Abstract
Una semplice scorsa del presente contributo dimostra quanta strada abbia percorso, dal 2000 ad oggi, lo Statuto dei diritti del contribuente applicato ogni giorno dalle magistrature di merito e di legittimità.
Certo il legislatore lo ha violato e lo viola, ma se il conteggio dei relativi strappi fosse assunto a misura del suo radicamento (come qualcuno ancora fa) dovrebbe dirsi fallita anche la Costituzione della Repubblica. La vitalità dell’uno e dell’altra non sta nel numero delle violazioni ma nella dimostrata capacità di reazione dell’ordinamento.
Il Parlamento, dopo un lungo e travagliato dibattito, approvò la l. 27.7.2000, n. 212, recante lo “Statuto dei diritti del contribuente” che, per la prima volta, ha codificato i principi generali dell’ordinamento tributario italiano. Esso, quindi, va ben al di là di ciò che suggerisce il suo titolo e di ciò che fino ad oggi hanno attuato Paesi che lo Statuto hanno da tempo (si veda Marongiu, G., Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, 2° ed., 41 s.).
Significativamente l’art. 1 della legge statuisce che le sue disposizioni sono attuazione degli artt. 3 , 23, 53 e 97 della Costituzione.
La novità è stata bene colta dal Supremo Collegio secondo il quale le autoqualificazioni delle disposizioni come “principi generali” dell’ordinamento tributario «trovano puntuale rispondenza nella effettiva natura della maggior parte delle disposizioni stesse, quale si desume dal loro contenuto normativo, dal loro oggetto, dal loro scopo e dalla loro incidenza nei confronti di altre norme della legislazione e dell’ordinamento tributario, e dei relativi rapporti».
A queste specifiche “clausole rafforzative” di autoqualificazione delle disposizioni stesse “deve essere attribuito, perciò – soggiunge la Corte smentendo i pavidi e i conformisti – un preciso valore normativo e interpretativo sia se hanno la funzione di dare attuazione alle norme costituzionali richiamate dallo Statuto sia se costituiscono “principi generali dell’ordinamento tributario”.
«Il legislatore, infatti, ha manifestato esplicitamente l’intenzione di attribuire ai principi espressi nelle disposizioni dello Statuto, o desumibili da esso una rilevanza del tutto particolare nell’ambito della legislazione tributaria e una sostanziale superiorità rispetto alle altre disposizioni vigenti in materia. Nella categoria dei principi giuridici è insita inoltre – come si desume dal 2° comma dell’art. 12 delle preleggi – la funzione di orientamento ermeneutico e applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto».
Ne consegue, insegna ancora la Corte di cassazione, che, enucleati, dall’art. 1, 1° comma, quattro enunciati – a) l’autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come attuative della Costituzione; b) il valore di tali norme, come principi generali dell’ordinamento tributario; c) il divieto di deroga o modifica delle norme, in modo tacito; d) il divieto di deroga o modifica mediante leggi speciali, «Quale che possa essere l’incidenza dei quattro enunciati normativi contenuti nel 1° comma dell’art. 1 della legge n. 212 del 2000 … è certo, però, che alle specifiche “clausole rafforzative” di autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come “principi generali dell’ordinamento tributario”, deve essere attribuito un preciso valore normativo». E poiché «…il tratto comune ai quattro distinti significati della locuzione “principi generali dell’ordinamento tributario” è costituito, quanto meno, dalla “superiorità assiologica” dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico vincolante per l’interprete … il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212 del 2000, deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari» (Così Cass., sez. trib., 10.12.2002, n. 17576, e anche Cass., sez. trib., 30.3.2001, n. 4760).
E «questa prescrizione non è diretta soltanto al futuro legislatore tributario, ma si riflette come criterio interpretativo sull’esercizio della stessa attività applicativa dell’interprete, che è chiamato ad applicare quei principi anche con riferimento a leggi tributarie che non siano state oggetto di correzione, vale a dire virtualmente tutte le altre norme dell’ordinamento tributario» (Così Cass., sez. trib., 14.4.2004, n. 7080).
