STORICISMO
. È la considerazione della storia come realtà oggettiva per sé stante, svolgentesi secondo proprie leggi. Nei riguardi dell'individuo esso si configura come determinismo, che riduce l'uomo a creatura e strumento d'un universale processo; nei riguardi dei valori, norme e principî, diviene relativismo, in quanto li considera prodotti del loro tempo, immanenti a esso.
Sembra che il ternnne sia stato usato per la prima volta da K. Werner in un libro sul Vico nel 1879, e in senso deteriore dall'economista C. Menger (Die Irrtümer des Historismus in der deutschen Nationalökonomie, 1884) e da A. Wagner (Grundlegung der politischen Ökonomie, Lipsia 1892) che denunciarono come "storicismo" (Historismus) la cancellazione di ogni differenza fra teoria e storia economica (v. K. Heussi, Die Krisis des Historismus, Tubinga 1932). Lo adoperavano pure, alla svolta del secolo, i teologi protestanti ortodossi, difensori della "verità" del Vangelo, nella loro polemica contro la critica storica delle origini cristiane di A. Ritschl. Nell'uso comune il termine è però entrato a opera di E. Tröltsch, discepolo del Ritschl, che appunto soffrì del dissidio fra la sua fede di cristiano e le sue esigenze di storico. Specialmente dopo la guerra mondiale si è deplorata la "crisi" del pensiero storico e insieme si è auspicato un "superamento dello storicismo".
L'idea della storia come d'un graduale sviluppo della civiltà era già stata formulata da G. B. Vico. A opera di Voltaire, Hume, Robertson, prende rilievo il concetto di "umanità", cioè della solidarietà e del progresso del genere umano, che per propria virtù e non per interventi trascendenti si eleva alla luce della ragione. Come già aveva fatto Vico, la storiografia dell'illuminismo preferì alla narrazione dei singoli fatti politici e militari la descrizione degli avanzamenti delle arti, delle scienze, dei commerci, delle leggi, dei costumi e in genere dello spirito umano. Cominciò allora la periodizzazione secondo epoche e secoli della civiltà. Però tale orgogliosa coscienza del progresso era congiunta alla credenza che i malanni della società fossero dovuti alla malizia di alcuni e alla stupidità di altri e fossero quindi facilmente eliminabili dalla buona volontà di illuminati legislatori.
Meno orgogliosa l'Aufklärung tedesca, che non derise l'idea della Provvidenza e della rivelazione, volle salvato il concetto della redenzione, e perciò lo estese dalla Bibbia alla storia universale, consacrando questa ultima a manifestazione dello Spirito Santo. Così per il Lessing le varie religioni positive entrano, come stadî necessarî, nell'elevazione spirituale dell'umanità e costituiscono gli strumenti dell'educazione del genere umano, rivelazione progressiva di Dio. Lo spiritualismo mistico delle varie sette protestanti, che vedeva al disotto delle differenze esterne di culto l'universale spirito divino, e la tradizione umanistica, che aveva celebrato nelle creazioni umane l'esplicarsi della divina anima del mondo, sono confluiti nella fede moderna nella storia, religione laica del sec. XIX.
La costruzione d'una nuova società secondo ragione, in brusca rottura con il passato, si era rivelata, attraverso la rivoluzione francese, dispotica e insieme precaria. La resistenza specialmente delle plebi rivelò che le tradizioni non potevano essere arbitrariamente violate: già J. Möser aveva, nel corso del Settecento, lodato le consuetudini popolaresche e descritto a vivaci colori la varia vita locale, e Herder aveva raccolto le poesie popolari come voci del genio della nazione; E. Burke aveva contrapposto alle idee della rivoluzione la vitalità delle istituzioni tradizionali; V. Cuoco aveva scorto nella violenza recata alle credenze e ai pregiudizî delle plebi la ragione del fallimento della Repubblica Partenopea; K. vom Stein aveva opposto alla dichiarazione dell'89 l'idea del ravvivamento delle antiche assemblee locali, come premessa d'una graduale educazione della nazione tedesca all'autogoverno. Ma la più solenne vendetta della storia apparve la caduta di Napoleone. Essa fu interpretata come una lezione di umiltà. Gli scrittori della reazione, opponendo ai diritti naturali del cittadino i diritti storici dei monarchi, vollero scorgere nella tradizione storica l'orma stessa della divinità. La storia, specialmente quella medievale, divenne di moda, offrì una serie inesauribile di nuovi temi e soggetti alla poesia romantica, fece sorgere il romanzo storico, il dramma storico, il quadro storico, persino il melodramma storico.
