JACINI, Stefano
Nacque il 26 giugno 1826 da Giovanni Battista e da Maria Grazia Romani a Casalbuttano (Cremona), dove la famiglia possedeva una grande e molto redditizia azienda agricola e uno stabilimento per la filatura del lino e la trattura e filatura della seta.
Il padre, impegnato nella vita politico-amministrativa locale (membro dal 1823 della deputazione comunale e dal 1843 consigliere comunale a Pizzighettone, membro della Congregazione provinciale di Cremona), si era tenuto aggiornato tramite le riviste di cultura e tecnica agronomica. Aveva intessuto rapporti con gli esponenti più innovatori della borghesia agraria, e aveva anche effettuato investimenti mobiliari in società per il commercio serico e la lavorazione del lino. La convinzione che la continuità dell'impresa familiare esigesse un'istruzione agraria completa lo indusse a iscrivere i figli Pietro, Paolo e Stefano nel collegio di E. von Fellenberg a Hofwyl (nei pressi di Berna) perché vi apprendessero, con le lingue, "le norme proprie dell'agricoltura teorico-pratica e della meccanica a questa applicata" (Betri, p. 30).
Dal collegio il giovane J. venne ritirato a 10 anni, dopo soli tre anni di permanenza, per effetto di un decreto del governo austriaco del 1834 che vietava di far studiare i figli all'estero. Per quanto ragazzo, al Fellenberg, al quale avrebbe poi dedicato la sua opera maggiore sulla proprietà fondiaria e i contadini in Lombardia, lo J. "dovette i primi elementi formativi della sua personalità" (Jacini jr., I, p. 15).
Continuò gli studi umanistici affiancati da nozioni di contabilità e dallo studio delle lingue, a Milano all'istituto S. Paolo, poi al ginnasio di Brera e all'i.r. liceo di Porta Nuova. Mentre il fratello Pietro si occupava del commercio serico della famiglia e Paolo, dopo la laurea d'ingegnere-architetto, diveniva insegnante alla Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri di Milano (rifugiatosi a Parigi durante le vicende del '48 e rientrato a Milano due anni dopo, morì di tisi nel 1856), lo J. si iscrisse alla facoltà giuridica di Pavia che frequentò nel 1845-46 e dove si laureò il 10 marzo 1850. Da Vienna, dove continuò gli studi legali, partì poi per una serie di viaggi che lo portarono in Germania (Baden, Francoforte, Sassonia, Prussia), in Svezia, in Russia, in Ungheria, sino in Grecia e in Asia Minore, a conoscere di persona i fermenti che agitavano l'Europa in quegli anni. Seguirono, tra il 1851 e il 1852, i viaggi in Belgio, Olanda e Inghilterra, ove fu presentato a Richard Cobden, e in Francia, ove assisté al colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte meravigliandosi della scarsa resistenza incontrata. Rientrato nel maggio 1852 dopo un lungo giro d'istruzione nelle regioni agricole della Francia, si stabilì a Milano come rappresentante della ditta paterna nel commercio della seta.
Nel 1851 lo J. prese parte al concorso per un lavoro sulle condizioni economiche e morali delle popolazioni agricole della Lombardia indetto dalla Società d'incoraggiamento delle scienze, lettere ed arti di Milano. Furono presentati due lavori, uno di C. De Cristoforis, e il suo, che venne proclamato vincitore nella seduta del 19 maggio 1853.
Edito l'anno dopo con il titolo La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia (Milano), notevolmente ritoccato e migliorato nella seconda edizione (1856), riedito ancora successivamente (1857), inserito da F. Ferrara nella Biblioteca dell'economista (1860), tradotto in tedesco, il lavoro ebbe un grande successo e una notevole diffusione, suscitando l'interesse di studiosi inglesi, francesi e belgi (in particolare di E. de Laveley) e procurando una vasta notorietà all'autore, che nel 1857, a soli trent'anni, fu nominato membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere e poi ascritto all'Accademia dei Georgofili di Firenze.
Lavoro solido, organico, si fondava, oltre che sulla sua esperienza personale di agricoltore e di studioso, sugli studi usciti in quegli anni negli Annali universali di statistica e nel Politecnico e sugli scritti di G. Cantoni e C. Cattaneo, con il quale lo J. si riconobbe in sintonia nelle questioni economiche, pur dissentendo da lui in politica. Il lavoro partiva dalla descrizione del territorio lombardo e dei suoi abitatori, per soffermarsi poi sulle condizioni della proprietà fondiaria e delle classi agricole; descriveva le caratteristiche tipiche dell'agricoltura lombarda secondo una triplice tipologia delle zone produttive (la zona montuosa, quella collinare o dell'altipiano e la bassa pianura irrigua); infine proponeva i mezzi più idonei per promuovere gli interessi della proprietà e migliorare le condizioni delle popolazioni contadine. Pur non nascondendo taluni difetti che penalizzavano le classi agricole più deboli, lo J. esprimeva un giudizio positivo sull'agricoltura lombarda, evidenziandone gli aspetti tecnici e agronomici che erano stati all'origine dell'aumento di produzione verificatosi negli ultimi decenni. A suo avviso la Lombardia era una delle regioni europee dove la proprietà fondiaria era meno concentrata, toccando la proprietà nobiliare appena il sette per cento e quella ecclesiastica il cinque per cento del totale. Se nella pianura si era talora verificata la tendenza alla ricostituzione di grandi unità fondiarie, in montagna e nelle vallate alpine v'era stato un continuo processo di frazionamento, che, in sé opportuno, aveva però colpito le famiglie più povere, gravate dal peso delle imposte, dalle pesanti conseguenze del disboscamento, dalla riduzione degli usi civici. Più in generale lo J. rilevava la durezza dei contratti agrari volti a ottenere dal capitale il massimo profitto, e una frattura sempre più profonda tra proprietà fondiaria e mondo contadino.