Fondamentale è, quindi, il ruolo dello Statuto nell’interpretazione delle disposizioni tributarie di rango legislativo, così come il Supremo Collegio, con la sentenza ora citata (Cass. n. 17576/2002), mostra di condividere l’impostazione secondo la quale lo Statuto contiene disposizioni volte a orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario, per cui, dopo questa sentenza, il collegamento tra diritto tributario e diritto costituzionale appare più stretto e la Costituzione appare più vicina.
In coerenza con il suo impianto, per cui «le disposizioni dello Statuto costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario» (e quindi di tutto l’ordinamento tributario), l’art. 1 statuisce, al 3° comma, che «le Regioni a stutato ordinario regolano le materie disciplinate dalla presente legge in attuazione delle disposizioni in essa contenute».
Soggiunge il 4° comma che «gli enti locali provvedono, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad adeguare i rispettivi statuti e gli atti normativi da essi emanati ai principi dettati dalla presente legge».
In adesione a una delle interpretazioni prospettate in dottrina sulle conseguenze del mancato adeguamento allo Statuto da parte delle province e dei comuni, la giurisprudenza ha, correttamente e inequivocabilmente, deciso che le norme dello Statuto (nel caso concreto si trattava della disposizione che ha reso obbligatoria l’allegazione dell’atto richiamato al provvedimento impositivo) sono immediatamente applicabili anche agli atti delle amministrazioni locali a prescindere dal termine assegnato agli stessi per adeguare i rispettivi statuti e regolamenti ai principi desumibili dallo Statuto (così Cass., sez. trib., 22.3.2005, n. 6201 e Cass., sez. trib., 6.10.2006, n. 21513).
Soluzione condivisibile e ribadita dalla stessa Corte di cassazione, con riguardo anche alla potestà legislativa delle Regioni perché la superiorità assiologica delle disposizioni dello Statuto deve essere intesa come formulazione sintetica di quattro diversi e specifici significati: «in primo luogo, quello di “principi generali del diritto, dell’azione amministrativa e dell’ordinamento tributario particolare” (artt. 3 e 5-19 che dettano disposizioni volte a disciplinare l’efficacia temporale delle norme tributarie, sia ad assicurare la trasparenza dell’attività stessa, sia … a “orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario”); in secondo luogo, quello di “principi fondamentali della legislazione tributaria’” tesi a vincolare in vario modo l’attività del futuro legislatore tributario, statale e regionale, sia nella scelta della fonte di produzione (artt. 1, comma 2 e 4) e del relativo oggetto (art. 2, comma 2), sia nella tecnica di redazione delle leggi (art. 2, commi 1, 3 e 4); in terzo luogo, quello di “principi fondamentali della materia tributaria”, in relazione all’esercizio della relativa potestà legislativa “concorrente” da parte delle regioni … ; e infine, quello di “norme fondamentali di grande riforma economico sociale”, in relazione all’esercizio della potestà legislativa “esclusiva” da parte delle regioni ad autonomia speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano … ; naturalmente laddove, in tutte o in alcune delle disposizioni statutarie, sia possibile individuare, secondo i criteri elaborati dalla Corte costituzionale, siffatta caratteristica» ( Così Cass., sez. trib., 10.12.2002, n. 17576).
Lo Statuto intende contribuire non solo alla chiarezza delle disposizioni tributarie (esigenza che oggi non è solo delle norme fiscali) ma anche, e prioritariamente, alla reperibilità e quindi alla conoscibilità effettiva degli articolati normativi. Lo si desume dalla lettura dei quattro commi dell’art. 2 ma anche da altre disposizioni dello stesso Statuto tant’è che, secondo l’art. 5, «l’amministrazione finanziaria deve assumere idonee iniziative volte a consentire la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti in materia tributaria, anche curando la predisposizione di testi coordinati e mettendo gli stessi a disposizione dei contribuente presso ogni ufficio impositore».
