Stalinismo
Col termine 'stalinismo' si indica in genere quel particolare sviluppo della Rivoluzione russa e del movimento comunista, che da quella rivoluzione prese le mosse, fortemente segnato dalla figura di Iosif Stalin e dalla sua direzione tanto dello Stato sovietico quanto dell'insieme dei partiti, comunisti appunto, che in quello Stato trovavano fonte di ispirazione e sostegno organizzativo. Fenomeno quindi principalmente russo o, almeno, concentrato in quella grande costruzione statale sovrannazionale che era l'Unione Sovietica e di cui la Russia era la parte principale. Ma non esclusivamente russo. La forte influenza di cui l'URSS godette nel mondo e la sua stessa estensione geografica a cavallo di due continenti contribuirono infatti a diffonderne anche altrove, in tutto o in parte, diverse caratteristiche fondamentali. Anche il principale protagonista del fenomeno, quello da cui esso prende il nome, pur essendo rimasto per circa trent'anni alla testa dell'URSS, da lui governata con metodi dittatoriali, non era russo, ma proveniva da una piccola popolazione caucasica, quella della Georgia. Tuttavia è soprattutto nell'ambito della storia russa che lo stalinismo va inquadrato e analizzato.
L'uso stesso del termine non è esente da contestazioni. Esso nacque, assai prima di trovare impiego nell'indagine storica e sociale, nel furore delle lotte politiche che il fenomeno provocò e che lo hanno poi accompagnato, a partire dagli anni trenta, lungo quasi tutto il secolo. Fu utilizzato prima da coloro che avevano avversato il fenomeno, piuttosto che da chi ne era stato protagonista o convinto sostenitore. Nonostante questa sua origine anomala, esso ha finito col trovare una legittimità anche nel dibattito storiografico, sociologico e filosofico come termine che ben precisa un momento importante della storia del XX secolo in Europa e nel mondo, una delle correnti di pensiero e di azione che l'hanno caratterizzata.
Lo stalinismo fu sia un insieme di concezioni teoriche che una prolungata prassi politica, l'uno e l'altra legati al nome di Stalin (pseudonimo di Iosif Vissarionovič Džugašvili). Dopo la morte di Lenin, Stalin divenne a metà degli anni venti capo incontrastato del Partito comunista sovietico (bolscevico), in quanto segretario generale del suo Comitato centrale. A partire dal 1939 fu anche presidente del Consiglio dei ministri dell'URSS, ma sin dall'inizio degli anni trenta aveva governato il paese con poteri pressoché assoluti. Negli anni venti e trenta enunciò, a proposito dell'organizzazione dello Stato e della società sovietici, quelle idee che costituiscono le concezioni basilari dello stalinismo e le impose all'insieme dell'URSS, ancora sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile che ne era seguita. Una volta che queste idee si furono affermate nel paese, proclamò anche il loro valore generale, in quanto attributo necessario di ogni esperienza di tipo socialista. Lo fece mediante la diffusione massiccia, all'interno e all'estero, di alcuni suoi scritti scelti e di un manuale presentato come 'breve corso' di storia del suo partito.
Era centrale nelle concezioni staliniane la funzione dello Stato, inteso come espressione suprema e, in pratica, unica della società. A totale correzione di precedenti idee, maturate nell'ambito del marxismo, Stalin propugnò il potenziamento massimo dello Stato nelle sue capacità organizzative, propulsive e repressive. Anche il Partito comunista da lui diretto fu inteso non come un movimento politico, quale era stato in precedenza, ma come la massima istituzione statale, più importante di ogni altra, pilastro fondante dello Stato oltre che vero e unico detentore del potere. È la concezione che verrà poi chiamata del partito-Stato, il quale doveva funzionare in modo assai diverso da un partito tradizionale, essendo una specie di ordine militare-ideologico ("Ordine dei Portaspada", lo definì Stalin con un richiamo storico) costruito con criteri gerarchici e una disciplina rigida. Tutte le altre strutture sociali di qualsiasi tipo, dai mezzi di comunicazione di massa alle associazioni di cittadini - fossero esse sindacali, sportive, femminili o di altra natura -, dall'esercito ai Soviet e a ogni altro organismo amministrativo, andavano intese come 'cinghie di trasmissione' delle 'direttive' che venivano emanate dai massimi dirigenti del partito. Si profilava in questo modo uno Stato non solo potente, ma fortemente accentrato, in quanto aveva nel suo vertice il principale elemento motore, oltre che la concentrazione massima del potere.
