Storicismo
di Eugenio Garin
Storicismo
sommario: 1. Storicismo e storicismi: ambiguità di un termine. 2. La nascita contestata di una parola. 3. Origini e significato dei dibattiti sullo storicismo e le sue crisi. 4. Dilthey e lo storicismo tedesco del Novecento. 5. Filosofia dei valori, filosofia della vita, irrazionalismo e relativismo. 6. Lo storicismo italiano fra Croce e Gramsci. 7. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.
1. Storicismo e storicismi: ambiguità di un termine
Di storicismo (dal tedesco Historismus, che B. Croce rese da prima con ‟istorismo" per indicare in modo specifico lo storicismo tedesco contemporaneo) la discussione filosofica di questo secolo ha fatto di continuo menzione. Anche se non sempre compare specificamente il termine tecnico, diffuso nell'uso corrente solo dopo il secondo decennio del secolo, temi e concetti caratteristici dello storicismo contemporaneo hanno pervaso i dibattiti teorici dalla fine dell'Ottocento a oggi. Di qui, tuttavia, una estrema difficoltà, se non addirittura l'impossibilità, di identificare lo storicismo con un preciso indirizzo, o con un nucleo dottrinale unitario chiaramente definibile. Emergente nell'eredità hegeliana, ha caratterizzato la polemica antihegeliana proprio a proposito della filosofia della storia; intrecciato all'evoluzione del materialismo storico (si è parlato, e si parla, di marxismo come storicismo), è stato contrapposto al marxismo; vivacemente criticato da Husserl in talune formulazioni di Dilthey, è senza dubbio indispensabile a bene intendere Husserl e la fenomenologia. Quanto a Heidegger, esplicito è il suo richiamo a Dilthey nella nota affermazione che ‟l'analisi della storicità del Dasein tende a mostrare che questo esistente non è ‛temporale' perché ‛sta nella storia', ma che esso viceversa esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere". Di tutta la sua indagine sul ‟luogo ontologico della storicità", è proprio Heidegger a dire esplicitamente che si propone soltanto ‟di far progredire e allargare leprospettive di Dilthey e di favorirne l'assimilazione da parte dell'attuale generazione che non le ha ancor fatte proprie" (v. Heidegger, 1927; tr. it., pp. 541-543).
Di più: in talune sue forme lo storicismo non solo ha inciso profondamente sulle scienze storiche e sociali, ma ha avuto risonanze nei campi più vari della cultura e della vita di questo secolo. Non solamente ‟filosofia dell'uomo come essere storico" e ‟critica ‛storica' della ragione", come è stato definito lo storicismo di Dilthey (v. Rossi, 1977, p. 82); non soltanto conquista della storicità del mondo umano, lo storicismo contemporaneo si è presentato, volta a volta, come metodo, concezione del mondo e ideologia, fino ad alimentare visioni della realtà e ideologie fra loro diverse e lontane tanto da apparire contrastanti, o in conflitto insanabile. Proprio in Italia Croce nel 1933, prendendo lo spunto dal ben noto libro di K. Heussi, Die Krisis des Historismus (1932), sottolineava l'antitesi fra un ‟falso istorismo (naturalistico ed estrinseco)" e ‟il vero istorismo". Falso istorismo egli definiva ‟la concezione oggettivistica o naturalistica della storia, come si formò col positivismo e il filologismo", per non dire del ‟più vecchio e rozzo e ingenuo materialismo storico"; ‟vero istorismo" chiamava invece la concezione ‛spiritualistica ed intrinseca della storia", nonché ‟l'unione e identificazione della filosofia con la storia". La crisi di cui parlava Heussi era, ai suoi occhi, il passaggio dell'egemonia dall'una all'altra visione, a suo parere attuatosi in Germania dopo la prima guerra mondiale, laddove in Italia si era realizzato ‟a cominciare dall'anno 1900", sostanzialmente compiendosi prima del 1915 (‟La Critica", 1933, XXXI, pp. 210-212). Ove si vede come il Croce connettesse si, ma in qualche modo contrapponendoli, Historismus tedesco e ‟storicismo" italiano, per ‟vero storicismo" intendendo alla fine solo la propria concezione della storicità del reale, le cui radici indicava in Hegel, anche se in realtà i nessi e gli scambi con lo storicismo tedesco, da Dilthey in poi, fossero ben più numerosi e profondi di quanto lasciava intendere. Comunque, poco tempo prima della pubblicazione dell'opera di Heussi, al Congresso filosofico di Oxford del 1930, in un intervento tradotto subito in tedesco