Ma è un obbligo che grava, innanzi tutto, sul legislatore che, ai sensi dell’art. 2, deve garantire, ai destinatari delle norme fiscali, la loro individuazione e la loro, non anodina, lettura. Il che, si badi, costituisce, logicamente, un “prius” rispetto alla cronica mutevolezza di cui soffre l’ordinamento (si fa per dire) tributario italiano.
Lo insegna oggi, (seppure senza averne fatto ancora un’applicazione concreta) il Supremo Collegio secondo il quale «l’esame complessivo di queste disposizioni chiarisce che la correttezza e la buona fede nei confronti del contribuente debbono essere osservate non solo dall’amministrazione finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario all’atto dell’emanazione delle fonti normative, come emerge in particolare dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e trasparenza che debbono essere osservati nelle disposizioni tributarie» ( Così Cass., sez. trib., 14.4.2004, n. 7080).
E le conseguenze della violazione dell’art. 2 potrebbero impingere proprio sulla applicabilità delle sanzioni. Infatti, considerando che lo Stato, sul versante sanzionatorio, “deve adempiere ai propri doveri e quindi deve “esistere per l’agente l’oggettiva possibilità di conoscere le leggi penali”, anche per le norme tributarie il dovere di conoscerle diventa concretamente possibile se esse si rendono conoscibili.
Orbene, considerato che, ai sensi dell’art. 10 dello Statuto, «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria» a maggior ragione esse non possono essere applicate quando (non è incerto il significato della norma ma) addirittura la norma la si è dovuta scovare dentro centinaia di commi di un unico articolo di legge, privo di titolo, di partizioni interne e delle loro specifiche individuazioni o quando ci si è imbattuti in una disposizione fiscale contenuta in un provvedimento che di fiscale non ha nulla, né nel titolo né nell’oggetto o quando, infine, come spesso accade, siano violati il 3° e 4° comma dell’art. 2 dello Statuto.
In questi casi dovrebbe valere il brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”.
Alla luce di queste prime osservazioni appare già inequivocabile l’intento del legislatore dello Statuto di dettare alcune regole che valgano a garantire anche la stabilità e la fondatezza della legislazione fiscale.
Intento encomiabile che ha trovato la sua genesi non solo nella frequenza degli interventi legislativi, non solo nella loro sovrapposizione ma anche e soprattutto per l’abuso del decreto-legge (si veda Marongiu, G., Il Parlamento convertito alle conversioni: l’abuso del decreto legge fiscale, in Riv. trim. dir. trib., 2012, n. 3, 653-684).
Ciò spiega il disposto dell’art. 4 che, recuperando la volontà “dei padri costituenti”, per anni e da anni mortificata, statuisce che «non si può disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti».
Al riguardo, connotando l’abuso del decreto-legge l’intero ordinamento, e non solo quello fiscale, non resta che rinviare a quanto si è scritto, non rinunciando, però, al richiamo di ben più autorevoli contributi.
Invero, scrive un valente costituzionalista «Le note sentenze n. 171 del 2007 e 128 del 2008, implementando le affermazioni programmatiche della sentenza n. 29 del 1995 (fondamentale, n.d.r.), sono approdate finalmente a dispositivi di annullamento di decreti legge (e delle relative leggi di conversione) per l’evidente mancanza dei necessari presupposti costituzionali. Oggi più di ieri, dunque, sussistono le condizioni perché il ricorso a decreti legge “interpretativi” venga sottoposto a uno scrutinio davvero stretto, capace di verificare se, caso per caso, vi sia compatibilità o meno tra lo strumento della decretazione d’urgenza e la funzione d’interpretazione autentica (sulla qualificazione di legge di interpretazione autentica si veda Cass., sez. un., 2 maggio 2014, n. 9560)».
