VANZINA, Stefano
VANZINA, Stefano (Steno). – Nacque a Roma il 19 gennaio 1917 dal giornalista Alberto, nato ad Arona ed emigrato a Buenos Aires – dove fondò il primo periodico italiano –, e dall’affascinante contessa romana Giulia Boggio, che il padre conobbe sul piroscafo che lo riportò in patria.
Sino ai tredici anni visse sulle sponde del lago Maggiore nella casa paterna, ma in seguito alla morte prematura di Alberto fece rientro a Roma con la madre, vivendo per qualche tempo tra pensioni e camere ammobiliate, per poi essere affidato per questioni di ristrettezze economiche alle cure della zia materna Laura, insegnante di matematica, che contribuì a fare di lui uno studente modello del prestigioso liceo classico Mamiani.
Iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza, prim’ancora di laurearsi nel 1939 frequentò il Centro sperimentale di cinematografia e l’Accademia di belle arti e iniziò a collaborare – usando come pseudonimo il soprannome Steno ricevuto dalla madre, in onore della scrittrice Flavia Steno – come vignettista e battutista a La Tribuna illustrata, nonché al brillante e aggressivo periodico umoristico Marc’Aurelio, di cui divenne presto segretario di redazione. In questa veste, tra l’altro, ricevette il giovane aspirante disegnatore Federico Fellini, caldeggiandone subito l’assunzione presso il direttore Guido De Bellis.
Coautore di copioni radiofonici e teatrali, ma particolarmente appassionato di cinema, Vanzina iniziò a collaborare già nel 1939 con il regista Mario Mattoli, cosceneggiando alcune pellicole che, nonostante i cupi venti di guerra che spiravano nel Paese, ottennero eccezionali riscontri al botteghino, anche per merito della sorprendente resa sullo schermo della stralunata comicità di un big della rivista, Erminio Macario: «tramite la conoscenza di alcuni umoristi come Metz, entrai con il compito di gagman nel gruppo di sceneggiatori che lavoravano al film Imputato, alzatevi! [...] Da questo film si intrecciò un rapporto di amicizia tra Mattoli e me, e così, assieme alla stessa coppia di sceneggiatori, Metz e Marchesi, curai anche la sceneggiatura di Lo vedi come sei?, il suo film successivo, e gli feci da aiutoregista [...]. Poi iniziammo la lavorazione di Il pirata sono io! proprio nel giorno della dichiarazione di guerra. Era il giugno del 1940, e facemmo tutto il film a Tirrenia con gli aerei francesi che bombardavano Livorno» (Faldini - Fofi, 1979, p. 37).
Mentre era impegnato a scrivere, anche per altri registi come Giorgio Candido Simonelli, Carlo Ludovico Bragaglia e Riccardo Freda, Vanzina strinse relazioni e amicizie con la crema intellettuale e mondana della capitale, fervida di umori antifascisti e anticonformisti, fin quando l’armistizio dell’8 settembre 1943 aprì la strada ai duri giorni dell’occupazione nazista. A quel punto, insieme a Freda, Leo Longanesi e all’allora famoso boxeur Enzo Fiermonte, decise di partire alla volta del Sud dove stavano avanzando le truppe degli Alleati, prima attraversando le linee sul fiume Calore e poi affrontando un disagiato e avventuroso percorso tra le macerie belliche, lo sbando dei nostri soldati e le sofferenze delle popolazioni civili. Il gruppo dei fuggiaschi, con l’aggiunta di Mario Soldati e Dino De Laurentiis – che erano riparati a Torella dei Lombardi, in Irpinia – si stabilì infine a Napoli, dove si ritrovò a collaborare per il programma Stella bianca nella radio controllata dallo Psycological Warfare Branch alle dipendenze della 5ª armata, fino a quando il 6 giugno 1944 rientrarono tutti a Roma travestiti da soldati su un camion dell’esercito americano.
A proposito di questo drammatico passaggio gli studiosi possono contare sugli appunti del diario segreto che Steno tenne tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno, pubblicato a cura di Tullio Kezich nel 1993 con il titolo Sotto le stelle del ’44 dall’editore Sellerio e ripubblicato nel 2017 dal Centro sperimentale di cinematografia presso l’editore Rubbettino. Dalle pagine del libretto risalta non solo il vivido autoritratto del futuro regista (per il momento costretto a sbarcare il lunario avviando con Fellini, Marcello Marchesi e Tino Scotti una sorta di catena di montaggio di caricature per i soldati americani nella Roma liberata: uno faceva gli sfondi, uno i profili, un altro metteva i colori), ma anche la comparsa di preoccupazioni e dei suoi dubbi su un’Italia che stava per voltare pagina, restando probabilmente incline ai suoi umori peggiori.