da K. Vossier, aveva pronunciato la condanna più dura dell'antistoricismo come irrazionalismo teorico e conservatorismo politico cieco e reazionario, definendo lo storicismo come difesa della ragione e della libertà: ‟Lo storicismo - che vuol dire civiltà e cultura - è il valore che ci è stato confidato e che abbiamo il dovere di difendere, tener forte e ampliare; lo storicismo, nodo del passato con l'avvenire, garanzia di serietà del nuovo che sorge, blasfemato come la libertà, ma che, come la libertà, ha sempre ragione di chi gli si rivolge contro" (B. Croce, Antistoricismo, in ‟La Critica", 1930, XXVIII, p. 409). Ove, chiaramente, lo storicismo è soprattutto un'ideologia (‟è questa l'ultima religione che resti all'uomo"), senso del divenire storico (ripubblicando a parte il suo testo nel 1931, Croce sostituì il termine ‟storicismo" con ‟storicità"), ‛sentimento' di solidarietà con la vita e l'opera dell'umanità intera (‟chi apre il suo cuore al sentimento storico non è più solo, ma unito alla vita dell'universo, fratello e figlio e compagno degli spiriti che già operarono sulla terra e vivono nell'opera che compirono"). Storicismo, nell'appassionata pagina crociana, diventava rivolta contro il fascismo trionfante e il nazismo nascente, e si identificava con la fede nella fecondità dell'opera umana: per usare una terminologia molto indicativa, ‟religione" della libertà e ‟fede" nel progresso. Poco più di dieci anni dopo, nel 1942, G. Gentile, polemizzando con Croce in un testo non a caso intitolato Storicismo e storicismo, mentre riprendeva la tesi dei due storicismi, vero e falso, spiritualistico e naturalistico (‟libero il primo necessario il secondo; valore il primo, meccanismo il secondo"), attribuiva al Croce, per la sua tesi della filosofia come metodologia della storia, una professione di falso storicismo, naturalistico e meccanicistico (‟Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa", s. II, 1942, XI, pp. 1-7).
Come si vede, anche in una medesima area culturale, anzi nello stesso ambito teorico, la controversia nasce già sul modo di intendere un orientamento che, dietro l'unità di un termine, nasconde in realtà un'estrema ambiguità di sensi. Gli storicismi, insomma, sono molti, e molto diversi tra loro. Verrebbe fatto di ripetere per lo storicismo quello che P. Valéry diceva della storia: ‟non insegna nulla, perché contiene tutto, e offre esempi di tutto". Nel 1971 M. Mandelbaum, riproponendo preliminarmente la questione delle ‛varietà' dello storicismo, pur riaffermando la molteplicità e la divergenza delle forme in cui si presenta, riteneva possibile una sia pur generica definizione: ‟storicismo è la credenza che un modo adeguato di intendere la natura e il valore di un fenomeno consiste nel coglierne la posizione e la funzione in un processo di sviluppo" (v. Mandelbaum, 1971, p. 42). Come si vede, la definizione, per riuscire ampiamente comprensiva si condanna a un'estrema vaghezza, mentre Popper per ‟presentare lo storicismo come una filosofia ben ponderata e coerente" di cui mostrare, appunto, the poverty, fu costretto, lo confessa onestamente, a costruirsene uno lui stesso, adatto ai suoi scopi anche se inesistente, e con argomentazioni non mai proposte dagli storicisti medesimi" (v. Popper, 1957; tr. it., p. 19).
In realtà, come è stato giustamente affermato (v. Rossi, 1968, p. X), piuttosto che di una dottrina specifica, si dovrà parlare di una ‛famiglia' di dottrine, anche se, a un certo momento, si sono venute costruendo, a posteriori, fonti e linee unitane di svolgimento, nonché genealogie e classificazioni, che, tuttavia, invece di chiarire, hanno reso più complesse le questioni, aggiungendo alla eterogeneità degli sviluppi la complessità delle fonti. Ne sono nate spesso polemiche pretestuose e critiche sfocate proprio per l'impossibilità di ricondurre a unità di origini i molteplici ‛storicismi'. Mentre, infatti, gli storicisti tedeschi guardarono con Meinecke, oltre la ‛scuola storica', a Goethe, a Herder, e nel Settecento inglese a Shaftesbury e ai ‛platonici', gli storicisti italiani con Croce si richiamarono, oltre Hegel, a Kant e a Vico, e con Gramsci affrontarono il nodo del marxismo come storicismo. A loro volta non pochi avversari, invece di risolvere con rigore il problema preliminare della distinzione fra i vari storicismi, si sono