Stato e Costituzione: l'esperienza del Novecento
Il Novecento è in apparenza un secolo spaccato in due: nella prima metà i totalitarismi, le guerre, le politiche di sterminio; nella seconda metà la pace, l’avvento delle nuove democrazie costituzionali, l’avvio della costruzione europea e più in genere della dimensione sovranazionale. In realtà, però, anche il Novecento ha una sua vocazione di fondo, si esprime cioè come concreta esperienza storica seguendo un’ispirazione che lo caratterizza nel suo insieme. Non si tratta di contrapporre all’immagine del secolo spaccato in due un’immagine radicalmente opposta. Rimane infatti vero che alla metà del Novecento, con la caduta dei regimi totalitari, si assiste al prodursi di una cesura autentica, della quale anzi – a nostro avviso – non si è ancora percepita pienamente la profondità. Si tratta piuttosto di comprendere come l’intero secolo sia dominato da un bisogno di fondo: ricercare una risposta plausibile ed efficace alla crisi dello Stato nazionale di diritto, ovvero alla crisi di quella forma che lo Stato moderno aveva assunto in modo dominante in Europa dopo la Rivoluzione. La nostra cultura giuridica è ottima testimone, e anche protagonista, di questa ricerca.
Il secolo si apre infatti con numerose manifestazioni d’inquietudine in questa direzione, a iniziare dalla più celebre, ovvero dalla notissima prolusione romaniana del 1909 su Lo Stato moderno e la sua crisi; e si chiude nel bel mezzo di un serrato dibattito sulla crisi dello Stato nazionale, sulla sempre più evidente incapacità della forma politica statuale di contenere, e governare, fenomeni, di natura soprattutto economica e tecnica, che si distendono sul piano globale. Nel corso della lunga esperienza novecentesca, diversissime sono state le risposte alla crisi, a partire ovviamente dalla differenza radicale tra la risposta totalitaria e la risposta democratica. Comune però è stata la percezione iniziale, quella di un ordine che è sempre meno tale, per l’appunto dell'esistenza di una crisi, cui occorre porre rimedio. L’intero Novecento vive entro questa inquietudine.
Per ciò che riguarda l’inizio del secolo, a essere in discussione – proprio come punto di avvio della riflessione sulla crisi – è l’immagine, che si voleva fino a quel momento pacificata e in sé conclusa, della società borghese e liberale: la società del Codice, imperniata sulla proprietà e sulla libertà negoziale, concepita come mero spazio di coesistenza di sfere rigorosamente individuali, e che nella dimensione collettiva, del diritto pubblico, conosceva solo un corpo politico sovrano, impersonato dallo Stato titolare monopolista dei poteri di normazione. Due sovranità piene su due territori rigorosamente separati: l’individuo nel campo del dominium, nello spazio dell'appropriazione e dello scambio, e lo Stato nel campo dell’imperium, nella dimensione della collettività, dell'appartenenza a un corpo comune, della legittima capacità di coazione. Individualismo e statalismo come dritto e rovescio della medesima medaglia. Nel mezzo, terra bruciata. Il tempo della grande Rivoluzione, che aveva coniato quella medaglia, e della successiva età liberale non era stato in effetti favorevole all’articolazione in senso pluralistico della dimensione collettiva.
Ebbene, è esattamente da questo punto che si diparte la complessa vicenda del Novecento. Ovvero dalla sempre più inquietante percezione di un evidente scostamento tra una società ideologicamente voluta e immaginata su base quasi esclusivamente individuale, e come tale posta a fondamento della concreta esperienza politica e costituzionale dei Codici e delle Carte dell’età liberale, e una società reale, che premeva, che si organizzava, che si articolava in associazioni, leghe, partiti, sindacati, minacciando nello stesso tempo le due signorie su cui il precedente modello era imperniato, quella dell’individuo e quella dello Stato. Tra Otto e Novecento si stava infatti aprendo il tempo della nuova società di massa, iniziava una fase completamente nuova nella storia della civiltà industriale e del capitalismo, con problemi altrettanto radicalmente nuovi nell'organizzazione dei fattori produttivi, nel governo dell’economia, e dunque nel rapporto stesso tra privato e pubblico, tra economia e diritto. La cultura giuridica era chiamata a prendere atto della trasformazione che prendeva avvio, e perciò a ripensare dalle fondamenta il proprio impegno.