Anche l'economia, nell'ambito di questa concezione, andava interamente statalizzata. Proprietà dello Stato, visto come unico rappresentante di tutto il popolo, o comunque sotto rigido controllo statale dovevano essere tutti gli strumenti di produzione e di scambio: non solo quindi le grandi industrie e gli istituti finanziari, ma anche le piccole imprese che operavano a livello microeconomico. Sebbene formalmente alcune di queste venissero denominate cooperative (o artel´, alla russa) il loro funzionamento non doveva differenziarsi da quello delle imprese statali: uguali le regole cui dovevano sottoporsi, uguale il 'piano' o programma che dovevano eseguire, uguale la 'disciplina' che dovevano osservare. L'economia di uno Stato veniva quindi concepita come l'attività di un'unica immensa azienda, programmata e diretta dal centro secondo un'unica linea di progettazione globale. La statalizzazione dell'intera economia, anche nelle manifestazioni più modeste, provocava a sua volta la statalizzazione di ogni attività sociale.
Lo Stato onnicomprensivo doveva avere anche una propria ideologia ufficiale, stabilita secondo i canoni di una dottrina che non consentiva eresie o 'deviazioni': sebbene altre ideologie potessero essere tollerate, solo quella ufficiale andava propagandata e insegnata, e aveva i suoi custodi e le sue scuole. Lo Stato così concepito era, secondo un termine caro al linguaggio staliniano, 'monolitico', in quanto espressione di una società che doveva essere monolitica a sua volta. Esso era il solo garante dell'adozione di principî socialisti sia nella produzione che nella distribuzione. L'identificazione di questa concezione dello Stato col solo socialismo possibile fu il secondo perno di quello che sarà poi chiamato lo stalinismo. Essa divenne anche il veicolo ideale della sua espansione al di fuori dei confini dell'Unione Sovietica.
Il prevalere di tali idee fu favorito dalle tensioni sociali, dalla necessità di rapida crescita economica e dall'isolamento internazionale in cui l'URSS venne a trovarsi negli anni venti. Esse si fecero strada, invece, tutt'altro che facilmente nella società uscita dalla Rivoluzione russa del 1917, culminata nell'ottobre di quell'anno con la conquista del potere da parte dei bolscevichi. Nella sua grande complessità il moto rivoluzionario aveva avuto importanti componenti democratiche, populiste, libertarie, antistataliste, non solo antimonarchiche e anticapitaliste: tutte caratteristiche che si conciliavano assai poco o non si conciliavano affatto con le concezioni dello stalinismo. La società e lo stesso Partito bolscevico offrirono una prolungata resistenza alla loro affermazione: affinché questa si realizzasse fu necessario un forte impiego della costrizione, attuato col ricorso sistematico alla forza e con un esercizio molto pesante della dittatura politica. La prassi attraverso cui lo stalinismo si impose, e non solo le concezioni su cui si basava, divenne quindi parte integrante del concetto.