lasciati dominare da preoccupazioni ideologiche piuttosto che storiche e teoriche. L'insistenza sulla miseria dello storicismo ha fatto appello non tanto a idee chiare e distinte - quale storicismo era esecrabile? - quanto al sentimento di ripugnanza che nel tempo ha sempre accompagnato posizioni e ‛ismi' poco ortodossi, e conturbanti, condannati con giudizi di valore a priori. Tali, specialmente, le dottrine che mettono in crisi le sicurezze; gli scetticismi e i relativismi, non a caso identificati spesso con lo storicismo. Contemporaneamente peraltro, simmetrica alla condanna, si è avuta una sorta di apologetica, di natura anch'essa ideologica. Basti, in proposito, richiamare il confronto fra Croce e Popper, e quanto Popper ebbe a scrivere nella prefazione all'edizione italiana del 1975 della ben nota Miseria dello storicismo (The poverty of historicism), lasciando ad altri, com'egli diceva, ‟il compito di analizzare" quanto fossero convergenti o divergenti il suo modo d'intendere lo storicismo e quello di Croce, col cui ‟liberalismo" - che per Croce si radicava proprio nello storicismo - si dichiarava ‟certamente d'accordo". La questione non era davvero irrilevante e solo di nomi; né, comunque, il ‛nome' - come invece Popper credeva - era poco importante (v. Popper, 1957; tr. it., p. 9). Chi non abbia sciolto prima certi nodi preliminari, non può né discutere di ‛storicismo' né condannarlo o esaltarlo. Per usare una sintesi efficace della questione, ‟il termine ‛storicismo' - così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni venti, dapprima in Germania, poi in Italia - è stato impiegato per indicare posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando quasi sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che gli ha impedito per lungo tempo di essere assunto a contrassegno di un'impostazione di pensiero o di diventare una designazione storiografica comunemente accettata" (v. Rossi, 1977, p. 9).
Ancora nel 1938 (ma in un'opera scritta fra il 1934 e il 1935) uno studioso come R. Aron, nel primo importante libro d'insieme che abbiamo sullo storicismo tedesco, lo identificava senz'altro col relativismo (‟la dottrina che proclama la relatività dei valori e delle filosofie così come quella della conoscenza storica"). Ripubblicando l'opera, nel 1964, insisteva ancora nella definizione dello storicismo come ‟filosofia del relativismo storico", definizione che non corrispondeva neppure al contenuto dell'opera a cui andava innanzi (v. Aron, 19694, pp. 9 e 289). Relativismo (‟relativisme intégral") traversato di irrazionalismo, per Aron; difesa della libertà e della ragione, per Croce; filosofia del fascismo, del nazismo e del comunismo, per Popper; ricondotto via via a Vico, a Kant e a Goethe, a Hegel e a Marx, lo storicismo contemporaneo impone a chi voglia parlarne il compito di precisarne, oltre ogni ambiguità, le dimensioni. Per questo si tenterà qui in primo luogo di isolare il significato e il valore peculiare assunto dal termine in questo secolo, allorché è venuto emergendo e imponendosi nel dibattito specifico fra fine dell'Ottocento e Novecento. Si lascerà invece da parte la questione dei presunti storicismi del passato, dei precorrimenti e delle ongini remote, fra Seicento e Settecento, ritrovate, o ricostruite a posteriori, o ipotizzate, proprio in conseguenza, e a conforto, delle discussioni contemporanee. Si cercherà, in secondo luogo, di mettere a fuoco l'estensione del dibattito sullo storicismo del Novecento partendo dalla cosiddetta ‛crisi' degli anni venti, cercando di chiarirne le forme e la scansione soprattutto fra le due guerre, nel differenziarsi delle posizioni da tempo a tempo, e da paese a paese. Si passerà in terzo luogo a illustrare analiticamente, soprattutto nelle sue radici diltheyane, la problematica dello storicismo tedesco, come quello che, nei suoi maggiori esponenti, ha più pesato nella discussione di questo secolo. Nel confronto con lo storicismo tedesco si dirà di quelle posizioni italiane, in particolare di Croce, che non solo si dichiararono storicistiche, ma entrarono in discussione con gli epigoni dello storicismo tedesco. Si concluderà, infine, cercando di profilare per un verso la disseminazione di taluni motivi, e per un altro verso il configurarsi di critiche sempre più vaste, anche se non sempre pertinenti.
