Stati Uniti
Geografia umana ed economica
di Pasquale Coppola
Stato dell'America Settentrionale. L'esordio del nuovo millennio ha visto ulteriormente rafforzarsi il peso politico-militare degli S. U. sulla scena mondiale; peraltro, le scelte principali del presidente repubblicano G.W. Bush e dei suoi consiglieri neocons hanno per lo più declinato in termini di unilateralismo il ruolo della superpotenza sui maggiori teatri di crisi. Ne sono derivati, anche in seno all'ONU, frequenti dissensi con altri grandi fulcri dell'ordine mondiale, orientati piuttosto verso processi multilaterali di decisione: questo sembra fare della supremazia statunitense un 'dominio senza egemonia'.
Gli orientamenti del governo di Washington hanno tratto ulteriore impulso dalla reazione ai sanguinosi attentati condotti l'11 settembre 2001 da terroristi islamici di matrice fondamentalista contro le Twin Towers di New York e contro la sede del Pentagono. L'impatto di questi attacchi, che facevano seguito ad altri di analoga ispirazione contro civili e militari statunitensi in Africa e in Asia, risultava, del resto, sconvolgente a livello di opinione pubblica per le migliaia di vittime causate e, ancor più, per il crollo del tradizionale senso di sicurezza dai nemici esterni vissuto sul suolo statunitense. La decisa campagna del Paese contro il terrorismo internazionale si è aperta nel novembre 2001 con una pesante azione militare intrapresa in Afghānistān ed è proseguita, dal marzo 2003, con la poderosa offensiva militare 'preventiva' contro l'Irāq di Ṣ. Ḥusayn (v. oltre: Storia). La guerra irachena, costata in quattro anni oltre 3000 vite alle forze armate di Washington, evoca tuttavia negli S. U. lo spettro del Vietnam, suscitando manifestazioni di protesta e diffusi dissensi, di cui è espressione la sconfitta repubblicana nelle elezioni parlamentari di midterm (fine 2006). Intanto, lo sforzo di stabilire una sicurezza conforme alle aspettative di Washington nel 'grande' Medio Oriente e di sconfiggere le minacce terroristiche ha acuito le tensioni esistenti tra gli S. U. e Paesi come la Siria e l'Irān e indotto l'aviazione americana ad attaccare, nel gennaio 2007, supposte basi di al-Qā̔ida in territorio somalo.
I timori di infiltrazione di terroristi hanno comportato più severi controlli delle frontiere, in particolare lungo il versante meridionale che confina con il Messico. Sui 3200 km di quest'ultimo perimetro grava anche la preoccupazione per il flusso poderoso e continuo di immigrati provenienti dalle zone più povere dell'America Latina: un fenomeno che sta incisivamente trasformando la geografia umana del Sud degli S. U. e che suscita contrasti tra i sostenitori dell'identità di alcune regioni e i difensori della tradizione di apertura che ha generato il melting pot statunitense. Una quota cospicua dei transiti lungo la frontera è data da clandestini (almeno 400 mila l'anno), convogliati da organizzazioni criminali che lucrerebbero da questo traffico 40 miliardi di dollari annui; alcune di tali organizzazioni, peraltro, intervengono anche nel transito della droga, che vede nel Messico la principale via di rifornimento del mercato negli Stati Uniti. Per tutelare meglio questo confine, lungo il quale trovano la morte ogni anno centinaia di disperati, sono stati decisi nel 2006 la costruzione di un muro di circa 1100 km e l'affiancamento della polizia di frontiera con la Guardia nazionale e con ronde di volontari (cazamigrantes).
Se la frontiera con il Canada è tradizionalmente priva di tensioni, salvo per qualche problema di utilizzo delle acque nella regione dei Grandi Laghi, le prospettive di scioglimento dei ghiacci artici per effetto del riscaldamento climatico minacciano di trasformarla sin da ora in un terreno di difficile confronto. Si annuncia, infatti, entro gli anni Venti del 21° sec., la possibilità di attivare il mitico 'passaggio a Nord-Ovest': le navi potrebbero praticare la rotta artica, fondamentale, per es., per il trasporto del greggio alascano verso le coste atlantiche. Ma per il controllo della via d'acqua, e per l'appropriazione delle sperate risorse energetiche dell'area artica, si sta già accendendo una controversia (anche con altri Paesi confinanti con le terre polari), che alle discussioni dei giuristi internazionali tende già ad affiancare i vecchi argomenti delle cannoniere.
Secondo le stime, la popolazione degli S. U. ha sfiorato i 300 milioni di ab. nell'autunno 2006. La densità media è di 31 ab. per km2 con un deciso contrasto tra le aree di più antica colonizzazione bianca della costa nord-orientale, dove nel New Jersey sono stanziati oltre 430 individui per km2, e i distretti montuosi dell'Ovest, dove nel Wyoming e nel Montana la stessa superficie ne ospita appena 2; i gelidi spazi dell'Alaska restano poi sotto gli 0,5 ab. per km2. La crescita demografica complessiva dagli anni Novanta del 20° sec. è valutata nell'ordine di un quinto, a un ritmo leggermente calante, che si è fatto nel 2006 dell'1,1% annuo. Il contributo dei saldi naturali si va stabilizzando intorno alla metà di tale valore, grazie a una natalità di poco superiore al 14‰ e a una mortalità ancorata intorno all'8,5‰. Ma l'apporto delle diverse componenti etniche alla prevalenza delle nascite esprime uno dei più delicati fronti di cambiamento del Paese: fermo il gruppo bianco di origine europea intorno alla crescita zero, sono gli altri principali insiemi (a cominciare dagli individui di origine latino-americana) a dettare i ritmi espansivi. Anche l'incremento di residenti legato all'immigrazione reca un segno analogo, giacché circa una metà del milione annuo di nuovi ingressi legali proviene dall'America Centrale (Messico e Portorico in primo luogo); e la stessa provenienza - come si è visto - ha la maggior parte degli irregolari. Risultante di questa combinazione di spinte demografiche è l'ascesa in particolare della comunità dei latinos, che nei primi anni del 21° sec. ha toccato il 13% del totale, superando per la prima volta la quota di afroamericani (12,5%), mentre gli asiatici sono prossimi al 4%. I bianchi di origine europea, pur restando in netta maggioranza con quasi il 69%, stanno perdendo via via posizioni, e tale fenomeno suscita seri allarmi in alcuni ambienti più sensibili al permanere dell'impronta bianca, anglosassone e protestante del Paese.