Concezioni e metodi staliniani provocarono già a metà degli anni venti profonde lacerazioni tra il personale dirigente emerso dalle lotte rivoluzionarie: l'originale nucleo del Partito bolscevico che aveva fatto la rivoluzione si spaccò in due. Il conflitto più grave andò tuttavia crescendo nel profondo della società sovietica quando, sul finire dello stesso decennio, posto di fronte al problema dello sviluppo economico del paese, il gruppo staliniano cercò di imporre i suoi disegni all'immenso mondo contadino russo e sovietico nel quadro di uno sforzo di industrializzazione quanto più possibile accelerato.I contadini costituivano allora circa i quattro quinti della popolazione dell'URSS. Essi avevano avuto una parte importante nella rivoluzione, dapprima con la spartizione spontanea delle terre nobiliari e la loro distribuzione egualitaria, poi con le loro oscillazioni a favore o contro i bolscevichi, quando questi avevano cercato nel corso della guerra civile di requisire i prodotti agricoli per alimentare le città e il loro esercito. Indurre i contadini a entrare in aziende collettive, per di più sottoposte a un ferreo controllo statale, richiese non solo prolungati sforzi, scaglionati su un intero quinquennio, ma il massiccio impiego della costrizione e della violenza, con deportazioni degli strati più agiati o anche soltanto più indipendenti della popolazione rurale. Il paese pagò questa vasta operazione con una prolungata carestia che provocò molte vittime proprio nelle regioni cerealicole. Da allora anche la forzata collettivizzazione agraria fu considerata uno degli elementi più specifici dello stalinismo.
Neanche i primi risultati ottenuti sulla via dell'industrializzazione poterono allentare la tensione che era stata provocata nella società dallo sconvolgimento delle campagne e dal convulso sviluppo urbano che ne era conseguito. Sebbene queste operazioni fossero state accompagnate da una costante promozione delle concezioni staliniane e dalla loro progressiva applicazione nella costruzione del nuovo Stato sovietico, forti resistenze continuavano a manifestarsi nello strato dirigente del paese, oltre che nel popolo. Per stroncarle il governo staliniano ricorse, nella seconda metà degli anni trenta, a una nuova ondata di repressioni, a un vero e proprio 'terrore di massa', come verrà poi definito, un'autentica caccia ai presunti 'nemici del popolo', che colpì soprattutto il Partito bolscevico anche in quella sua parte che aveva in precedenza sostenuto Stalin, ma in cui si riaffacciavano di continuo riserve circa la sua linea politica, la sua condotta di governo, le sue idee sullo Stato e il socialismo. Le vittime erano costituite principalmente dai dirigenti politici, sia al vertice che alla periferia, passando attraverso i vari livelli intermedi; ma l'ampiezza del fenomeno non poteva non coinvolgere anche strati più estesi di popolazione, tanto fra i russi quanto fra le altre genti che abitavano l'Unione Sovietica. Sebbene il governo di Stalin riuscisse anche a costruirsi una notevole piattaforma di consenso nel paese, i suoi metodi repressivi e il suo volto dispotico divennero da quel momento attributi inseparabili del concetto stesso di stalinismo.Sul finire degli anni trenta anche l'ideologia ufficiale dello Stato trovò la sua definizione sistematica e una più ampia diffusione in forme codificate paragonabili ad autentici dogmi. L'accompagnò un'esaltazione senza limiti del suo principale artefice, che toccò punte di ossequio religioso più tardi designato senza perifrasi come 'culto'. La concezione di un partito, di uno Stato, persino di una società 'monolitici' trovò così la sua formulazione più completa, ma l'impossibilità di conseguire un simile monolitismo costrinse d'altra parte il governo staliniano a perpetuare i suoi metodi dispotici e polizieschi.
Sin qui il fenomeno era rimasto circoscritto entro i confini dell'URSS: era stato cioè solo russo o sovietico. La sua influenza aveva tuttavia carattere più vasto. Sia pure fra aspri conflitti, le concezioni staliniane erano state sposate da tutti i partiti che componevano il movimento comunista internazionale, allora inteso dai protagonisti come un unico partito mondiale con la sua guida a Mosca. Ma nessuno di quei partiti era mai arrivato a svolgere funzioni di governo, con la sola, assai parziale, eccezione della Repubblica spagnola durante la guerra civile e di alcune regioni cinesi. Nessuno quindi aveva avuto la possibilità di foggiare uno Stato secondo quelle premesse teoriche: lo stalinismo era invece soprattutto una costruzione statale, realizzata secondo uno schema concettuale.