Ma la storia non fu soltanto un segnacolo della reazione: l'idealismo tedesco le tolse il carattere di vincolo irrazionale, per identificarla con lo stesso dispiegarsi della ragione e della libertà. Riecheggiando un concetto del Mandeville, già formulato dal Vico, il Kant, nell'Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, aveva parlato dell'astuzia della natura che per i suoi superiori scopi di civiltà mette a profitto le ambizioni e cupidige degli uomini, altrimenti pigri e insipienti, e il Fichte, riprendendo l'idea della progressiva educazione del genere umano, aveva scorto nel mondo il campo offerto ai nostri sforzi verso il fine supremo della libertà spirituale, dividendo schematicamente tale svolgimento in periodi e ponendo al suo termine l'ideale comunione dei santi. Questa fede entusiastica nella storia redentrice ricevette una rigida determinazione nel sistema di Hegel: con esso l'assoluto non è più una realtà immota al di là delle stelle, ma il processo stesso del reale, che si opera dialetticamente, con razionale necessità.
Cade il concetto d'una verità immobile e d'un'astratta libertà, in quanto verità e libertà sono intese dinamicamente, come progressiva vittoria sull'errore e la servitù, che altro non sono che la verità e la libertà dello stadio precedente. In tal modo tutto, nella storia, è giustificato: tutte le dottrine, le fedi, i partiti, gl'istituti sociali e politici, sono considerati necessarî, al loro posto di combattimento, nella fase loro destinata, tutti strumenti dell'Idea, che inesorabilmente trionfa con il loro sacrificio.
La dottrina di Hegel ha determinato un approfondimento in tutti i dominî della vita dello spirito rinnovando le scienze giuridiche (E. Gans), la teologia protestante (R. Rothe), la storia della religione (W. Vatke, F. Chr. Baur), l'estetica (F. Th. Vischer), la storia della filosofia (B. Spaventa), ha lasciato tracce nella storia dell'arte (C. Schnaase), della letteratura (F. De Sanctis) e nella storia politica (R. Droysen) ed è stata ridotta a una teoria dell'eroe, ministro inconsapevole dell'idea (T. Carlyle). Infine, attraverso L. Feuerbach, per opera della cosiddetta "sinistra hegeliana", C. Marx e F. Engels, il principio dialettico fu applicato alla vita economica.
Tuttavia l'accento fu posto sul divino più che sull'umano. Simile alla Provvidenza cristiana, la storia rimase una realtà trascendente, svolgentesi secondo uno schema rigido, una ferrea legge oggettiva che domina e conduce gli uomini. Era bensì concepita come una progressiva rivelazione dello spirito a sé stesso, cioè come una progressiva affrancazione, ma in tal modo la libertà, scopo finale dell'universo, era posta soltanto alla fine del processo, e gli stessi hegeliani finirono con l'ammettere un elemento irrazionale nella storia, per assicurare un certo respiro all'individuo.