Nella più recente storiografia giuridica, la prolusione di Santi Romano del 1909 – anche da noi già ricordata – è individuata come una sorta di manifesto programmatico, teso a sollecitare nella cultura giuridica del tempo una presa d’atto, ritenuta necessaria, della nuova realtà emergente. Effettivamente, nel discorso di Romano quella realtà è presente in modo diretto. È fatta di
federazioni o sindacati di operai, sindacati padronali, industriali, mercantili, di agrari, di funzionari […] sono società cooperative, istituzioni di mutualità, camere di lavoro, leghe di resistenza o di previdenza (S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Discorso inaugurale dell'a.a. 1909-10 dell'Università di Pisa, in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, 1969, p. 12).
Una realtà multiforme, ma che presenta un «carattere comune: quello di raggruppare gli individui col criterio della loro professione o del loro interesse economico» (p. 12).
La società è dunque in movimento: ma si tratta di un arricchimento, o di una minaccia? La risposta di Romano è complessa e articolata. Dipende dalla nozione di Stato moderno che egli possiede, che è poi la nozione dominante nel suo tempo, quella che gli aveva trasmesso Vittorio Emanuele Orlando, il suo maestro. Secondo Romano, lo Stato moderno è «stupenda creazione del diritto», è l’esito di uno sviluppo plurisecolare che ha condotto all’affermazione di un principio di civiltà, divenuto irrinunciabile:
Il principio cioè che lo Stato, rispetto agli individui che lo compongono e alle comunità che vi si comprendono, è un ente a sé che riduce ad unità gli svariati elementi di cui consta, ma non si confonde con nessuno di essi, di fronte ai quali si erge con una personalità propria, dotato di un potere che non ripete se non dalla sua stessa natura e dalla sua forza, che è la forza del diritto (p. 7).
Da un simile livello di civiltà giuridica, che è il portato di un progresso plurisecolare – e certo non l’esito della Rivoluzione, che secondo Romano aveva anzi arbitrariamente ridotto e distorto il patrimonio storico insito nella più risalente vicenda dello Stato moderno – non si può e non si deve comunque retrocedere. Per difendere questo patrimonio è necessario porsi con atteggiamento disincantato di fronte al nuovo mondo degli interessi organizzati. Da una parte, bisogna sapere che la minaccia esiste. Esiste cioè il pericolo che quegli interessi si sviluppino e si coalizzino in modo tale da generare una vera e propria decomposizione dello Stato, o comunque un’irreparabile riduzione secca del suo carattere sovrano e impersonale. Nello stesso tempo, proprio per allontanare questa minaccia, si deve operare per inserire la nuova realtà economico-sindacale entro «la solida e severa architettura dello Stato moderno». C’è tutto un lavoro da compiere in questo senso, anche da parte della cultura giuridica. Per esempio – Romano conclude la prolusione con un accenno in questa direzione – per ripensare l’istituto della rappresentanza, in una linea che egli stesso indica come «rappresentanza degli interessi».
Non interessano però qui le soluzioni prospettate, ma il quadro complessivo di riferimento, che è prima di tutto di ordine storico-culturale. Romano rappresenta l’inizio di una stagione entro cui sarà sempre meno possibile ignorare quella data realtà emergente nella società. Lo stesso Stato moderno non può permettersi questo lusso. Lasciare che gli interessi economici si organizzino e si consocino in piena autonomia potrebbe avere un effetto esiziale, di decomposizione dello Stato stesso. Bisogna quindi ricondurre quella realtà entro un ordine giuridicamente apprezzabile. Quell’ordine potrà essere più o meno contrattato, o imposto d’autorità – come sarà con il corporativismo durante il regime fascista –, ma sarà comunque un ordine più ampio di quello che era stato consegnato dalla tradizione ottocentesca. Si pone così nei fatti il problema dell'esistenza di un ordine giuridico oltre lo Stato.
La stessa opera più celebre di Romano, L’ordinamento giuridico, del 1918, alla fine non è altro che il tentativo, tramite la dottrina istituzionistica, di reperire un punto di vista autenticamente giuridico su quella società nuova che già egli aveva intravisto, e che non poteva più essere ordinata seguendo i dettami del puro normativismo, adeguato a una società precedente e diversa, quella sottostante al Codice, quella in cui proprietà privata individuale e libertà negoziale ancora dominavano incontrastate. Si proponeva così di allargare lo sguardo, e in effetti ve ne era bisogno.
