Stato
Comunità politica costituita da un popolo stanziato in un determinato territorio e organizzato unitariamente come persona giuridica collettiva, e titolare di un potere sovrano (governo), cui è riservato il monopolio dell’uso legittimo della forza (potere coattivo), allo scopo di garantire l’ordine pubblico interno e di assicurare la difesa contro eventuali nemici esterni. Il concetto e il termine stesso di S. sono relativi a una particolare strutturazione del potere politico, come meccanismo centralizzato di sovranità territoriale, che in quanto tale appartiene a un’esperienza storica che si forma e si evolve in tempi relativamente recenti, a partire grosso modo dal 16° sec. (➔ Stato moderno). Nulla di veramente paragonabile a ciò che definiamo comunemente come S. è possibile rinvenire in epoche precedenti, nonostante l’applicazione che si è soliti fare di questo termine anche con riferimento a esse.
Nella cultura ellenica non esiste lo S., esiste solo la polis come dimensione al tempo stesso sociale e politica della vita di relazione. L’uomo è uomo in quanto «politico», cioè in quanto vive in simbiosi con la propria polis, altrimenti è «idiota», ovvero un essere difettivo, che manca di qualcosa di vitale, il vivere in koinonìa, associato in comunità. Il tema della polis come naturale orizzonte della vita dell’individuo è al centro del discorso di Pericle, nel secondo libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Con la sofistica si ha invece un atteggiamento critico nei confronti degli ordinamenti politici, in quanto si pretendono in ogni caso portatori di valori positivi. Protagora è notoriamente relativista; il Socrate del Teeteto gli attribuisce motivi di esplicito relativismo etico-politico: è giusto e bello, per una città, ciò che appare tale e finché appare tale. Antifonte distingue nettamente tra natura e giustizia, tra leggi naturali e leggi positive, svalutando le leggi positive e affermando anche la naturale eguaglianza degli uomini. E anche per Ippia la legge commette ingiustizie. Si rompe così l’equilibrio tra le esigenze del singolo e le istituzioni politiche. Sulla necessità di tale equilibrio insiste invece il Socrate platonico, il quale critica vivamente la democrazia ateniese, ma, in termini teorici, contrappone al relativismo sofistico e alla democrazia un regime fondato su valori stabili e sulla virtù-scienza, ossia non sulla virtù politica bensì su quella virtù che si fonda sulla conoscenza del bene. Il suo è un atteggiamento moderato e, rispetto alla democrazia, critico in senso conservatore. Il motivo della polis come istituzione etica ed educativa, ossia come organismo sociale che ha il fine di rendere migliore il cittadino, è riaffermato con estrema nettezza da Platone. Egli delinea una polis teocratica, fondata su una teologia astrale, molto oppressiva nei confronti dei cittadini specialmente in fatto di religione. Il rigido unitarismo platonico è criticato da Aristotele, che in generale osserva che la polis platonica fa pensare a un accordo musicale ridotto a un solo tono e mette in evidenza alcune difficoltà di ordine psicologico e sociologico circa la comunanza dei beni e delle donne, voluta da Platone per le classi superiori. Ma in definitiva anche per Aristotele la polis è luogo naturale della vita etica del cittadino e in sostanza politica e etica per lui coincidono. L’uomo è per natura un essere socievole e chi vive fuori della comunità statale senza sentire il bisogno di entrarvi è o bestia o dio. Quanto alle forme di costituzione, esse sono buone o cattive a seconda che il governo sia esercitato a vantaggio della comunità o a vantaggio di chi governa. Avremo così tre forme rette, monarchia, aristocrazia, politia (ossia costituzione per eccellenza), tre forme degenerate, tirannide, oligarchia, democrazia. Ognuna delle tre forme positive è praticabile in relazione alle condizioni storico-sociali, ma è indubbio che per Aristotele la forma migliore in senso assoluto (e astratto) è la politia, ossia una democrazia in cui la massa regge la polis nell’interesse comune. E in questa ottima forma è presente anche l’elemento aristocratico, cioè il giusto posto assegnato al merito e alla fortuna. Le condizioni sociali dove la politia si attua meglio sono quelle dove prevale la classe media, la classe dei non troppo ricchi né troppo poveri. Sono le fortune mediane quelle che facilitano la pratica della virtù.
Nemmeno nel mondo romano troviamo parole ed esperienze che corrispondano all’idea moderna dello Stato. Dove i greci dicevano polis, i romani traducevano con res publica e civitas. La Politeia di Platone viene resa Respublica dalla tradizione latina, in modo coerente rispetto al significato di «cosa di tutti», cosa della comunità, che questo termine esprimeva nel linguaggio dei romani. Ma la civitas non organizza il «vivere politico», bensì il vivere in società secondo legami giuridici. La città dei romani non ha dunque gli stessi orizzonti antropologici e i confini delle «città-S.»: è una civilis societas ricondotta a una iuris societas, non un’aggregazione sociale qualsiasi – per Cicerone – ma un’aggregazione pattizia fondata sul consenso alle norme di legge. Anche quando la res publica – che esprime l’oggetto più che il soggetto degli interessi collettivi – travalica i limiti della città per estendersi, con l’impero, alla cosmopoli, la sua organizzazione istituzionale non è mai vista come separata dalla società in cui si colloca (non a caso nella cultura giuridica romanistica del periodo imperiale non è nemmeno concepibile uno ius publicum come distinto dallo ius privatum). Col cristianesimo s’introduce nei confronti dell’organizzazione politica, allora storicamente rappresentata dall’impero romano, una riserva di carattere religioso. Il cristianesimo infatti pretende di possedere dei criteri di giudizio sicuri in base ai quali valutare la legittimità morale degli atti che l’autorità politica viene compiendo. E la prima posizione che da ciò deriva, suggerita anche dal trovarsi il cristiano all’interno dell’impero, è una posizione di difesa, una rivendicazione di libertà religiosa: lealismo e, anzi, devozione verso l’autorità in vigore, purché questa non pretenda dal cristiano atti che ripugnino alla sua coscienza (per es., atti di culto pagani). La sfera religiosa, però, che il cristiano vuole intangibile, è considerata qualitativamente superiore a quella politica e può perciò voler estendere il suo controllo, non contentarsi della difensiva. Questo dualismo di religioso e di politico, di spirituale e di temporale, non implica soltanto una rivendicazione di libertà individuale, ma anche la rivendicazione della libertà di un’altra società a cui il cristiano appartiene, una società celeste, ma con precisi e indubitabili agganci terreni. Il cristiano fa parte di una Chiesa, che ha proprie gerarchie, cui è dovuta obbedienza. Pur non identificando senza residui questa Chiesa con la città celeste e lo S. con la città terrena, Agostino ribadisce la superiorità della Chiesa sullo S.; ciò non esclude però che lo S. abbia una sua legittimità e una sua autonomia, anche se non cristiano. La città terrena deve in ogni caso fondarsi sulla pace, cioè sulla convivenza ordinata, sull’accordo di autorità e obbedienza. Tuttavia il principe cristiano fa qualche cosa di più: non si limita a essere umile e moderato, ma sottopone il suo potere «alla maestà di Dio, per estendere il più possibile il suo culto» (De civitate Dei, V, cap. 24). La vera giustizia non è neutra, è cristiana: è legittimo l’intervento del potere politico in favore della vera fede contro eretici o pagani. Per questa via i doveri religiosi del principe possono diventare prevalenti, la distinzione dei due poteri può tendere a cancellarsi. L’autonomia dello S. invece, oltre a essere riaffermata dai diretti avversari delle pretese teocratiche, è sostenuta da