Contro la metafisica della storia di Hegel, in nome della concreta realtà, insorse la cosiddetta scuola storica. La sua reverenza per il passato non è dovuta alla credenza nella razionalità di ogni accadere, ma semplicemente all'idea della continuità genetica. Per F.C. Savigny l'individuo è continuazione e sviluppo di tutti i tempi passati, membro operante in comunanza con la sua famiglia, con il suo popolo, con il suo stato, e il diritto cresce con il popolo, è prodotto delle interne sue forze, consuetudini e credenze, espressione di ciò che questo ha di più peculiare e vitale, il suo genio nazionale. J. Grimm, con le sue ricerche sulle lingue germaniche e romanze, introdusse il concetto genetico nello studio della grammatica e del linguaggio, Boeckh nella filologia classica. W. Roscher, seguito da B. Hildebrand e C. Knies, inaugurò una scuola storica nell'economia politica opponendo alla scuola classica la relatività storica delle leggi economiche.
La scuola storica fu accusata più tardi di quietismo: certo è che essa fu l'espressione dottrinale della restaurazione, fu cioè una teoria del giusto mezzo, che si rifiutava di giustificare, con Hegel, anche la rivoluzione, ma non aderiva alla violenta reazione, e per il suo ideale di una naturale e spontanea trasformazione dell'esistenza si serviva dell'idillica immagine dello sviluppo organico.
Comune a questa corrente il sentimento che le grandi "tacite forze", che lentamente si sviluppano e s'intrecciano nel corso del tempo, abbiano in sé qualche cosa di sacro. Nello storico di questa generazione, L. Ranke, tale sentimento assume la forma di un panteismo storico. Per lui le nazioni sono "pensieri di Dio", che è vano voler definire. Di fronte alla misteriosa realtà che è la storia umana egli si vieta di giudicare, pago di partecipare gioiosamente al singolo evento per sé stesso. Ogni epoca ha la sua originalità, "sta immediatamente al cospetto di Dio": quindi non c'è un progresso generale, ma soltanto il vario giuoco di grandi "tendenze" e "idee" mercé le quali si esprime l'infinita natura umana. Allo storico spetta soltanto di narrare "come le cose sono effettivamente andate", senza tesi filosofiche, religiose o politiche da sostenere: egli deve avere la capacità di "sopprimere il proprio Io".
Contro il metodo deduttivo dei hegeliani il Ranke inaugurò la critica sistematica delle fonti, perché la soppressione dell'individualità dello storico significava una rivalutazione del lato oggettivo, cioè del documento. Avendo constatato la parzialità delle testimonianze sincrone e delle cronache, egli ritenne di trovare basi sicure soltanto negli atti diplomatici. Donde la limitazione del suo orizzonte storico alla politica delle corti e dei gabinetti.
Dall'esempio del Ranke derivò una ripresa delle ricerche d'archivio e di sistematiche pubblicazioni di documenti. Specialmente nella seconda metà del secolo, e non soltanto in Germania, la storiografia si andò spersonalizzando e disperdendo nella raccolta dei materiali divenuta fine a sé stessa. D'altra parte un privilegio dell'epoca fu considerata l'enorme "recettività", la sua capacità ad aderire e comunicare con tutti o quasi i secoli passati: godere delle creazioni delle passate civiltà apparve il più alto grado di vita spirituale (J. Burckhardt).
Si avrà così quell'"ipertrofia" di senso storico, che fu denunciata da F. Nietzsche nel suo celebre saggio Dei vantaggi e danni della storiografia per la vita, in cui definiva i "servitori della verità oggettiva" una "schiatta d'eunuchi, custodi del grande harem della storia", e l'ammirazione per la "potenza della storia" un'idolatria del successo.
