STEFANO di Perche
STEFANO di Perche. – Poco si conosce dei primi decenni di vita di Stefano, proveniente dal territorio di Perche nella Bassa Normandia e sicuramente legato alla famiglia dei conti locali oltre che a quella del re di Navarra; la sua nascita si colloca verosimilmente tra il 1140 e il 1143.
Secondo lo pseudo-Falcando (a cura di E. D’Angelo, 2015) Stefano sarebbe stato parente della regina Margherita di Navarra, più precisamente cugino della madre, in quanto figlio del conte di Perche, zio della madre di Margherita; Gilberto, conte di Gravina, sarebbe stato figlio di un fratello dello stesso Stefano. La parentela è precisata da Guglielmo di Tiro, il quale dichiara Stefano essere fratello di Rotrou III e quindi figlio di Rotrou II di Perche e di Heroise. Poiché Rotrou II era defunto nel 1143, la nascita di Stefano si dovrebbe collocare prima del 1143, e questo renderebbe anche canonica la sua età al momento della elezione ad arcivescovo di Palermo nel 1168. Esiste anche la vecchia e infondata ipotesi che egli fosse figlio di Roberto, secondo marito di Heroise, sposato dopo la morte di Rotrou II nel 1143; questo farebbe di Stefano un membro della famiglia reale francese, in quanto Roberto era fratello di re Luigi VII (Chalandon, 1912, p. 415). Nello pseudo-Falcando (a cura di E. D’Angelo, cit., p. 150) si allude anche a un fratello di Stefano, Goffredo, riguardo il quale nel 1168 si era diffusa la diceria che sarebbe giunto in Sicilia per sposare Costanza d’Altavilla e sostituire l’erede Guglielmo II.
Stefano di Perche giunse in Italia nella primavera del 1166, quando Margherita di Navarra dopo la morte improvvisa del marito Guglielmo I (maggio 1166) assunse la reggenza per l’erede Guglielmo II (allora ancora dodicenne) e chiese all’arcivescovo di Rouen, suo zio, un collaboratore per il governo del Regno: la scelta cadde su Stefano. Recatosi dapprima in Puglia presso Gilberto conte di Gravina, a sua volta ambizioso cugino della regina, prima della piena estate Stefano – originariamente intenzionato a recarsi in Terrasanta – si spostò in Sicilia e accettò l’invito a fermarsi, dietro le insistenze della parente in difficoltà. Venne quindi accolto a corte con grandi onori e presentato dalla regina, che anche al di là del rapporto di parentela che li legava ne magnificò i servigi resi al re di Navarra e le capacità. Nel novembre del 1166 Stefano venne nominato cancelliere del Regno, carica che gli garantiva di fatto una posizione preminente nell’amministrazione del Regno.
Con lui si era mosso dalla Francia anche un nutrito gruppo di compagni, tra i quali spiccavano Pietro e Guglielmo di Blois (entrambi ipotetici autori del Liber dello pseudo-Falcando) che nell’epistolario hanno lasciato notizie della loro permanenza in Sicilia. Pietro di Blois venne nominato sigillarius e, affiancando Gualtiero, erroneamente noto nella storiografia come Offamil, a quell’epoca ancora arcidiacono di Cefalù, divenne precettore del giovane Guglielmo II; per questa via educò il giovane erede al trono alla nuova retorica, ispirata all’emergente ars dictaminis, di cui Pietro era esperto e fautore. Guglielmo di Blois ottenne, a fatica, cariche ecclesiastiche. Un terzo esponente del gruppo, il canonico di Chartres Oddone Quarrel, divenne invece consigliere e amministratore dello stesso Stefano, non senza biasimo da parte dello pseudo-Falcando.
La nomina di Stefano fu dirompente rispetto agli equilibri interni, in quanto il nuovo cancelliere era estraneo alle dinamiche locali sulle quali avrebbe dovuto imporsi. Per ridurre le difficoltà e rafforzarne la posizione, Stefano in un sol colpo venne consacrato suddiacono della Chiesa salernitana (per mano di Romualdo Guarna) ed eletto arcivescovo di Palermo. In questo modo egli univa nella sua persona il titolo politico più importante insieme alla carica ecclesiastica più rappresentativa: una posizione che nella sua forza trovava in realtà anche il principio della sua debolezza, in quanto la concentrazione di simili poteri in un estraneo finì per coalizzare l’opposizione interna alla corte nei confronti della regina e del partito degli stranieri.