Basti pensare al rilevantissimo fenomeno della legislazione di guerra che imponeva una capacità d’intervento dello Stato nella sfera dei privati prima sconosciuta, introducendo limitazioni alla libertà del proprietario, o vincoli alla libertà negoziale, in nome del criterio della protezione del contraente più debole, per es., in materia di locazioni. Ciò che al momento appariva giustificato dall’emergenza, e che in effetti era portato da leggi speciali, presentate nella veste di eccezioni, di deroghe ai principi contenuti nel Codice, era invece espressione di una trasformazione più complessiva, dalla società liberale a base meramente individualistica alla società di massa, entro cui si sarebbero comunque posti nel futuro, in modo stabile e non più emergenziale, precisi problemi di governo dell’economia.
Più in generale, la nuova realtà sociale ed economica impone alla cultura giuridica la messa in discussione della dogmatica codicistica imperniata sull'assoluta astrattezza del soggetto unico di diritto. Alle spalle del civis, figura socialmente indifferenziata ripresa dal soggetto generale e astratto dominante nel modello giusnaturalistico, emerge la figura dell’imprenditore, del titolare dell’impresa, che è a sua volta incontenibile nella dogmatica della proprietà privata individuale intesa come signoria della volontà di un individuo su un bene. Lo stesso si deve dire per il diritto del lavoro, che nasce proprio in questa fase, dall'esigenza di un’autonoma qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, anch’esso non più contenibile nella tradizionale dogmatica del negozio giuridico. In quella linea, chinandosi sempre più sulla concreta realtà del lavoro, si arriverà ad ammettere la necessità del contratto collettivo di lavoro, con una collettività come parte contraente.
Diritto commerciale e diritto del lavoro sono le due direttrici lungo le quali si sviluppa il nuovo diritto civile, governato da una pluralità di regole – legislative, ma anche giurisprudenziali, e della prassi – che si pongono al di là della tradizionale regola codicistica. I nomi sono a tutti noti, e sono quelli di Lorenzo Mossa, di Enrico Finzi, di Francesco Carnelutti, di Filippo Vassalli, di Emilio Betti, di Salvatore Pugliatti, di Tullio Ascarelli. È questa la nuova civilistica, che si dispiegherà soprattutto nel corso degli anni Trenta e Quaranta, quando si produrrà una nuova ondata codificatoria, con l’emanazione dei nuovi codici, civile e di procedura civile. Si tratta di codici certamente voluti dal potere politico del momento – in modo ancora più sensibile, per la loro indubbia ispirazione in senso autoritario, nel caso dei codici penale e di procedura penale del 1931 – ma anche pensati da una robusta scienza giuridica, che tra l’altro si produsse in un’opera di resistenza non indifferente all'introduzione nel codice civile dei cosiddetti principi generali del regime.
La cultura giuridica italiana incontrò poi sul suo cammino – che la conduceva verso approdi nuovi, i quali comunque si collocavano oltre i confini tradizionali della società liberale e borghese – il processo assai travagliato di costruzione dell’ordinamento corporativo, a partire dalla l. 3 aprile 1926 nr. 563 sulla disciplina dei rapporti di lavoro. Nessun dubbio sul fatto che quel processo fosse guidato da una logica seccamente autoritaria, di riconduzione allo Stato dell'articolazione in senso collettivo e associativo della realtà sociale. Eppure, la riflessione sul corporativismo, pur con le sue specificità legate alla contingenza politica del regime, rimane essenziale per comprendere il senso della grande trasformazione che si produce nel corso del Novecento. Quella trasformazione, infatti, non è riducibile a una dimensione meramente sociale, nel senso di una più complessa articolazione in senso pluralistico della società medesima. È una trasformazione che ha anche un significato profondamente politico, in quanto gli interessi non si organizzano in forma collettiva solo per difendere i loro rispettivi spazi, ma anche per premere sullo Stato. Da quando si è aperto quel processo di trasformazione – a nostro avviso ancora in corso – esiste dunque un permanente problema di governo delle dinamiche che di fatto si producono tra Stato e interessi organizzati, tra pubblico e privato, tra politica ed economia. E da quando tutto questo esiste, in effetti esiste il pericolo della tentazione autoritaria, scientemente coltivata durante il regime fascista, ma esiste anche il pericolo opposto, di un dominio degli interessi esercitato in senso frazionale, tale da impedire l’emersione chiara di una dimensione collettiva in nome del principio di unità politica, dell’interesse generale e comune.