«Compatibilità di cui, fondamentalmente, si può dubitare – soggiunge lo stesso studioso – E così volendo semplificare: se l’interpretazione autentica interviene a distanza di anni dall’entrata in vigore della legge interpretata, dov’è l’urgenza del provvedimento governativo? Se il governo, vestendo i panni dell’interprete, approva un decreto legge al fine di rovesciare un diritto vivente radicatosi da molto tempo, dov’è la straordinarietà (da intendersi come imprevedibilità) di una situazione giurisprudenziale riconoscibile da anni e non consolidatasi improvvisamente dall’oggi al domani? Se il decreto legge interpretativo mira a imporre una soluzione normativa più coerente con la linea di politica del diritto dell’Esecutivo e della sua maggioranza, dov’è la necessità del provvedimento, in considerazione del fatto che essa non va più correlata a una valutazione esclusivamente politica, dovendo anzi presentare un’apprezzabile valenza oggettiva? Del resto, in assenza degli altri requisiti ex art. 77 Cost., tale finalità non dovrebbe essere perseguita attraverso la via ordinaria del disegno di legge di iniziativa governativa» ( Così Pugiotto, A., Le leggi interpretative a Corte: vademecum per i giudici a quibus, in Giur. cost., 2009, 1749).
Alla luce delle considerazioni svolte appare esemplare, nei contenuti e nei toni, il monito, severo, rivolto dal Supremo Collegio al legislatore.
Si legge, infatti, nella relativa sentenza: «Infine, osserva il Collegio, l’intervento interpretativo, da parte del legislatore, piuttosto che dare forza alla soluzione adottata, che sarebbe stata recepita anche in mancanza della imposizione ex auctoritate, l’ha indebolita, in quanto può apparire inutilmente e dichiaratamente di parte. Infatti, il legislatore è intervenuto quando già le Sezioni Unite erano state investite del contrasto e, quindi, era imminente la rimozione del contrasto stesso da parte di un giudice terzo, nell’esercizio della specifica funzione istituzionale di garante dell’uniforme interpretazione della legge (artt. 65, 1° comma. r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e 374, 2° comma c.p.c.). Si aggiunge, poi, che, come è accaduto nel caso di specie, in materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate). Non sono ispirati, quindi, alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa. Ciò non facilita l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra amministrazione e contribuente, basato sul principio della collaborazione e della buona fede, come vorrebbe lo Statuto del contribuente (art. 10, 1° comma, della legge n. 212 del 2000)».
«Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’Amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia del Governo. Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del Collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuti esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, 2° comma, del d.l. n. 23 del 2006, con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 Cost., che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo posto che, nella specie, l’Amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della norma sub iudice».
«L’intervento è apparso inopportuno anche perché la Pubblica Amministrazione, anche quando è parte in causa, ha sempre l’obbligo di essere e di apparire imparziale, in forza dell’art. 97 Cost.» (Così Cass., S.U., 30.11.2006, n. 25506, in Giur. trib., 2007, n. 2, 105 con nota di M. Basilavecchia).
Del programma statutario di procedere per principi si trova una importante enunciazione nella norma per la quale le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo (art. 3, primo comma).
Anche al riguardo non si può indugiare sull’insegnamento della dottrina e della giurisprudenza e riandare agli anni lontani nei quali la stessa Corte costituzionale individuò nel principio di capacità contributiva un limite alle leggi retroattive (C. cost., 23.5.1966, n. 44).
Oggi, del divieto statutario si può ragionare muovendo dall’insegnamento della Corte costituzionale per la quale «il divieto di irretroattività della legge costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore deve, in linea di principio attenersi» anche se «non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost., relativo alla materia penale, sicché il legislatore ordinario, nel rispetto di tale limite, può emanare norme retroattive purché esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti così da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti» (Così C. cost., 13.10.2000, n. 419 e anche C. cost., 4.11.1999, n. 416 e C. cost, 24.7.2000, n. 341).