Nei mesi successivi Stefano si impegnò nel tentativo di riformare i costumi corrotti che sembravano imperare presso la cancelleria e a corte, e riprodursi poi su scala locale.
Lo pseudo-Falcando racconta con dettaglio dell’iniziativa presa ai danni di Pietro, notaio di corte e cugino del potente notaio salernitano Matteo, membro della famiglia d’Aiello. Stefano si impegnò a che alcuni uomini giunti presso la curia ottenessero la redazione dei documenti per un giusto prezzo, certamente inferiore a quello preteso dal notaio Pietro. Venuto a conoscenza dell’affronto, il notaio aveva fatto assalire i richiedenti e poi fatto distruggere i privilegi ottenuti. Ne seguì un intervento del nuovo cancelliere che – nonostante le rimostranze dell’eletto di Siracusa che riteneva il comportamento del notaio consono ai costumi siciliani – ottenne prima un breve imprigionamento del notaio Pietro e poi la sua esclusione dalla pratica notarile. Comportamenti simili a freno della corruzione e degli abusi dei funzionari conquistarono a Stefano una rapida simpatia tra la popolazione («omnes assererent velut consolatorem angelum a Deo missum, qui curie statu in melius immutato, aurea secula revexisset»: U. Falcando, La Historia..., a cura di G.B. Siragusa, 1897, p. 114).
Negli stessi anni di reggenza (1167-68) venne effettuata l’ultima revisione in età normanna del Catalogus baronum, che testimonia (almeno per le due grandi province di Apulia e Principato di Capua) della capacità della monarchia di esigere e controllare la prestazione del servizio militare.
Altro momento delicato in questa acquisizione di consenso fu rappresentato dalle accuse rivolte contro Roberto di Calataboiano, potente convertito musulmano, che godeva della protezione del partito musulmano a corte, ma era profondamente inviso alla comunità latina, che da lui si sentiva attaccata.
Dovendo scegliere tra il desiderio popolare di vendetta e l’esigenza della regina di non inimicarsi del tutto il partito musulmano, ben rappresentato a corte, Stefano infine decise di lasciar cadere le accuse relative a furti e abusi, per mantenere quelle attinenti la sfera religiosa, riguardanti spergiuro, violenza carnale e adulterio. Pur non essendo condannato alla pena capitale, Roberto morì rapidamente per stenti e violenze in prigione, con soddisfazione dei suoi avversari.
La condanna non ebbe però gli effetti sperati, in quanto accrebbe la diffidenza nei confronti di Stefano nel mondo musulmano, che si andava a saldare con l’ostilità dei nobili che si sentivano esclusi dall’accesso al re e alla regina e scavalcati da uno straniero. Nei rapporti esterni non giocava a favore di Stefano la mediazione rappresentata da Oddone di Quarrel, al quale lo pseudo-Falcando attribuisce eccessi di avidità e di faziosità che finivano però per ledere anche l’immagine di Stefano.
Un terzo episodio, collocabile nell’estate del 1167, mostra Stefano consapevole delle crescenti ostilità e incline a controllare la circolazione delle notizie e le comunicazioni.
Il cancelliere incaricò Roberto di Belleme, suo uomo di fiducia, di intercettare la corrispondenza tra il notaio Matteo e il di lui fratello, Giovanni, che era stato eletto vescovo di Catania, in luogo di Guglielmo di Blois, fratello di Pietro (Petri Blesensis Epistolae, 1855, nn. 46, 93). L’operazione venne scoperta dal notaio Matteo e sicuramente non migliorò i rapporti con Stefano; l’epilogo si ebbe con la morte di Roberto di Belleme, per la quale venne accusato di avvelenamento il medico Salerno, e indirettamente lo stesso notaio Matteo, che in quel modo si sarebbe vendicato della spia.