2. La nascita contestata di una parola
Il termine tedesco Historismus (poi anche Historizismus) - in italiano ‛storicismo' (prevalso su ‛istorismo') da cui probabilmente l'inglese historicism in sostituzione di un precedente historism (Dwight E. Lee e Robert N. Beck, The meaning of historicism, in ‟American historical review", 1954, LIX, n. 1 , p. 568) - secondo la ben nota opera che Fr. Meinecke dedicò nel 1936 a Le origini dello storicismo (Die Entstehung des Historismus), sarebbe stato usato, ‟non in senso deteriore", per indicare lo storicismo filosofico (philosophische Historismus) del Vico da K. Werner (1821-1888) nel suo studio, uscito a Vienna nel 1879, Giambattista Vico als Philosoph und gelehrter Forscher. Con questa indicazione Meinecke non intendeva affatto fissare la data di nascita della parola Historismus, e tanto meno l'anno di quella che definiva ‟una delle maggiori rivoluzioni spirituali che il pensiero occidentale abbia prodotto", ossia, per usare le espressioni di Troeltsch, della tesi che ‟la vita spirituale non è più partecipazione a verità immutabili, di carattere ultraterreno e soprasensibile", bensì divenire e sviluppo continuo. Da Dilthey in poi le radici profonde di questa ‛rivoluzione' - ma l'uso del termine ‛rivoluzione' D. Cantimori (v., 1959, p. 11) contestò aspramente - vennero ricercate nel processo di secolarizzazione che aveva preso le mosse nell'età del Rinascimento e della Riforma. Meinecke, in realtà, intendeva datare il primo affermarsi consapevole della teoria contemporanea della storicità del mondo umano: il momento in cui la ragione, ‟perduto il suo carattere acronico", si era venuta rivelando ‟una forza storicamente mutevole sempre suscettibile di nuove individualizzazioni" (v. Meinecke, 1936; tr. it., p. XI). Appunto di questa ragione storica, e della sua fondazione critica, Meinecke cercava le origini, e la preistoria, fermo restando che solo alla fine dell'Ottocento uno storicismo come originale fondazione filosofica del divenire storico era venuto prendendo il posto di uno storicismo inteso negativamente come devota venerazione e conservazione del passato, e indebito ossequio verso la storia. In questa accezione negativa - osserva sempre Meinecke - l'aveva visto anche C. Menger nel 1884, pubblicando Die Irrtümer des Historismus in der deutschen Nationalökonomie, in cui aveva rimproverato alla ‟scuola storica degli economisti tedeschi" di avere inutiimente inserito ‟un sapere storico sul tronco di una disciplina avente carattere eminentemente teorico e pratico".
Esemplari, comunque, i riferimenti di Meinecke per sottolineare l'ambivalenza, e l'ambiguità, di un termine, destinata a pesare su tutta la letteratura intorno allo storicismo contemporaneo. Lo storicismo viene condannato come soggezione al passato, come difesa dei valori del passato (‟legittimare diceva Marx l'infamia di oggi con l'infamia di ieri"), non senza una sottintesa ‛filosofia della storia' a disegno, provvidenziale e necessitante. Lo storicismo viene esaltato come teoria della storicità del mondo umano, della temporalità di ciò che all'uomo appartiene, di un divenire autentico, non precostituito; lo storicismo si afferma filosoficamente come critica del fondamento e del significato del farsi progressivo dell'umanità.
Quest'antinomia Meinecke voleva mettere in evidenza, e, a un tempo, la novità della concezione storicistica. Poco importa, poi, se il termine sia risultato già presente in Feuerbach, per non dir d'altri; o se Historism (a somiglianza di Mystizism) compare in Novalis (E. Rothacker, Das Wort ‛Historismus', in ‟Zeitschrift für deutsche Wortforschung", e 1960, XVI, pp. 3-6). Non solo il ‛nome' era presente prima del testo di Werner, ma anche la ‛cosa', e proprio in quel Vico, a proposito del quale lo storico austriaco aveva potuto parlare non a torto di storicismo filosofico. Lo stesso Dilthey riprenderà alla lettera il tema vichiano a proposito del carattere della conoscenza storica in quanto conoscenza dell'universo umano da parte dell'uomo suo creatore, laddove il mondo della natura, per non essere sua opera, richiede altri strumenti di penetrazione e di interpretazione. Comunque il nodo della questione non sta nelle origini della riflessione filosofica sulla storia, o sul progresso della coscienza della storicità del mondo umano. Una cosa, infatti, è l'emergere e l'accentuarsi nella coscienza moderna del senso della temporalità come dimensione essenziale della realtà e dell'esperienza umana, e una cosa del tutto diversa è la storicizzazione di tutto il nostro sapere (‟die Historisierung unseres ganzen Wissens" come dice Troeltsch) e la formulazione di una teoria della conoscenza storica e dei suoi metodi, e cioè la costruzione di una ‛scienza' dei fondamenti e delle strutture di quello che Vico chiamò il ‟mondo delle nazioni".
In altri termini, al fiorire ottocentesco delle scienze storiche, al loro rigorizzarsi, a una eccezionale produzione storiografica, viene a corrispondere una riflessione filosofica in qualche modo simmetrica, che conserva come centro di gravità la storicità del mondo umano. In questo quadro emergono le filosofie storicistiche tedesche fra la fine dell'Ottocento e il Novecento, e, a esse legate e quasi contemporanee, quelle italiane, anche se destinate a differenziarsene per più aspetti. La ricerca delle ‛origini', dei ‛precursori', della preistoria dello storicismo contemporaneo, ha contribuito non poco a renderne equivoca la nozione attraverso indebite contaminazioni con le filosofie della storia fra illuminismo e romanticismo, da Herder a Hegel. La distanza fra la determinazione di leggi, o ritmi, che necessariamente scandiscono i processi storici, e la riflessione critica sui fondamenti e i processi della conoscenza storica, è analoga a quella che corre fra la metafisica classica e la critica kantiana.