Fra i correttivi egli indicava in primo luogo la riduzione delle imposte, lamentando come il governo austriaco colpisse i grandi proprietari, e, tassando i passaggi di proprietà, ancor più i piccoli. La Lombardia, che secondo i suoi calcoli costituiva la trentesima parte dell'Impero e aveva la quattordicesima parte della sua popolazione, forniva un nono di tutte le entrate e un sesto dell'imposta fondiaria di tutta la monarchia. A sanare la situazione, lo J. proponeva una maggiore libertà di commercio, il potenziamento di strade e ferrovie, la diffusione dell'istruzione agraria, l'allungamento dei contratti di affittanza, la modifica in favore del conduttore dei patti colonici nella zona dell'alta Lombardia, lo sviluppo dello spirito d'associazione, l'incremento della carità e della solidarietà e soprattutto la "diffusione di sani principi agronomici ed economici nel ceto dei proprietari", in uno spirito di graduale riformismo e di libertà. Altri aspetti del lavoro anticipavano il pensiero politico dello J. sull'ordinamento dello Stato. Alla base c'era l'elogio dell'ordinamento comunale attuato da Maria Teresa con la partecipazione diretta dei proprietari piccoli e grandi alla gestione del Comune: "la nostra costituzione comunale […] può dirsi in essenza liberale e contribuì allo sviluppo del paese. Le scuole elementari, le condotte mediche e chirurgiche, i soccorsi agli indigenti, le levatrici, il magnifico sistema delle strade comunali, tutte queste glorie del nostro paese esistono per merito e a carico dei Comuni e mostrano che i germi del "self-government", come direbbero gli inglesi, e il senno pratico amministrativo hanno già estese profonde radici in Lombardia" (La proprietà fondiaria, pp. 88 s.).
Negli anni Cinquanta lo J. prese parte attiva al dibattito che si svolgeva nei circoli culturali milanesi, entrando in contatto con esponenti del liberalismo moderato come C. Giulini e L. Trotti. Pur avendo rifiutato ripetuti inviti a corte, su richiesta dell'arciduca Ferdinando Massimiliano, dal 1857 governatore della Lombardia, condusse un'inchiesta sulla Valtellina, pubblicata con il titolo Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio (Milano-Verona 1858), che conteneva una cruda descrizione dell'arretratezza e dei disagi di cui soffriva allora la valle e suggerimenti per migliorarne le condizioni, la viabilità, l'economia. Tra il 1857 e il '59 scrisse inoltre una serie di memorie, non tutte pervenuteci, sulle condizioni del Lombardo-Veneto sotto l'Austria, destinate a varie personalità del mondo politico europeo: una per il console inglese a Venezia contribuì a orientare l'opinione pubblica inglese sulla questione italiana trovando espressione negli articoli di W.E. Gladstone nella Quarterly Review; altre - richieste per il tramite di C. Giulini, coordinatore a Milano del movimento liberale filocavourriano - destinate a C. Benso conte di Cavour. Una di queste, redatta nel 1857 per un dossier da inviare a Napoleone III, descriveva le ragioni politiche dell'impopolarità del governo austriaco, pur mettendo in guardia sulla necessità di distinguere la politica dalle istituzioni.
La memoria del 1857 a Cavour fu utilizzata per una nuova memoria scritta nell'aprile del 1859 su richiesta di J. Hudson, ambasciatore inglese a Torino, ma inviata tramite Cavour: lo J. vi riaffermava la bontà intrinseca delle istituzioni lombarde, da tempo ispirate a una forma di autogoverno, ma indicava anche, tra gli aspetti negativi della politica austriaca, la repressione del sentimento nazionale, la compressione d'ogni autonomia, gli stati d'assedio, l'allontanamento dei lombardi dalle cariche pubbliche, la paralisi delle istituzioni locali, l'intollerabile pressione fiscale, l'arbitrarietà dei prestiti imposti. Un'altra memoria indirizzata a Cavour, ma pubblicata solo nel 1936, riguardava il debito pubblico. Vi si tracciava una storia del Monte dalla sua istituzione in epoca napoleonica sino al 1859, con le irregolarità commesse dall'Austria nella gestione del debito pubblico lombardo-veneto, l'iscrizione su di esso di quote del debito austriaco che avevano fatto deprezzare il valore delle cartelle, l'imposizione tra il 1850 e il '54 alla proprietà fondiaria nobiliare e alle opere pie di prestiti forzosi garantiti da cartelle quotate assai al di sotto del valore nominale; l'utilizzazione a vantaggio delle finanze austriache dei proventi del fondo d'ammortizzazione destinato al ritiro delle cartelle di credito; infine la sospensione del pagamento degli interessi delle cartelle.