Conseguentemente «il citato comma 1 dell’art. 3, pur potendo essere disatteso da successive norme di pari grado gerarchico, costituisce comunque un criterio interpretativo di fondo operante per i casi dubbi, allorché la successiva disposizione tributaria di pari grado nulla espressamente preveda circa la sfera temporale della sua efficacia, come nel caso in esame» (Così Cass., sez. trib., 2.4.2015, n. 6743).
Con buona pace degli scettici, che avevano ironizzato sulla formulazione dell’art. 10, 1° comma («i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede»), l’affidamento va, quindi, tutelato non solo nei confronti delle aspettative create da atti dell’amministrazione.
Lo si può dire con le parole della Corte di cassazione che «il principio dell’affidamento costituisce un preciso limite all’esercizio dell’attività legislativa sia dell’attività amministrativa e tributaria in particolare» e anche «un altrettanto preciso vincolo ermeneutico per l’interprete delle disposizioni tributarie, in forza di quanto stabilito dall’art. 10, 1° comma, dello Statuto» (così Cass. n. 17576/2002 e Cass. n. 7080/2004).
E questo principio il Supremo Collegio ha applicato, controvertendosi sull’applicazione (retroattiva) di una accisa sull’acquavite di vino invecchiata, poiché «l’art. 3 dello Statuto, sul divieto di retroattività, si inquadra all’interno di un principio più generale di correttezza e di buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra amministrazione e contribuente e che trova espressione non solo nell’art. 10 che ha per oggetto la tutela dell’affidamento e della buona fede, ma anche in una serie di altre norme dello Statuto, vale a dire nell’art. 6, nell’art. 7 e nell’art. 5» (Cass., 30.3.2001, n. 4760).
Principio generale, ben si intende, che si applica a tutti i tributi e non solo a quelli periodici e a tutti i rapporti tributari anche se sorti in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 212/2000 (così Cass. n. 17576/2002 e Cass. n. 7080/2004) e anche controvertendosi sull’applicazione di un decreto sul redditometro posteriore ai periodi di imposta accertati (Cass., sez. trib., 29.4.2009, n. 10028).
Già si è detto dei limiti che anche le leggi interpretative incontrano quanto alla loro portata retroattiva e quindi non resta che ricordare la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità di una norma nella sola parte che estende anche al passato l’interpretazione autentica dell’art. 38, co. 2, del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 (C. cost., 22.11.2000, n. 525).
Lo Statuto dei diritti del contribuente esplicitamente richiama non solo gli artt. 3, 23 e 53 Cost., ma anche l’art. 97 per il quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».
Il riferimento non deve stupire perché già il Supremo Collegio insegnò e insegna che «l’Amministrazione finanziaria non è un qualsiasi soggetto giuridico, ma è una Pubblica Amministrazione. Tale veste, come le attribuisce speciali diritti funzionali che assicurino nella maniera più ampia e spedita il perseguimento delle sue finalità nell’interesse collettivo, così per la stessa ragione la obbliga all’osservanza di particolari doveri prima fra tutti quello dell’imparzialità espressamente sancito dall’art. 97 Cost.» (Così Cass., sez. I, 29.3.1990, in Dir. prat. trib., 1990, II, 1230 e anche Cass., S.U., 30.11.2006, n. 26606).
Fondamentale è questo riferimento normativo perché la dottrina amministrativistica, da anni, insegna che l’art. 97 Cost. costituisce il cardine di un rapporto tra cittadino e amministrazione non improntato a criteri di alterità il che comporta il necessario contraddittorio con i destinatari nell’ipotesi di provvedimenti ablatori, la previa ricerca del consenso del destinatario dell’atto, la conoscibilità del procedimento di formazione del provvedimento, il perseguimento della parità di trattamento degli amministrati.