Non per caso, un carattere che tiene unita la nuova civilistica degli anni Trenta e Quaranta è il suo utilizzare categorie inconsuete per il civilista, più legate allo strumentario del giuspubblicista, come ‘funzione', o ‘discrezionalità'. Nella cultura giuridica, su un terreno che si va facendo sempre più comune, tra pubblico e privato, si va infatti riducendo nello stesso tempo, da una parte l’assolutezza dei poteri del proprietario e della libertà negoziale, ma dall’altra anche l’assolutezza – del tutto speculare – della volontà statuale. Nel 1939 appare il volume di Massimo Severo Giannini sul potere discrezionale, inteso come ponderazione d’interessi plurimi, secondo una concezione sottostante dello Stato che non è più quella compatta e maestosa dello Stato-persona, e che è invece orientata da modelli – che iniziavano a essere anche di provenienza statunitense – che pongono lo Stato al centro di un processo organizzativo complesso, che s’interseca continuamente con la presenza di una pluralità d’interessi rappresentati e organizzati, pubblici e privati.
In quegli stessi anni, sempre in seno alla giuspubblicistica, si andava proponendo anche una nuova dottrina della costituzione, ispirata anch’essa dall'esigenza di ricercare un nuovo principio di unità, posto che la tradizionale raffigurazione di quel principio attraverso la sovranità dello Stato-persona non riusciva più a riflettere una realtà in rapida trasformazione. La nuova dottrina della costituzione seppe ritagliarsi uno spazio proprio sempre più ampio, evitando di allinearsi con una delle due schiere che alla lunga sarebbero state parimenti perdenti: quella dei laudatori del regime, da una parte, e quella dei semplici epigoni della tradizionale dottrina dello Stato sul versante opposto. Anche in questo caso i nomi sono noti: sono quelli di Costantino Mortati, di Vezio Crisafulli, di Carlo Esposito. In particolare, nel caso di Mortati, con la sua celebre dottrina della costituzione in senso materiale, è del tutto trasparente il tentativo di superare i confini della tradizionale impostazione di carattere positivistico e statualistico. Il problema del principio di unità politica, la cui ricerca rimane comunque imprescindibile, non viene infatti più risolto attraverso la sua statica rappresentazione nella persona dello Stato sovrano, come nella tradizionale dottrina dello Stato, e si pone ora piuttosto su un piano dinamico, come esito di un processo di governo che nasce nel cuore della società, mediante lo strumento del partito.
La nuova dottrina della costituzione, che si sviluppa soprattutto nel corso degli anni Trenta e Quaranta, muove cioè anch’essa, in significativa sintonia con la nuova civilistica – cui già abbiamo fatto riferimento – dalla percezione della crisi dell’ordine borghese e liberale, questa volta vista dal lato del diritto pubblico. I problemi del diritto pubblico della metà del Novecento non sono infatti più quelli di un secolo prima, tutti racchiusi nella dimensione dello Stato-persona, della sua sovranità e dei suoi limiti. Ora, il primo problema è quello del governo, e prima ancora è quello della costruzione dell’indirizzo politico a partire dalla società, attraverso il ruolo attivo del partito. La raffigurazione di base del diritto pubblico non è così più data dalla nazione personificata nello Stato, ma dalla società che attraverso il partito determina l’indirizzo, il governo. Certo, quando si leggono certe pagine di quegli anni – anche dello stesso Mortati – non si può non pensare alla concreta situazione di allora, ovvero al Partito nazionale fascista e alla possibile declinazione in senso totalitario del nuovo discorso della dottrina della costituzione sul primato del governo, e dello stesso indirizzo politico. Sarebbe però questa una lettura miope. Ciò che caratterizza infatti Mortati e la nuova dottrina della costituzione è il fatto di essersi posti al di là della contingenza politica del regime, su un piano che è quello dell'analisi della trasformazione, in corso nel Novecento, dello Stato moderno europeo, tendente ora ad assumere una forma radicalmente nuova, comunque ben diversa da quella ricevuta dall’età liberale, dall'esperienza del 19° secolo. Vi poteva ben essere – come in effetti vi fu – un esito totalitario di quella trasformazione. Ma la trasformazione medesima non si esauriva in quell’esito, conduceva oltre.