L'avanzata della browning America, quella dalla carnagione bruna, risulta particolarmente evidente negli Stati prossimi al Messico, nei quali gli elementi affluiti in modo legittimo o illecito dall'America Latina sono fondamentali per il funzionamento delle produzioni e dei servizi e vanno ormai acquisendo serio peso politico, tanto da esprimere, per es., il sindaco di una metropoli come Los Angeles. Il permanere di un sostenuto apporto dall'esterno di elementi giovani e adulti tonifica la struttura per età della popolazione, tenendo la quota delle fasce attive centrali largamente al di sopra di quelle estreme (20% di ab. sotto i 15 anni e 17 sopra i 65). Alla complessità etnica gli S. U. uniscono pure una crescente mescolanza religiosa, che ai prevalenti fedeli cristiani (protestanti per un quarto e cattolici per oltre un quinto del totale), associa seguaci di moltissimi altri credi (tra gli altri, un 2,2% di ebrei e un 1,6% di musulmani). Il predominio dell'inglese come lingua di espressione corrente esibisce alcune crepe significative: se ne avvale ancora l'82% degli statunitensi, ma sono ormai 30 milioni i cittadini che sviluppano le loro relazioni prevalentemente in spagnolo e oltre 2 milioni quelli che utilizzano il cinese.
I principali caratteri sociali della popolazione risentono in modo marcato della distribuzione e del peso dei maggiori gruppi etnici. In effetti, i valori medi che esprimono un'alta aspettativa di vita (sugli 80 anni per le donne e sui 75 per gli uomini) o una modesta mortalità infantile (inferiore al 7‰) risultano sconosciuti all'interno degli slums dei grandi distretti industriali in disarmo del Nord-Est e dei Grandi Laghi (dove la vita dura in media 6-8 anni in meno) o nei precari alloggiamenti di latinos nelle campagne californiane. Del resto, negli S. U. ben 45 milioni di individui non hanno protezione sanitaria e gran parte di questi non accede neppure ai programmi di sostegno varati dall'amministrazione per poveri e anziani, colpiti dai tagli alla spesa pubblica. La geografia del disagio si annida in prevalenza tra i gruppi afroamericani, toccando delicati pilastri di cittadinanza, come la giustizia, l'alloggio, l'accesso all'istruzione (loro è il maggior contributo allo 0,5% di analfabetismo) e l'evolvere delle carriere scolastiche.
La popolazione urbana si è assestata su una quota dell'80%, ma il dato ha ormai scarsa significatività di fronte ai cambiamenti registrati nelle modalità dell'urbanizzazione a largo raggio e negli assetti interni degli spazi cittadini. La crisi dei modelli urbani compatti ha prodotto il dilatarsi degli insediamenti su vaste regioni metropolitane, innervate da una fittissima trama di collegamenti e investite da enormi flussi di pendolarismo, nel cui ambito si dissolve definitivamente l'antica distinzione tra città e campagna. Molti dei vecchi nuclei centrali, depauperati dal trasferimento di attività e ceti motori, hanno sofferto decenni di abbandono (così, per es., nei grandi distretti dell'industria pesante dell'area tra i Grandi Laghi e la facciata atlantica); ma a datare dagli anni Novanta hanno conosciuto spesso una fase di ripresa grazie agli investimenti nella riqualificazione dei fronti costieri o di alcuni quartieri, con l'inserimento di dinamici comparti finanziari, di attività innovative (per es., in materia di cure mediche), di funzioni culturali e di attrattive turistiche. La risposta di parte dei ceti medi e agiati all'insicurezza e ai disagi ambientali di molte grandi città è rappresentata, peraltro, dall'insediamento in piccoli nuclei periferici connotati da omogeneità sociale, buon apparato di servizi (in larga parte privati) ed efficienti sistemi di controllo nei confronti degli estranei: gated communities, il cui modello è stato rapidamente esportato ed esasperato in altre realtà con forti squilibri sociali e urbani (in particolare, nell'America Latina).
Nonostante il rilievo assunto dalla città diffusa, sono otto le aree metropolitane degli S. U. che adunano almeno 5 milioni di residenti e un'altra quindicina quelle che varcano la soglia dei 2 milioni. Al vertice della graduatoria restano le aree urbane di New York, con oltre 18 milioni di ab., di Los Angeles, con quasi 13, e di Chicago, con oltre 9. Questi tre grandi organismi urbani, insieme a San Francisco e Washington, sono anche i principali magneti dell'immigrazione a larghissimo raggio, assumendo così marcati tratti di cosmopolitismo; anche Miami è un poderoso attrattore, ma i suoi immigrati sono quasi esclusivamente di matrice latino-americana (per lo più cubani). Nei sostanziosi flussi interni, invece, i principali nodi di richiamo sono offerti dalle città degli spazi economicamente in ascesa del Sud-Est e dell'Ovest.
Condizioni economiche
Il PIL pro capite negli S. U. era prossimo nel 2004 ai 39.000 dollari, ma la sua ripartizione appariva caratterizzata da una crescente ineguaglianza: dalla metà degli anni Ottanta del 21° sec., a dispetto di diversi cicli economici espansivi che hanno consentito all'1% più ricco di raddoppiare i propri redditi, le risorse disponibili per il 60% più povero sono rimaste sostanzialmente inalterate. Benché il livello ufficiale di disoccupazione si sia contenuto negli anni 1999-2006 su una media del 5%, grazie a una marcata flessibilità nei rapporti di lavoro, l'economia più poderosa della Terra annovera ancora un 13% della popolazione sotto la soglia di povertà (e tale quota sale al 20% tra i cittadini afroamericani e i latinos); sono soprattutto gli Stati del Sud e del Sud-Est ad annoverare i maggiori contingenti di redditi bassi. Al vertice della piramide economica, peraltro, i patrimoni di alcune famiglie eguagliano la ricchezza annualmente accumulata da interi Stati.
L'ascesa del PIL, valutata a un ritmo annuo del 2,9% nel periodo 1999-2006, presenta alcuni profili di ambiguità, perché è in prevalenza finanziata con l'accrescimento del debito estero, che ha superato il 20% del prodotto. La mole debitoria si espande per il pesante saldo negativo degli scambi commerciali, che ha preso a manifestarsi con evidenza all'inizio del 21° sec. e che soltanto nel 2004 ha raggiunto i 750 miliardi di dollari, sotto l'imponente concorrenza dell'emergente colosso cinese. Del resto, più di un quinto di questo scompenso è maturato proprio nell'ambito dell'interscambio con la Cina, la quale ha investito larga parte delle sue eccedenze a finanziamento del Tesoro statunitense, divenendone il principale creditore. Il deficit del bilancio statale, aggravatosi anch'esso, risente non poco dei livelli di spesa imposti dalle operazioni belliche dell'amministrazione Bush, che nel 2006 hanno raggiunto i 2 miliardi di dollari al giorno.