Per questo non conviene seguire le ricostruzioni a posteriori di genealogie ingannevoli. Non a caso le discussioni su antistoricismo illuministico e storicismo romantico, o sui rapporti con la filosofia della storia di Hegel, o degli hegeliani e di Marx, si intensificano dopo che lo storicismo, anzi gli ‛storicismi', prendendo sempre più profondamente coscienza di sé, vanno cercando nelle proprie origini, vere o supposte, le ragioni delle proprie contraddizioni, dei propri limiti e di una crisi che doveva farsi sempre più evidente alla fine della guerra mondiale, negli anni venti. Sono gli anni, non a caso, in cui si ricostruiscono anche il ‛giovane Hegel' con l'aiuto di Dilthey e Nohl e il ‛giovane Marx', che possono entrare, interlocutori anch'essi, nel dibattito sullo storicismo.
Fu allora, negli anni venti, che nel dibattito che si accese sullo storicismo anche il termine si impose, in positivo oltre che in negativo: un termine, si badi, che Dilthey, scomparso nel 1911, e certamente non soltanto l'iniziatore, ma forse il maggiore esponente di quell'orientamento di pensiero, non usò. Lo adoperò, invece, contro di lui Husserl, e proprio nel 1911, come sinonimo di relativismo e di scetticismo, opponendogli ‟la filosofia come scienza rigorosa". Al variare delle posizioni filosofiche secondo le epoche, alla molteplicità delle ‛visioni del mondo' (Weltanschauungen) in cui si esprimono, e si coordinano, esperienze personali, o magari collettive come ‛cultura di una comunità', Husserl contrappone la pura visione teorica delle essenze: al temporale l'eterno, al pluralismo l'unità. ‟Nell'interesse del tempo non dovremmo abbandonare l'eternità [...]. Solo la scienza può decidere e la sua decisione reca il sigillo dell'eternità" (v. Husserl, 1910-1911, p. 337). Ove già si manifesta anche quella che divenne la nota più appassionata di tanto antistoricismo negli anni tragici delle guerre mondiali e delle rivoluzioni: la richiesta di valori metatemporali, di norme assolute sottratte al capriccio degli uomini, di una razionalità acronica e impersonale. Scriverà con immagine efficace L. Strauss nel 1953: ‟Noi chiamiamo ‛storicismo' quello che Platone chiamava la caverna popolata di ombre" (v. Strauss, 1953, p. 12).
La verità e il bene sono fuori, eterni nella luce. Nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Aron scriveva che lo storicismo era una dottrina pessimistica, rassegnata a un mutamento senza senso e senza scopo, che aveva sostituito al mito positivistico del progresso verso un futuro sempre migliore la sconsolata accettazione di un divenire senza speranza (v. Aron, 1938, p. 301). Non molto prima, nel 1936, Meinecke, muovendosi in una direzione esattamente opposta, aveva individuato i meriti maggiori dello storicismo proprio nell'aver distrutto ‟la fede nella immutabilità della natura umana", nell'aver dissipato l'idea di strutture immutabili, ‟di verità eterne, di valori assoluti"; nell'aver scosso l'ingenua certezza di un'esatta corrispondenza fra razionalità umana e razionalità di tutto l'universo (v. Meinecke, 1936; tr. it., p. XI). Laddove Aron non lui solo - parlava dello storicismo come di una superficiale mescolanza di scetticismo e di irrazionalismo (‟piuttosto che una filosofia, il surrogato di una filosofia"), Meinecke lo presentava come un modo diverso di concepire la ragione e la filosofia: una ragione non più specchio fedele di pretese eterne essenze, ma forza operante nella storia, e ‟sempre suscettibile di nuove individuazioni".
In una pagina limpidissima dell'Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, Dilthey aveva preso le distanze non solo dall'antica metafisica, ma dalla ragione e dallo spirito oggettivo di Hegel, per indicare il fondamento del ‛sapere storico' in una nuova razionalità. Hegel, scriveva, ‟ha costruito la comunità sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo, oggi, muovere dalla realtà della vita [...]. Hegel ha costruito metafisicamente; noi analizziamo il dato. E l'analisi attuale dell'esistenza umana suscita in tutti noi la coscienza della fragilità, della forza dell'impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è vita [...]. Noi cerchiamo di intendere (verstehen) e di rappresentare con adeguati concetti questa realtà [nella storia]. E in quanto lo spirito oggettivo viene così liberato dalla sua unilaterale fondazione nella ragione universale, esprimente l'essenza dello spirito del mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale, diventa possibile un nuovo concetto di esso, in cui il linguaggio, il costume, ogni specie di forma della vita e di stile di vita siano compresi al pari della famiglia, della società civile, dello Stato e del diritto" (v. Dilthey, 1927; tr. it., pp. 239-240).