Accreditato a Torino dai suoi scritti di economia e finanza, già nell'agosto del 1859 lo J. era inserito in una commissione costituita dal ministro G.B. Oytana per la preparazione delle leggi in materia finanziaria emanate nell'ambito della cosiddetta dittatura legislativa del ministero La Marmora-Rattazzi; poco dopo fece parte della commissione per la preparazione della nuova legge elettorale presieduta dal Cavour. Cofondatore del giornale La Perseveranza, organo del liberalismo moderato lombardo uscito la prima volta il 20 nov. 1859, nel gennaio del 1860 fu chiamato da Cavour a Torino per reggere il ministero delle Finanze. Ma, fatto oggetto dal Pungolo di una vivace campagna che lo accusava di "transazione" con la dominazione austriaca, lo J. rifiutò, finendo poi per accettare il ministero dei Lavori pubblici.
La campagna del quotidiano Il Pungolo continuò nei mesi seguenti con aspre critiche tanto a Cavour, per aver scelto un lombardo che si diceva non gradito al patriottismo locale, quanto allo J.: la polemica si attenuò dopo le elezioni del 25 marzo 1860, quando il giovane neoministro, risultato eletto in quattro collegi, optò per quello di Pizzighettone, ove aveva avuto 153 voti su 164 votanti.
Stando al governo lo J. svolse un'importante attività per uniformare l'amministrazione dei lavori pubblici, del genio civile, dei telegrafi tra vecchie e nuove province; fece approvare dal Parlamento le convenzioni per la ferrovia del Cenisio e per la linea Bologna-Ancona, il riscatto delle strade statali, migliorie per i porti di Genova e di Ancona e l'istituzione di una commissione di studio per la ferrovia transalpina. Furono pure controfirmati da lui i decreti reali di annessione delle nuove province del Regno dopo i plebisciti.
Non essendo riuscito eletto alla prima votazione nelle elezioni per la VIII legislatura (27 genn. 1861) svoltesi con la nuova legge elettorale che esigeva per la validità del risultato la partecipazione al voto di una maggioranza qualificata di aventi diritto, il giorno dopo lo J., senza attendere l'esito del ballottaggio che con 251 voti su 308 votanti gli fu comunque favorevole, presentò a Cavour le dimissioni, non sembrandogli dignitoso che un deputato rieletto a fatica rappresentasse la Lombardia nel governo. Cavour dapprima le respinse, poi, su sua indicazione, lo sostituì con U. Peruzzi. Nell'ultimo ministero Cavour lo J. sottoscrisse tuttavia l'ordine del giorno Bon Compagni che avrebbe portato al noto discorso di Cavour e al voto del 27 marzo su Roma capitale.
Tornò al governo con il portafoglio dei Lavori pubblici nel primo (27 sett. 1864 - 31 dic. 1865) e nel secondo (31 dic. 1865 - 20 giugno 1866) ministero La Marmora, e sino al 17 febbr. 1867 nel secondo ministero Ricasoli. Fu questo il periodo di maggior attività dello J., che si misurò anche coi problemi di politica estera (convenzione di settembre, rapporti con la Prussia, guerra all'Austria) e tornò su queste vicende dopo il ritiro dalla vita parlamentare con un saggio intitolato Due anni di politica italiana. Dalla convenzione del 15 settembre alla liberazione del Veneto. Ricordi e impressioni (Milano 1868): lo J. vi prendeva le difese della politica estera di Alfonso Ferrero della Marmora, cui aveva contribuito con la nota del 7 nov. 1864 che aveva respinto l'interpretazione francese della convenzione come rinuncia definitiva dell'Italia ad andare a Roma. Nelle elezioni del 22 ott. 1865 lo J. era stato eletto a Macerata e, al ballottaggio, a Pizzighettone, optando ancora per questo collegio: confermato ai Lavori pubblici nel secondo governo La Marmora, mantenne il portafoglio anche nel governo Ricasoli entrato in carica il 20 giugno 1866.
Sicuramente efficace fu l'azione svolta in questi anni dallo J. con il trasferimento della capitale a Firenze, realizzato in pochi mesi e con soli 7 milioni di spesa, e soprattutto con la creazione delle infrastrutture ferroviarie e stradali necessarie allo sviluppo del nuovo Stato. Grandi meriti ebbe nel settore delle ferrovie, passate dai 1472 km del 1860 ai 5161 km del 1867 (più 1298 km in costruzione), con la realizzazione di opere monumentali come la Porrettana, il ponte sul Po a Piacenza, il traforo del Fréjus a Bardonecchia e la realizzazione della linea adriatica per il passaggio della "Valigia delle Indie". Fece inoltre approvare la legge 14 maggio 1865 che unificava il sistema ferroviario e riordinava il servizio postale e telegrafico. Avendo in passato dedicato due memorie al tema del collegamento tra l'Italia e il Nord delle Alpi, L'Italia e la Svizzera nella questione della ferrovia delle Alpi elvetiche (Milano 1863) e Lucomagno, Gottardo o Spluga? Sul modo di chiudere la discussione e di accelerare la decisione sull'argomento (ibid. 1864), in cui si pronunciava per il transito del Gottardo, il 10 ag. 1865 nominò una commissione per lo studio della ferrovia transalpina attraverso il Gottardo e il 25 febbr. 1866 fece approvare la legge che bandiva un concorso internazionale per promuovere e realizzare tale linea.