In effetti, nell'immagine che lo stesso Mortati costruisce, di una grande rete di poteri, sia pubblici sia privati, che operano in sintonia, perché partecipi di un medesimo indirizzo fondamentale, era già contenuta l’idea del primato della costituzione. L’idea cioè di una democrazia nuova, che si sarebbe articolata in senso ampiamente pluralistico, ma che nello stesso tempo non voleva perdere il filo di un’identità collettiva comune, non voleva smarrire la dimensione dell'unità. Un’unità non più presupposta, attraverso il principio, ricevuto dalla tradizione, di sovranità dello Stato-persona, ma costruita su un piano dinamico. Di lì a poco, la nostra dottrina collocherà su quel piano, come carattere primario della democrazia, l’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione.
La nostra cultura giuridica non era dunque rimasta inerte nella prima metà del secolo. Posta di fronte a fenomeni sociali e politici nuovi, aveva saputo reagire. Posta di fronte al sempre più evidente sgretolarsi della società liberale del Codice, quella cultura si era messa a coltivare campi nuovi, soprattutto in materia d’impresa e di lavoro. E parallelamente, sostanzialmente nella medesima linea, aveva iniziato a intaccare il dogma della sovranità dello Stato-persona, inaugurando una nuova dottrina della costituzione e dell’amministrazione.
I nuovi sentieri non costituivano però ancora la via principale. I protagonisti del rinnovamento avevano gli occhi ben aperti sulla trasformazione in corso, ma non rappresentavano affatto la voce prevalente in seno alla cultura giuridica nazionale. Quest’ultima era infatti ancora dominata dalla forza di due dogmi, difficili da superare: da una parte la configurazione del soggetto di diritto in forma generale e astratta, così come definito nel Codice a partire dal modello giusnaturalistico, e dall’altra parte la legge dello Stato come fonte necessaria di diritto, senza la quale non poteva esistere diritto, e dunque vera e propria forza prescrittiva.
Con la nuova Costituzione tutto cambia di nuovo, ancora una volta. Quanto meno, quei due dogmi vengono seriamente messi in discussione. Da una parte, al soggetto unico di diritto, generale e astratto, si sovrappone ora il soggetto socialmente situato. C’è il lavoro già nel primo articolo della Costituzione. E vi sono le «formazioni sociali» dell’articolo secondo. Nella Costituzione c’è ora – cosa impensabile nelle Carte liberali del 19° sec. – la famiglia, e ancora la salute, l’arte, la scienza, la scuola, l’assistenza, ma anche la fabbrica, il sindacato, la cooperazione, l’iniziativa economica e la proprietà. C’è infine il celebre comma secondo dell’articolo terzo, che guarda in modo esplicito agli «ostacoli» che la società di fatto pone allo sviluppo della persona e alla piena cittadinanza politica e sociale. In una parola, la società – quella che la nostra cultura giuridica aveva già intravisto nella prima metà del secolo – entra nella Costituzione. O meglio, attraverso la Costituzione la società entra nell’ordinamento giuridico, da cui prima era esclusa: nelle Carte costituzionali, che si limitavano a disegnare la forma di governo e a statuire in modo formale qualche diritto individuale, nei Codici, in cui non era presente la società reale ma solo quella immaginata tramite l’artificio formalistico e giusnaturalistico.
Mentre la società entra nella Costituzione, sull’altro versante si sgretola l’altro dogma consegnato dalla tradizione, quello dell'intangibilità della legge dello Stato come fonte monopolizzante il potere di normazione. È la Costituzione medesima, con la sua stessa esistenza, a incrinare questo secondo dogma. Essa ha infatti un'esplicita origine politica – nasce da un compromesso costituzionale, ma pur sempre realizzato da partiti, nel caso italiano – non ha alle proprie spalle un’autorità, un potere, che la emana, insomma un qualcosa d’istituzionale che somigli allo Stato della tradizione, eppure assume forza normativa primaria, pretendendo di rappresentare l’indirizzo fondamentale della nascente Repubblica, e nello stesso tempo il criterio di legittimità proprio della legge, che da espressione primaria di sovranità dello Stato si trova ora a essere ridotta – anche se non sarà così – al rango di fonte derivata, legittima nei limiti costituzionalmente previsti.