Un’ulteriore minaccia fu costituita, per Stefano di Perche, dal fratello della regina, Rodrigo/Enrico di Navarra, allontanato da Palermo nei mesi precedenti e nominato conte di Montescaglioso. Sobillato dai nemici di Stefano, l’incostante Enrico si recò a Palermo per organizzare l’opposizione contro Stefano; ma l’arcivescovo riuscì temporaneamente a separarlo dagli altri frondisti (capeggiati da Boemondo di Manoppello) e lo trasse dalla sua parte.
Enrico riconobbe in effetti di non poter sostituire Stefano nella guida politica, perché non pratico della lingua francese; ma non poté però ignorare le voci artatamente amplificate di una relazione carnale tra Stefano e la regina.
Consapevole del montare dell’ostilità, Stefano prese le debite contromisure (selezionando l’accesso alla sua persona e rafforzando il gruppo di armati a sua difesa personale) e come ulteriore garanzia per l’incolumità sua e della regina impose un trasferimento della corte da Palermo a Messina (fine novembre 1167). A Messina il cancelliere contava su una minore pressione dei tradizionali partiti di corte e sull’appoggio di alcuni sostenitori, come Gilberto di Gravina, appositamente richiamati nella città.
Anche nella città dello stretto Stefano sembra aver dato dimostrazione di correttezza e moderazione di fronte a richieste come quella avanzata da Roberto di Caserta e il figlio Ruggero di Tricarico, che rivendicavano per sé terre che erano state restituite al fuoriuscito Guglielmo Sanseverino, mentre non riuscì a impedire che fosse condannato Roberto, stratigoto della città, che egli pure stimava.
Grazie al tradimento di uno degli adepti, un’ampia congiura contro Stefano di Perche fu presto scoperta, e Gilberto di Gravina ne catturò i capi: Enrico di Navarra, che confessò, e Riccardo di Mandra, conte di Molise. Nell’occasione la cronaca dello pseudo-Falcando, che pur è favorevole a Stefano, critica la moderazione dimostrata da Stefano nei confronti dei congiurati e degli avversari e l’incapacità di mostrare quella durezza esemplare che aveva garantito a Ruggero II il rafforzamento del potere e la pace del Regno. A Enrico infatti venne riconosciuta la libertà di abbandonare al momento opportuno la Sicilia con una dote di mille once d’oro, mentre Riccardo di Mandra venne semplicemente imprigionato.
Sentendosi erroneamente più tranquillo, tra il 12 e il 20 marzo 1168 Stefano, insieme alla corte, partì da Messina e rientrò a Palermo. Parallelamente ripresero le trame dei congiurati che lui aveva consapevolmente ignorato: il gayto Riccardo, il notaio Matteo e Gentile vescovo di Agrigento.
A seminare discredito concorsero anche le accuse levate dagli abitanti dei feudi passati da Matteo Bonello e concessi a Giovanni de Lavardin; gli abitanti rivendicavano infatti le consuetudini locali, che non prevedevano i pesanti prelievi imposti da Lavardin. Nella circostanza Stefano volle fidarsi del parere dei suoi consiglieri di origine francese, che lo indussero a ignorare le lamentele degli abitanti.
Con mossa tardiva Stefano fece nuovamente imprigionare il notaio Matteo, bloccare in casa il gayto Pietro e anche Gentile di Agrigento, che aveva tentato la carta della sommossa popolare nella sua diocesi. La sommossa partì invece da Messina, a causa di alcuni scontri tra popolazione greca e soldati francesi, nonché per i malumori conseguenti all’incremento di tassazione sulle navi.
Nonostante una lettera inviata da Palermo a nome del re e della regina, la rivolta si diffuse da Messina a Reggio, dove venne liberato Enrico di Navarra, e verso Taormina dove venne liberato Riccardo di Mandra. Un orribile scempio venne fatto di Oddone Quarrel a Messina, con una violenza destinata a rendere impossibile la riconciliazione tra il rivoltoso Enrico di Navarra e Stefano.
Inizialmente il cancelliere tentò di reprimere la rivolta messinese, ma gli echi della sollevazione ebbero sponda a Palermo, dove venne liberato il notaio Matteo. Insieme al gayto Pietro, costui seppe ben diffondere tra la plebe false notizie, tra le quali spiccava quella sulla tresca tra la regina e il cancelliere. Anche il richiamo delle enormi ricchezze che Stefano di Perche aveva accumulato spinse le stesse guardie di palazzo e la plebe a lanciarsi in un assalto direttamente contro la sua abitazione.