Con l'impiego di poco meno del 2% della forza-lavoro, il comparto primario contribuiva nel 2004 per l'1% alla formazione del reddito complessivo. L'ammodernamento delle aziende agricole e quello dell'allevamento verso dimensioni medio-grandi, con l'utilizzo di tecniche d'avanguardia (compresa l'introduzione su larga scala degli OGM), è ormai definito da tempo. Nonostante la forte espansione dei consumi interni legata a diete assai ricche, le alte rese del comparto riescono a sostenere persistenti flussi verso l'estero, in particolare di frumento, mais e soia; nel complesso, le derrate, insieme con i prodotti della pesca nonché i prodotti di una fiorente attività agroalimentare, rappresentavano al 2005 il 12% dell'export. Se restano entrambe allineate sul 22-23% le quote di occupazione e quelle di reddito fornite dall'industria, è la struttura interna del settore che continua a variare profondamente. È ormai ultimato lo smantellamento dei vecchi fulcri dell'industria pesante, che sono stati parzialmente trasferiti fuori del suolo statunitense. Si consolidano, invece, comparti di punta, quali l'aerospaziale, le biotecnologie, l'informatica, la farmaceutica, le telecomunicazioni, sostenuti da una spesa pubblica e privata nel ramo della ricerca che nel 2004 ha toccato il 2,7% del PIL: non a caso quasi due quinti delle vendite all'estero sono rappresentati appunto da manufatti ad alto contenuto tecnologico. Anche per queste industrie innovative la tendenza a ridurre i costi per fronteggiare un'agguerrita concorrenza europea e, sempre più, asiatica induce a conservare sul suolo statunitense soprattutto i centri nevralgici delle aziende, decentrando all'estero diverse fasi dei processi di produzione. Un esempio significativo è offerto dalle circa 4000 imprese che hanno impiantato i loro stabilimenti appena oltre il confine messicano, al fine di fruire di costi di lavoro e tassazioni più convenienti. Altri rami di attività che incrementano il loro respiro, soprattutto nei grandi gangli di creatività, come New York oppure Los Angeles, sono quelli legati a un particolare stile di vita: dall'industria dell'alta moda a quella dell'intrattenimento fino a quella culturale. Molti di tali comparti confinano con il versante del terziario, che, con il 75% degli addetti e del reddito, domina ormai saldamente l'economia statunitense. Assi portanti ne sono le attività bancarie e finanziarie che regolano immensi flussi di danaro dagli uffici concentrati in prevalenza in alcune piazze borsistiche di rilievo mondiale, prime fra tutte New York, San Francisco e Chicago. Notevole è anche l'apporto del ramo delle comunicazioni e dei trasporti: ai traffici interni condotti su una fittissima e moderna trama infrastrutturale (autostrade, vie d'acqua e ferrovie), si associano le componenti internazionali nel movimento di alcuni grandi porti commerciali (come il sistema di banchine tra New York e Newark e quello tra Los Angeles e Long Beach) e di un esteso complesso di aeroporti (con i nodi principali negli scali di New York e nei gangli di Atlanta, Chicago e Dallas). Non secondario è il peso assunto dalle attività turistiche, dato che gli S. U., con oltre 46 milioni di ingressi nel 2004, sono la terza destinazione al mondo delle correnti di visitatori (qui soprattutto giapponesi e messicani).
Benché il Paese disponga di immense risorse energetiche, con 270 milioni di t annue di petrolio, 540 miliardi di m3 di gas, 900 milioni di t di carbone, cui si affiancano la maggiore produzione idroelettrica al mondo e gli apporti di un centinaio di centrali nucleari, gli immensi consumi legati ai modelli di vita dominanti rendono indispensabile in questo campo strategico il ricorso ai rifornimenti esterni. In particolare, per il petrolio la dipendenza dall'estero si approssima al 60%, offrendo una valida chiave interpretativa dell'interventismo politico-militare degli S. U. in molti scacchieri meglio dotati in termini di fonti energetiche e sugli itinerari cruciali per il loro passaggio. La mole dei consumi energetici rappresenta un punto delicato anche sul fronte degli equilibri ambientali, compromessi pesantemente pure da altri fattori inquinanti. Per quanto non abbiano aderito al Protocollo di Kyoto, gli S. U. hanno intrapreso, dal livello centrale a quelli periferici, un'estesa battaglia per salvaguardare i quadri naturali e gli spazi urbanizzati, talora soggetti ad alti rischi per la salute pubblica; ma ogni generazione incrementa significativamente il suo consumo di suolo e un cittadino degli S.U. continua a produrre 5500 kg l'anno di carbonio equivalente, contro una soglia critica di 500 kg.
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Politica economica e finanziaria
di Giulia Nunziante
La politica economica adottata dalle diverse amministrazioni statunitensi nel periodo 1999-2006 (v. tab.) fu fortemente condizionata dalla recessione che colpì il Paese tra l'autunno del 2000 e l'estate del 2001. Negli anni precedenti a tale crisi, il presidente B. Clinton aveva portato avanti il suo impegno di assicurare il consolidamento delle finanze perseguendo il risanamento del bilancio dello Stato. Questa politica aveva fatto registrare il suo maggiore successo nel 2000, anno in cui il saldo dei conti pubblici (al netto del gravoso carico dovuto alla spesa previdenziale) aveva segnato un avanzo pari all'1,6% del PIL. Tali risultati erano stati conseguiti grazie, tra l'altro, a una rigida applicazione del Budget Enforcement Act del 1990, che imponeva vincoli stringenti alle spese discrezionali delle pubbliche amministrazioni. In seguito, il crollo delle quotazioni azionarie nelle principali borse mondiali e gli attacchi terroristici del settembre 2001 contribuirono ad arrestare la crescita del Paese e imposero al neoeletto presidente G.W. Bush di individuare nuove priorità nei suoi interventi di politica economica. Pertanto furono messe in atto politiche fiscali espansive e manovre 'accomodanti' sul mercato della moneta che consentirono una significativa inversione di tendenza, permettendo agli S. U. nel volgere di due anni di riassumere il ruolo di traino dell'economia mondiale. Il costo di tali interventi gravò principalmente sulle finanze pubbliche, che segnarono un drastico deterioramento, a livello sia federale sia locale. Per promuovere il consolidamento del bilancio dello Stato, a partire dal biennio 2003-04, l'amministrazione Bush mutò nuovamente l'indirizzo della sua politica economica, dichiarando l'intenzione di promuovere la stabilità macroeconomica nel rispetto di una crescita sostenibile. Era infatti opinione di tale amministrazione che sia l'incremento della produttività delle imprese, sia il conseguente e significativo aumento dei profitti delle aziende avrebbero contribuito ad assicurare l'espansione degli investimenti, la crescita dell'occupazione e più in generale lo sviluppo del mercato interno, senza dover far ricorso a costosi interventi dello Stato.