s. Tommaso. Per Tommaso la socialità è un fatto naturale (non è il risultato della caduta originaria), come naturali sono le disuguaglianze, le diversità fra gli uomini. Questo mondo di diversi ha e deve avere però una sua armonia, una sua unità, unità rappresentata da Dio rispetto al cosmo, dalla ragione nell’uomo, dall’autorità politica nella società umana. Dato il carattere appunto unitario di questa autorità, il governo monarchico (il re è di per sé uno) è per Tommaso il governo migliore. La monarchia tomista è temperata: il re è responsabile del bene del suo popolo e risponde a Dio del suo operato. Ma Tommaso accenna anche all’opportunità di strumenti giuridici che evitino la degenerazione della monarchia in tirannia e nella Summa theologica parla di governo misto (compresenza del principio monarchico, dell’aristocratico, del democratico) con riferimento all’Antico Testamento, ai re biblici assistiti dagli anziani e al governo dei giudici che precede quello monarchico. Il re è dunque il medievale re nella legge. E sulla legge Tommaso insiste a lungo in termini generali: la legge è l’espressione stessa della razionalità, e la razionalità permea di sé il mondo e non può non permeare di sé gli ordinamenti e le leggi positive. C’è nella legge positiva un fattore volontaristico che dipende dal principe, ma la struttura della norma deve essere razionale, ossia conforme a giustizia. E la giustizia è proporzionalità, è dare a ciascuno il suo, è rispettare l’altrui diritto. Siamo chiaramente di fronte a una logica giusnaturalistica: c’è una giustizia naturale-razionale che costituisce e deve costituire la trama delle leggi positive. Ma questa giustizia e la correlativa ragione, pur essendo autonome, non sono tuttavia indipendenti, perché al di sopra di esse c’è la legge eterna, la ragione sovrana di Dio. Il diritto naturale tomistico si completa in una visione cristiana e anche chiesastica. S. e Chiesa, come natura e soprannatura, sono distinti, ma la Chiesa è una fonte suprema di verità ed è in certo senso l’organo delle decisioni di ultima istanza. Il caso più sicuro di doverosa disobbedienza civile è quello del sovrano colpito da scomunica; il cittadino eretico (che cioè ha tradito la verità dopo averla conosciuta) non può vantare alcun diritto, e così via. Torna il motivo della preminenza del potere spirituale su quello politico: l’autonomia della sfera temporale è incontestabile, ma spetta al potere spirituale delimitarne l’ambito. In termini radicali questa autonomia è invece teorizzata da Dante nel De monarchia, da Marsilio da Padova, da Guglielmo di Occam, da Wycliffe. Per Dante l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio, mentre la Chiesa è estranea alle faccende temporali conformemente alla famosa espressione di Cristo, suo modello, che affermava non essere il suo regno di questo mondo; il sovrano temporale deve reverenza al pontefice, ma solo in quanto questi è guida verso la vita eterna. La superiorità dello spirituale nei confronti del temporale è riaffermata, anche da Marsilio, da Occam, da Wycliffe, ma questa superiorità è, per così dire, sublimata: lo spirituale è ciò che attiene alla salvezza, non ha nulla da vedere con i valori terreni. Il sacerdote è un cittadino come gli altri, senza privilegio alcuno; egli sfugge all’autorità politica solo in quanto esercita funzioni inerenti al culto e ai sacramenti, tutte cose prive di conseguenze sul piano temporale. Lo S. si modernizza, ossia si viene emancipando dalla religione. In Marsilio la genesi dello S. è aristotelica: una genesi naturale, naturale essendo l’associazione. Accanto a questa causa materiale Marsilio pone un elemento volontaristico, una causa efficiente, rappresentata da quello che egli chiama il legislatore, ossia l’assemblea dei cittadini che fa le leggi e istituisce il potere esecutivo, che resta sotto il suo controllo (Marsilio riprende la divisione sestuplice delle forme di governo, ma preferisce la monarchia elettiva). Questa assemblea «è il popolo o l’intero corpo dei cittadini o la sua parte prevalente» (Defensor pacis, I, cap. XII, 3). Sebbene taluno abbia voluto vedere in ciò una nota modernamente democratica, è molto probabile che Marsilio pensasse alle assemblee medievali, e specialmente all’arengo comunale, cioè a quell’insieme dei cittadini in grado di rappresentare la totalità dei veri cittadini, ossia di quelli che partecipano alla cosa pubblica secondo il loro rango. È comunque evidente il carattere laico della sovranità marsiliana. Questa emancipazione della politica dalla religione e quindi dallo S. della Chiesa caratterizza la politica moderna. Non che la religione non continui a essere oggetto importante dell’attenzione del politico, ma egli la guarda con occhi appunto politici, mondani, ossia la prende in considerazione nella misura in cui essa può influire sui fatti politici. Ed è soprattutto a partire da questa emancipazione che, storicamente, si forma il moderno concetto di Stato.
Occorre quindi arrivare a Machiavelli e Bodin per scoprire la dimensione «verticale» della politica, separata dalla sfera della religione e dall’etica, su cui si situa la nozione e l’esperienza dello S., inteso correttamente come una struttura gerarchica della vita associata. Si fa risalire a N. Machiavelli (1513), in effetti, l’invenzione della parola nella sua accezione moderna, distinta da status non a caso in quanto ceto o condizione sociale, e correlata – alla figura del principe, termine quest’ultimo che già s. Tommaso aveva utilizzato nel De regimine principum (1260) e Marsilio da Padova (1320) aveva connesso alle funzioni – pars principans – che oggi diremmo di governo. Il Principe è la metafora delle grandi monarchie accentratrici che si legittimano sulla forza e sulla separazione della politica dall’etica e dalla religione, generando – per questa via – l’organizzazione moderna dello Stato. Per la fondazione di questo S. tutto è lecito, forza, astuzia, crudeltà. Ma una volta che lo S. c’è, allora bisogna governarlo con spirito repubblicano (la repubblica romana è il modello antico da imitare), ossia con assoluto rispetto delle leggi, della libertà, della sicurezza dei cittadini e la legge è, classicamente, anche educatrice dei cittadini. Il cittadino virtuoso è il cittadino probo, disposto a rinunciare al suo utile privato per il bene comune. Il cittadino tuttavia non partecipa al governo dello S., perché governare è affare di pochi, ma fruisce della sicurezza. Accanto alle buone leggi, Machiavelli vuole le buone armi, milizia cittadina e non mercenaria, fanteria piuttosto che cavalleria. Le buone armi sono essenziali perché lo S. vive fra altri S. coi quali è possibile venire in conflitto e in caso di guerra (cioè di difesa dello S.) è anche lecito ogni mezzo: razionale e legalitario all’interno, lo S. moderno è potenzialmente violento nei rapporti con gli altri Stati. Sulla sovranità dello S. e sull’assolutezza di questa sovranità (anche se con qualche temperamento) insiste Bodin, nel quale troviamo anche il concetto di tolleranza religiosa. Questa tolleranza deriva dalla convenienza politica del rispetto delle fedi: la religione è un fattore positivo di coesione politica, ma lo S. non deve intervenire in questa materia. Solo l’ateismo non deve essere ammesso, dato il carattere fondamentalmente asociale dell’ateo. Bodin riflette la posizione del partito detto dei politici nel periodo delle guerre di religione in Francia, partito che dava un’interpretazione appunto politica, ossia confessionalmente neutra, di quelle controversie. Con Hobbes si giunge a una teorizzazione molto rigorosa della sovranità assoluta dello Stato. Hobbes ricorre alla distinzione di S. di natura e S. civile e allo schema del contratto. Nello S. di natura gli uomini, eguali tra loro, perseguono fini eguali, fini di illimitata appropriazione delle cose e anche di dominio sugli