La resistenza armata dei suoi sostenitori (asserragliati nel campanile della chiesa adiacente all’abitazione) permise a Stefano di contrattare la sua resa e non divenire oggetto di violenza. Riuscì infatti a ottenere di essere libero di lasciare Palermo alla volta della Siria, così come ai suoi sostenitori più vicini sarebbe stata concessa facoltà di allontanarsi.
Un momento critico si ebbe ancora durante le rapide operazioni di imbarco di Stefano, in quanto i canonici della cattedrale palermitana accorsero sul molo e gli chiesero pubblicamente di rinunciare all’elezione arcivescovile. Stefano, che probabilmente sperava ancora di avere carte da giocare in Sicilia e vedeva nel titolo ecclesiastico un legame valido con la città, tentò di ignorare la richiesta; ma le pressioni da parte degli armati e della plebaglia che si stava raccogliendo nel porto lo indussero a rinunciare al titolo e a mettere in salvo la vita.
Dopo un viaggio sin dall’inizio tribolato e una sosta obbligata a Licata (ove usò come mediatore il vescovo di Malta, suo accompagnatore), per accelerare i tempi Stefano acquistò a sue spese una nave da carico genovese e con questa fece finalmente vela alla volta della Terrasanta. La crisi e la fuga vanno collocati nell’estate del 1168, mentre l’ultimo documento in cui Stefano compare come datario a Palermo risale al marzo del 1168.
La carica di arcivescovo di Palermo, dopo la sofferta rinuncia di Stefano, andò proprio al suo avversario Gualtiero, che però dovette attendere quasi un anno prima di vedere confermata l’elezione, a causa dell’ostilità della regina, ma anche delle modalità violente con cui era avvenuta la rinuncia da parte di Stefano: evidentemente almeno la teatralità con cui si era svolta la rinuncia alla carica aveva dato qualche risultato. La seconda carica di Stefano, quella di cancelliere, venne di fatto messa a tacere, in quanto per tutto il restante regno di Guglielmo II si ebbe solo la carica di vicecancelliere, tenuta dal notaio Matteo.
Nei mesi successivi (inizio 1169) circolarono infondate notizie circa un ritorno in Sicilia di Stefano di Perche, imposto dall’imperatore Manuele Comneno con il favore anche dei rappresentanti del re di Francia Luigi VII (che avrebbe incaricato Tibaldo, priore di Crépy, di consegnare alla corte palermitana indicazioni al riguardo, in un’opera di mediazione in cui sarebbero stati coinvolti anche la regina e Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury). Ciò che è sicuro, è che in Terrasanta Stefano di Perche ebbe poco tempo per godere di quanto si era portato con sé e tramare ancora per una sua rivincita: venne colpito da una malattia che lo condusse rapidamente alla morte già nel 1169. Secondo Guglielmo di Tiro, fu sepolto con onore nel capitolo del Tempio a Gerusalemme («Hierosolymis in templi Domini capitulo honorifice sepultus est»; Chronicon, a cura di R.B.C. Huygens, 1986, p. 914).
Come risulta da quanto sin qui esposto, fonte principale per la biografia di Stefano di Perche è, per tutto il periodo di minorità di Guglielmo II (sino al 1169 e dunque sino alla morte di Stefano), il Liber de Regno Siciliae, cronaca attribuita all’autore identificato ormai come pseudo-Falcando, in quanto sulla sua identità non esiste ancora certezza: per molti eventi, assenti anche nell’opera di Romualdo Salernitano, che pure fu protagonista di quegli avvenimenti, è fonte unica. Lo pseudo-Falcando, pur esprimendo un giudizio negativo sulla condotta degli eredi di Ruggero II, si pone come obiettivo quello di tramandare le gesta virtuose dei suoi personaggi; ma di fatto l’unica figura di rilievo che non sia connotata negativamente è proprio Stefano, protagonista della parte finale dell’opera. Non è quindi forse casuale che il Liber si chiuda con il fosco quadro del grande terremoto che devastò Catania nel febbraio del 1169 e la notizia della morte di Stefano, quasi a suggello di una mancata occasione per il Regno; si tratta di un plausibile punto di arrivo per la narrazione.
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