In realtà verso la metà del secolo, mentre l'Europa si avvia all'esplosione del'48, la storiografia diventa arma della lotta politica, stimolo all'azione e strumento d'educazione nazionale. Scompaiono i confini tra essa e la pubblicistica politica, e le opere storiche sono altrettanti manifesti. Le passioni del momento ravvivano la letteratura storica e dànno ad essa carattere decisivamente partigiano, ma insieme unità d'indirizzo e di svolgimento. In Francia, in Inghilterra, in Italia gli storici sono politici e uomini di stato (T. Macaulay, Guizot, A. de Tocqueville, A. Thiers, C. Balbo, V. Gioberti). Il concetto romantico di "nazione", già usato storicisticamente contro l'astratto giusnaturalismo della rivoluzione, è ora impiegato contro la "legittimità" dei governi di fatto. Dal cosmopolitismo settecentesco, sopravvissuto nell'età della fianta Alleanza, si passa all'idea d'un'Europa di libere nazioni, di viventi organismi destinati dalla loro stessa storia all'indipendenza e all'unità. Così Mazzini crede nella missione assegnata da Dio alle nazioni e invita l'individuo a collaborare al dispiegamento delle forze che Dio ha poste. La storiografia diventa esclusivamente nazionale e i suoi problemi sono gli stessi della vita nazionale del momento. L'unità nazionale stessa è sentita come un problema maturatosi attraverso i secoli e si chiede alla storia conforto alla soluzione che si propugna. Così l'azione del papato, dell'impero e dei comuni lombardi nella storia d'Italia è in senso opposto interpretata e giudicata dai neoguelfi e dai neoghibellini, così sono discusse le benemerenze e le colpe dell'impero verso la nazione tedesca dai Grandi Tedeschi e dai Piccoli-Tedeschi, da partigiani dell'Austria e da partigiani della Prussia. Persino la storia della Grecia (R. Droysen) e di Roma (T. Mommsen) è coltivata con immediate finalità politiche. L'ultimo degli storici liberali tedeschi, H. Treitschke, apertamente proclamava di scrivere cum ira et studio.
Il liberalismo era nato dall'incontro delle idee di libertà costituzionale e di senso storico. Politica e storiografia si erano reciprocamente alimentate. La medesima passione, che aveva indotto alla meditazione del passato, spingeva all'azione. Conquistata la meta, i due momenti si staccarono e inaridirono.
L'idea liberale della fecondità dei dibattiti e della legittimità di tutte le forze, degenerò nell'ideale dell'automatico equilibrio degl'interessi. Ne venne un disinteresse per la cosa pubblica, un difetto di sentimento di responsabilità, un fastidio per la politica, dalla quale si ritrassero i letterati puri" dei cenacoli e dell'"arte per l'arte". La considerazione della vanità di ogni polemica sulle forme ideali di stato, ridusse la lotta dei partiti alla pratica quotidiana. La decisione sull'"utilità" delle istituzioni fu abbandonata alla storia, e lo stato di fatto, né combattuto né difeso con passione, fu accettato fino all'istante in cui le "circostanze storiche" cessassero di giustificarlo. Si andò diffondendo il tipo dell'"intellettuale", politicamente ignaro, privo dei mezzi e dell'attitudine ad agire sulle masse.