altri, e ciò dà luogo a una situazione di perenne guerra reciproca e quindi di miseria e infelicità. La ragione suggerisce di uscire da questa condizione e di ricercare la pace, che sola può garantire l’autoconservazione, che è poi il diritto fondamentale e inalienabile dell’uomo. Ciò avviene mediante un contratto di ciascuno con ciascuno, consistente in una concorde rinuncia alla libertà naturale, ossia al diritto di appropriarsi di tutte le cose e di comportarsi secondo i propri desideri. Solo l’autoconservazione non viene alienata, in quanto di per sé inalienabile. Questa rinuncia viene fatta in favore di un sovrano (singolo uomo o assemblea), il quale però non è da parte sua contraente, non ha obblighi verso i sudditi, è cioè un sovrano assoluto. Qualunque atto egli compia lo compie per delega dei sudditi. Vero dio mortale, egli è la fonte stessa della razionalità e della legittimità: le leggi sono giuste perché emanano da lui; le comunità minori, le consuetudini, le assemblee sono soggette alla sua autorità. Suo compito è naturalmente di garantire la sicurezza della comunità contro ogni violenza interna o esterna. Una impostazione per certi versi ravvicinabile a quella di Hobbes è quella che del problema politico dà Spinoza: anche il suo S. è assoluto, è fondatore di diritto e di eticità. Ma, a differenza che in Hobbes, la società politica spinoziana non presuppone un sovrano istituito da un contratto che gli conferisca illimitati diritti; essa risulta da un contratto che potenzia il singolo, facendone un membro di una comunità razionale e fondamentalmente democratica. Lo S., per esempio, è consapevole della pluralità delle opinioni in fatto di credenze religiose e dell’incoercibilità del pensiero e dell’insegnamento; esso interviene soltanto quando le azioni dei cittadini mettono in pericolo la sua conservazione.
Le teorie contrattualistiche, che sono alla base delle prime concettualizzazioni dello S. moderno, da un lato giustificano la nascita dello S. assoluto, dall’altro si pongono come fondamenti di legittimazione del potere «limitato», che prelude al processo di laicizzazione dello S. e alla nascita del costituzionalismo liberale. A questo tipo di limitazione del potere possono ricondursi le posizioni dei monarcomachi e del pensiero giusnaturalistico. I monarcomachi sono degli scrittori calvinisti e anche cattolici che nella seconda metà del sec. 16° e nei primi anni del sec. seguente rivendicano il diritto di resistere al sovrano e in genere alcune autonomie tradizionali di contro alle pretese accentratrici delle grandi monarchie. Il potere politico non emana dal sovrano, ma dalla società nel suo insieme e il sovrano deve esercitarlo nel rispetto delle comunità minori che popolano la società. Altusio, che è il più importante e sistematico di questi scrittori, parla di un supremo magistrato eletto dal collegio degli efori, che rappresentano la collettività e controllano e in casi estremi possono deporre il supremo magistrato, il cui potere è dunque limitato dalle leggi, dal diritto naturale, dai doveri religiosi. Oltre questi limiti il potere diventa tirannico ed è lecito resistergli. Il giusnaturalismo moderno si fa in genere cominciare con Grozio, il quale nel celeberrimo De iure belli ac pacis (1625) sostiene che alcuni principi essenziali del diritto (rispetto dei beni altrui, obbligo di mantenere le promesse, risarcimento del danno arrecato) sono validi perché conformi alla ragione e alla natura umana (come è conforme alla natura umana la tendenza alla vita sociale), e tale validità sussiste in sé, senza alcun bisogno di fondazione teologica. Neppure Dio potrebbe mutare quei principi. Si tratta in sostanza dell’affermazione dell’autonomia della ragione, da cui deriva un’impostazione affatto laica del problema dello Stato. C’è in Grozio il motivo contrattualistico (anche se non rigorosamente elaborato), che torna poi con maggiore precisione in Pufendorf. Sia Grozio sia Pufendorf sono però assolutisti in fatto di dottrina dello S.: il contratto è irrevocabile, il popolo non può resistere al principe. Grozio, sebbene affermi che il principe debba rispettare il diritto naturale e ammetta che nel caso estremo in cui egli diventi nemico di tutto il popolo decade dal potere, tuttavia utilizza lo schema contrattualistico per convalidare l’autorità di fatto e non per metterla in discussione. Alcuni scrittori però si servirono della sua dottrina in funzione antiassolutistica (per esempio P. Jurieu contro l’assolutismo di Luigi XIV). E tesi più liberali sostengono, sempre in ambito giusnaturalistico, J. de Barbeyrac (1674-1744) e J.-J. Burlamaqui (1694-1748) in tema di sovranità: concepiscono cioè la sovranità come divisa e non unitaria (possibilità, questa, non negata dallo stesso Grozio). S. di natura e contratto sono utilizzati anche da Locke nella sua costruzione politica. Lo S. di natura lockiano è descritto in termini ottimistici e «liberali»: l’uomo naturale è socievole, pensa alla sua conservazione ma anche a quella degli altri, ha il senso della giustizia. S. di natura e S. di guerra, dice Locke in evidente polemica con Hobbes, sono tra loro distanti come uno S. di pace e di reciproca benevolenza e assistenza e uno S. di violenza e reciproca distruzione. L’uomo naturale di Locke si prolunga nella proprietà, che è l’istituto fondamentale dello S. di natura: proprietà comune in origine, essa diventa poi proprietà privata mediante il lavoro. Dallo S. di natura però si esce perché la «corruzione e la perversità di uomini degenerati» (Two treatises of government, II, cap. IX, par. 128) rendono necessaria un’associazione in cui il diritto sia certo e sia effettiva un’autorità che lo faccia rispettare. Sorge così la società politica o civile, fondata su un contratto e avente lo scopo di assicurare, meglio di quanto lo S. naturale non facesse, la proprietà del singolo. Un gruppo di individui si accorda per costituire un corpo politico, senza ledere la libertà di quanti volessero rimanere nello S. naturale. Le decisioni di questo corpo politico sono prese a maggioranza, come è ragionevole che sia. Il popolo dunque è e rimane sovrano. Le forme di governo sono varie a seconda della collocazione del potere legislativo, che è il potere supremo. Si hanno la perfetta democrazia (la comunità fa direttamente le leggi a maggioranza e si serve di funzionari da essa delegati per farle eseguire), l’oligarchia (potere legislativo di pochi), la monarchia (potere legislativo di uno), che può essere ereditaria o elettiva, eventuali forme miste. Accanto al potere legislativo abbiamo il potere esecutivo (che vigila sull’esecuzione delle leggi) e il federativo (che si occupa dei rapporti con gli altri Stati). La vita costituzionale dello S. lockiano deve svolgersi nel pieno rispetto della legalità, dell’interesse del popolo, della proprietà. In caso di infrazioni il popolo ha diritto di riprendere il potere e di resistere anche con la forza. Lo S. di Locke è poi tollerante: la vita religiosa come tale sfugge all’interesse dello Stato. Tuttavia questa tolleranza non è illimitata: non possono beneficiarne quanti diventerebbero intolleranti come i papisti, quanti attraverso la loro religione dipendono da un’altra autorità, gli atei per la loro asocialità. Locke non esclude lo S. assoluto, purché non sia un potere arbitrario, ma «limitato dalla ragione» (ivi, cap. XI, par. 139); tuttavia la caratteristica più tipica del suo S., quella che fa del suo pensiero politico un pensiero politico liberale, è che questo S. non ha in sé il suo fine, perché il fine della sua azione è la proprietà, ossia il lavoro umano e il rigoglio della società come sede e risultato di questo lavoro. È il lavoro che conferisce valore ai prodotti, che in definitiva costituisce la ricchezza. L’importante è che esso si espanda senza impacci e il buon governo è quello che favorisce tale espansione.