Diversa fu la situazione dopo la seconda guerra mondiale, che vide l'URSS fra le grandi potenze della coalizione vittoriosa. Grazie all'enorme prestigio conquistato con quella vittoria, anche il movimento comunista trovò nuovo vigore e conobbe una grande espansione. Nella scia degli eserciti sovietici alcuni partiti arrivarono al governo di parecchi paesi nell'Europa centro-orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e parte della Germania) e in Asia (Corea settentrionale). In ognuno di quei partiti si dibatté allora se l'esperienza sovietica, quindi staliniana, dovesse essere ricalcata anche nei rispettivi paesi o non dovesse essere piuttosto modificata. Dopo qualche anno di incertezza prevalse la prima ipotesi, sia perché questa fu la volontà dell'URSS e di Stalin, che tutti riconoscevano allora come una sorta di capo supremo, sia anche per una spinta interna a trapiantare sul proprio suolo quel modello, cui già prima della guerra si era guardato come un esempio, per di più aureolato ora di nuova luce.
Fu soprattutto questo secondo fattore a determinare l'adozione di concezioni e pratiche staliniane anche in quei paesi dove i comunisti arrivarono al potere nell'immediato dopoguerra per via autonoma, cioè senza un'influenza diretta degli eserciti sovietici. Fra questi paesi vanno annoverati in Europa la Iugoslavia e l'Albania, in Asia la Cina e il Vietnam. Quasi tutti saranno prima o poi indotti a modificare in misura più o meno radicale quella loro adesione originaria allo stalinismo, ma all'inizio tutti lo fecero proprio, nel senso che ne adottarono i principali postulati teorici e pratici, e furono indotti a metterli in pratica con metodi analoghi, anche se forse in nessuno di essi si ebbero le manifestazioni parossistiche conosciute dall'URSS prebellica. Fu questo il momento in cui lo stalinismo ebbe la sua maggiore estensione per l'entità delle aree territoriali e delle masse umane interessate, ormai più cospicue di quelle che costituivano l'intera Unione Sovietica. In questa fase la canonizzazione della sua ideologia fu ribadita in forme altrettanto rigide e in proporzioni internazionali assai più vaste di quelle che aveva assunto sul finire degli anni trenta.
Il fenomeno finì coll'improntare non solo il movimento comunista. A metà del secolo si ritrovano - almeno in parte, se non in tutto - le concezioni staliniane in diversi paesi allora emancipati dalla dominazione coloniale, dotati quindi di un'indipendenza appena ottenuta e alle prese con assillanti problemi di sviluppo economico. L'ideologia che vi prevaleva non era la stessa, ma l'organizzazione dello Stato e dell'economia ricalcava parecchi aspetti dell'URSS staliniana. Analoga era anche la funzione attribuita ai canoni ideologici, per quanto distanti essi fossero da quelli che accompagnavano la versione classica dello stalinismo: i motivi nazionalistici in genere vi prevalevano su quelli socialisti. L'interesse suscitato dalle concezioni staliniane anche al di fuori del movimento comunista era dovuto soprattutto al rapido incremento che l'economia sovietica aveva conosciuto nella fase dell'industrializzazione accelerata e che aveva permesso la crescita della potenza, soprattutto militare, del paese. Tuttavia la prima crisi arrivò abbastanza in fretta e si manifestò pochi anni dopo la morte di Stalin. Se era potuto apparire una risposta esauriente ai problemi di paesi che vivevano fasi di emergenza rivoluzionaria, soffrivano per il ritardo della loro economia o ritenevano di doversi preparare a possibili o incombenti crisi belliche, lo stalinismo non poteva più soddisfare le esigenze di società che aspiravano a uno sviluppo più diversificato e pacifico. Scomparso Stalin, il fenomeno cominciò a essere sottoposto a critica anche nell'Unione Sovietica. Le opposizioni che esso aveva incontrato dentro lo stesso movimento comunista e che erano state a lungo soffocate ritrovarono vigore. I paesi che avevano adottato in un primo momento le sue concezioni e i suoi metodi cominciarono a esplorare strade differenti. Il monolitismo, che doveva per principio contraddistinguere il fenomeno, andò definitivamente perduto.