Si tratta di un testo di grande rilievo, su cui giustamente Gadamer (v., 19652; tr. it., pp. 271-272) richiamava l'attenzione in Wahrheit und Methode. In esso, non solo si vede quanto distante da Hegel, almeno da un certo Hegel, fosse fin dalle origini lo storicismo tedesco contemporaneo. Colpisce, soprattutto, l'appello a un modo aperto, più ricco e dinamico, di concepire la ragione, attraverso il rifiuto, non già della ragione in genere, ma della ragione hegeliana nella sua ‛intollerante' compiutezza: un rifiuto in nome dell'intendere, della vita storica, della forza dell'irrazionale in essa presente (‟Macht des Irrationales in ihm"); in nome del problema, appunto, della storia, che Hegel annullava nella sua metafisica (‟für Hegel existierte dies Problem nicht"). In realtà non si trattava solo di una teoria della conoscenza storica. Partendo non più dallo ‛spirito del mondo' per arrivare allo ‛spirito assoluto', ma riconoscendo il dato delle manifestazioni della vita come vero fondamento del sapere storico, si trattava di arrivare a ‟un sapere universalmente valido" intorno a quel mondo storico, sociale e politico che è il mondo dell'uomo; si trattava di fondare una nuova filosofia, che avesse fatto tesoro anche degli insegnamenti - e dei fallimenti - del positivismo. Questo è appunto lo storicismo che con caratteri specifici venne delineandosi negli scritti di Dilthey fra il 1905 e il 1911: una delle grandi voci del Novecento, non a caso emergente nei medesimi anni in cui si affermano Bergson in Francia, Bradley in Inghilterra, Croce in Italia, Husserl in Germania, James negli Stati Uniti (P. Rossi, Introduzione a W. Dilthey, Critica della ragione storica, Torino 1954, p. 15).
3. Origini e significato dei dibattiti sullo storicismo e le sue crisi
La polemica sullo storicismo, tuttavia, non fiorì affatto intorno all'ultimo Dilthey, o al primo suo scontro con Husserl, bensì molto più tardi. Né è accidentale che solo nel 1923 prendesse l'avvio l'edizione delle Gesammelte Schriften di colui che resta uno dei massimi pensatori del Novecento, o che nel 1927 comparisse Sein und Zeit di Heidegger, che aiutò a penetrare la profondità teorica della meditazione diltheyana sulla storicità, anche se poi la radicalizzò fino a distruggerla. Come si è già accennato, è negli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, e la rivoluzione del 1917, che dello storicismo come concezione del mondo e come ideologia si cominciò a parlare molto, mentre si svelava anche tutta l'ambiguità e l'insidia del termine. Proprio perché storicismo sembrava significare rifiuto di valori assoluti e di ogni legge di natura, relativismo e anarchia, scetticismo e abbandono rassegnato al corso degli eventi, ritrovò attualità la seconda Inattuale che Nietzsche aveva pubblicato a Lipsia nel 1874, Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für dar Leben. E la polemica divampò in un'Europa in crisi e in una Germania che, come scrisse Meinecke l'8 novembre del 1918, nella prefazione alla quinta edizione di Weltbürgertum und Nationalstaat, era percossa da colpi spaventosi che le imponevano un radicale esame di coscienza. Non fu affatto, come proclamò in Italia nel 1920 contro Croce A. Tilgher (v., 1928, pp. 7-17), ‟il tramonto dello storicismo"; fu certo una crisi profonda di trasformazione e di ripensamento, che ne mostrava a un tempo le dimensioni e la rilevanza nella coscienza europea. Fu, anzi, questa crisi, particolarmente drammatica nella terra d'origine, che rese familiare, ‛alla moda', anche il termine fino a logorarlo svuotandolo di significato. Poco prima della morte, E. Troeltsch (v., 1922; tr. it., p. 157) cominciava il suo ben noto articolo Die Krisis des Historismus rilevando come, nell'uso corrente, ‟la parola ‛storicismo' fosse divenuta un'accusa", il segno della rivolta contro ‟il progressivo affievolirsi delle capacità umane", e anche ‟l'espressione di una generale rivolta contro la scienza da parte di una umanità delusa e sofferente, non più disposta a credere nella possibilità del progresso intellettuale". A questo significato negativo - la ‛malattia storica' combattuta da Nietzsche - Troeltsch ne contrapponeva uno tutto diverso: ‟la storicizzazione di ogni nostro sapere", quale si era venuta sviluppando nell'Ottocento. Si trattava, in effetti, di un altro modo di vedere la realtà, ‟immersa nel flusso del divenire, in un procedimento d'individualizzazione" sempre nuovo, in cui si incontrano la determinazione del passato e l'apertura sul futuro ignoto; in cui, ‟nella visione storica, presente e futuro devono potersi annodare" (ibid., p. 169). Sempre Troeltsch, in una pagina molto efficace, determina con chiarezza la prospettiva in cui si colloca una concezione generale del