Dopo due soddisfacenti esperienze teatrali – le riviste Il profugo e Il suo cavallo scritte in sinergia con gli affiatati Longanesi, Freda, Castellani e Soldati – Vanzina entrò nel team di sceneggiatori di Aquila nera (1946), brillante film d’avventura diretto da Freda, facendo la conoscenza di Mario Monicelli. L’incontro si rivelò uno dei momenti chiave della sua carriera, inaugurando l’amicizia e soprattutto la collaborazione che li vide firmare in coppia una serie di successi del cinema nazionale, impegnato in una difficile lotta per la sopravvivenza dei capolavori neorealisti a difesa della loro competitività, in un mercato invaso dall’attrattiva offerta hollywoodiana. Un primo risultato importante l’ottennero conferendo un’identità umana e realistica a Macario, il cui personaggio d’italiano ignavo e manipolato nella cosiddetta trilogia della strada (diretta da Carlo Borghesio tra il 1947 e il 1949, Come persi la guerra, L’eroe della strada e Come scopersi l’America) conquistò il pubblico anche grazie agli efficaci riferimenti al perdente chapliniano di Luci della città e Tempi moderni. Il loro merito maggiore, tuttavia, restò quello di favorire l’irresistibile ascesa di Totò, da mattatore dei palcoscenici popolari a fenomeno cinematografico più rilevante del dopoguerra: anche se Steno aveva già lavorato ai copioni di I due orfanelli, Fifa e arena e Totò al giro d’Italia, film ‘usa e getta’ dell’ex mentore Mattoli – in cui già prorompeva il talento dell’uomo-marionetta napoletano – il duo mise a punto il metodo che permise di consolidare la sequela degli exploit del principe Antonio De Curtis.
Vincendo la diffidenza suscitata dall’arduo compito di dirigere un film a quattro mani, nel 1949 Steno e Monicelli esordirono dietro la macchina da presa con Al diavolo la celebrità, al quale seguirono altri sette titoli tra cui hit comici tutt’altro che inoffensivi o allineati, attraversati da sottili polemiche contro le ingiustizie e i compromessi della nuova Italia come Totò cerca casa, Vita da cani, Guardie e ladri e Totò e i re di Roma: «io e Monicelli non abbiamo mai avuto delle divergenze di idee su una sceneggiatura. E neppure quando passammo alla regia [...] Ai tempi in cui facevamo le coregie, Monicelli si occupava più del lato tecnico, io delle prove degli attori e tutto il resto. Insomma, ci suddividevamo i compiti nella massima armonia» (Faldini - Fofi, 1979, p. 281).
Nel 1952 Le infedeli, un acre melodramma al femminile tratto da un soggetto di Ivo Perilli e sceneggiato con la collaborazione di Franco Brusati, segnò l’indolore separazione tra i due, destinata a distinguere le vocazioni e i gusti, stabilizzare gli approcci e gli stili e in definitiva ad arricchire le rispettive carriere. Di quello stesso anno fu il primo film di Steno senza il partner abituale, Totò a colori, estrosa rivisitazione degli sketch più collaudati di Totò. Fu uno dei primi lungometraggi italiani realizzato a colori grazie al cosiddetto sistema Ferraniacolor, una pellicola di nuova generazione che l’azienda Ferrania fornì a scopo promozionale al produttore Carlo Ponti, e divenne un cult movie grazie al gradimento registrato dalle continue riedizioni e alle rivalutazioni operate dalla giovane critica postsessantottina. Alla storia passò anche il secondo, L’uomo, la bestia e la virtù (1953), sceneggiato con Vitaliano Brancati a partire dall’omonima commedia di Luigi Pirandello, nonostante le cadute di mordente e le forzature salaci della rielaborazione, per aver fatto recitare Totò insieme a divi internazionali come Orson Welles e Viviane Romance.
Unitosi in matrimonio con Maria Teresa Nati il 27 aprile 1948, testimoni i vecchi colleghi del Marc’Aurelio (De Bellis, Agenore Incrocci, in arte Age, e Marchesi), Vanzina protesse sempre i confini di una sobria vita privata, trasmettendo la passione per il mestiere ai suoi due figli – grazie anche alle tante serate e vacanze trascorse insieme agli amici di altre famiglie dell’entourage cinematografico –, lo sceneggiatore e scrittore Enrico (nato nel 1949) e lo sceneggiatore e regista Carlo (1951-2019), anch’essi futuri interpreti della storia del cinema nazionale. Non di rado sottovalutato dalla critica e dagli studi accademici, nell’ottica di un pregiudizio autoriale oggi superato, Steno fu protagonista di un impegno febbrile e versatile – la sua filmografia conta in totale circa centocinquanta sceneggiature e settantacinque regie – in grado di compendiare a futura memoria, non solo cinefila, ma in qualche modo anche sociologica, un ideale affresco fitto dei volti, i talenti e le performance di un’imponente schiera d’interpreti, dai più celebri e venerati ai più schivi e dimenticati. Non a caso tra il 1953 e il 1956 risultò fondamentale il rapporto di confidenza e fiducia stabilito tra il neoregista e l’astro nascente Alberto Sordi, valorizzato in un pugno di film di basso costo e massimo incasso tra cui l’accoppiata Un giorno in pretura e Un americano a Roma – a cui si deve l’invenzione del mitico personaggio di Nando Mericoni – o l’arguto Piccola posta, in cui Franca Valeri tiene testa all’indiavolato trasformismo sordiano.