Furono pure opera del suo ministero la preparazione della legge sulle opere pubbliche, una delle sei leggi (allegato F) pubblicate con la legge 20 marzo 1865 sull'unificazione amministrativa dello Stato, e le leggi applicative di essa, come la legge 25 giugno 1865 sugli espropri per causa di pubblica utilità; il r.d. 17 nov. 1865 sul piano di realizzazione delle strade nazionali e provinciali e sulla classificazione delle strade comunali; il regolamento per la costruzione, la manutenzione e la vigilanza sulle strade provinciali, comunali e consorziali. Il 30 genn. 1867, poco prima di lasciare il ministero, lo J. presentò al Parlamento una Relazione sull'amministrazione dei Lavori pubblici in Italia dal principio del 1860 fino al 1867, stampata anche a parte (Firenze 1867), che conteneva un resoconto dell'attività e delle realizzazioni sopra ricordate, compreso un pacchetto di disegni di legge, fra cui la proposta di stanziamenti di sussidi in favore di province e comuni per la costruzione di nuove strade (poi trasformata in legge nel 1868), per la sistemazione generale delle opere marittime e un piano organico per le ferrovie secondarie.
Nel marzo 1867, contrariato da una rielezione sofferta e ritenendo scarsamente difesa dalla Camera la sua integrità, lo J. si dimise e, rifiutato anche il mandato ricevuto dagli elettori di Terni in una elezione suppletiva del 20 dic. 1868, rinunziò alla vita parlamentare. Non abbandonò però del tutto la politica, cui anzi dedicò alcune pubblicazioni ch'egli stesso definì "politiche e amministrative", come il ricordato saggio Due anni di politica italiana e la memoria Sulle opere pubbliche in Italia nel loro rapporto collo Stato (Firenze 1869) che riguardava la sua esperienza di ministro dei Lavori pubblici e illustrava quanto da lui realizzato nel campo delle opere pubbliche, in specie quelle ferroviarie.
Lasciata la Camera, accettò volentieri la nomina a senatore (7 febbr. 1870) comunicatagli anzitempo dal nuovo presidente del Consiglio G. Lanza, al quale egli aveva onestamente anticipato la imminente pubblicazione di alcuni scritti sulla riforma dello Stato e sul funzionamento delle istituzioni che avrebbero potuto apparire di critica al governo. La pubblicazione fu ritardata dagli eventi che portarono alla presa di Roma, un problema che in precedenza lo J., analogamente a Cavour, aveva ritenuto andasse risolto con i mezzi morali (tale il senso del suo scritto su La questione di Roma al principio del 1863, pubblicato a Torino nel 1863). Aveva perciò vivamente criticato il ricorso alla forza, ma aveva pure considerato il 20 settembre come un fatto irreversibile, salvo poi pronunciarsi - nella discussione concernente Roma capitale - contro l'opportunità di trasferirvi anche la sede del governo.
Lo J. distingueva la questione romana, che considerava risolta, dalla questione delle garanzie per la libertà del papa, per il quale proponeva una garanzia internazionale, come scriveva nel saggio Le principe de la neutralisation internationale appliqué au St-Siège (Roma 1887; trad. it. La questione del Papato e l'Italia, Milano 1888), trovando consensi non tra gli intransigenti o tra i liberali ma tra i cattolici della Rassegna nazionale, come lui convinti che la permanenza della questione papale impedisse la formazione di un partito conservatore nel quale potessero entrare i cattolici.
Il più famoso degli scritti dello J. è però senz'altro quello Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866. Lettera agli elettori di Terni del loro deputato dimissionario (Firenze 1870), in cui venivano introdotte la formula del distacco tra paese legale e paese reale e la proposta regionalista: la formula non aveva un significato antirisorgimentale, come parve alla Civiltà cattolica e agli intransigenti, né era una denuncia del fallimento della classe politica postcavouriana, bensì un invito pressante a considerare chiusa l'epoca della "dittatura dei diritti politici" esercitata dal ceto "più colto e più rivoluzionario" che aveva fatto l'Unità; non si poteva vivere perennemente secondo le regole dei governi provvisori, bisognava instaurare un regolare ritmo politico-amministrativo dello Stato.
Come rimedi ai mali di uno Stato unificato troppo rapidamente, basato su un elettorato politico ristretto ed esposto allo scontro degli interessi di parte, lo J. indicava il corretto funzionamento del potere legislativo, un esecutivo forte e sottratto ai condizionamenti degli interessi locali, la realizzazione delle autonomie amministrative, di cui erano modello le istituzioni comunali lombarde descritte nell'opera del 1854; l'allargamento del suffragio elettorale (ma a doppio grado); l'istituzione delle Regioni, "create dalla natura e in gran parte dalle tradizioni". Lo J. pensava insomma che una più forte unità politica andasse congiunta necessariamente a un radicale decentramento amministrativo, ma, critico di un certo pseudoparlamentarismo, non vedeva più nel Parlamento il campo delle future battaglie politiche e civili.