E soggiunge che «se è vero che l’imparzialità può essere vista sotto un profilo oggettivo come norma di comportamento dell’amministrazione e come tutela della stessa amministrazione, collegandosi così al principio di legalità e a quello di uguaglianza, non può nemmeno escludersi che essa debba essere vista sotto il profilo soggettivo che, in definitiva, significa non tanto che l’amministrazione debba proporsi il perseguimento di interessi obiettivi, quando il dovere di adozione di criteri di equità, di buona fede, di parità di trattamento, ciò che qualifica la sua azione come quella di un soggetto teso alla soddisfazione di fini pubblici».
«L’imparzialità si risolve, dunque, in un dovere di buona fede oggettivo» (Così Benvenuti, F., Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 818 ss.).
In sintesi, la nozione di buon andamento non si riduce più solo alla rapidità, alla semplicità, all’efficacia dell’attività amministrativa perché “buon andamento” significa collaborazione e solidarietà delle quali sono espressione imprescindibile il rispetto della fiducia dei cittadini e la lealtà dello Stato.
Si può, quindi, muovere dalle premesse e concludere (scrive la Corte di cassazione), con specifico riferimento al principio della “tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica”, che «il principio stesso, mutuato da quelli civilistici della buona fede e dell’affidamento incolpevole nei rapporti fondati sulla autonomia privata, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico – e, quindi, anche in quelli tributari – e costituisce un preciso limite all’esercizio sia dell’attività legislativa, sia dell’attività amministrativa e tributaria in particolare» (sulle condizioni di applicabilità si veda Cass., sez. trib., 9.11.2011, n. 23309).
Quindi, soggiunge la Corte di cassazione, proprio perché, «A differenza di altre norme dello Statuto, che presentano un contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesistente, la previsione del citato art. 10 è espressiva di principi generali, anche di rango costituzionale, immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche prima della legge n. 212 del 2000, essa vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a Costituzione, risultando così applicabile: sia ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (Cass. n. 7080/2002); sia ai rapporti fra contribuente ed ente impositore diverso dall’amministrazione finanziaria dello Stato» (Così Cass., 10.12.2002. n. 17576).
Tutto lo Statuto lega, con una sorta di “filo rosso”, i principi di cooperazione, di collaborazione, di informazione (su questa ultima, importante novità si veda Pierro, M., Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2013) e non a caso diverse sono le applicazioni dei cennati principi. Fra le più importanti si può ricordare che: 1) i casi di tutela espressamente enunciati dal 2° comma del citato art. 10 e riferiti alla non applicazione delle sanzioni e degli interessi sono meramente esemplificativi ma non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti e quindi riferibili anche alla non debenza del tributo (così Cass., sez. trib., 6.102006, n. 21513 e Cass., 20.8.2007, n. 18218); 2) l’ufficio non competente che abbia ricevuto un’istanza di rimborso è tenuto a trasmetterla all’ufficio competente (così Cass., 27.2.2009, n. 4773); 3) analogamente “le articolazioni degli uffici e l’intera organizzazione dell’amministrazione finanziaria sono tenute a trasmettere agli uffici competenti le impugnazioni proposte dai contribuenti contro uffici non competenti onde non sussiste alcuna causa di inammissibilità o decadenza” (così Cass., sez. trib., 20.4.2010, n. 9505); 4) il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento (così Cass., S.U., 18.12.2009, n. 25535); 5) l’amministrazione finanziaria, che intenda contestare fattispecie elusive, anche diverse da quelle contemplate dall’art. 37 bis del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 è tenuta, a pena di nullità dell’atto impositivo, a chiedere chiarimenti al contribuente e ad osservare il termine dilatorio di sessanta giorni prima di emettere l’avviso di accertamento (così Cass., sez. trib., 14.1.2015, n. 406 e anche C. cost., 7.7. 2015, n. 132); 6) proprio in attuazione del principio di buona fede sono emendabili tutti gli errori del contribuente, testuali e extratestuali, di fatto e di diritto, riconoscibili e non (così Cass., S.U., 15.10.2002, n. 15063 e Cass., sez. trib., 19.10.2007, n. 21944); 7) è invalido il provvedimento adottato in violazione dell’art. 12, 7° comma, pur in mancanza di una espressa comminatoria di nullità (così Cass., S.U., 29.7.2013, n. 18184) non costituendo specifiche ragioni che giustificano l’emanazione dell’avviso di accertamento “ante temporis” la necessità, per l’amministrazione, di evitare la decadenza dal potere accertativo (così Cass., sez. trib., 28.3.2014, n. 7315).