Cortese, minuto di statura e corporatura, caratterizzato dall’aplomb borghese e dall’abbigliamento sempre curato, politicamente simpatizzante liberale, instancabile nel lavoro tanto da fare sorgere il sospetto che il dovere del set rappresentasse una fuga dalle problematiche quotidiane, Vanzina rafforzò negli anni Sessanta il rapporto con Totò – in totale scrisse per lui ventidue sceneggiature e lo diresse in quattordici film – contribuendo particolarmente alla sostanza meno convenzionale e più asprigna di film come Totò diabolicus (1962) e I due colonnelli (1963).
L’apogeo del genere comico-brillante definito ‘commedia all’italiana’, peculiare di gran parte dei due successivi decenni, portò alla ribalta registi più carismatici e spregiudicati come Pietro Germi, Dino Risi, Monicelli e Luigi Comencini, ma la costanza delle scelte di disponibilità, modestia e prolificità unite alla proverbiale rapidità d’esecuzione non gli impedirono di sperimentare inedite forme dell’intrattenimento popolare come i film a episodi e le talvolta sbrigative parodie del western, il western all’italiana, i film di guerra, l’horror e persino il giallo (Psycosissimo, 1961), com’anche di tentare di scoprire, aggiornare, modellare o riadattare per le diverse esigenze del pubblico le maschere che apportarono linfa vitale ai filoni bozzettistici o farseschi. Da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello a Walter Chiari, da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia a Lando Buzzanca (autoironica icona del machismo sudista nella trilogia Letti sbagliati, 1965, Il vichingo venuto dal Sud, 1971, e L’uccello migratore, 1972), dall’istrionico Johnny Dorelli protagonista del fumettistico Arriva Dorellik (1967) a Bud Spencer (sulla cui cospicua silhouette modellò il manesco protagonista della fortunata serie iniziata nel 1973 con Piedone lo sbirro), da Enrico Montesano a Luigi Proietti, da Renato Pozzetto a Mariangela Melato, da Monica Vitti a Paolo Villaggio non si contano, infatti, gli attori che grazie al suo fiuto moltiplicarono le occasioni per diventare beniamini del pubblico e garanzie del box office. Un panorama in cui spiccò, per esempio, Febbre da cavallo (1976), scorribanda sugli equivoci ambienti romani dell’ippica scritta insieme al figlio Enrico e al veterano Alfredo Giannetti, che grazie ai pittoreschi personaggi e alla raffica di battute ribalde è ormai assurto al rango di sempreverde con tanto di fan club e sito su Internet.
Anche sul piano del rapporto con gli eventi storici, la cronaca spicciola e le relative convulsioni della politica e il costume Vanzina non si tirò indietro, come dimostrano film come La polizia ringrazia (1971), antesignano del sottogenere cosiddetto poliziottesco, e Anastasia mio fratello, un mafia movie dell’anno seguente interpretato da Sordi, Il padrone e l’operaio (1975), uscito in coincidenza dell’acuirsi degli scontri sociali, o La patata bollente (1979), apologo dalle tonalità progressiste sui temi dell’omosessualità allora alquanto rimossi. Nell’ultima fase della carriera la sua produzione sembrò rallentare, un po’ per le recessioni del mercato e la scomparsa di produttori all’altezza, un po’ perché il suo ‘stakanovismo’ fu mitigato dalla definitiva affermazione di Enrico e Carlo, il cui felice sodalizio ottenne il primo quanto cospicuo successo con l’uscita dell’aggraziato amarcord generazionale Sapore di mare (1983). Riuscì in ogni caso a licenziare altri titoli remunerativi come il boccaccesco Fico d’india (1980) con Pozzetto, Aldo Maccione e la sexy Gloria Guida, Tango della gelosia (1981), tratto da una commedia di Aldo De Benedetti ed elettrizzato da una Vitti in gran forma, o Bonnie e Clyde all’italiana (1983) con Villaggio, la starlette in fiore Ornella Muti e Jean Sorel, perfettamente descritto dalla recensione di Maurizio Porro pubblicata il 23 febbraio dello stesso anno su Il Corriere della sera: «[...] Steno, che da trent’anni è il mattatore libero della commedia italiana, non ha difficoltà a mandare in porto il film, con un professionismo non volgare, che si basa soprattutto sulle trovate personali degli attori [...]», a lanciare le disdicevoli imprese del ‘terrunciello’ Diego Abatantuono e ad attualizzare le atmosfere di Un giorno in pretura nei diseguali episodi di Mi faccia causa (1984) in cui, peraltro, riuscì a fare risaltare l’improntitudine di vecchi e nuovi esemplari (Christian De Sica, Stefania Sandrelli, Proietti, Montesano, Marisa Laurito, Jimmy il Fenomeno) del suo impietoso, ma in fondo bonario catalogo umano.