A sua volta la storiografia volle rifarsi pura da contaminazioni, aderente alla realtà oggettiva, cioè alle fonti e ai documenti, e si ridusse rapidamente a erudizione paleografica e filologica, a raccolta di dati biografici e di notizie cronologiche, senza che di tanta laboriosità si potessero indicare il contenuto e lo scopo. Tale indirizzo "scientifico" coincise col vittorioso diffondersi, dalla Francia e dall'Inghilterra, dai paesi cioè della tecnica industriale e delle conquiste coloniali, del positivismo, filosofia dei "fatti" e delle "leggi". La storia fu allora ridotta a natura, che veniva descritta con metodi naturalistici e che, appunto in quanto compatto e duro accadere oggettivo, doveva risultare soggetta a leggi naturali e soprattutto al principio della causalità. Le osservazioni degli antropologi, etnologi, sociologi inglesi, che studiavano le varie razze disseminate sul globo con la estrinseca oggettività del naturalista, fornirono il materiale d'una nuova scienza positiva della società (A. Comte, H. Spencer). Ad imitazione dell'anatomia comparata di Cuvier, si creò una scienza comparata dei miti (M. Müller), delle lingue, delle letterature. Il divenire storico, per influenza delle teorie biologiche, fu inteso come "evoluzione" anonima di "masse". Storici dell'arte, della letteratura, della religione, ignorarono la personalità per spiegare la storia come effetto di determinati "fattori" naturali, dell'ambiente (H. Taine) o della razza. Persino la storia dell'arte divenne la registrazione di dati di fatto, come la biologia o la chimica, e si preoccupò di fissare la cronologia e i particolari stilistici delle opere d'arte, evitando ogni "non scientifico" giudizio di valore (A. Springer). Secondo la legge dei tre stadî, formulata da A. Comte su reminiscenze settecentesche, si era ormai in pieno stadio positivo, e religione e metafisica sembravano per sempre tramontate nel secolo delle ferrovie, dei canali, delle fabbriche e delle banche, cioè nel secolo del "progresso". Tuttavia esse erano "fatti" che andavano spiegati psicologicamente. Cosl W. Wundt, con l'aiuto di apparecchi e d'esperimenti di fisiopsicologia, si industriò a determinare gli elementi psichici basilari delle creazioni dei popoli, dei poeti e dei filosofi. W. Dilthey si propose di determinare i varî tipi di metafisica, tutti pari in dignità, che si perpetuano nel corso della storia, dovuti tutti a elementari processi psichici.
Ammettendo soltanto la certezza dei "fatti", il positivismo aveva finito con l'esautorare anche il pensiero, riducendolo a mera "costruzione", a schema e a formula, che si giustificò soltanto per la sua comodità (E. Mach, W. James). Le varie civiltà furono spiegate come prodotti di strutture mentali diverse (G. Simmel); sulla base di notizie fornite da etnologi si classificarono i varî tipi di mentalità, irriducibili l'uno all'altro (L. Rougier); nella storia dell'arte si scorse un automatico ripetersi di schemi stilistici (H. Wölfflin); si tentò una "morfologia" delle civiltà, intese come organismi biologici (K. Breysig, K. Lamprecht, O. Spengler). La civiltà, concetto fino allora unitario, si frantumò in una pluralità di civiltà, tutte equivalenti.
Ne derivò quel genere moderno di protagorismo che fu detto relativismo. Se, infatti, vi sono quattro o sei o dieci tipi di strutture mentali, la verità sarà relativa a ciascun tipo. Ogni civiltà avrà il suo schema. Come nessuno può uscire dalla propria pelle, così nessuno potrà sollevarsi al disopra di sé e dei limiti impostigli dalla struttura del suo tipo. Invece di un pensiero universale si avrà una pluralità di "prospettive" (Ortega y Gasset, K. Mannheim).
La concezione naturalistica della storia portò all'abbandono del concetto stesso di divenire e di svolgimento, ché la storia fu interpretata come un monotono ripetersi di tipi e schemi. Esso rimase in vita soltanto per opera del socialismo. Già C. Marx e F. Engels avevano fornito alle agitazioni delle nuove plebi operaie una giustificazione "scientifica" con il materialismo storico, accettando il concetto hegeliano della dialettica della storia, ma sostituendo all'Idea hegeliana, come motore centrale del divenire, la produzione economica. Verso la fine del secolo, sotto l'impressione dei grandi moti operai e dei conflitti tra le leghe operaie e padronali, la storiografia accolse il concetto marxistico di "classe" economica, come criterio d'interpretazione, e procedette a una revisione della storia interna di Roma, delle origini del cristianesimo, dei moti comunali ed ereticali del Medioevo, della rivoluzione francese, sulla base del concetto della lotta di classe.