Eppure, anche dopo queste crisi, il nucleo principale delle concezioni staliniane restò in vigore soprattutto nell'Unione Sovietica e nei paesi a essa più strettamente alleati. Sparirono i metodi tirannici con cui erano state imposte. Si attenuò la rigidità degli indirizzi economici che ne erano conseguiti. Si fece più duttile, con diverse gradazioni da paese a paese, la predicazione dei suoi principî. Ma l'essenziale, per quanto riguarda la struttura dello Stato, sopravvisse per circa tre decenni alla scomparsa di Stalin. La seconda crisi dello stalinismo, maturata negli anni ottanta, finì col provocare anche la scomparsa dei motivi socialisti che ne erano stati la giustificazione, nonché la caduta dei regimi comunisti tanto nell'URSS quanto negli altri paesi con essa coalizzati.
Numerose sono state le interpretazioni e le analisi cui lo stalinismo è stato sottoposto, dapprima in sede politica, poi nella ricerca storica e in quella sociologica che, sebbene sia spesso nata come ancella della prima, ha poi saputo trovare la propria autonomia. Ne sono risultate diverse scuole di pensiero, assai differenti se non addirittura contrastanti fra loro, e si è sviluppata una vivace discussione che ha gradualmente consentito, con l'aiuto delle diverse scienze sociali, di avere una migliore conoscenza del fenomeno.
Quella che nel dibattito ha negato la legittimità del termine o ne ha almeno propugnato un uso assai circoscritto è stata proprio la teoria che ha avuto a lungo maggiore diffusione, tanto da apparire in determinati momenti come una specie di monopolio interpretativo. Secondo i suoi sostenitori, lo stalinismo era solo lo sviluppo coerente, logico, persino ineluttabile dell'indirizzo che i bolscevichi avevano impresso alla Rivoluzione russa, e quindi dell'operato e del pensiero politico di Lenin. Si ammetteva che vi fossero state delle differenze o almeno delle gradazioni fra il primo e il secondo momento della storia dell'URSS, ma si sarebbe comunque trattato di particolari non essenziali. Nel governo di Stalin vi sarebbero state maggiori crudeltà, rozzezza e violenza che non in quello, peraltro breve, di Lenin. Nella sostanza però tutto ciò che lo caratterizzava era già presente, almeno in potenza, nel precedente periodo della politica bolscevica: non si poteva quindi tracciare alcun segno di distinzione tra l'uno e l'altro fenomeno. Non c'era dunque motivo per parlare dello stalinismo come di qualcosa a sé poiché si sarebbe trattato soltanto di una fase parziale, peraltro inevitabile o quasi, di un unico fenomeno, il comunismo, che solo aveva rilevanza storica sia nell'URSS che altrove.
Di questa interpretazione, che poneva l'accento sulla continuità della storia sovietica e del movimento comunista, si sono avute due versioni contrapposte, addirittura antitetiche, ma coincidenti nella metodologia. La prima versione è quella che aveva corso nell'Unione Sovietica, sia durante il periodo staliniano, sia più tardi, quando Stalin era ormai scomparso e una critica dello stalinismo era già stata avviata. Si trattava di una versione apologetica, la quale in sostanza sosteneva che tutto il corso degli eventi nell'URSS era sempre stato coerente con le sue premesse rivoluzionarie, fedele a quello che veniva chiamato l'insegnamento di Lenin. Per il governo di Stalin questa coerenza era stata lo strumento per difendere il proprio operato dagli attacchi cui era stato sottoposto nello stesso movimento bolscevico. Ma anche più tardi, quando i nuovi dirigenti sovietici cercarono di prendere le distanze dal dittatore defunto, essi finirono per sostenere che i suoi 'errori' non avevano potuto deviare il corso della storia dalla sua coerenza rivoluzionaria, e non avevano quindi alterato la correttezza dell'azione del partito, di cui Stalin era pure stato il capo. Non vi era dunque motivo di parlare di 'stalinismo': quello di Stalin era un periodo glorioso, per quanto difficile, della storia nazionale, così come esaltante era l'intero cammino percorso dalla rivoluzione in poi. Unica versione ammessa nell'URSS, questa interpretazione della continuità, fu anche quella lungamente accettata, almeno in parte, dal movimento comunista.