A partire dal 2001, la politica fiscale dell'amministrazione Bush venne utilizzata quale principale motore per stimolare la crescita economica. La riduzione permanente delle imposte sul reddito delle persone fisiche (Economic Growth and Tax Relief Reconciliation Act, giugno 2001), l'introduzione di altri sgravi fiscali sui trasferimenti di proprietà attraverso donazioni e lasciti ereditari, l'alleggerimento della pressione fiscale sui dividendi di impresa e sui guadagni in conto capitale (Jobs and Growth Tax Relief Reconciliation Act, maggio 2003), l'introduzione di uno sconto fiscale alle famiglie con più redditi, l'incremento del credito d'imposta sull'infanzia e la regolamentazione più liberale per gli investimenti delle imprese rappresentarono i principali strumenti elaborati dal Congresso per promuovere la creazione interna di ricchezza. Contestualmente, per quanto riguarda le uscite del bilancio dello Stato, l'amministrazione doveva far fronte a incrementi consistenti delle spese urgenti per i settori della difesa e della sicurezza interna. D'altra parte, già a partire dalla seconda metà del 2003, le autorità si adoperarono al fine di promuovere il risanamento dei conti pubblici, nel frattempo deterioratisi, facendo sì che l'accelerazione dell'occupazione e il miglioramento della redditività delle imprese compensassero la graduale attenuazione dell'impulso fornito dalle politiche economiche. Nel 2005 le autorità espressero l'intenzione di riportare l'incidenza del deficit sul PIL all'1,3% entro il 2010. Tale obiettivo doveva essere raggiunto attraverso un drastico ridimensionamento delle spese discrezionali - che a partire dal 2000 erano sfuggite al precedente rigoroso controllo -, un contestuale aumento della pressione fiscale - permesso dalle favorevoli prospettive di crescita economica e attuato secondo criteri di progressività - e l'adozione di meccanismi di drenaggio fiscale.
Il consolidamento delle finanze pubbliche non poteva prescindere dalla riforma del sistema di sicurezza sociale: tale revisione era resa improcrastinabile dal graduale invecchiamento della popolazione e dall'incremento dei costi delle prestazioni sanitarie. In particolare, nel corso del 2005 l'amministrazione pose al centro del dibattito politico e sociale la necessità di una riforma del sistema previdenziale che contemplasse l'innalzamento dell'età di pensionamento e l'introduzione di un meccanismo di indicizzazione delle pensioni più favorevole per i lavoratori delle classi meno agiate. Per quanto concerne il settore sanitario, l'amministrazione intervenne nel 2003 con interventi mirati, quali l'introduzione di incentivi fiscali volti a favorire la sottoscrizione di assicurazioni sanitarie e la previsione di agevolazioni fiscali relative alle spese sanitarie e di assistenza sostenute dai privati. A partire dal 2005 venne inoltre avviata la ristrutturazione del settore, con la ridefinizione della divisione delle responsabilità di natura fiscale tra gli organi federali e lo Stato.
In risposta alle crescenti difficoltà di natura finanziaria di importanti società quotate (come il fallimento nel dicembre 2001 della Enron, prima società statunitense nel settore energetico, e nel luglio 2002 della WorldCom, seconda società nel settore delle telecomunicazioni), l'amministrazione avviò un'articolata riforma della regolamentazione su tali società, con l'obiettivo di far sì che le imprese statunitensi riconquistassero la fiducia degli investitori nazionali ed esteri. La riforma si fondava principalmente su tre pilastri: promuovere il perfezionamento della disciplina dei mercati finanziari, assicurare la revisione delle procedure per la valutazione dei bilanci societari e, infine, sviluppare nelle società private norme e comportamenti di autodisciplina. Infatti, al fine specifico di garantire la correttezza dei comportamenti nei soggetti che operavano sui mercati finanziari e di conferire maggiore attendibilità alle informazioni sull'andamento delle società - accrescendone contestualmente la tempestività - furono varate misure che riguardavano la supervisione e l'indipendenza delle agenzie di revisione, la responsabilità degli organi aziendali, le operazioni in conflitto di interesse (in particolare fu abolita la possibilità per le agenzie di revisione di fornire servizi aggiuntivi alle società clienti) e i sistemi di controllo interno aziendale, le regole di trasparenza, il ruolo e le funzioni degli analisti finanziari e delle agenzie di rating, il sistema delle sanzioni nei casi di falso, di frode e di ostacolo alla giustizia.
Particolare attenzione fu rivolta al settore agricolo. Il programma di sostegno all'agricoltura per il periodo 2002-2007, delineato nell'ambito del Farm Security and Rural Investment Act (maggio 2002) in sostituzione della precedente legge del 1996, fu inserito in un contesto normativo ampio che regolava aspetti diversi quali lo sviluppo rurale, il commercio, la produzione di bioenergie, la ricerca, la tutela dell'ambiente; inoltre furono introdotti nuovi meccanismi di finanziamento diretto ai produttori agricoli. Tale intervento, che favoriva in modo particolare i grandi proprietari terrieri, pose i produttori agricoli stranieri in una posizione di svantaggio concorrenziale rispetto a quelli statunitensi.
La politica monetaria adottata dalla Federal Reserve seguì sostanzialmente gli orientamenti e gli indirizzi perseguiti dalle diverse amministrazioni mediante la politica fiscale. Infatti, durante gli ultimi anni dell'amministrazione Clinton, le autorità monetarie assicurarono il controllo della liquidità, riuscendo a mantenere nel corso del 1999 l'inflazione vicina al 2%. Successivamente, con l'amministrazione Bush la gestione della politica monetaria assicurò il sostegno alla ripresa economica mediante la riduzione del tasso d'interesse obiettivo sui federal funds e del tasso di sconto, preservando nel contempo la stabilità dei prezzi. Tale atteggiamento monetario espansivo, assunto con rapidità e intensità, consentì di contrastare il peggioramento della redditività delle imprese e il conseguente declino degli investimenti, evitando il deterioramento della fiducia dei consumatori. Per la realizzazione di tale politica furono deliberate nel 2001 misure straordinarie al fine di assicurare al sistema finanziario adeguati livelli di liquidità. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del 2004, le autorità monetarie inasprirono la loro manovra tramite l'innalzamento graduale del tasso d'interesse, non ritenendo prossimi rischi di deflazione. Infine, allo scopo di promuovere la credibilità della Federal Reserve, ridurre la variabilità dei prezzi sui mercati finanziari e mantenere stabili le aspettative di inflazione, nel corso del periodo in esame, e con particolare vigore a partire dal 2005, fu deciso di adottare una maggiore trasparenza nelle valutazioni e nelle decisioni di politica monetaria. In particolare, le autorità competenti si adoperarono per definire con chiarezza i propri obiettivi di inflazione e diffondere con periodicità regolare i dati relativi al mercato monetario, allungando, tra l'altro, l'orizzonte temporale delle previsioni sull'andamento dei prezzi.