Alle obiezioni mosse dalla stampa alla sua tesi regionalista e alla proposta di adottare il suffragio elettorale a due gradi lo J. replicò con un articolo (in La Perseveranza, 9 febbr. 1870) e con uno scritto (Supplemento all'opuscolo di Stefano Jacini sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866, Firenze 1870), nei quali riprendeva il tema della riforma elettorale e soprattutto quello della riforma amministrativa e della creazione delle Regioni. Pur contestate da molti esponenti della Destra, le sue idee ebbero l'adesione di un gruppo di esponenti politici che, riunitisi a Firenze nel novembre 1870, diedero vita al Programma dei signori senatori G. conte Ponza di San Martino e Stefano Jacini per un decentramento amministrativo, pubblicato nel giornale Il Diritto (14 nov. 1870), ove il concetto di decentramento (non un semplice trasferimento di competenze a Comuni e Province) era inserito in una concezione dello Stato come "associazione di associazioni", come termine più elevato di una serie di associazioni "determinate ciascuna da nuclei speciali e distinti d'interessi comuni ad un certo numero di cittadini" Il programma passava infine a determinare le competenze di Stato, Comune, Provincia e Regione in maniera analitica.
Il nome dello J. è altresì legato alla Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia, nata da una proposta firmata il 7 giugno 1872 da A. Bertani e da altri 50 parlamentari prevalentemente della Sinistra. Approvata con la legge 15 marzo 1877, l'inchiesta avrebbe dovuto concludersi in due anni. Lo J., che presiedeva la giunta costituita all'uopo, aprì le sedute con un discorso programmatico nel quale espose i criteri dei lavori: divisione del territorio italiano in 12 circoscrizioni omogenee, raccolta di scritti già editi e di notizie desunte da autorità locali, comizi agrari, monografie a premio, visite e ispezioni sul territorio. Emerse subito la differenza di vedute tra lo J. e Bertani, che proponeva studi per materie anziché per zone e insisteva per privilegiare le condizioni dei lavoratori rispetto a quelle generali dell'agricoltura (e così a lui fu affidata l'inchiesta sull'igiene). Dopo varie proroghe la giunta chiuse i lavori il 29 apr. 1885, con l'esigua spesa di 355.000 lire, di cui 188.000 per la stampa degli atti in 15 volumi, comprendenti più di 500 monografie e relazioni di valore piuttosto disomogeneo.
Allo J. si deve anzitutto il Proemio, edito nel 1881, in cui, oltre a esporre la ripartizione dei lavori, il programma-questionario della Giunta e un quadro statistico dell'Italia agricola (popolazione, dati sulla proprietà fondiaria, tasse gravanti sulla proprietà, superficie dei terreni produttivi e di quelli improduttivi), si lamentava l'arretratezza dei sistemi agricoli in molte province ed era contenuta un'analisi delle condizioni spesso miserrime delle popolazioni contadine anche nelle province più prospere del Nord e in quelle del Sud. Sua anche la Relazione sulla Lombardia, che ricalcava in parte lo scritto del 1854, ma costituiva un notevole progresso rispetto a quello, perché insisteva sulla funzione sociale della proprietà fondiaria. Accanto a suggerimenti tecnici rivolti allo Stato (politica forestale, perequazione fondiaria, soppressione della tassa di registro per le permute) e ai proprietari neghittosi (miglioramento zootecnico, risanamento degli alloggi dei contadini), forniva indicazioni per il miglioramento dell'agricoltura nella zona dell'alto Milanese e delle vallate alpine (nuovi patti colonici, sgravi fiscali per la costruzione di case coloniche, codice sanitario per migliorare l'igiene delle abitazioni di montagna, divieto di commercio di granoturco avariato causa della pellagra). Lo J. scrisse infine la Relazione finale, che riassumeva i risultati dell'inchiesta, ma soprattutto rivolta sia al governo (al quale si chiedeva fra l'altro un catasto uniforme; statistiche della popolazione agricola per categorie, dei prodotti agricoli, della proprietà fondiaria dei luoghi pii; il censimento delle iscrizioni ipotecarie e cioè dei debiti gravanti sulla proprietà rurale, opere di bonifica anche con intervento di capitali privati, rimboschimento, scuole agrarie), sia alla proprietà fondiaria, richiamata al dovere di prendere atto dell'esistenza nelle campagne di una questione sociale non diversa da quella delle città.
Pur così ricca di dati, l'inchiesta non riscosse grandi apprezzamenti. Bertani, che continuò per suo conto quella sulle condizioni igieniche delle popolazioni agricole, vi aggiunse un'appendice critica, nella quale asseriva che la relazione s'era occupata "troppo della terra e troppo poco delle condizioni dei lavoratori" (Jacini jr., II, p. 168). Neppure il governo recepì molto i suggerimenti contenuti nell'inchiesta, che restò, oltre che come la voce di un conservatore aperto alla solidarietà sociale ma forse non ancora avvertito dell'accentuarsi delle lotte nelle campagne, come l'espressione più elevata della sua opera di studioso, di politico, di economista pratico. È significativo che P. Gobetti ne pubblicò a puntate la Relazione finale nella sua Rivoluzione liberale.