Questi motivi, che pongono nettamente l’accento sulla società anziché sullo S., sul lavoro produttivo anziché sulla politica, sono i motivi della moderna civiltà borghese e trionfano nel pensiero illuministico. L’Illuminismo è in questo senso antipolitico, ossia nemico di una concezione della politica che si fa risalire a Machiavelli e che considera essenziali la forza e l’espansione dello Stato. Per il politico illuminista lo S. deve invece favorire il progresso dell’industria, il crescere della ricchezza, il commercio e i traffici. Le forme di governo possono essere varie, e accettabili o criticabili a seconda del loro assolvere o meno tale funzione. Campeggia la razionalità del mercato industriale e della vita economica: lo S. deve promuoverla rimuovendo gli ostacoli rappresentati da residui storici e tradizionali. Il potere politico suscita diffidenze, a meno che non faccia proprie quelle istanze di razionalità che sono caratteristiche della società moderna. La logica di questa impostazione razionalistica è democratica ed egualitaria: è democratica nel senso che non è concepibile altra fonte legittima del potere all’infuori del consenso degli interessati, è egualitaria perché la ragione è possesso di tutti e non tollera privilegi. Non sempre però gli illuministi trassero tutte le conseguenze di questa impostazione e spesso considerarono la sovranità del popolo come un principio non pienamente operante, l’eguaglianza come un’idea plausibile ma dalla quale non era possibile trarre conseguenze economiche radicali. Voltaire, Diderot, Helvétius, Holbach sviluppano questi motivi, presenti anche, in forma sistematica, in Montesquieu. Anch’egli parte da premesse razionalistiche: il mondo è abitato da una razionalità che è anche stampata nei cuori degli uomini, le leggi sono l’espressione eminente di questa razionalità. In astratto la forma più razionale è la democrazia, perché in essa il popolo è per un verso sovrano, per un altro suddito; seguono l’aristocrazia, governo di pochi, e la monarchia, governo di uno solo. Il dispotismo infine rappresenta il potere nella sua manifestazione brutale. È evidente la degradazione dovuta al progressivo dualismo di governanti e governati, a partire dalla loro unità rappresentata dalla democrazia. A questi tipi ideali Montesquieu commisura una serie di fattori concreti, di condizioni, onde per es. il governo repubblicano (che comprende democrazia e aristocrazia) si adatta agli S. piccoli, la monarchia ai medi, il dispotismo ai grandi imperi. Ma la preoccupazione maggiore di Montesquieu è che in ogni caso il potere non schiacci il singolo, che la legalità trionfi. Perché ciò si abbia è necessario che «il potere freni il potere» (De l’esprit des lois, libro XI, cap. 4). Di qui la celebre teoria della divisione dei poteri, e non solo e non tanto in senso tecnico-giuridico, quanto in senso politico: si tratta di forze effettuali che devono equilibrarsi. I modelli di Montesquieu sono due, uno inglese, uno francese. Quello inglese ripropone la costituzione inglese (alquanto idealizzata), come quella di «una nazione che ha per scopo diretto della sua costituzione la libertà politica» (De l’esprit des lois, libro XI, cap. 5). Nell’identificare i poteri Montesquieu ricalca dapprima la distinzione lockiana: legislativo, esecutivo della politica estera (il federativo di Locke), esecutivo delle cose dipendenti dal diritto civile (l’esecutivo di Locke, che appunto vigila sull’esecuzione delle leggi). Subito dopo precisa che quest’ultimo potere punisce i delitti e giudica le liti dei privati e lo chiama potere giudiziario, mentre chiama semplicemente esecutivo quello che provvede alla politica estera. Più avanti però osserva che il potere giudiziario è «indivisibile e nullo», ossia non è un vero potere, perché lo assegna a persone scelte fra il popolo, che formino un tribunale di durata limitata. I tre poteri della costituzione inglese sono dunque, come Montesquieu precisa, la Corona e le due Camere (dei comuni e dei lord), in reciproco equilibrio. Il modello francese è quello della monarchia limitata dai poteri dei corpi intermedi, dalle prerogative dei signori, della nobiltà, del clero, delle città. È ancora una volta il potere che frena il potere: abolite questi privilegi, dice Montesquieu, e avrete lo S. popolare (nel senso negativo, come dispotismo di tutti) o lo S. dispotico. Lo S. democratico, cioè lo S. fondato sulla sovranità assoluta del popolo, è invece per Rousseau l’unico S. legittimo, l’unico S. fondato sul diritto. Attraverso una convenzione consensuale unanime, ossia attraverso il contratto sociale (che, beninteso, non è un fatto, ma un concetto della ragione), ciascuno rimette ogni suo diritto naturale nelle mani di tutti gli altri contraenti e diventa così membro della società politica, uomo non più naturale ma sociale. Con questo l’individuo ritrova, rafforzata, la sua libertà naturale, la possibilità di operare con sicurezza secondo i suoi più veri interessi e secondo i dettami della ragione. Ogni atto della comunità è un suo atto, perché egli è intrinseco alla comunità in virtù del contratto. Questa razionalità Rousseau chiama volontà generale, e i suoi atti razionali-universali sono le leggi (la volontà generale non si volge mai a casi singoli). Quando la comunità è bene ordinata, quando non vi prevalgono interessi particolari o frazioni, la volontà generale è data dalla volontà di tutti o dei più. Ma quando prevalgono interessi o gruppi particolari, la volontà generale non coincide più con quella di tutti o della maggioranza. Insomma, la volontà generale è l’intima razionalità di una comunità politica, quella razionalità che la comunità dovrebbe manifestare ed essere nelle condizioni di manifestare. Quando si parla di volontà generale e di sovranità ci si riferisce al potere legislativo (che Rousseau vuole si eserciti direttamente e non attraverso rappresentanti). Questo potere è indivisibile e anzi è l’unico vero potere, ma esso deve limitarsi a fare le leggi. Le funzioni governativa e giudiziaria sono funzioni autonome (non indipendenti) e affidate a magistrati. Ed è soprattutto sulla distinzione di legislativo ed esecutivo, di sovrano e governo, che Rousseau insiste. Il governo è un delegato del sovrano. E il governo che Rousseau preferisce è l’aristocrazia elettiva. Il governo democratico (che Rousseau intende nella sua accezione rigorosa, come quello cioè in cui la maggioranza direttamente governi) non è realizzabile. La dipendenza del governo dal sovrano è effettiva: si hanno delle assemblee periodiche, convocate a date fisse, nelle quali si vota su due proposizioni: se piaccia al sovrano conservare l’attuale forma di governo, se gli piaccia lasciarne l’esercizio ai governanti attuali. Il consapevole modello di Rousseau è la pòlis, il piccolo S. abitato da cittadini virtuosi e interessati alla sua conservazione. Socialmente è uno S. fondato sulle fortune mediane (in questo senso egualitario). Le tendenze della società moderna verso il prevalere del capitale mobile, verso l’unificazione di ricchezza e potere (anziché di virtù e potere) e il dominio del ricco sul povero sono fattori di corruzione e di decadenza culturale-morale. Nel Contrat social (libro II, cap. 10), Rousseau elenca le condizioni necessarie perché un popolo possa avere delle buone leggi e cita la Corsica come il Paese europeo «capace di ricevere una legislazione». Tali condizioni sono un’implicita conferma del suo giudizio sull’irreversibilità della decadenza del mondo moderno. Per Rousseau dunque la sua costruzione politica è praticamente irrealizzabile. Anche per Kant lo S. si fonda sulla sovranità del popolo e sulla divisione degli organi del potere. Accanto al potere sovrano o legislativo troviamo il potere esecutivo e quello giudiziario. Ma il potere esecutivo, cioè il governo, è sottoposto non solo alle leggi, che sono naturalmente opera del sovrano-legislatore, ossia del popolo, ma anche al controllo politico da parte di questo, che può deporlo o può riformare il tipo di amministrazione. Potere legislativo e potere esecutivo devono essere distinti; se sono nelle stesse mani si ha il dispotismo. Autonomo è anche il potere giudiziario; con giuria popolare nei tribunali. Questo S., a rigore, non fa politica: non deve occuparsi della felicità dei cittadini, non deve pensare a ingrandirsi, ma soltanto ad allearsi con altri S. per la conservazione della pace. L’unica politica dunque che lo S. kantiano deve fare è quella mirante all’attuazione del diritto: coesistenza di liberi cittadini e di liberi Stati. Lo S. kantiano è perciò liberale, perché bada soltanto alla libertà di cittadini (e c’è anche in Kant il motivo dell’opportunità economica del non intervento dello S.: non intralciare le iniziative dei singoli, non danneggiare con interventi i commerci) ed è democratico perché fondato sulla sovranità del popolo. Lo S. descritto da Kant è, consapevolmente, uno S. ideale, un modello verso cui tutti gli S. storicamente esistenti devono tendere.