Dedicatosi – dopo la sfortunata esperienza di Animali metropolitani (1987), satira fantascientifica interpretata da Donald Pleasance e Senta Berger bloccato dalle inadempienze distributive – anche alla televisione, girò le serie L’ombra nera del Vesuvio, precorritrice delle durezze realistiche di Gomorra, e Big Man, una sorta di sequel delle avventure rodomontesche di Spencer. Nel corso delle riprese di quest’ultima morì colpito da un ictus a Roma il 13 marzo 1988.
Il lungo e paziente processo di recupero storico e critico del cineasta ‘commerciale’ per antonomasia del cinema italiano si poté considerare concluso grazie alla mostra allestita alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma Steno, l’arte di far ridere (11 aprile-4 giugno 2017), curata da Marco Dionisi e Nevio De Pascalis e tramandata dal catalogo Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora, Roma 2017. Anche in questo caso è stato decisivo il contributo dato dai figli Enrico e Carlo, che hanno messo a disposizione molti materiali tra cui l’inedito Diario futile, tenuto dal padre con costante riferimento all’amico prediletto Marchesi tra il 1942 e il 1943, uno zibaldone strapieno di ritagli di riviste e giornali dell’epoca, disegni, collage, appunti, pensieri, ritratti per conoscenza diretta dei personaggi più in vista del mondo cinematografico e letterario dall’inestimabile valore filologico e sociologico, che nel catalogo è oggetto del puntuale excursus critico di Claudio Strinati (pp. 34-37). Indispensabile, infine, appare anche l’altro diario ritrovato dalla moglie dopo la sua morte e intitolato Sotto le stelle del ’44, le cui due edizioni (Sellerio 1993 e Rubettino 2017) sono già citate nel testo. Dalle sue pagine, originariamente vergate a mano, emergono infatti i risvolti di una personalità colta, ironica, inquieta e autonoma – anche se vicina al gruppo dei ‘longanesiani’ – non di rado rispecchiata in visioni di autentico spessore poetico: «Ci si accorge di come è triste la pioggia con il Caffè Greco senza luce elettrica e la Rinascente vuota di merce. La pioggia su una città falsamente viva come è la Roma di questi giorni maggiormente ricorda e sottolinea la situazione di paralisi sotterranea che cova dentro ogni negozio chiuso e di ogni bar con la saracinesca abbassata a metà» (ed. Sellerio 1993, pp. 29 s.).
Fonti e Bibl.: Trascurato a lungo dalle storie del cinema, Vanzina poté illuminare i passaggi fondamentali della propria carriera con le numerose e vivaci memorie inserite nei volumi di F. Faldini - G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Milano 1979, e L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano 1981. Dovette passare in ogni caso altro tempo prima che fossero messe a disposizione degli studiosi e degli appassionati alcune monografie, tra cui appaiono particolarmente utili B. Ventavoli, Al diavolo la celebrità - Steno dal “Marc’Aurelio” alla televisione. 50 anni di cinema e spettacolo in Italia, Torino 1999; S. Della Casa, La premiata ditta Steno & Monicelli, in Lo sguardo eclettico - Il cinema di Monicelli, a cura di L. De Franceschi, Padova 2001; il quaderno Steno e i Vanzina - L’infinita commedia, pubblicato in occasione della XXII Rassegna del cinema italiano Primo piano sull’autore (Assisi 2003) e soprattutto l’esaustiva ricognizione portata a termine da M. Giraldi in I film di Steno, Roma 2007. Un notevole contributo, valorizzato dalle numerose interviste ai maggiori esperti del cinema di Steno, a cominciare naturalmente dai figli Enrico e Carlo, è senz’altro rappresentato dal documentario Steno, genio gentile di Maite Carpio, presentato a vent’anni dalla sua scomparsa alla III edizione del Festival internazionale del film di Roma nella sezione L’altro cinema/Extra Omaggi (produzione di E. Orlandi per la RAI, 2008).