Esisteva però una versione opposta, dominante soprattutto nella storiografia di lingua inglese, la più impegnata nello studio degli eventi sovietici. Mentre la prima versione tendeva a esaltare tutta la storia della società sovietica dalla rivoluzione in poi come una continua ascesa, la seconda pronunciava invece su quella stessa storia una condanna senza appello, facendola oggetto di una totale ripulsa. Anch'essa sosteneva la sostanziale linearità dell'evoluzione sovietica: lo stalinismo era considerato un suo momento particolare, non un fenomeno distinto. L'intero cammino sovietico, con Stalin o senza Stalin, e tutto il movimento comunista, nell'URSS o fuori dell'URSS, erano infatti marcati in modo irrimediabilmente negativo dal 'colpo di mano' con cui il bolscevismo, secondo questa interpretazione, aveva preso il potere in Russia, e quindi dall'originaria violenza esercitata allora sulla società e via via diventata cronica e sempre più pesante. Elaborata all'inizio da storici americani e inglesi (T. Hammond, A. Ulam, M. Fainsod, D. Treadgold), oltre che da profughi russi, questa linea di pensiero è poi stata adottata anche da alcune correnti di quella rinnovata opposizione, chiamata 'dissenso' (A. Solženicyn), che si manifestò nell'URSS a partire dagli anni sessanta. Essa è poi stata fatta propria anche dai dirigenti della Russia dopo la caduta del sistema comunista ed è diventata la loro dottrina ufficiale (B. El´cin, D. Volkogonov).
Una variante di questa linea interpretativa è rappresentata dalla scuola 'totalitaria'. Anch'essa in sostanza ha visto lo stalinismo come uno sviluppo della rivoluzione e delle teorie leniniane, ma lo ha nello stesso tempo considerato come parte di un fenomeno riguardante non solo la Russia o l'ex Unione Sovietica e nemmeno il solo movimento comunista (H. Arendt, C. Friedrich, R. Aron, Z. Brzezinski). Lo stalinismo andava studiato come espressione nazionale di una corrente assai diffusa nel XX secolo, chiamata appunto 'totalitarismo': ne sarebbe stato solo una versione, magari più rigorosa e pervasiva, ma analoga alle altre versioni che erano il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, il maoismo in Cina e così via. Si sarebbe trattato non di una semplice dittatura politica, ma di un regime che, forte del dominio sugli strumenti repressivi di uno Stato e sui mezzi di comunicazione di massa, avrebbe mirato al controllo di ogni momento della vita dei cittadini nei suoi aspetti tanto pubblici quanto privati. L'assimilazione di fenomeni nazionali diversi è comunque elemento essenziale e distintivo di questa teoria, che ha avuto, soprattutto nella seconda metà del secolo, un enorme successo politico, essendo diventata una specie di bandiera ideologica nella lotta senza quartiere fra i blocchi politico-militari costituiti attorno agli Stati Uniti, da una parte, e all'Unione Sovietica, dall'altra. Essa è stata in genere respinta dagli studiosi dei singoli fenomeni, portati a cogliere i tratti specifici di ognuno piuttosto che la loro comune contrapposizione alla democrazia liberale. La scuola totalitaria ha avuto tuttavia, specie all'inizio, il merito di attirare l'attenzione sull'importanza che nell'affermazione dello stalinismo, come degli altri fenomeni definiti totalitari, ha avuto lo sviluppo politico delle moderne società di massa al posto delle precedenti organizzazioni sociali più elitarie o classiste.