La cultura giuridica in parte coopera a dare forma alla nuova Costituzione, anche all’interno dell'Assemblea costituente. In parte, con le sue punte più significative, si batterà anche per l’attuazione della Costituzione negli anni successivi alla sua emanazione – ai nomi già ricordati di Mortati e di Crisafulli si deve a questo proposito aggiungere quello di Piero Calamandrei – ma nel suo insieme tarderà non poco a comprendere la rilevanza della Costituzione per l’intera estensione dell’ordinamento giuridico. Del resto, il clima di quegli anni si rifletteva nella celebre sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, del 7 febbraio del 1948, con cui s’introduceva una tripartizione tra le norme costituzionali, tra norme precettive ad applicazione immediata, norme precettive ad applicazione differita, che per dispiegare la loro forza normativa richiedevano un intervento attuativo del legislatore, e norme direttive o meramente programmatiche, che si distinguevano da quelle precedenti perché lasciavano al legislatore una discrezionalità quasi senza limiti per la loro attuazione. Sottostante a tale costruzione vi era la convinzione, certamente assai diffusa, che le norme costituzionali di principio non fossero vere norme giuridiche, e che l’intervento del legislatore fosse pertanto necessario, non solo per dare concretezza al principio costituzionale, ma anche per prestare vera efficacia normativa, operante tra i consociati, a ciò che altrimenti rimaneva una mera opzione di natura tendenzialmente politica, e dunque genericamente programmatica.
Così, la Costituzione galleggiava nel vuoto, e stentava assai ad affermarsi come autentica norma giuridica, posta al vertice dell’ordinamento delle fonti di diritto. Ciò valeva in particolar modo nei confronti dei Codici che il trascorso regime aveva consegnato alla Repubblica, i quali, depurati dalle più evidenti e contingenti incrostazioni lasciate dal tempo della loro emanazione, secondo la parte largamente maggioritaria della cultura giuridica, potevano e dovevano rimanere come Codici della Repubblica, in quanto opera della scienza, frutto di progresso tecnico e, dunque, collocati su un piano di oggettività trascendente la contingenza del regime politico, vecchio e nuovo.
Come sappiamo, c’era del vero in tutto questo, circa il ruolo di rilievo svolto dalla cultura giuridica nella confezione dei Codici. Ma proprio per questo motivo, non vi era dubbio che quella medesima cultura giuridica reputava i Codici come cosa propria, ben più della Costituzione. Questa conteneva principi nuovi, da sperimentare con prudenza, per evitare che potessero d’un colpo scardinare la disciplina codicistica, cui continuava perciò a essere affidata la tutela del principio fondamentale della certezza del diritto, ancora intesa in senso legalistico come meccanismo di pronta, sicura e uniforme applicazione della legge dello Stato.
Si era insomma culturalmente ancora assai lontani dall’affermazione di una vera e propria clausola di supremazia della Costituzione, sul modello statunitense. E soprattutto quella Costituzione disegnava limiti e indirizzi per il legislatore della Repubblica, ma proprio per questo motivo non aveva forza propria nei confronti del legislatore del passato, che era poi quello dei Codici, né operava direttamente con i suoi principi nell’esercizio concreto della funzione giurisdizionale, e dunque direttamente tra i consociati. In una parola, la Costituzione rimaneva ancora nella sua essenza una direttiva per il legislatore, e non una vera e propria norma giuridica, dotata di forza normativa propria.
Si comprende allora bene quale sia stata la rilevanza, entro un quadro di questo genere, della prima sentenza della Corte costituzionale, del 14 giugno 1956, che fece cadere nello stesso tempo entrambi i pilastri su cui fino a quel momento si erano rette le tesi che negavano piena normatività alla Costituzione, ovvero l’impossibilità di sanzionare direttamente le norme entrate in vigore prima della Costituzione – i Codici, di nuovo, ma non solo – e la natura non immediatamente precettiva di molte norme costituzionali, e soprattutto delle norme di principio. Nasceva da quella sentenza una nuova dimensione della normatività, fondata sui principi della Costituzione, intrinsecamente diversa da quel tipo storico di normatività dato dalla forma legislativa statale, che aveva raggiunto il suo culmine tra Otto e Novecento, nell’età dei Codici.
Se ne accorsero quasi subito gli stessi giudici, fino a quel momento relegati dal modello codicistico allo svolgimento di un ruolo modesto, di mera applicazione al caso concreto della legge dello Stato. Così, la mozione conclusiva di un noto Congresso dell’Associazione nazionale magistrati – il XII, del 1965 – rivendicherà con forza, come intrinseco all’esercizio della funzione giurisdizionale, il potere-dovere d’interpretare la legge in conformità al dettato costituzionale, e di rinviare all’esame della Corte costituzionale quella legge di cui non sia possibile la riconduzione alla Costituzione mediante gli strumenti dell'interpretazione. La mozione è buona testimonianza del fatto che in quei dieci anni – dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta – si stava formando un vero e proprio circuito giurisdizionale entro cui la Costituzione viveva concretamente penetrando sempre più per questa via nelle pieghe e nelle ramificazioni dell’ordinamento. Il vecchio positivismo legislativo, che avrebbe voluto una Costituzione rivolta esclusivamente al legislatore, e una funzione giurisdizionale che continuava a essere sostanzialmente mera applicazione della legge, era ormai smentito e battuto.