Ebbe in tal modo sviluppo amplissimo la storia dell'artigianato, del commercio, del credito, del capitalismo, della moneta (G. Schmoller, W. Sombart). Rivoluzioni politiche e religiose furono smascherate nella loro vera" natura economica. Istituzioni giuridiche e religiose, arti, filosofie, scienze apparvero "soprastrutture". Intesa dapprima con meccanicità, l'evoluzione economica fu in seguito spiritualizzata, considerata cioè come volontà di ascensione giuridico-politica delle masse: l'origine e le vicende dei comuni attrassero l'interesse degli storici (R. Davidsohn, H. Pirenne, G. Salvemini, G. Volpe). Il materiale documentario fu enormemente arricchito con dati tratti da statuti, contratti, libri di conti.
Tuttavia proprio l'indagine più approfondita di fenomeni classicamente economici, quali la nascita del moderno capitalismo e la rivoluzione industriale, rivelò che alle origini della trasformazione economica dell'Europa occidentale e dell'America Settentrionale stava il dogma calvinistico della predestinazione, dalle cui interpretazioni e adattamenti derivava l'etica del lavoro e del profitto (M. Weber). La diversa struttura economica delle varie nazioni fu spiegata con la diversità delle confessioni religiose e degl'ideali di etica sociale.
Al centro quindi della storia apparve la vita etico-religiosa, nella sua fecondità di produttrice di forme politiche, giuridiche, economiche.
Alle origini del Rinascimento e della Riforma furono scorti grandi miti politico-religiosi (K. Burdach), l'arte del Quattrocento fu interpretata alla luce del francescanesimo (K. Thode), il Barocco come espressione del misticismo della Controriforma, e in generale l'arte come espressione di rivolgimenti spirituali (M. Dvořak); si segnalò l'importanza dell'idea di Roma (F. Schneider, P. E. Schramm), e di "Sacro Impero" nel Medioevo (A. Dempf), dell'idea di "ragion di stato", d'"umanità" e di "nazione e nell'Europa moderna (F. Meinecke), si definirono le civiltà secondo i loro ideali di vita bella (J. Huizinga).
La storiografia contemporanea è così divenuta storia di "idee", di "miti", di "motivi", di "illusioni", di sogni ed utopie, di vanità e suggestioni collettive, irrazionali e disinteressate. Si chiudeva in tal modo il ciclo aperto da Hegel: al centro della vita storica stava lo spirito, ma libero, sciolto da vincoli schematici e anche dalla stessa dialettica. Si raggiungeva cosi un perfetto immanentismo: le forze ideali che mettono in moto l'umanità erano tutte ridotte a "fenomeni strettamente storici" prodotti del sentimento e della fantasia.
Ma se l'uomo è portato da suggestioni più forti della ragione e dello stesso interesse, quale valore poteva avere la storiografia? Opera di pensiero, critica, essa ora si trovava dinnanzi all'irrazionale: doveva dunque trasformarsi in mera descrizione psicologica, rinunciando ad affrontare dei problemi, o addirittura farsi essa medesima mito, leggenda (E. Bertram), e riacquistare per questa via una funzione nella vita degli uomini. La cosiddetta "crisi del pensiero storico" è dovuta a questa esasperazione dell'irrazionale nella storia.
D'altra parte già da tempo il senso storico si era rivelato la grande eresia moderna, la più grave minaccia recata alla fede nelle verità e negli istituti trascendenti, che essa appunto si proponeva di spiegare e giustificare nelle loro origini umane.