Nelle linee successive di sviluppo, la dottrina dello S. liberale finisce per approdare alla concezione organicistica dello «S. etico». Anche lo S. di Fichte ha fondamenti democratici e la sua genesi è contrattuale; è nondimeno forte la suggestione illuministica del «despota illuminato». L’organizzazione di questo S. comprende due poteri, l’esecutivo e l’eforato. L’esecutivo comprende in sé la funzione legislativa e quella giudiziaria: la legislativa perché l’attività legislativa altro non è che l’applicazione della legge fondamentale, cioè la coesistenza giuridica dei cittadini; la giudiziaria perché se l’esecutivo deve eseguire il verdetto del giudice, allora è il giudice ad avere un potere illimitato, se invece deve sindacare l’operato del giudice, allora l’indipendenza del giudice è illusoria. Vari sono i tipi di governo: monarchia, democrazia pura (governanti eletti dalla comunità), democrazia mista (governanti non tutti eletti direttamente) ecc. L’eforato, che è il tratto più caratteristico dello S. fichtiano, è un contropotere, un potere negativo avente il compito di controllare la legalità degli atti dell’esecutivo e, in caso d’infrazione, di sospenderne l’efficacia. Gli efori possono anche sospendere tutto il pubblico potere o alcuni membri di esso. Chi decide sulla giustezza o meno dell’accusa degli efori (che sono eletti dal popolo) è il popolo riunito. Ora il giudizio del popolo (e questa è la nota più tipicamente democratico-rousseauiana) è naturalmente giusto, ha valore di legge costituzionale, ha effetto retroattivo. Altra caratteristica dello S. fichtiano è il suo intervento nella vita economica, volto a garantire a ciascuno ciò che gli spetta, a garantire cioè non tanto il diritto di proprietà quanto il diritto alla proprietà. Lo S. regola dunque la vita economica secondo un criterio di giustizia. In una fase di ripensamento della sua teoria politica Fichte, pur lasciando immutate le strutture del suo S., ha a esse sovrapposto un nuovo potere, un potere straordinario avente compiti educativi: ha parlato di un despota altamente ispirato e ha indicato nella comunità dei dotti gli uomini capaci di educare il popolo e anche di operare all’interno dello Stato. Il popolo, di diritto fonte della razionalità, di fatto è ancora incapace di governarsi. Si ripropone a Fichte il tema del despota illuminato o del legislatore rousseauiano che elevi il popolo alla razionalità. I motivi democratici e contrattuali scompaiono invece in Hegel, che anzi li critica vivamente. Lo S. di Hegel infatti non è più uno S. ideale, ma vuole essere lo S. del tempo di Hegel, lo S. moderno, rispecchiante effettive tendenze moderne, in conformità con la concezione hegeliana della filosofia, come comprensione di una razionalità realizzata. Tale S. è una monarchia costituzionale ereditaria, fondata sulla distinzione dei poteri. I poteri sono il potere legislativo, il potere governativo, il potere del sovrano. Nel potere del sovrano i poteri distinti si raccolgono in unità individuale. In realtà il monarca ha il potere di grazia e ha quello di nominare e revocare quanti ricoprono gli uffici più importanti dello Stato. Solo simbolicamente esso è l’organo delle decisioni ultime, perché in uno S. bene ordinato il monarca sanziona dei contenuti anteriormente elaborati. L’autentico potere è quello dei funzionari, dei componenti il potere governativo, che accedono agli uffici a seconda delle loro attitudini. Il potere legislativo è affidato a due camere, una Camera alta non elettiva (vi si accede per diritto di nascita) e una Camera bassa elettiva; l’elezione però non è fatta dai singoli come tali, ma dagli organizzati in «associazioni, comunità e corporazioni» (Philosophie des Rechts, par. 308). Il potere legislativo fa le leggi e controlla il governo. L’attività legislativa è nel medesimo tempo costituzionale, nel senso che essa arricchisce di nuovi contenuti quell’insieme di norme e di consuetudini che per Hegel è la costituzione (la costituzione è un fatto storico, non è il risultato del lavoro di un’assemblea appositamente convocata). Questo S. non è e non deve essere invadente, deve anzi operare con una certa discrezione, ossia rispettare i diritti delle comunità minori, quelle comunità che nel Medioevo avevano acquistato un’autonomia eccessiva ma che costituiscono pur sempre «la forza caratteristica degli S.» (Philosophie des Rechts, par. 290, aggiunta). Anche nella vita economica l’intervento dello S. non deve essere eccessivo, ma deve limitarsi a temperare gl’inconvenienti cui essa dà luogo, cioè squilibri e crisi. La vita economica è vista da Hegel con occhi smithiani, e il suo interventismo è di tipo liberale. Ritroviamo in Hegel il dualismo moderno di politica ed economia, di S. propriamente detto e di società civile. Per un altro verso questo dualismo si estende a tutto il mondo moderno-borghese e si trasforma anche in polemica contro l’assolutismo livellatore in favore dello S. articolato nei ceti e nelle comunità minori. Capostipite di questa letteratura è E. Burke, le cui Reflections on the Revolution in France apparvero nel 1790. Da ricordare Novalis, Adam Müller, K. L. von Haller, J. de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, il primo Lamennais.
