Uher, Štefan
Regista cinematografico slovacco, nato a Prievidza (Slovacchia) il 4 luglio 1930 e morto a Bratislava il 29 marzo 1993. Autore di Slnko v síeti (1962, Il sole nella rete) che ‒ con Pytel blech, 1962, Un sacco di pulci, di Vĕra Chytilová ‒ inaugurò la Nová Vlna, contribuì al rinnovamento del cinema cecoslovacco, sperimentando nuovi modelli narrativi e un nuovo linguaggio filmico in opere spesso incentrate su storie di adolescenti che affrontano crisi esistenziali. Nel 1983 il suo film Pásla kone na betóne (Pascolava i cavalli sul cemento) vinse il premio d'argento al Festival di Mosca.
Durante e dopo gli studi presso la FAMU di Praga (la Facoltà di cinema dell'Accademia delle Muse), dal 1955 al 1959, esordì nel documentario, influenzato dal Neorealismo (Cesare Zavattini e Vittorio De Sica), scegliendo come tema la vita delle persone semplici, ed evitando il realismo 'dottrinario', in cortometraggi quali Niekedy v novembri (1958, A un certo punto in novembre) in cui è presente l'eco di Listopad (1935) di Otakar Vávra e il metacinematografico Očami kamery (1959, Attraverso gli occhi della cinepresa), sulle cooperative agricole. L'esordio nel lungometraggio di finzione avvenne con My z 9. A (1962, Noi della Prima A), delicato film psicologico sull'adolescenza e la scuola, con esperimenti di colore che anticipano quelli del cameraman ceco Jaroslav Kučera. Ma fu con Slnko v síeti, sceneggiato dallo scrittore Alfons Bednár, ambientato tra le mute palazzine popolari di una Bratislava deserta e assolata, gli inquietanti caccia militari che solcano un mutevole cielo d'agosto, il 'volontariato' degli studenti per la raccolta del grano in campagna (con una scena d'amore silvestre: chiaro omaggio a Extáse, 1933, di Gustav Machatý), che U. assume un aspro taglio da filosofia esistenziale, con rimandi al cinema di Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard. Vietato a Bratislava, ne venne decretato il successo dai critici cechi che organizzarono una proiezione a Praga. Il successivo Organ (1965, L'organo), sempre su sceneggiatura di Bednár, dagli originali toni espressionistici (visibile un'eco di La passion de Jeanne d'Arc, 1927, di Carl Theodor Dreyer), pregevole sul piano del racconto (la storia del giovane polacco nascosto nel convento dai francescani procede per ellissi) e della regia (espressivo il reiterato uso del semi-plongeé), tradisce però uno scheletro a tesi. Ancora su un motivo religioso è basato Tri dcéry (1968, Tre figlie), che affronta l'egoistico rapporto tra un padre e le sue tre figlie (dopo averle rinchiuse in un convento di clausura, per 'proteggere' i suoi beni, il padre se le ritrova in casa quando il regime, negli anni Cinquanta, scioglie gli ordini religiosi e nazionalizza le proprietà). La ricerca poetica e stilistica degli anni Sessanta si chiuse con Genius (1970, Genio), riflessione sul peccato e sulla necessità di riscoprire i valori umani. Se durante gli anni Settanta la sua produzione non raggiunse nuovi importanti risultati artistici, U. ritrovò una notevole levatura stilistica (e successo di pubblico) con Pásla kone na betóne, storia dalle atmosfere chapliniane, di una ragazza madre che dalla campagna fugge in città. Un'accurata ricostruzione, quasi viscontiana, fu il biopic Šiesta veta (1987, La sesta frase), dedicato alla scrittrice Božena Slančikova. Con lo psicologico-esistenziale, nonché metaforico, Správca skanzenu (1989, Il gestore della riserva), concepito nell'atmosfera della perestrojka e che non piacque alla censura, U., tramite la figura di un ricercatore di talento che rinuncia al successo per trasformarsi in guardiano di un bosco, sottolinea la necessità di riconsiderare le proprie scelte al fine di evitare gli errori commessi in passato. Morì prima di poter portare a compimento il suo ultimo film, tratto da un racconto di L. Mňačko.
P. Hames, The czechoslovak new wave, Berkeley 1985; V. Macek, Štefan Uher. 1930-1993, Bratislava 2002.