Con gli anni Settanta, il processo di attuazione della Costituzione giunge al suo apice. C’è un ruolo della giurisprudenza che va sempre più consolidandosi. E c’è un’ondata legislativa, con l’istituzione delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori e il nuovo processo del lavoro, il referendum, il servizio sanitario nazionale, la riforma del diritto di famiglia, e un’altra serie di riforme, tutte complessivamente ispirate dalla Costituzione, tutte riconducibili al disegno costituzionale, e in particolare al principio di uguaglianza. Anche per la cultura giuridica, in questo nuovo contesto, sono questi gli anni della scoperta della Costituzione. È così per la stessa giuspubblicistica – nel diritto costituzionale e nel diritto amministrativo – che proprio in questi anni più intensamente riflette sui lasciti di quel paradigma statocentrico la cui dominazione non si era affatto esaurita con l’avvento della Costituzione democratica. È così nella civilistica che finalmente avvia una revisione delle proprie categorie – dalla proprietà al contratto, dalla responsabilità all’impresa – alla luce dei principi costituzionali. Per non parlare del diritto del lavoro, che a contatto con lo Statuto – ma non solo – ha ora la sua stagione più alta, di sua più marcata fondazione nei principi costituzionali. Infine, in questi medesimi anni anche in seno alla penalistica si produce un rilevantissimo tentativo di valorizzazione della Costituzione quale fondamento ultimo di legittimazione dell'esistenza stessa dell’illecito penale, quale indicazione prescrittiva dei beni giuridici per loro natura meritevoli di tutela penale.
A ripensare ai difficili anni Cinquanta, sembrava una battaglia vinta. Ma non era così. Vi è stato un seguito. Rimane in effetti ora da gettare uno sguardo oltre gli anni Settanta, fino a noi.
Torniamo per un attimo all'emanazione della Costituzione. Gli storici dell’economia inseriscono quel momento in un contesto di economia regolata, entro un ciclo dominato dalla preoccupazione per i fallimenti dei mercati, un ciclo di grandi insolvenze e di altrettanto estesa disoccupazione, che affermava perciò con forza un ruolo forte e attivo dello Stato, e comunque dei poteri pubblici. Le nuove Costituzioni democratiche del Novecento, come quella italiana, indicavano con forza quella soluzione, attribuendo ai poteri pubblici – alla Repubblica, come nel notissimo secondo comma dell’articolo terzo – rilevanti compiti in materia sociale, che si riconnettevano al principio d’indivisibilità dei diritti fondamentali della persona, compresi i diritti sociali. In altre parole, quelle Costituzioni proponevano una via di uscita, la ricostruzione di una comunità politica, e di un ordine sociale, intensamente solidali, anche perché dotati di un indirizzo fondamentale segnato nella Costituzione medesima. I «Trenta gloriosi anni» sono stati definiti gli anni che si dipartono dal 1948, e che vedono, fino al culmine degli anni Settanta, lo svolgersi di un processo di progressivo accrescimento, in profondità e in estensione, della presenza della Costituzione nella politica e nella società.
Poi, qualcosa è cambiato, nell’ultimo quarto del secolo. Bisogna guardare con occhio disincantato – un po’ come faceva nel 1909 Santi Romano, da cui abbiamo preso le mosse – al rapido mutamento del paesaggio che si stava verificando a partire dagli ultimi decenni del secolo per arrivare fino a noi. E bisogna distinguere in proposito tra fattori di arricchimento dell'esperienza novecentesca delle Costituzioni democratiche, già da prima in essa radicati, e fattori ben altrimenti virulenti, esplosi più recentemente, e che al contrario minacciano quell'esperienza, potendo addirittura procurare la sua conclusione.
Tra i fattori di arricchimento di più lungo periodo indicherei l’Europa. Non che non vi siano in proposito motivi di frizione tra il modello – sociale e costituzionale – fin qui proposto dall’Europa e le democrazie sociali fin qui storicamente costruite sul piano nazionale. Ma complessivamente, nonostante incertezze e oscillazioni, si può dire che nella vicenda europea prevalgano gli elementi comuni, insomma che sia quanto meno possibile leggere l’Europa come una conferma della linea inaugurata con le Costituzioni democratiche del Novecento. Infine, tra i fattori di arricchimento indicherei anche un certo accresciuto ruolo della giurisdizione che può comporsi, entro l’architettura complessiva dello Stato costituzionale contemporaneo, con il ruolo dei poteri d’indirizzo, direttamente legittimati dal voto popolare, ricercando in questo senso un necessario punto d’equilibrio.