La politica commerciale realizzata dagli S. U. fu oggetto di numerose critiche e discussioni. Infatti, da una parte, l'amministrazione Bush si dichiarava intenzionata a promuovere il commercio mondiale facendo appello agli accordi regionali siglati con l'Europa, l'America Latina e l'Asia, e ai singoli trattati bilaterali; dall'altra, un bilancio delle partite correnti quasi costantemente passivo fin dall'inizio degli anni Ottanta spingeva gli organi di governo a ricorrere a misure di limitazione delle importazioni in settori quali quello agricolo, del legno, siderurgico e tessile. L'imposizione di tali barriere al commercio fu fortemente criticata dalla comunità internazionale in quanto incoraggiava il ricorso a pratiche protezionistiche su scala mondiale, con conseguenti ricadute sul processo di liberalizzazione multilaterale degli scambi in atto.
Storia
di Tiziano Bonazzi
I due principali candidati alle elezioni presidenziali del 2000, A. Gore, vicepresidente di B. Clinton, per i democratici, e G.W. Bush, governatore del Texas e figlio dell'ex presidente G.H.W. Bush, per i repubblicani, pur entrambi esperti e politicamente forti, erano del tutto privi di carisma. Bush, che poteva contare sul rancore di larghi strati della popolazione nei confronti sia di Clinton per lo scandalo Lewinsky, sia dei democratici per il loro supposto statalismo e relativismo morale, partì con un notevole vantaggio, che ben presto però si ridusse. Gore, tuttavia, non riuscì ad approfittarne, indebolito a sinistra dall'intensa campagna di un terzo candidato, il leader dei consumatori R. Nader, e incapace di conquistare il centro dell'elettorato, che lo giudicava indeciso e poco credibile.
I risultati elettorali mostrarono un Paese diviso in due. Gore ottenne la maggioranza nel voto popolare (50.999.897 voti, pari al 48,32%, contro 50.456.002, pari al 47,89%, per Bush, mentre Nader ne ottenne 2.882.955); ma nessuno dei due candidati prevalse chiaramente nel Collegio elettorale: la Costituzione statunitense, infatti, per la sua natura federale, non basa l'elezione del presidente sul voto popolare, bensì sul Collegio elettorale, in cui ogni singolo Stato ha diritto a un numero di voti pari a quello dei deputati che elegge alla Camera dei rappresentanti, basato a sua volta sulla sua popolazione, più due. Il candidato presidenziale vincitore in uno Stato prende tutti i voti attribuiti a quello Stato e, per essere eletti, occorre la maggioranza del Collegio elettorale. La vittoria venne a dipendere dal risultato nello Stato della Florida, assegnata a Bush, contestato da Gore per una serie di errori e di irregolarità nel voto. Il risultato in Florida rimase in sospeso per un mese, mentre i contendenti si rivolgevano ai tribunali statali e poi alla Corte suprema per dirimere la questione. Quest'ultima, con un voto di 5 a 4, assegnò la Florida a Bush per 537 voti e, dal momento che la Corte si era divisa su basi strettamente politiche, il Paese parve sull'orlo di una gravissima crisi politica, scongiurata perché Gore concesse la vittoria all'avversario.
Il risultato mostrò il peso della destra radicale, che si rifaceva a R. Reagan, alle elaborazioni teoriche dei centri studi conservatori come l'American Enterprise Institute (AEI) e che aveva trovato nella religious right un prezioso alleato. Molti osservatori ritennero, però, che il presidente Bush, analogamente a Reagan, sarebbe stato tanto radicale nelle affermazioni quanto cauto nella pratica politica; ma Bush mostrò un volto ideologico ben definito fin dalla formazione del suo gabinetto, che risultò composto da personalità decisamente conservatrici anche se vicine a componenti diverse della complessa galassia della destra. Tutti i principali ministri, tranne il segretario di Stato C. Powell, erano inoltre personalmente legati a Bush e alla sua famiglia.
Il programma di Bush si reggeva sulle idee di 'conservatorismo compassionevole' in politica interna e di una ritrovata 'umiltà' americana in politica estera. Con il primo egli intendeva una netta diminuzione delle funzioni pubbliche federali che restituisse ai privati potere e responsabilità sulla propria vita onde creare una ownership society, una società di proprietari autonomi. Nei primi mesi alla Casa Bianca il presidente mosse decisamente in questa direzione e, pur privo di maggioranza al Senato, riuscì a far passare un taglio fiscale di 1,3 trilioni di dollari in dieci anni e le Faith-Based and Community Initiatives (FBCI), che consentivano alle istituzioni religiose impegnate nel sociale di ricevere fondi pubblici anche se nella loro attività le funzioni sociali e religiose si sovrapponevano. Il taglio fiscale andava contro il conservatorismo classico, in quanto esso era destinato a produrre un forte deficit di bilancio e si rifaceva al neoconservatorismo reaganiano. Radicale e molto controversa in quanto giudicata contraria alla separazione Stato-Chiesa stabilita dalla Costituzione era anche la FBCI, che rientrava in pieno nel conservatorismo compassionevole, secondo il quale sono i privati prima dello Stato a dover operare nel sociale e la fede ha un ruolo essenziale per il Paese. Altre iniziative presidenziali tese, per es., a limitare la ricerca sulle cellule staminali embrionali, andavano nella stessa direzione. Più complesso il caso del No Child Left Behind Act (NCLB) del 2002, che tagliava i fondi alle scuole pubbliche che non rispettavano standard di qualità, su cui furono d'accordo molti democratici, i quali cambiarono però presto idea accusando il presidente di aver favorito le scuole private in quanto non aveva concesso a quelle pubbliche i finanziamenti necessari a riqualificarsi.