Non allo S. ma essenzialmente alla società volgono la loro attenzione gli scrittori socialisti, i quali non riconoscono allo S. una funzione autonoma, perché lo considerano uno strumento al servizio degli interessi predominanti nella società. Con atteggiamento ravvicinabile a quello degli illuministi, essi valutano lo S. sotto un duplice profilo: nello S. esistente vedono un semplice mezzo per la conservazione di un assetto sociale ingiusto e dunque un fattore di oppressione; nello S. futuro, cioè quello della società giusta da essi voluta, vedono un garante e un coadiutore di questa società. Ma con ciò lo S. perde le sue caratteristiche in senso stretto politiche, ossia derivanti dalla divisione in dominanti e dominati, scomparsa la quale tende a scomparire anche quella di governanti e governati. Alla politica subentra l’amministrazione, la società può fare da sé e farà da sé. La società disegnata da Saint-Simon è quella del lavoro organizzato, in cui lo S. ha il ruolo di pianificatore di questo lavoro e svolge tale ruolo con criteri scientifici e non opinabili. La società disegnata da Fourier si fonda su un’organizzazione decentrata della produzione, ossia su unità produttive autonome (a cui sono estranee preoccupazioni di tipo politico); vi è previsto un consiglio superiore dell’industria, ma con voto solo consultivo. E anche in Proudhon la produzione è decentrata, il principio nazionale e statale è sostituito da quello federativo, il governo diventa un organo scientifico, regolatore della produzione. Per Marx lo S. è sempre uno strumento di oppressione: lo è lo S. borghese perché serve soltanto all’esercizio del dominio, ma lo è anche lo S. che segue alla rivoluzione (la dittatura del proletariato) perché opprime i nemici della rivoluzione. Tuttavia quest’ultimo S. è uno S. democratico perché la dittatura è una dittatura di classe ed è una dittatura di maggioranza, della larga maggioranza interessata alla rivoluzione e al nuovo assetto sociale. Ma è democratico anche in un senso più tecnico, perché la sua organizzazione, modellata sulla Comune parigina, viene raffigurata in termini di democrazia diretta: unità di lavoro legislativo ed esecutivo affidato a consiglieri eletti a suffragio universale e revocabili in qualsiasi momento, magistrati e giudici elettivi e revocabili, rigido controllo dal basso di ogni funzione pubblica. Terminato il periodo di transizione, distrutte cioè definitivamente le basi economiche del dominio capitalistico, a questo S. democratico succede una società non più politica, ma fondata su un autogoverno tecnico dei singoli e sulla loro piena espansione. Negli sviluppi del pensiero marxista si hanno soprattutto delle discussioni di carattere tattico sulla possibilità di operare all’interno dello S. democratico-borghese per il raggiungimento non violento dei fini socialisti, o viceversa sulla necessità o meno di atti di forza, sul ruolo della dittatura proletaria. Dopo la Rivoluzione russa queste discussioni sono particolarmente vive: K. Kautsky, pur riconoscendo che la Rivoluzione russa non poteva svolgersi diversamente, ritiene che il potere dittatoriale a essa seguito sia una forma di dominio barbarico e quindi un passo indietro rispetto al potere borghese; e R. Luxemburg, pur con accenti diversi, è in netto disaccordo con alcune misure autoritarie, e vorrebbe che il nuovo potere, instaurato, e legittimamente, con la forza, si organizzasse in forme democratiche. Resta dunque fermo il concetto dello S. come strumento di dominio di classe: si ritiene plausibile, se si danno condizioni adeguate, la conquista violenta del potere, ma s’insiste sull’insostituibilità delle tecniche democratiche nell’esercizio del potere.
L’idea dello S. a servizio della società e garante della libertà del singolo torna negli sviluppi del pensiero liberale da K. W. von Humboldt a B.-H. Constant, a Madame de Stäel. L’importante è che lo S. intervenga il meno possibile, che il singolo abbia una sufficiente sfera di liceità, non solo per le sue iniziative economiche, per il suo utile, ma anche per lo svolgimento della sua personalità culturale-morale. La costruzione politica di Constant, che è la più sistematica, parte appunto da questo presupposto, dall’assunto che l’uomo, in quanto tale, è libero nel senso di essere rivolto verso valori superiori, anche e soprattutto di tipo religioso. La libertà riceve così una fondazione spiritualistica e conculcarla è un peccato contro lo spirito. È perciò necessario che la sovranità sia limitata, cioè si arresti di fronte ai diritti dell’individuo. Ora la sovranità a cui pensa polemicamente Constant è la sovranità democratica illimitata di Rousseau, che egli considera una pericolosa fonte di dispotismo. Il sistema politico di Constant è un sistema armonico, monarchico-costituzionale, con due camere, una ereditaria e una elettiva, con elezioni a suffragio ristretto censitario, con giudici inamovibili, con assoluto rispetto delle forme giudiziarie. Centro di questo sistema è il potere regio, a cui spetta con oculato arbitraggio conservare l’armonia delle parti. Constant non ha difficoltà a rilevare che negli S. moderni il popolo, che interviene a lunghi intervalli per eleggere i suoi rappresentanti, è sovrano solo in apparenza. Ciò tuttavia non ha per lui importanza, perché il mondo moderno non è un mondo politico come quello della città antica. L’importante è che in esso l’individuo possa operare e realizzarsi liberamente, possa perseguire le sue passioni, godere i suoi agi privati. A questo corrisponde un’accettazione dell’assetto sociale seguito alla Rivoluzione francese e una larga fiducia nelle armonie economiche. Anche i poveri laboriosi trovano possibilità di vivere in un Paese dove regnano libertà e pace. Una preoccupazione dello stesso genere, ossia nei confronti della democrazia e della conseguente eccessiva politicizzazione della vita dello S., è presente in alcuni giuristi tedeschi, come R. von Mohl, R. von Gneist, K. F. von Gerber, G. Jellinek, assertori dello S. di diritto, ossia dello S. come istituzione storico-giuridica autosufficiente, che fonda il diritto e garantisce la libertà dei cittadini, che regola la sua stessa azione entro i limiti delle leggi stabilite. La sovranità popolare e le idee a essa relative sono concetti astratti, che di fatto conducono al parlamentarismo e, in generale, a una situazione di permanente contrasto tra governo e popolo, con danno della stabilità dello Stato. La vera libertà non nasce dalla rivendicazione di astratti diritti del singolo, ma dall’evoluzione storica, ed è garantita da alcuni istituti, come, per es., i tribunali amministrativi. I diritti soggettivi sono certo un dato essenziale della civiltà moderna, ma sono diritti nello S., posti dallo S. e da esso, per sua volontà, rigorosamente rispettati. È evidente che, pur partendo da preoccupazioni analoghe, i rimedi che questi scrittori propongono contro gli eventuali abusi della democrazia sono opposti a quelli di Constant: non l’intangibile e sacra libertà del singolo, ma la saggia autorità dello S. è la garanzia ultima di una vita politica razionale. La funzione riformatrice dello S., con Stuart Mill e dopo di lui, è teorizzata anche dai pensatori liberali. I quali ammettono che per la realizzazione delle loro idee, che postulano il pieno svolgimento anche economico dell’individuo, è necessario che lo S. non si limiti a un ufficio puramente negativo e socialmente neutro, ma operi in modo da assicurare una condizione economico-sociale che non ostacoli ma favorisca le libere iniziative. Si prendeva con ciò atto, come Stuart Mill esplicitamente riconosce, di una situazione non «liberale», ma oppressiva per i più. Stuart Mill parla di difesa della proprietà privata, purché fondata sul lavoro, di confisca del reddito non guadagnato, in particolare della rendita fondiaria, di promozione di forme di produzione sempre più associative. Altri pensatori liberali, quali T.H. Green, B. Bosanquet, L.T. Hobhouse, insistono sull’intervento dello S. in senso appunto liberale, volto cioè a riaffermare il valore primario dell’individuo. A riaffermarlo anche in senso economico: l’istinto del guadagno e la libera impresa restano i fattori più efficaci per l’incremento della produzione e quindi per il generale benessere. È comunque evidente in questo garantismo attivo la tendenza a far proprie certe istanze di giustizia del socialismo, tanto che Hobhouse parla di socialismo liberale. Da parte sua Croce tiene distinti i due piani, quello della libertà politica e delle libertà civili e quello del modo di produzione. Non c’è nessun legame necessario tra libertà politica e libero mercato: in linea di principio è perfettamente ammissibile la coesistenza di liberalismo politico ed economia collettiva. Dewey va invece più oltre, asserendo che solo un’economia pianificata (e democraticamente controllata) può ormai assicurare il pieno e sempre maggiore sviluppo dell’individuo.