In sintesi solo esigenze di spazio ci impediscono di ricordare gli innumerevoli casi in cui la dottrina e la giurisprudenza ritengono applicabili i principi e le disposizioni dello Statuto (si veda Marongiu, G., Lo Statuto dei diritti del contribuente nell’accertamento e nel processo, in Dir. prat. trib., 2014, I, 954-996).
Vale a conclusione di questo contributo la sintesi che, dello Statuto, ha fatto il Supremo collegio là dove scrive: «L’immanenza nell’ordinamento tributario dei principi di collaborazione e di buona fede trovano il loro radicamento, specie per quel che riguarda l’amministrazione tributaria, nella forma dello Stato italiano e nei due principi fondamentali nei quali essa si manifesta, che sono costituiti dal principio dello Stato di diritto e dello Stato sociale».
«Per il primo, oltre alle argomentazioni utilizzate dalla sentenza di questa Corte poc’anzi richiamata e alla quale per questo si rinvia, può valere anche la considerazione che la regola tendenziale della separatezza della sfera del singolo (governato) da quella dell’autorità (governante) e della fissazione della linea del loro contatto (confine privato/pubblico) attraverso la garanzia della legge trova un limite nei ‘doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’ (art. 2 Cost., secondo proposizione), tra i quali rientrano anche i vincoli – obblighi e obbligazioni – di natura tributaria del cittadino. Ma, proprio perché le intromissioni nella sfera del governato sono delle eccezioni rispetto alla regola della sua intangibilità, derivante dall’assunzione, da parte dello Stato italiano, della forma dello Stato di diritto (art. 2 Cost., prima proposizione), esse devono essere, non solo ridotte al minimo indispensabile, secondo un altro principio – quello di proporzionalità – immanente anch’esso nell’ordinamento ed esplicitato dalla legge 7 agosto 1990, n, 241, art. 1, 2° comma (‘La Pubblica Amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria’) ma, devono essere ispirate al principio di collaborazione e di lealtà e devono essere tali da non indurre in errore il governato».
«Contribuisce a rafforzare questa soluzione [ha aggiunto il Supremo Collegio] anche il necessario richiamo al principio dello Stato sociale, che l’art. 2 Cost. annoda a quello dello Stato di diritto. In estrema sintesi, poiché, in quanto Stato sociale, lo Stato italiano è vincolato dal legislatore costituente a premurarsi di fornire, non solo le garanzie formali di diritti del cittadino, ma a provvedere ai suoi bisogni sostanziali (art. 3, 2° comma, Cost.), i governanti sono tenuti ad operare, come s’è detto con espressione efficace per altri ordinamenti simili al nostro, come “Helfer des Buerges”, come assistenti del cittadino, come suoi aiutanti, se non addirittura come servitori» (Così Cass., sez. trib., 13.2.2009, n. 3559).
L. 27.7.2000, n. 212
Si vedano oltre ai lavori citati nel testo: la rivista “Neotera” dell’ANTI che in ogni numero, a cura di R. Lunelli, pubblica una rassegna di giurisprudenza con ampi riferimenti allo “Statuto”; Fantozzi, A.-Fedele, A., a cura di, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 1-847; Bodrito, A.-Contrino, A.-Marcheselli, A., a cura di, Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, Torino, 2012, 1-690).