Nei primi mesi del mandato il presidente mise in chiaro anche le sue linee di politica estera con una serie di dinieghi a trattati internazionali già firmati da Clinton, come il Protocollo di Kyoto per la riduzione dei cosiddetti gas serra e il trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Il primo perché accusato di porre un freno allo sviluppo economico statunitense e il secondo perché avrebbe sottratto ai tribunali nazionali i membri delle forze armate statunitensi accusati di crimini di guerra. Anche in materia di controllo degli armamenti la nuova amministrazione operò una decisa svolta, opponendosi al trattato che vietava l'uso delle mine antiuomo e a quello per rafforzare il divieto delle armi chimiche, mentre in campo nucleare dichiarava superati i trattati con la ex Unione Sovietica e rilanciava l'idea dello scudo antimissile. Il significato dell'umiltà di Bush in politica estera consisteva quindi nel sottrarsi a quello che riteneva l'eccessivo internazionalismo di Clinton, per seguire una linea fondata sull'unilateralismo e il primato dell'interesse nazionale.
L'amministrazione Bush era stata informata da quella uscente della minaccia costituita dal terrorismo islamico; ma la questione non venne considerata prioritaria dalla Casa Bianca, convinta che il principale pericolo per gli S. U. provenisse dai rogue States, gli 'Stati canaglia', quali ̔Irāq, Siria, Libia e Corea del Nord, disposti a servirsi del terrorismo e delle armi di distruzione di massa per ricattare gli S. U. e l'Occidente. La prima riunione ad alto livello sui piani terroristici di al-Qā̔ida si tenne solo nell'agosto 2001, poche settimane prima dell'attentato dell'11 settembre a Washington e alle Twin Towers di New York, i due grattacieli simbolo della potenza economica statunitense. L'attentato, voluto da U. ibn Lādin, fu opera di una cellula di diciannove terroristi suicidi arabi entrati senza difficoltà negli S. U., dove poterono prendere lezioni di volo, riuscendo poi a dirottare quattro aerei di linea, portandone due a schiantarsi contro le Twin Towers, che crollarono, un terzo contro il Pentagono, mentre l'ultimo, sul quale i passeggeri si erano ribellati ai dirottatori, precipitò nelle campagne della Pennsylvania. I morti furono quasi tremila, la grande maggioranza dei quali a New York. Il presidente, dopo un breve momento di confusione, prese saldamente in mano la situazione, si rifiutò di parlare di un semplice atto di terrorismo e dichiarò che il Paese era in guerra, una guerra che sarebbe durata a lungo come la guerra fredda.
L'11 settembre definì una volta per tutte la missione della presidenza Bush. Sebbene sempre, anzi, vieppiù unilateralista, l'amministrazione abbandonò i tratti isolazionisti dei suoi primi mesi di vita per sposare una linea di intervento globale. In questo si riconosceva l'influsso ideologico del vicepresidente R.B. Cheney e dei cosiddetti Vulcans, il ristretto gruppo guidato dal consigliere per la Sicurezza nazionale C. Rice, dal viceministro alla Difesa P. Wolfowitz e da R. Perle, per i quali la sicurezza del Paese dipendeva dall'estirpare gli Stati canaglia e dall'esportare la democrazia in Medio Oriente. Si giunse così rapidamente alla decisione di attaccare l'Afghānistān retto dai Tālibān, i fondamentalisti islamici che davano rifugio a Ibn Lādin. La strategia era giusta, perché i Tālibān erano fortemente invisi alla comunità internazionale, che aveva manifestato una commossa solidarietà agli Stati Uniti. Bush, però, pur potendo contare sul sostegno internazionale e ottenendo l'avallo dell'ONU, agì in modo del tutto autonomo e, con l'appoggio militare della Gran Bretagna, attaccò in ottobre l'Afghānistān, servendosi anche dei guerriglieri dell'Alleanza del Nord, antichi nemici dei Tālibān. Il regime afghano crollò rapidamente e in dicembre la guerra era finita. L'operazione spinse la popolarità del presidente a livelli altissimi; ma si trattò di un successo parziale perché Ibn Lādin sfuggì alla cattura. Inoltre, a causa della scelta dei repubblicani a favore di una soluzione soprattutto militare al conflitto e contraria alla nation building, ossia a una politica di lungo periodo tesa ad aiutare la ricostruzione politica e materiale del Paese, il nuovo governo afghano, privo di sufficienti appoggi militari e finanziari, rimase estremamente debole.
Il 2002 fu l'anno in cui l'amministrazione, con il documento sulla National security strategy, teorizzò il diritto alla guerra preventiva per difendere il Paese e in cui dovette occuparsi di tre dossier principali di politica estera: il conflitto israelo-palestinese, radicalizzatosi con la seconda intifāḍa (v. israele e palestina), i programmi nucleari e missilistici della Corea del Nord, e la situazione in ̔Irāq. Bush all'inizio dell'anno inserì l'Irāq, con Irān e Corea del Nord, in quello che definì l'asse del male; ma la sua attenzione si appuntò soprattutto sul primo, accusato di perseguire l'acquisizione di armi di distruzione di massa, nucleari e chimiche, e di collusione con i terroristi. Contestualmente il presidente propose la teoria secondo la quale il mutamento di regime in ̔Irāq avrebbe aperto un processo virtuoso di democratizzazione di tutto il Medio Oriente, che avrebbe costituito la più solida garanzia per la sicurezza. Quest'ultima, però, aveva anche una dimensione interna alla quale Bush rivolse la sua attenzione prima con l'USA Patriot Act della fine del 2001, che ampliò i poteri di indagine e di arresto in funzione antiterrorista indebolendo le garanzie personali dei singoli, poi con la creazione del Department of Homeland Security, che riunì in un solo organismo venti istituti federali di intelligence e di polizia.
Il 2002 vide anche crescere la disoccupazione e, nonostante il ritorno a una tendenza economica positiva, crebbe pure la sensazione di insicurezza da parte della popolazione in seguito all'aumento delle delocalizzazioni all'estero, che sottraevano posti di lavoro in patria, e agli scandali seguiti al fallimento di due grandi società, la Enron nel 2001 e la WorldCom nel 2002, i cui massimi dirigenti vennero accusati e successivamente condannati per frode e insider trading. A tutto ciò il presidente rispose con nuovi tagli fiscali e programmi di retraining per chi aveva perso il lavoro. In anni 'normali' una simile situazione avrebbe portato a serie conseguenze politiche: non così nel 2002. Facendo leva sulla sua immagine di presidente di guerra fermo e deciso, Bush condusse il Partito repubblicano alla vittoria e alla conquista del Senato nelle elezioni di metà mandato.