Gli ultimi anni di vita dello J. (che nel 1880 aveva ottenuto il titolo di conte) furono dedicati a combattere prima il trasformismo, quindi la politica autoritaria e megalomane di F. Crispi, e a ribadire la necessità della formazione di due partiti nettamente distinti alla Camera, uno conservatore e uno progressista. Avendo accettato l'invito rivoltogli il 15 nov. 1879 da R. Stuart a partecipare alle riunioni di Paolo Campello per la formazione di un partito conservatore, lo J. si espresse su questa linea nel discorso pronunciato in Senato sul progetto di riforma della legge comunale e provinciale (21 nov. 1888) con il quale proponeva l'estensione dell'elettorato amministrativo a tutti (nessuna differenza dunque tra contadini e operai dell'industria) e l'elezione del sindaco a suffragio universale anche nei piccoli Comuni, per accrescerne l'autorità.
Di poco successivo è l'ultimo suo importante scritto, Pensieri sulla politica italiana (Firenze 1889), che raccoglieva tre articoli editi lo stesso anno nella Nuova Antologia, assai critici verso le degenerazioni del parlamentarismo e soprattutto verso la "megalomania" (termine che egli non solo rendeva familiare, ma di cui fissava con acutezza il significato), che si fondava a suo avviso su un vecchio piemontesismo bellicista pronto a gettarsi in avventure pericolose e sull'idea di una vanagloria militare che vendicasse gli insuccessi del '66.
Il tema dell'utilità di un partito conservatore tornava invece nella risposta alla richiesta rivoltagli (16 genn. 1890) dall'Associazione costituzionale di Milano, erede della tradizione cavouriana, e dal suo presidente L. Trotti, di un parere sulla linea da tenere nelle elezioni di fine anno. Pur dicendosi pessimista sulla possibilità di contrastare i mezzi demagogici del governo, lo J. individuava l'unica possibilità nel fare un programma organico di governo, più conservatore e insieme più liberale di quello del ministero, antiaccentratore, antistatolatra e soprattutto antimegalomane, e nel costituire un partito conservatore nazionale al quale riteneva già idealmente iscritti molti membri dell'Associazione. Le idee dello J. furono discusse dalla stampa e apprezzate in modo particolare da C. Alfieri di Sostegno e da G. Prinetti, nonché dai conservatori della Rassegna nazionale che lo invitarono a porsi a capo del partito conservatore. A Roma Paolo Campello, che aveva trascinato con sé molti cattolici staccatisi dagli intransigenti, e R. Stuart gli proposero la presidenza del nuovo partito.
A scanso di equivoci, in un articolo uscito il 16 febbr. 1891 nella Nuova Antologia lo J. volle riassumere il suo pensiero in materia di decentramento e di politica ecclesiastica. L'aspetto più immediato del programma, basato sull'esigenza di una reazione morale alla politica di Crispi, era l'opposizione al suo triplicismo, al colonialismo, all'accentramento e all'autoritarismo statalista. Caduto Crispi e formatosi il gabinetto di Rudinì, lo J. illustrò ancora le sue idee nel corso di un banchetto a Roma (9 marzo 1891). Fu questa la sua ultima apparizione pubblica.
Rientrato a Milano, cadde malato. Quattro anni prima, nel 1887, aveva perso la moglie, Teresa Prinetti, sposata diciassettenne nel 1858, consumata dalla tisi contratta curando una cameriera. Ancora provato dalla sua scomparsa, affaticato dalla preparazione dell'ultimo suo lavoro e dal peso di quel suo rientro in politica, non si riprese più.
Lo J. morì a Milano il 25 marzo 1891 e fu sepolto nella tomba di famiglia.
Ai funerali fu commemorato da C. d'Adda, G. Prinetti, e dal deputato radicale G. Mussi con parole di sincera lode; alla Camera lo ricordò A. Cavalletto, al Senato ne fece la commemorazione D. Farini.
Vario fu il giudizio della stampa; il Corriere della sera gli dedicò due articoli, uno laudativo, uno piuttosto critico, nel quale si diceva che egli aveva assistito allo svolgimento "incessante della società moderna senza prendervi parte, anzi rifuggendola": una interpretazione che forse andava corretta nel senso ch'egli era stato semmai un "politico alieno dalla politica", uno spirito capace di vedere le cose con razionalità lontano dal volgare empirismo, un conservatore capace di un sincero spirito liberale e di un atteggiamento riformista.
L'idea dello J. era basata sulla convinzione che in Italia non si fosse compresa la contraddizione fra adozione di un sistema amministrativo accentrato e corretto funzionamento del sistema parlamentare; era mancata inoltre la distinzione delle forze politiche in due partiti ben distinti, uno progressista e uno conservatore. "Stefano Jacini, la mente più lucida della politica italiana dopo Cavour e Sella - scrisse Gobetti citando alcuni brani de I conservatori e l'evoluzione naturale dei partiti - veniva accusato di clericalismo quando proclamava questa esigenza di un partito conservatore e ne tracciava il programma con precisione critica esemplare […] Assai meglio di Silvio Spaventa, preoccupato di esprimere le sole esigenze dell'unità e dell'autorità dello Stato, Jacini aveva capito come il problema italiano dovesse risolversi in un problema di stile politico. Un partito conservatore poteva compiere in Italia una funzione moderna, indirettamente liberale, in quanto facesse sentire la dignità del rispetto alla legge, l'esigenza di difendere scrupolosamente la sicurezza pubblica e l'efficacia del culto delle tradizioni per fondare nel paese una coesione morale" (La rivoluzione liberale, pp. 31, 41-43). Anche F. Chabod ha ricordato lo Jacini quale "antesignano di una politica interna ed estera di raccoglimento e ne ha posto in luce l'indirizzo antiretorico ed europeistico, contrario alla megalomania" (F. Jacini, Il pensiero politico di S. J., p. 444).