Nella storiografia europea e americana si sono tuttavia prospettate altre linee interpretative, portate a considerare lo stalinismo come un fenomeno che andava in tutt'altro senso rispetto al precedente moto rivoluzionario. Vale la pena di soffermarsi sulle due più importanti. La teoria formulata per prima ha visto nello stalinismo il riemergere di motivi tipici della secolare storia russa, tali da annullare in gran parte gli effetti di quella radicale rottura rivoluzionaria che era stato il 1917. Se continuità c'è stata, per i fautori di questa scuola (I. Ključnikov, N. Ustrjolov, N. Berdjaev, G. Vernadsky, N. Timasheff), è continuità con la storia russa nel suo insieme piuttosto che con la precedente esperienza bolscevica. I motivi nazionali furono effettivamente molto importanti nel regime staliniano, tanto da costituire una parte essenziale e duratura della sua ideologia. Anche di questa teoria esistono tuttavia due versioni. Una segnala soprattutto l'affinità dello Stato concepito da Stalin con quello costruito dagli zar e con i suoi metodi di governo autocratici, dispotici, burocratici, militari: passata la tempesta rivoluzionaria, il secolare Stato russo si sarebbe riformato in versione più o meno aggiornata. L'altra versione, più sofisticata (R. Tucker, M. Lewin), vede invece riprodursi con Stalin un diverso, ma non meno importante, motivo della storia russa, rivoluzionario per sua natura, ma in senso del tutto differente da quello che intendevano i protagonisti del 1917: la promozione e, in gran parte, l'imposizione da parte del potere statale di radicali cambiamenti sociali mediante una 'rivoluzione dall'alto'. Stalin sarebbe stato quindi un emulo di Pietro il Grande. Industrializzazione accelerata e collettivizzazione agraria sarebbero state le due componenti della sua 'rivoluzione', per molti aspetti antitetica a quella del 1917. Anche la diffusione dello stalinismo sarebbe stata, secondo entrambe le versioni, una riproposizione delle tendenze espansionistiche dello zarismo nelle sue fasi più dinamiche.
La seconda scuola, propensa a sottolineare soprattutto i contrasti col 1917, si è formata negli anni sessanta. La sua apparizione è coincisa col momento in cui il problema dello sviluppo dei paesi economicamente arretrati si è presentato come un'esigenza di importanza mondiale, dopo che molti Stati in Asia e Africa avevano conquistato la loro indipendenza respingendo il dominio coloniale. Essa ha visto lo stalinismo soprattutto come il prevalere di una 'politica dello sviluppo' che si è sovrapposta - e le ha in grande misura modificate - alle originali motivazioni rivoluzionarie da cui era nato lo Stato sovietico, pur continuando a servirsi di quelle motivazioni ai propri fini. L'industrializzazione è stata, secondo questa interpretazione, l'elemento essenziale dello stalinismo, capace di modernizzare il paese e destinato, per questo stesso motivo, a favorire la sua diffusione nel mondo, specie nella seconda metà del secolo. In Russia erano stati intrapresi anche prima della rivoluzione tentativi di industrializzare il paese, che presentavano analogie e differenze con quello staliniano: questo era stato soprattutto più rapido e, nonostante i suoi costi elevati, più efficace. Attenta a questo tipo di problemi, la scuola dello sviluppo (A. Gerschenkron, A. Erlich, A. Organski) ha introdotto così un approccio del tutto nuovo allo studio del fenomeno.