L'invasione dell'Irāq era sempre stata considerata fra le priorità dell'amministrazione, anche se Powell cercava un'autorizzazione previa dell'ONU. Il Consiglio di sicurezza non intendeva però andare oltre una risoluzione che istituiva ispezioni ONU alla ricerca di armi di distruzione di massa. Le continue resistenze di Ṣ. Ḥusayn alle ispezioni consentirono a Bush, convinto della necessità politica di abbattere il regime iracheno, di spingere per la guerra, nonostante l'opposizione di alcuni dei suoi maggiori alleati. In quella che fu la più deliberata espressione dell'unilaterismo dell'amministrazione, Bush diede vita a una coalition of the willing, composta dai Paesi disposti a seguire la decisione statunitense, fra i quali Gran Bretagna, Spagna, Italia e Polonia, mentre Francia, Germania, Paesi Bassi e Belgio si chiamarono fuori. Si giunse così a una grave crisi politica fra S. U. ed Europa e all'interno della stessa Europa che fece temere la fine dell'Alleanza atlantica.
L'invasione iniziò il 20 marzo 2003, con una forza operativa di circa 150.000 soldati statunitensi, 12.000 inglesi e alcuni piccoli contingenti di altri Paesi. L'enorme superiorità tecnologica americana e la scarsa resistenza incontrata consentirono al presidente di dichiarare chiuse le operazioni il 1° maggio. Le difficoltà cominciarono, però, subito dopo, quando iniziò una sanguinosa guerriglia organizzata soprattutto dagli arabi di rito sunnita, minoritari nel Paese, ma che con Ḥusayn avevano avuto il monopolio del potere; guerriglia che non si fermò neppure quando, nel dicembre, Ḥusayn fu catturato. Venne così alla luce la scarsa preparazione politica di tutta l'operazione, fondata sui due assunti di combattere una guerra ad alta tecnologia con relativamente pochi uomini e di uno spontaneo schierarsi della popolazione a fianco degli americani. Il secondo assunto, basato su una scarsa conoscenza della realtà irachena, non si realizzò e il doppio compito di combattere la guerriglia e di istituire un governo iracheno democratico si dimostrò impervio, nonostante esistesse l'avallo alla democratizzazione del Paese giunto dall'ONU e l'arrivo di altri contingenti, fra cui uno italiano di circa 3000 uomini. La guerriglia, accompagnata da un'ondata di attentati suicidi, si rafforzò per tutto il 2004 e il 2005: essa era legata agli scontri etnico-religiosi tra musulmani shiiti e sunniti, e fra arabi e curdi, alla rivolta nazionalista contro la presenza di truppe straniere guidata soprattutto dai membri del vecchio partito al-Ba̔ṯ di Ḥusayn e alla penetrazione nel Paese dell'islamismo radicale qaedista, con il quale, nonostante le accuse del governo statunitense, divenne chiaro che Ḥusayn non aveva avuto nulla a che fare. Nonostante le elezioni di fine 2005, che mostrarono la volontà di partecipazione politica degli iracheni, ma anche le profonde fratture che li dividevano, la guerriglia non si fermò e la situazione politico-militare nel corso del 2006 non fece che peggiorare, mentre il nuovo governo iracheno si dimostrava debole e diviso al proprio interno.
L'invasione dell'Irāq indebolì la posizione internazione occupata dagli S. U., segnati da scandali come quello delle torture e delle umiliazioni inflitte a prigionieri iracheni nel campo di Abū Ghrayb, che si sommarono alle accuse loro rivolte per le centinaia di prigionieri tālibān e non, detenuti senza accusa e senza processo nella base di Guantanamo a Cuba dal 2001. La difficoltà della situazione ebbe conseguenze all'interno del Paese, in cui cresceva l'opposizione alla guerra e la popolarità del presidente scendeva progressivamente, anche perché prove sempre più consistenti e i lavori dell'Intelligence Committee del Senato e della Commissione di inchiesta indipendente del 2004 indicavano che l'amministrazione si era mossa facendo leva su informazioni errate circa il potenziale militare di Ḥusayn.
Concentrato sull'Irāq, il governo statunitense gestiva con fatica gli altri dossier internazionali, in particolare quello relativo al conflitto israelo-palestinese. La road map lanciata alla fine di aprile del 2003 da S. U., ONU, Russia, Unione Europea non venne perseguita con decisione e l'anno successivo finì per bloccarsi. Il risultato principale fu quello di dare una spallata decisiva all'ambigua e sempre più incerta leadership di Y. 'Arafāt, con conseguenze però imprevedibili in campo palestinese, e, paradossalmente, di convincere A. Sharon che Israele doveva prendere l'iniziativa per un ritiro unilaterale entro confini difendibili.
In politica interna il presidente proseguì nella sua linea di tagli fiscali, aggiungendone un terzo nel 2003 ai due approvati nel 2001 e nel 2002 e ottenendo di renderli permanenti. Le tasse tornarono così al livello del 1959, quando però non si dava il preoccupante deficit di bilancio, che nel 2004 raggiunse i 412 miliardi di dollari. La situazione economica, tuttavia, non peggiorò e nel 2004 la crescita si mantenne vivace, consentendo a Bush di sostenere la bontà della propria ricetta. Contemporaneamente egli reagì alle critiche dei democratici appoggiando a fine 2003 una riforma del sistema pubblico di assistenza sanitaria, il Medicare, che inserì i farmaci fra le prestazioni assicurate agli anziani; inoltre aumentò i fondi destinati alle scuole pubbliche nell'ambito del No child left behind act.
Battaglie molto dure che però non diedero i risultati voluti dal presidente si ebbero in materia ambientale, per es., sulla concessione di sfruttamento minerario e forestale in aree protette e sull'estrazione del petrolio nell'Artic National Wildlife Refuge dell'Alaska cui egli era favorevole. Continuarono anche gli scontri su questioni eticamente connotate, come la ricerca sulle cellule staminali embrionali, che rimase fortemente limitata, e sui matrimoni omosessuali, che il presidente, a fronte di alcune iniziative statali e locali dirette a permetterli, osteggiava dichiarandosi favorevole a un emendamento costituzionale per bandirli, mentre appoggiava invece la regolamentazione - da parte degli Stati - delle unioni civili.