Tra gli studiosi moderni quasi tutti ne hanno rilevato la capacità di coniugare interessi pratici, passione per l'economia e studi storici. Coscienza critica della Destra, offrì al paese diagnosi e suggerimenti destinati a restare inascoltati; pur avendo questa lucidità, "a lui mancavano soprattutto certe doti che distinguevano invece un Cavour, l'abilità tattica, la sottile adattabilità del politico puro, la passione elementare per il potere e il gusto della dialettica parlamentare" (Traniello, S. J. e l'unificazione amministrativa, p. 461).
Scritti. Per un elenco completo, con cenni a scritti inediti o non compiuti, si rinvia a S. Jacini jr., Un conservatore rurale della Nuova Italia, I-II, Bari 1926, II, pp. 256-262. Tra gli scritti postumi va segnalato Un rapporto segreto di S. J. al conte di Cavour sul Monte lombardo-veneto, a cura di S. Jacini jr. e con una introduzione di L. Einaudi, in Riv. di storia economica, I (1936), pp. 205-248. Tra le ristampe e le antologie degli scritti: Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio, introd. di L. Marchetti, Sondrio 1963; La riforma dello Stato e il problema regionale, a cura di F. Traniello, Brescia 1968 (antologia dei più importanti scritti politici); La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Studi economici, a cura di F. Della Peruta, Milano 1996.
Fonti e Bibl.: La fonte più importante per la biografia dello J. è l'archivio di famiglia a Casalbuttano (sul quale si veda R. Gosi, L'Archivio Jacini di Casalbuttano: documenti sull'ascesa economica e politica di una famiglia, in Riv. milanese di economia, 1982, n. 2, pp. 152-159). Carteggi con vari corrispondenti sono conservati nell'Arch. di Stato di Milano (Crivelli, Carte Giulini), nell'Arch. del Museo del Risorgimento di Torino (Carteggio politico di G. Dina). I discorsi alla Camera e al Senato sono negli Atti parlamentari (su quelli stampati a parte si veda Jacini jr., Un conservatore rurale, II, pp. 259-261; ivi anche un elenco di articoli apparsi sui giornali). L'archivio della Giunta per l'inchiesta agraria è conservato a Roma presso l'Arch. centrale dello Stato: L'Arch. della Giunta per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia (Inchiesta Jacini), 1877-1885. Inventario, a cura di G. Paoloni - S. Ricci, Roma 1998; gli atti dell'inchiesta, comprese le Relazioni dello J., furono editi in Atti della Giunta parlamentare per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, I-XV, Roma 1883-84 (ma si veda anche: S. Jacini, I risultati dell'inchiesta agraria, Roma 1885).
Edizioni parziali, introduzioni e commenti all'Inchiesta agraria: F. Coletti, S. J. e l'agricoltura italiana, introd. a S. Jacini, L'inchiesta agraria. Proemio. Relazione finale. Conclusioni dell'inchiesta sulla Lombardia. Interpellanza al Senato, con cenni biogr. del nipote Stefano Jacini, Piacenza 1926; A. Caracciolo, L'inchiesta agraria Jacini, Torino 1958 (con appendice di lettere di e ad A. Bertani); L'inchiesta Jacini, a cura di D. Novacco, in Storia del Parlamento italiano, XVII, Palermo 1963; I risultati della inchiesta agraria (1884). La situazione dell'agricoltura e dei contadini dopo l'Unità, con introduzione di G. Nenci, Torino 1976.
Sul contributo dello J. alla creazione del sistema ferroviario: C. De Biase, Il problema delle ferrovie nel Regno d'Italia, Modena 1940, pp. 166 ss.; F. Arese, Cavour e le strade ferrate, Milano 1953; L. Marchetti, C. Cattaneo, S. J. e il traforo del Gottardo, in Atti del Convegno di studi per i rapporti scientifici e culturali italo-svizzeri,Milano… 1956, a cura di A. Calderini - A. Casati, Pavia 1956, pp. 279-300; R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari 1959, ad ind.; F. Ippolito, Lo Stato e le ferrovie dalla Unità alla caduta della Destra, in Clio, II (1966), pp. 314-340.