Ben altre sono le nubi che si addensano sulla permanenza della prospettiva della Costituzione democratica nel nuovo secolo. La prima è relativa alla recente rapida ascesa del mercato come concetto politico-sociale, d’importanza primaria se non esclusiva. Non l’economia di mercato come realtà da combinare variamente con misure di politica sociale, com’era nelle intenzioni dei nostri Costituenti, e neppure le libertà economiche dell'Unione Europea, ma qualcosa di più: il mercato come principio ordinante, su cui orientare le scelte fondamentali, individuali e collettive. Ebbene, la nostra Costituzione può tollerare misure diverse di libertà economica e di politica sociale. Non può invece tollerare il dominio unilaterale di un principio, come quello della libertà del mercato, tale da ridurre il suo contemperamento – per es., il criterio dell'«utilità sociale» dell’articolo 41 della Costituzione – alla dimensione di un mero residuo. Insomma, la nostra Costituzione, come Costituzione democratica, appartiene a una famiglia storica di Costituzioni, inaugurata da quella tedesca di Weimar del 1919. Uno dei suoi più celebri articoli, il 151, così recitava : «L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo». Questo è il punto. Se questo principio dovesse cadere, con esso cadrebbe insieme anche l’esperienza novecentesca delle Costituzioni democratiche.
Infine, la globalizzazione. Parola magica, che può voler dire tante cose. Noi ne vediamo qui volutamente il lato minaccioso. Globalizzazione può voler dire in effetti concentrazione di potere, economico e soprattutto finanziario, in sedi ristrette e non controllabili, così potenti da poter esporre i singoli, dovunque si trovino, a rischi rilevantissimi – pensiamo alle recenti crisi finanziarie e alla loro incidenza diretta sulle economie individuali – nei confronti dei quali lo Stato nazionale, ovvero la propria comunità politica di appartenenza, sempre meno riesce ad approntare difese efficaci. Per questa via, potrebbe corrodersi un altro principio fondamentale dell'esperienza democratica e costituzionale del secolo scorso, il principio di solidarietà, a sua volta storicamente collegato al principale e più elementare dovere dei governanti, che è il dovere di protezione nei confronti dei consociati. Questi ultimi potrebbero dunque in ultima analisi chiedersi: che cosa conta appartenere a, e concorrere a legittimare, poteri, Stati o governi, se poi questi ultimi ci lasciano soli di fronte a un potere smisurato ed estraneo?
In premessa, abbiamo definito il Novecento come il secolo dell’inquietudine. All’inizio, nei confronti della crisi della società liberale e borghese, in ragione delle trasformazioni che stavano intervenendo nella società stessa, tra Otto e Novecento; poi, nel cuore del secolo, con il tentativo di trovare risposte, che saranno prima quella totalitaria e poi quella della Costituzione democratica. Quest’ultima pare essere, in ultima analisi, il frutto più autentico del Novecento, proprio come tipo storico di Costituzione, cui appartiene anche la nostra Costituzione del 1948. Quella Costituzione è stata accompagnata, nella sua genesi e nella sua attuazione, da una cultura giuridica consapevole del proprio ruolo, che a un certo punto sembrava aver messo alcuni punti fermi, sulla base dei principi della Costituzione. Ma nell’ultima parte del secolo l’inquietudine si è aperta di nuovo, e non solo in seno alla cultura giuridica. Si sono infatti manifestati fenomeni nuovi – il predominio del mercato, un certo esito della globalizzazione – che hanno iniziato a corrodere le certezze appena acquisite. L’Ottocento aveva lasciato in eredità al Novecento il Codice, ma anche motivi consistenti di dubbio e d’incertezza. Anche il Novecento ha lasciato in eredità al nuovo secolo qualcosa d’imponente, e di ambizioso, ovvero la Costituzione, ma non ha mancato anch’esso di accompagnare il lascito con un consistente pacchetto d’inquietudini. Ma se dopo il Codice si è stati capaci d’inventare la Costituzione, non si vede ancora bene che cosa si sarà capaci d’inventare dopo la Costituzione.