Nei paesi protestanti, la critica storica delle origini cristiane e dei dogmi aveva ridotto il cristianesimo a fenomeno puramente storico (A. Ritschl), nei cattolici aveva suscitato il movimento modernista (A. Loisy). Se il cristianesimo altro non era che fenomeno storico, cessava il suo valore universale e assoluto, ma perdevano tale valore anche le norme etiche che l'Occidente aveva appreso da esso. La scuola storica, all'inizio dell'Ottocento, aveva distrutto l'idea di un diritto naturale eterno: sembrava ora che tale sorte attendesse anche la legge morale. Questo conflitto, tra bisogno dell'assoluto e coscienza storica, fu drammaticamente sentito da E. Troeltsch. Egli sperò di ritrovare l'assoluto nell'inserzione del lavoro nella storia, nell'accordo della nostra azione con la vita universale. Donde per lui la necessità di ripercorrere criticamente tutto lo svolgimento, cosi da sceverare quei "motivi" essenziali che esso ha tramandato a noi e che è nostro compito far prosperare e trasmettere, "motivi" che separano la storia dell'Occidente europeo dalla storia dell'Oriente: classicismo greco, imperialismo romano, profetismo ebraico, cristianesimo, cattolicesimo medievale, Rinascimento, Riforma, Controriforma, illuminismo. Uno spirito europeo si ripiegava sugli elementi costitutivi della propria sostanza, compilava un inventario dei proprî valori tradizionali. Ma l'assolutezza di tali valori da che cosa era provata? In analogia al modo con cui il calvinista trovava la prova della sua "elezione" nel successo della sua impresa, Troeltsch scorgeva la conferma dei "motivi" nella loro fecondità, nella loro provata capacità a dar vita a grandi organismi sociali, giuridici, economici. In ultima analisi era il successo dell'Europa che consacrava i suoi valori spirituali: consacrazione senza dubbio imponente, ma sempre storicamente relativa. L'assoluto restava al difuori della storia, nella trascendenza di Dio.
Per vincere lo storicismo uscendo dal terreno della storia, l'idealismo italiano ridusse il problema della storia a quello dell'attività storiografica nel quadro della filosofia dello spirito. Infatti per l'idealismo italiano una storia bella e compiuta (res gestae), preesistente allo spirito che la narra (historia rerum gestarum) è inconcepibile, è tutt'al più morta "natura", che si può spiegare meccanicamente, non intendere nella sua vita. Vivo è solo il presente e la storiografia pertanto non è mai storiografia del passato, ma del presente: cade così ogni determinismo storico in quanto lo spirito non ha più dinnanzi a sé una realtà storica oggettiva, ma soltanto dei problemi che costituiscono il suo compito storicamente concreto.
Per B. Croce, prima di accingersi all'azione conviene conoscere questi problemi, affrontarli in sede di conoscenza: la filosofia è la metodologia di questa conoscenza, in quanto offre quei criterî o concetti universali ed assoluti, alla luce dei quali va interpretata e vagliata, nella sua ricchezza e insieme unità, la vita. Invece il concetto che della libertà creatrice dello spirîto ha G. Gentile, non gli consente di ammettere una conoscenza in qualche modo diversa dall'azione: poiché per lui il conoscere non è antecedente al fare, ma è già fare, costruire, egli non fa distinzione tra storiografia e politica né ammette concetti superiori alla realtà che storicamente si viene formando.
Però, dalle sue origini vichiane e hegeliane, e in rapporto diretto con la sua dottrina dell'irrealtà del male, l'idealismo italiano insieme col senso della compatta "storicità" del tutto, conserva quello del valore positivo del processo storico, la certezza cioè del progressivo trionfo dello spirito su sé stesso, della vittoria del bene: "storicismo", che fu pertanto inesattamente interpretato come giustificazione del fatto compiuto, poiché in realtà è invito ad affrontare lo stato di fatto come problema da superare.
Se il sec. XIX, sotto la diretta esperienza della rivoluzione francese, preferì considerare l'uomo più come creatura che come creatore della storia, il sec. XX, già ai suoi inizî, avverti il peso di questo determinismo e reagi con irrazionalistico indeterminismo. Si celebrò la vita come slancio privo di finalità, come energia che esplode in forme impreviste (H. Bergson). Tornarono in onore gli anarchici, i negatori, i pessimisti (M. Stirner, S. Kierkegaard, E. Ibsen, A. Strindberg e soprattutto F. Nietzsche). Si cantò la bellezza dell'azione per l'azione e si prese a gustare, con decadente plutarchismo, l'eroe (F. Gundolf). Nel seno stesso del movimento socialista, si sollevarono i teorici della violenza, dell'azione diretta (G. Sorel). Alla reverenza verso il passato si sostituì un insofferente desiderio di novità. Il compiacimento per il "progresso", per i perfezionamenti tecnici, apparve in tutta la sua meschinità "borghese".