Il 2004 fu inoltre anno di elezioni presidenziali, e Bush ottenne senza contrasti dal Partito repubblicano la candidatura per un secondo mandato. Il Partito democratico, invece, nominò il senatore J. Kerry del Massachusetts, che sembrava avere buone possibilità di riuscita per il calo di popolarità del presidente causato dalla situazione irachena. Kerry non riuscì, però, a superare la tradizionale resistenza degli elettori statunitensi a votare contro il presidente in carica in tempo di guerra. Fu, inoltre, facile per i repubblicani dipingerlo come incerto e indeciso, a fronte della determinazione del presidente, in quanto criticava la guerra in ̔Irāq dopo aver votato a favore della medesima in Senato. Le elezioni, che videro in crescita la partecipazione popolare, premiarono Bush, il quale ottenne una chiara maggioranza sia nel voto popolare (62.040.000 contro 59.028.000 per Kerry), sia nel Collegio elettorale (286 a 252). Per un momento parve ripetersi la situazione del 2000, con i democratici che rifiutavano di riconoscere il voto a favore di Bush nell'Ohio; ma la vicenda si risolse rapidamente. Le analisi del voto mostrarono che un fattore importante nella vittoria del presidente in carica era stato il tema dei valori morali, che aveva massicciamente indotto al voto sia la destra religiosa sia gli elettori più moderati, ma preoccupati che la decadenza morale del Paese mettesse in pericolo la capacità di combattere il terrorismo.
Bush operò due cambiamenti significativi, nel suo secondo gabinetto, alla Segreteria di Stato, in cui Powell, sempre più lontano dal presidente, venne sostituito dal consigliere alla Sicurezza nazionale Rice, e alla Giustizia, in cui a J. Ashcroft successe A.R. Gonzales. Con un gabinetto ancor più compatto e fedele, nella prima parte del 2005 il presidente dedicò molte energie a far passare una proposta di riforma del sistema pensionistico pubblico, che molti analisti temevano andasse in passivo nel giro di pochi anni. Tra le diverse proposte, vi era quella di privatizzarlo in parte, consentendo ai giovani lavoratori di investire una percentuale di quanto veniva prelevato dal salario a fini pensionistici in fondi che operavano sul mercato, consentendo così un miglior controllo dei singoli su denaro che apparteneva loro e maggiori guadagni. Le resistenze al progetto furono però enormi per il timore generalizzato che crisi di mercato facessero sfumare le future pensioni, e il presidente fu costretto a rimandarlo.
Il 2005 non fu un buon anno per Bush. Il trascinarsi della guerra in ̔Irāq, nonché l'inefficienza mostrata dagli organismi federali quando l'uragano Katrina colpì in agosto New Orleans e una vasta area della costa del Golfo del Messico, provocando oltre 1000 morti e circa un milione di rifugiati, fecero crollare al 40% la sua popolarità. La situazione economica rimase buona, ma ciò non servì a migliorare l'immagine dell'amministrazione, offuscata anche dai molti scandali per corruzione che colpirono importanti uomini politici repubblicani come Th.D. DeLay, leader della maggioranza alla Camera, che dovette dimettersi, nonché dal processo per spergiuro contro I. Lewis Libby Jr, uno dei principali consiglieri del vicepresidente Cheney, che si sarebbe concluso con la condanna dell'imputato all'inizio del 2007. Bush proseguì, tuttavia, un'attiva politica estera, dedicando un'attenzione crescente ai rapporti con la nuova grande potenza asiatica, la Cina Popolare, e appoggiando sia la politica di disimpegno di Sharon sia il nuovo leader palestinese Ābu Māzin. Contemporaneamente ebbe la possibilità di sostituire due giudici della Corte suprema. Con la nomina di J. Roberts e, agli inizi del 2006, di S.A. Alito, la Corte assunse una chiara impostazione conservatrice e il presidente poté ritenere di aver completato l'opera di spostamento a destra del giudiziario federale iniziata da Reagan. Nel corso del 2005, inoltre, aveva acquisito sempre maggiore rilievo nel Paese il dibattito sui circa 11 milioni di immigrati clandestini che vivevano negli S. U. e sul continuo ingresso di irregolari dal confine con il Messico. Il presidente cercò di seguire un percorso di compromesso, dichiarandosi disposto a una regolarizzazione provvisoria di coloro che avevano un lavoro senza però offrire alcuna garanzia di legalizzazione definitiva e di naturalizzazione. Nella primavera 2006 si svolsero in molte città massicce manifestazioni di immigrati che chiedevano di essere regolarizzati e il problema da essi rappresentato divenne la principale questione di politica interna anche in vista delle elezioni di mezzo termine dell'autunno.
Quando si giunse a queste ultime, nel novembre 2006, la situazione per i repubblicani apparve compromessa a causa soprattutto di tre questioni principali: la situazione internazionale, l'inefficienza - ma per molti, la cattiva volontà - dimostrata dall'amministrazione nell'affrontare le conseguenze dell'uragano Katrina e gli scandali che coinvolgevano alcune personalità politiche repubblicane. I risultati confermarono le aspettative e i democratici ottennero un vantaggio (31 seggi alla Camera e 7 al Senato) sufficiente a far loro riconquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. I repubblicani vennero inoltre sconfitti anche nei singoli Stati, dove il rapporto fra i governatori dei due partiti si capovolse a favore dei democratici per 28 a 22. I risultati di novembre parvero in un primo momento spingere il presidente a un atteggiamento più conciliante. Il segretario alla Difesa R. Rumsfeld venne infatti sostituito dall'ex direttore della CIA R. Gates e il discusso J. Bolton, nominato ambasciatore alle Nazioni Unite, ma non ancora confermato in tale posizione dal Senato, diede le dimissioni. In breve tempo, però, il presidente mostrò di non essere disposto a cambiare linea politica, non tenendo conto dell'opinione dell'Iraq Study Group, nominato dal Congresso prima delle elezioni e guidato dall'ex segretario di Stato J. Baker e da L.H. Hamilton, che suggeriva di aprire trattative con ̔Irāq e Siria, e annunciando un aumento, sia pur momentaneo, delle truppe americane in ̔Irāq nel tentativo di giungere a risultati militari positivi entro il 2007. Contemporaneamente si inaspriva il conflitto con l'Irān, che non accettava di sospendere le ricerche in campo atomico, mentre, grazie allo sforzo congiunto con la Cina, si giungeva a un accordo, almeno provvisorio, in base al quale la Corea del Nord sospendeva il proprio programma atomico.
La sconfitta repubblicana alle elezioni di mid-term e il crollo della popolarità del presidente, scesa a poco più del 30% all'inizio del 2007, accesero le speranze dei democratici per le presidenziali del 2008 e lanciarono in anticipo la campagna elettorale, nella quale sia H. Clinton, senatrice del New York, sia il giovane senatore nero dell'Illinois B. Obama si imposero come i principali candidati potenziali fra i democratici.
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