Le più insistenti confutazioni della continuità fra bolscevismo e stalinismo sono venute tuttavia da altri filoni storiografici di matrice marxista. Il più importante esponente di queste correnti fu Lev Davidovič Trockij, protagonista con Lenin dell'ottobre 1917, e poi il più tenace avversario di Stalin nell'Unione Sovietica. Proprio a lui e alla sua scuola di pensiero si deve il primo e più insistente impiego del termine 'stalinismo'. Anche se nacquero nel fuoco della battaglia politica, le sue analisi non furono tuttavia solo strumenti da impiegare nella polemica contingente: acquistarono assai presto dignità di indagine storica, tanto da dare origine a un'intera linea interpretativa che ha conosciuto una prolungata fortuna e molti interessanti sviluppi. Secondo questa scuola (M. Shachtman, J. Burnham) vi è rottura completa fra bolscevismo e stalinismo, fenomeni separati e contrapposti da un fiume di sangue. Trockij, i suoi seguaci e i suoi epigoni partirono da alcune analogie con la Rivoluzione francese e videro nello stalinismo un fenomeno analogo alla reazione termidoriana contro gli indirizzi giacobini e al successivo bonapartismo. In termini di classe, questa scuola indicò nello stalinismo l'affermarsi, contro gli ideali egualitari della rivoluzione, di una classe di funzionari e burocrati in cui confluivano esponenti del vecchio apparato statale zarista e nuovi dirigenti che si erano via via attribuiti rinnovati privilegi anche nella società post-rivoluzionaria. Questa idea conobbe poi molti sviluppi e molte variazioni, fino all'enunciazione dell'arrivo al potere di una "nuova classe", formulata dallo iugoslavo Milovan Đilas, che applicò questo concetto non al solo stalinismo e al suo Termidoro, ma a quello che egli definiva l'intero sistema comunista.
Così come incontrò sempre avversari, oltre che seguaci, nel movimento comunista e nelle correnti di pensiero marxiste, lo stalinismo vi trovò anche tendenze che si preoccupavano di analizzarne la natura e che non possono essere ricondotte semplicemente a Trockij e ai suoi seguaci. Ci limitiamo a segnalarne due. Una fu soprattutto di filiazione iugoslava (P. Vranicki, H. Lefebvre), al di là di quanto scrisse Đilas. Essa vide nello stalinismo la manifestazione, sia pure spinta al limite estremo, di una tendenza più generale del mondo nel XX secolo, e precisamente la crescita costante del ruolo dello Stato nell'economia e quindi nella vita associata in genere. La seconda (K.A. Wittfogel) vi vide invece una ripetizione aggiornata e ammodernata di quei 'dispotismi orientali' che si affermarono storicamente, dall'Egitto alla Cina, soprattutto in antiche civiltà agrarie: con lo stalinismo lo stesso modello di società sarebbe stato ritenuto idoneo per la prima volta alle esigenze dello sviluppo dell'industria (così che se ne parla anche come di un originale 'dispotismo industriale').
Tutte le interpretazioni qui esaminate hanno avuto un'origine politica. Né era possibile qualcosa di diverso, visto il posto tanto rilevante che lo stalinismo ha occupato negli scontri politici del secolo. Tutte però hanno anche conosciuto poi importanti sviluppi nel pensiero accademico. Le varie scuole hanno spesso polemizzato fra loro, anche in forme e con accenti assai aspri. Di conseguenza è proprio il loro confronto che offre un'idea più precisa di quanto ampio e variegato sia stato l'impegno analitico attorno a questo tema. Senza peccare di eclettismo si può tuttavia sostenere che, se nessuna di esse sembra aver fornito un'analisi esauriente, tutte hanno contribuito, in maggiore o minore misura, a mettere in luce aspetti diversi del fenomeno. Il loro confronto aiuta anche a comprenderne l'estrema complessità e a indicare come nel suo sviluppo si siano intrecciate molte fra le più importanti correnti che hanno caratterizzato, non solo e non principalmente in Europa, la storia del mondo contemporaneo. (V. anche Autoritarismo; Comunismo; Dittatura; Marxismo; Società di massa; Totalitarismo).
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