Una forte enfatizzazione dell’ufficio dello S. e della stessa maestà dello S. si è avuta nei teorici dello S. autoritario, i quali hanno sostenuto che la società moderna ha bisogno di uno S. forte e presente in tutti gli aspetti della vita dei cittadini. Per molti versi questi teorici riprendono le dottrine controrivoluzionarie antilluministiche, perché criticano l’individualismo e la democrazia in quanto regime presupponente la razionalità, almeno virtuale, degli individui. Il singolo non ha invece alcun senso fuori dello S., e lo S. ha una sua etica, ha fini propri di ordine nazionale e di ordine economico. Nel fascismo italiano questo statalismo fu teorizzato (e anche praticato in quanto legislatore del fascismo) da Alfredo Rocco, proveniente dal nazionalismo, mentre Giovanni Gentile insistette sull’unità di individuo e S., sostenendo che lo S. fascista, dopo la fase rivoluzionaria e illegalista, fosse in grado di realizzare e avesse in larghissima misura realizzato questa unità, sia sul piano politico per il conquistato consenso sia su quello istituzionale, perché i nuovi istituti (ordinamento corporativo, partito organo dello S., Gran consiglio del fascismo) offrivano al cittadino la possibilità di vivere questa unità partecipando attivamente alla determinazione delle decisioni politiche. Anche i teorici nazionalsocialisti partono da premesse antindividualistiche e stataliste. Lo S. non è un ente politicamente neutro che ospiti tutte le ideologie, ma deve avere una sua ideologia e una sua politica, proporsi mete nazionali e razziali. Carl Schmitt vede nel partito nazionalsocialista il custode di questi valori e nel suo permeare di sé le varie istanze dello S. la loro adeguata realizzazione. In sostanza queste dottrine pretendono di impegnare l’individuo in una direzione politica assunta come giusta, perché ritenuta conforme agli interessi di tutto il popolo (e non, poniamo, di una sola classe), perché volta verso l’ordine e la disciplina sociale di contro al «disordine» democratico. Sono perciò considerate inammissibili le libertà tradizionali (di stampa, di associazione ecc.) e si pensa a forme di partecipazione di tipo emotivo (raduni, acclamazioni, dedizioni alla causa nazionale).
Una concezione democratica dello S. si ha in alcuni teorici che risolvono l’idea dello S. in quella del diritto. Lo S. altro non è che l’ordinamento giuridico, è un insieme di norme, naturalmente valide ed efficaci. In questo senso gli atti più strettamente politici come quelli rivoluzionari non sono oggetto dell’attenzione di questi teorici perché non rientrano nella fenomenologia giuridica. Il più tipico rappresentante di questo punto di vista è H. Kelsen. Egli distingue due forme di S., quella democratica e quella autocratica: nella prima i cittadini concorrono alla creazione dell’ordinamento giuridico, nella seconda ne sono esclusi. Queste due forme sono da vedersi come tipi ideali, perché in concreto tutti gli S. partecipano in varia misura dell’una e dell’altra. Kelsen è assertore della superiorità della democrazia, ma fonda questa superiorità su una filosofia che egli definisce relativistica, tale cioè da escludere verità indiscutibili. Chi è certo di possedere una verità non può non costringere gli altri ad aderirvi, chi invece è cosciente del fatto che la sua certezza vale quanto un’altra e quindi può essere smentita ascolta le ragioni degli altri e si rimette al parere dei più. Questa argomentazione, assai diffusa nelle correnti analitiche contemporanee, è un elogio della politica moderata e gradualista, mentre considera la rottura della legalità come qualcosa d’incomprensibile, di primitivo, perché fondato su convinzioni indimostrabili. Queste dottrine possono collegarsi al formalismo kantiano e più che fornire un’idea di S. attestano come lo S. si comporta e deve comportarsi. La politica del diritto non ha contenuti propri, ma si limita a rendere giuridica una politica proposta da altri. Il danese Alf Ross lo dice in termini molto chiari: «Il compito del giurista come politico del diritto è di operare quanto possibile come un tecnico razionale. In questo compito egli non è né conservatore né progressista. Come gli altri tecnici, egli si limita a mettere il suo sapere e la sua arte a disposizione di altri, in questo caso di chi tiene le redini del potere politico» (Diritto e giustizia, par. 87). Tuttavia, la teoria dello S. contemporaneo ruota attorno alla riformulazione del concetto di cittadinanza, sia sul piano filosofico come novazione del patto fondamentale fra individui e S. secondo regole di giustizia razionale e giustificabile per tutte le parti – che è la posizione del neocontrattualismo di J. Rawls – sia soprattutto sul piano sociologico, a partire dal T. H. Marshall del 1950. La cittadinanza opera nell’ambito della sovranità dello S. moderno nelle sue componenti specifiche di cittadinanza civile, politica ed economica, ciascuna delle quali attribuisce poteri e diritti particolari agli individui, configurando storicamente una successione di modelli statali che, per successive stratificazioni, confluiscono tutti nella forma di S. tipica delle società sviluppate. Questa, di fatto, si caratterizza al tempo stesso come S. di diritto, che garantisce i diritti di libertà, come S. democratico, che afferma i diritti di partecipazione politica, e come S. sociale – o welfare state – in quanto promuove diritti di uguaglianza sostanziale attraverso politiche di redistribuzione della ricchezza.