Più in generale: E. de Laveley, Les forces productives de la Lombardie, in Revue des deux mondes, 15 nov. 1859, pp. 436-471 (poi in Annali universali di statistica, s. 3, XXIV [1859], pp. 268-288; s. 4, I [1860], pp. 11-40, a proposito del saggio su La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia); G. Massari, Diario dalle cento voci (1858-1860), a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad ind.; F. Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, Milano 1862, pp. 166, 362; U. Gobbi, Commemorazione di S. J., Milano 1893; G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute. 1847-1860, Milano 1904, pp. 409-453; B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928 (nuova ed. a cura di G. Galasso, Milano 1991, pp. 77, 389, 400, 406, 414); S. Jacini jr., Peregrinazioni giovanili di uno statista lombardo (S. J.: 1826-1891), in La Lombardia nel Risorgimento italiano, XV (1930), 17, pp. 15-115; E. Tagliacozzo, Il testamento economico e politico di un conservatore: S. J., in Id., Voci di realismo politico dopo il 1870, Bari 1937, ad ind.; A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Torino 1960, pp. 74 ss.; F. Malgeri, Le riunioni del 1879 in casa Campello, in Rass. di politica e di storia, 1960, n. 65, pp. 22-32; P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, pp. 949 ss.; Le riviste di Gobetti, a cura di L. Basso - L. Anderlini, Milano 1961, pp. 165 ss.; L. Marchetti, La Destra lombarda, in Rass. stor. toscana, VII (1961), pp. 129-148; G. Talamo, Il problema delle diversità e degli squilibri regionali nella cultura politica italiana dal periodo dell'unificazione alla caduta della Destra, in Gli squilibri regionali e l'articolazione dell'intervento pubblico. La diversificazione regionale nei suoi aspetti storici. Atti…, Torino-St-Vincent… 1961, Milano 1961, pp. 76 ss.; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1962, ad ind.; G. De Rosa, I conservatori nazionali. Biografia di C. Santucci, Brescia 1962, ad ind.; G. Luzzatto, L'economia italiana dal 1861 al 1914, I (1861-1864), Milano 1963, pp. 24 s., 45, 56, 79, 122, 125, 132 s., 145, 149, 220; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministr. periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, ad ind.; A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, II, Italia legale e Italia reale, Bologna 1965, pp. 36-70; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1965, pp. 111-115; N. Raponi, Politica e amministrazione in Lombardia agli esordi dell'Unità. Il programma dei moderati, Milano 1967, ad ind.; E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Bari 1967, pp. 149-192; G. Licata, La "Rassegna nazionale". Conservatori e cattolici liberali italiani attraverso la loro rivista (1879-1915), Roma 1968, ad ind.; V. Castronovo, Economia e società in Piemonte dall'Unità al 1914, Milano 1969, ad ind.; F. Jacini, Il pensiero politico di S. J., in L'unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti, a cura di F. Benvenuti - G. Miglio, Vicenza 1969, pp. 427-444; F. Traniello, S. J. e l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia (1864-1867), ibid., pp. 445-461; A. Salvestrini, Lo Stato, le Regioni e S. J., in Quaderni storici delle Marche, 1969, f. 11, pp. 374-379; R. Ruffilli, La questione regionale (1862-1942), Milano 1971, ad ind.; O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso, Bologna 1971, pp. 12, 14, 115, 117; G. De Cesare, La Commissione San Martino-Jacini e la riforma dello Stato (1870-1871), in Studi parlamentari e di politica costituzionale, III (1970), poi in Id., L'ordinamento comunale e provinciale in Italia dal 1862 al 1942, Milano 1977, pp. 259-315; G. Ignesti, Il Partito conservatore nazionale (1878-1879), in Civitas, 1971, f. 7-8, pp. 3-34: Id., Le riunioni dei conservatori nazionali in casa Campello, ibid., f. 10, pp. 3-29; R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano 1971, ad ind.; A. Porro, Il prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'intendente subalpino al prefetto italiano (1842-1871), Milano 1972, pp. 85, 91 s., 183, 185 s.; A. Caracciolo, Il Parlamento nella formazione del Regno d'Italia, Milano 1972, pp. 101, 322; C.G. Lacaita, Istruzione e sviluppo industriale nell'età della Destra storica, Firenze 1973; F. Traniello, La prospettiva di S. J. nelle interpretazione di Gobetti e di Gramsci, in Prospettive di storia umbra nel Risorgimento. Atti dell'VIII Convegno di studi umbri, Gubbio-Perugia… 1970, Perugia 1973, pp. 600-604; L'opera e l'eredità di C. Cattaneo, a cura di C.G. Lacaita, I-II, Bologna 1976, ad ind.; R. Romanelli, L'Italia liberale, 1861-1900, Bologna 1979, ad ind.; C. Barberis - G. Barbiellini Amidei - U. Bernardi, Tra Manzoni e J.: la cultura rurale e lombarda dell'Ottocento, a cura di E. Vercesi - C.M. Martini, Milano 1985; M. Meriggi, Il Regno lombardo-veneto, Torino 1987, pp. 64, 113 s., 215, 369; F. Della Peruta, La conoscenza dell'Italia reale, in Verso l'Unità: 1849-1861. Atti del LVII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Bari… 1994, Roma 1996, pp. 80, 89-95; M.L. Betri, La giovinezza di S. J.: la formazione, i viaggi, la proprietà fondiaria (1826-1857), Milano 1998; P. Carlucci, Il giovane Sonnino fra cultura e politica: 1847-1886, Roma 2002, pp. 224-227; B. Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici (1919-1926), Milano 2003, pp. 28, 129, 141-147, 149. Tra i repertori: T. Sarti, I rappresentanti del Piemonte e dell'Italia, Roma 1880, pp. 462 ss.; L. Carpi, Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche…, IV, Milano 1888, pp. 212-218; Enc. biografica e bibliogr. "Italiana", A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, II, p. 81; A. Moscati, I ministri del Regno d'Italia, I, Napoli 1955, pp. 44-65; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d'Italia, Roma 1989, ad ind.; Il Parlamento italiano 1861-1988, IV, pp. 361-378.