mondo umano. Nel divenire della storia Stato, diritto, morale e religione si fanno ‟comprensibili solo come componenti di tale divenire". Così, mentre ciò che è personale e casuale viene a radicarsi ‟in contesti più ampi, di carattere superindividuale, arricchendo il presente delle forze proprie del passato", nello stesso punto entrano in crisi ‟tutte le verità eterne", siano esse religiose e soprannaturali, e cioè autoritarie, siano invece ‟razionali e riferibili allo Stato, al diritto, alla società, alla religione e alla moralità". Appunto per questo, ‟lo storicismo rappresenta la prima penetrazione di ogni aspetto del mondo spirituale da parte del pensiero comparativo e storico-evolutivo, e dunque una forma di pensiero autenticamente moderno" (ibid. , p. 158). Non a caso sempre Troeltsch, nel saggio del 1907 su Das Wesen des modernen Geistes, aveva ricordato come ‟la storia abitui a un'infinita pluralità di modi di considerare e di ricostruire gli eventi, in cui a ogni soggetto il contesto si presenta diversamente, e dimostra il condizionamento storico di ogni pensiero che si ritiene puramente razionale, anche di quello più audace e originale". Non solo: fin dal 1901 , in quella conferenza che doveva ampliarsi nel noto saggio del 1 902 Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni), aveva mostrato come ‟la storia non conosce norme e valori come universali di fatto"; conosce solo ‟fenomeni concreti, individuati, sempre condizionati in un contesto, realtà di fatto". Nel 1922 afferma con vigore: ‟La vita spirituale non è più partecipazione a verità immutabili, di carattere ultraterreno e soprasensibile [...], e neppure è indagine delle leggi fissate dalla natura e costruzione, su di esse, della società e dello Stato. La vita spirituale, invece, è flusso vitale continuo e continuamente rinnovantesi, nel quale si formano sempre vortici aventi breve durata", che si rivelano come ‟prodotti formantisi e sempre di nuovo dissolventisi all'interno del flusso vitale stesso". La velocità del fiume non è omogenea, così come il flusso sembra avere diversi livelli, con un ‟contesto più profondo e più intimo, con le sue forze trainanti e le sue capacità di plasmare le singole forme", che, tuttavia ‟rimane avvolto nell'oscurità" (v. Troeltsch, Die Krisis..., 1922; tr. it., p. 159).
Comunque Troeltsch era ben chiaro nell'opporre al ‛cattivo storicismo' uno storicismo che la crisi non poteva toccare perché era l'essenza stessa dello spirito moderno: un diverso ‛modo di pensare' (Denkweise), quello che Dilthey aveva definito intendere genetico (‟genetisches Verständnis"), senso del genetico, della vera natura dello svolgimento (‟Sinn für das Genetische, für die wahre Natur der Entwicklung"). Era, insomma, la concezione del reale in cui meglio si esprime la coscienza del mondo moderno. Poco dopo, nel 1924, K. Mannheim, riallacciandosi esplicitamente al volume di Troeltsch (del 1922) Der Historismus und seine Probleme, nel saggio Historismus, uscito nell' ‟Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik" (1924, LII, pp. 1-60), non esitava a sostenere con forza che lo storicismo non era ‟ne una trovata, né una moda, e nemmeno una tendenza", ma ‟il concetto fondamentale su cui si basa il nostro approccio alla realtà socioculturale". E proseguiva, approfondendo: ‟Lo storicismo non è dunque qualcosa di ben congegnato, non è un programma; esso è il terreno divenuto organico, la Weltanschauung stessa formatasi dopo che l'immagine del mondo determinata dalla ragione del Medioevo si era decomposta e dopo che si era distrutta da sola l'immagine del mondo secolarizzata dall'illuminismo con il suo concetto fondamentale di una ragione al di sopra del tempo". Proseguendo nella sua analisi e riprendendo criticamente Troeltsch (ma avendo presente anche Croce, la cui Teoria e storia della storiografia era uscita in tedesco nel 1915, due anni prima che in italiano), Mannheim non esitava a presentare lo storicismo come la dimensione tipica della coscienza contemporanea: ‟un principio che con mano invisibile non solo organizza tutto il lavoro scientifico culturale ma penetra anche nella vita quotidiana". E avvertiva eloquentemente: ‟Lo storicismo è una forza intellettuale con cui volenti o nolenti bisogna fare i conti. Nello stesso modo in cui ad Atene, ai tempi di Socrate, era doveroso prendere posizione rispetto ai sofisti perché la loro posizione intellettuale corrispondeva alle condizioni socioculturali del mondo di allora e i loro problemi, i loro dubbi traevano origine dall'allargarsi dell'orizzonte spirituale del tempo, così è una questione di coscienza inevitabile dell'epoca presente il trovare una soluzione ai problemi dello storicismo" (v. Mannheim, 1964; tr. it., p. 101).