Il concetto di S. diventa, nel 20° sec., il punto d’incrocio di numerose teorie – giuridiche, filosofiche, storiche e soprattutto quelle orientate dalle nuove scienze sociali – come riflesso delle mutazioni di forma e funzioni che l’organizzazione dello S. assume nella società contemporanea, costantemente in bilico fra soluzioni democratiche e deviazioni autoritarie o totalitarie. I fondamenti concettuali di questo processo evolutivo si possono trovare nelle analisi sociologiche di Max Weber, che definiscono lo S. come «impresa istituzionale di carattere politico nella quale l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad. it. 1968). Il fenomeno della burocratizzazione, che già Weber aveva intravisto come «gabbia d’acciaio» della democrazia, ovvero le spinte endogene alla stessa struttura delle organizzazioni di massa – dal partito allo S. – verso esiti di tipo oligarchico e bonapartista, in definitiva verso la negazione stessa dello S. di diritto, è sottolineato con forza anche dagli scrittori delle correnti di pensiero elitista (G. Mosca, V. Pareto, R. Michels) nella loro critica al parlamentarismo e nella loro previsione di un potere politico tutto concentrato nelle mani di ristretti gruppi di comando se non di un leader carismatico. Sul piano teorico, vengono così ad assumere rilievo i rapporti fra S. e potere politico, lasciandosi nondimeno irrisolta la questione della specificità e della supremazia dello S. rispetto alle altre organizzazioni di potere che tendono a costituirsi nella società contemporanea come altrettante autorità concorrenziali e antagonistiche, secondo quelle che sono le correzioni apportate in chiave di pluralismo democratico, cioè di sistemi poliarchici, alla concezione elitistica dello Stato. Le esperienze dei regimi totalitari di questo secolo – in particolare il nazismo in Germania e il comunismo in Russia – hanno suggerito il modello di un dual power rivoluzionario che modifica la stessa forma tradizionale dell’ordinamento statale nei suoi requisiti di sovranità, trasferendo al partito-S. tutte le competenze istituzionali e gli uffici e i centri potestativi che competono alla struttura dello S., con in più il compito ideologico di controllare il conformismo, mantenere costante la mobilitazione delle masse in vista della costituzione del «nuovo» ordine sociale, nonché di gestire e pianificare dall’alto, mediante la centralizzazione del comando, qualsiasi aspetto della vita collettiva. Dopo la Seconda guerra mondiale, il dibattito ha per sfondo e per dato il nuovo scenario del welfare state, divenuto l’arco voltaico in cui si tengono assieme, in una sorta di compromesso istituzionale, democrazia e capitalismo. Un primo filone di analisi – di orientamento neomarxista – porta alla rivalutazione dello S. come soggetto storico di unificazione di una determinata formazione sociale, il capitalismo, da cui dipendono sia i processi decisionali sia l’apparato amministrativo e repressivo. Lo S. nel capitalismo maturo, visto come «relativamente autonomo» rispetto agli interessi di classe, interviene per strutturare il campo delle decisioni politiche, fissandone regole e confini: e le conseguenze più rilevanti della sua azione si risolvono nella «crisi fiscale dello S.» che è, al tempo stesso, crisi dello «S. fiscale» (J. O’Connor). Per contro, vi è tutta una linea di pensiero di matrice liberale e liberista, che va dalla Scuola austriaca dei primi anni del secolo con autori quali C. Menger, L. von Mises, F. von Hayek, fino agli epigoni americani della rational choice, portata a considerare lo S. – al pari di altre entità collettive – un’astrazione concettuale priva di realtà concreta: nella realtà sociale esistono solo gli individui e le loro azioni guidate da criteri di razionalità strumentale, mentre lo S. e tutte le istituzioni in genere non sono altro che il prodotto «irriflesso» del modo in cui queste azioni si combinano per evoluzione storica, senza alcun progetto preordinato. Questi assunti di individualismo metodologico hanno come correlato etico e politico una visione di «S. minimo» che deve limitarsi a provvedere a una base di regole comuni e condivise senza pretese d’interferenza nella vita privata dei cittadini. Un altro gruppo di teorie, che potremmo definire societarie, è portato, sulla scia delle concezioni pluralistiche della politica, ad accentuare l’importanza degli ambiti e dei meccanismi di regolazione che si producono al di fuori della sfera statale, spesso in conflitto o in concorrenza con questa, in ordine all’elaborazione, implementazione e controllo delle politiche pubbliche. Rientrano in questo gruppo gli approcci di derivazione funzionalista o cibernetica, che sostituiscono alla stessa nozione di S. quella più onnicomprensiva di sistema politico, in grado di dar meglio conto dei processi di diluizione e di ubiquità della politica nella società, mediante la diffusione dei luoghi di decision-making nei quali le domande dell’«ambiente» vengono convertite in «allocazioni autoritative di valori». Più di recente, il cd. policy approach ricolloca il processo di produzione e messa in opera delle politiche pubbliche in una serie di «reti decisionali» (policy networks) in cui interagiscono fattori individuali e collettivi, e in cui il ruolo dello S. diventa obiettivamente marginale, o meglio può essere solo ricomposto come un aggregato «policentrico». Un’applicazione particolare di questo approccio è data dallo schema di analisi neocorporativa, per il quale lo S. contemporaneo appare bensì frazionato nella sua struttura, ma al tempo stesso autoritario nei suoi metodi di governo, impostati secondo la logica pattizia dei «triangoli di ferro»: una coalizione chiusa di interessi della quale fanno parte, scambiandosi continuamente risorse di consenso e di (co)gestione delle politiche pubbliche, in specie quelle economiche, organi amministrativi, commissioni parlamentari, e associazioni di rappresentanza delle parti sociali. Alle teorie pluraliste, così diversamente connotate, si contrappongono posizioni di neoistituzionalismo che propugnano un ritorno alla centralità del concetto di S., troppo a lungo e a torto trascurato nelle scienze sociali, nella convinzione che gli stessi comportamenti politici, sociali ed economici sono quanto meno strutturati entro modelli di regole e routines formali che trovano nell’ordinamento e nell’organizzazione statale i loro criteri di regolazione e legittimazione. Rimettere lo S. all’ordine del giorno – come consigliano di fare questi autori della corrente new-statist – comporta peraltro conferire nuovo risalto all’idea relativamente antica di azione in quanto specifica base sociale dello S., caratterizzata da altre appartenenze ed esperienze – etniche, religiose, culturali, linguistiche – che non siano quelle di natura strettamente politica che lo S., nella sua identità di «S.-nazione», controlla e difende. In conclusione, la vicenda dello S. in epoca contemporanea è pervasa da numerose contraddizioni che prefigurano in qualche modo esiti di crisi. Al processo di progressiva espansione dello S.-apparato corrisponde, dopo la rimozione collettiva che se ne era avuta per via delle tragiche esperienze totalitarie consumate fra le due guerre in nome degli ideali nazionalisti, la riscoperta dello S.-nazione; questo concetto si carica a sua volta di valenze localistiche e autonomiste, talvolta definite impropriamente come federaliste, in tutta una serie di conflitti che oppongono – in diverse parti del mondo le «piccole patrie» alla «madre patria», le tante periferie al potere centrale dello Stato. In questa prospettiva vanno ricomponendosi, soprattutto in ambienti intellettuali statunitensi, alcuni movimenti critici nei confronti della civiltà liberale, che convergono a favore della creazione di piccole comunità organiche autonome che consentirebbero l’instaurazione di una nuova democrazia partecipativa all’interno di contesti federali. Il neo-comunitarismo – così si definisce unitariamente questo movimento – si riallaccia ad una tradizione di «repubblicanesimo civico», che contesta la politica rappresentativa, fatta da «consumatori-votanti», e il centralismo burocratico dello S. nazionale, mentre sottolinea l’importanza vitale delle piccole comunità fondate su valori effettivamente condivisi. La tendenza alla frammentazione politica e territoriale va di pari passo con il processo di globalizzazione di tutto un complesso di attività interdipendenti su scala planetaria – economiche, tecnologiche, ecologiche e culturali – che hanno effetti e campi d’azione comunque eccedenti i confini tradizionali di sovranità dello Stato. In questo quadro gli S. a regime liberaldemocratico – sia che si assoggettino alla forza di questi processi sia che tentino di dominarli – sembrano rivelare come un senso d’impotenza e d’insufficienza in quanto soggetti politici unitari.