Sin dalle civiltà primitive più arcaiche (dei cacciatori) lo s. del bosco, pur essendo una figura di grande importanza, può apparire sotto forma di scheletro, cioè come spettro, e dimostrare con ciò l’antichità della convergenza tra s. della natura e s. dei morti. La credenza in s. non è una fase evolutiva della religione in generale, anteriore, per es., a quella dell’idea di Dio, bensì un livello che si riscontra in tutte le religioni.