A questo "vago antistoricismo" recò un inatteso impulso l'esperienza della guerra mondiale. Come una catastrofe naturale essa ha distrutto la fede nella "naturale" bontà e saggezza della storia. L'Europa si avvide che le "mirabili sorti e progressive" non erano un dono gratuito, bensi che la civiltà è legata alle fedi e alle volontà che la promuovono e alimentano. Fattore decisivo nella storia apparve la forza delle nazioni, dei gruppi, degl'individui, l'energia fattiva e risoluta, la machiavellica "virtù".
La più evidente confutazione della dialettica materialistica è giunta dal paese dove essa è stata imposta come dottrina ufficiale: da quella Russia sovietica, dove il collettivismo è stato instaurato da un manipolo di audaci su un paese ancora precapitalistico, agrario-feudale. La vittoria del fascismo e del nazionalsocialismo è pure apparsa come una riprova che motore della storia è l'iniziativa politica di capi e di gruppi. Nel resto del mondo la crisi economica, imponendo la cosiddetta economia regolata e manovrata, ha creato pure una mentalità "politica".
D'altra parte la scarsa attendibilità delle notizie ufficiali, durante la guerra, e i metodi della propaganda hanno gettato il discredito sui documenti e le testimonianze, hanno cioè scosso la fede nella "verità storica". Si è giunti così a definire la storia un'arbitraria attribuzione di significato a ciò che significato non ha (Th. Lessing). Ma siffatto antistoricismo, come ogni tendenza estrema che offende un'esigenza fondamentale dello spirito, si rivela a sua volta fatuo: già infatti si avverte una diffusa aspirazione a salvare la serietà scientifica dagli attentati della "storia romanzata" e della pubblicistica, e a contenere i "torbidi flutti del soggettivismo".
Come ogni prova, anche la "crisi dello storicismo" non sarà stata invano. Avrà servito a sceverare la sterminata erudizione dalla storiografia, alla quale, come alla poesia e alla filosofia, pochissimi sono gli eletti. Avrà inoltre fatto toccar con mano, che una storiografia che non sia sorretta da una coscienza morale, non solo non ha diritto di sussistere, ma non può neppure praticamente sussistere. Coscienza morale però è volontà politica, se non vuol restare sterile "bellezza interiore", e a sua volta la volontà politica, se non vuol esser gesto precario, deve essere coscienza storica, coscienza del mondo che urge intorno a noi con i suoi vivi e i suoi morti, pur essi vivi nei loro atti e nelle loro parole. In quanto coscienza morale, attingerà in sé l'assoluto, senza cercare nel passato il criterio che non può dare e, soprattutto, senza chiedere al passato, a una teologia della storia, la garanzia del proprio successo. E poiché la lotta è possibile solo tra avversarî di eguale natura, essa riconoscerà nel mondo storico, che ha di fronte, niente altro che sé stessa, variamente atteggiata, concretamente limitata. Quelle utopie, illusioni, ideologie dei popoli, che la più recente storiografia si è dilettata a descrivere nella loro irrazionale fatuità, appariranno allora le forme d'un'unica volontà morale, che, attraverso fasi di generosa passione e di scoramento, mercé gli apostoli, i martiri, i condottieri, le aristocrazie, - aristocrazia essa medesima rispetto all'apoliticità delle masse intente ai proprî particolari interessi - fa appunto la storia, anzi è la storia: in questo senso soltanto, sacra.
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