Centrale, agli occhi di Mannheim, il problema dell'esito relativistico, che egli rifiuta e considera proprio di uno storicismo spurio (‟la filosofia di uno storicismo spurio e inconseguente"). Troeltsch non era riuscito a oltrepassare l'inquietudine in cui lo lasciava la tensione verso valori assoluti (è l'obiezione che nel 1927 gli rivolgerà anche Croce). In realtà solo la conquista, contro una ragione statica, di una ragione dinamica, consente ‟quella svolta che porta lo storicismo fuori dal relativismo" facendogli scoprire il criterio del valore all'interno del flusso della storia. Mannheim riconosce che ‟non vi è un postulato valido per tutti i tempi", perché ‟l'assoluto si concretizza in modo diverso in ogni epoca". Eppure è ‟adempiendo alle esigenze del giorno" che si arriva a ‟trascendere il mero temporale, in quanto il movimento tutto ha una propria verità". È dalla storia, e nella storia, che emergono i criteri di valutazione che oltrepassano la storia: ‟superare la storia attraverso la storia, conquistare nella storia i valori per il suo superamento". Questo sembrava a Mannheim il significato profondo dello sforzo di Troeltsch (ibid., p. 150), a cui riconosceva il merito di essersi reso conto che l'accusa di relativismo mossa allo storicismo - e gli esiti relativistici di uno storicismo spurio - nascevano dall'incapacità di oltrepassare una veduta statica e naturalistica della ragione, e dall'impossibilità di ‛pensare' la storia. Allo Scheler, nel 1925, nel saggio Das Problem einer Soziologie des Wissens (in ‟Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik", 1924-1925, LIII, pp. 577-652) ricorda che, ‟per lo storicista, le essenze non esistono separate dal processo storico", mentre ‟la storia è la via, per lo storicista l'unica via d'accesso alle essenze che si sviluppano in essa" (ibid., p. 190).
Mannheim aveva presente la fenomenologia, e prendeva le distanze dalla sua sete d'eternità per cui la storia sarebbe come un mare di fiamme che circonda minaccioso le eterne essenze, ‟e vi è solo alta e bassa marea di fiamme, un avvicinarsi e allontanarsi dalle essenze", in ‟un ritmo inafferrabile", secondo il quale ‟certe epoche si avvicinano alle essenze, altre rimangono lontane". Nel 1911, nel famoso articolo di ‟Logos", Philosophie als strenge Wissenschaft, Husserl aveva a lungo polemizzato con lo storicismo di Dilthey (morto proprio in quell'anno). Per lo storicismo, rimproverava Husserl, ‟non ci sono specie fisse, né costruzione alcuna di specie del genere, basate su elementi organici fissi. Tutto ciò che appare fisso non è che un processo di sviluppo". E ancora: ‟Ogni formazione spirituale prendiamo l'espressione nel senso più lato possibile, in modo da poter abbracciare ogni specie di unità sociale, e, alla fine, quella dello stesso individuo, ma anche qualsiasi organismo culturale - ha la sua struttura interna, la sua tipologia, la mirabile ricchezza di forme interne ed esterne che nel flusso della vita dello spirito si sviluppano, si trasformano e, secondo il modo della stessa trasformazione, fanno nascere ancora differenze strutturali e tipiche" (v. Husserl, 1910-1911, p. 323). Contro questo storicismo relativistico, che gli sembrava parente prossimo di uno psicologismo naturalistico, e destinato a un esito scettico, Husserl faceva appello a una filosofia come scienza rigorosa, ‟la cui decisione porta il sigillo dell'eternità". Lukàcs, che ravviserà in Dilthey l'autore del maggiore sforzo per mediare spinte irrazionalistiche ed esigenze di filosofia scientifica (‟gettare un ponte nella teoria tra la dialettica hegeliana e l'irrazionalismo moderno"), ne condannerà l'opera, a cui pure doveva non poco, in termini non diversi. ‟La sua grande influenza - scriverà in La distruzione della ragione (Die Zerstörung der Vernunft) vasta quanto profonda, da un lato ha sviluppato ulteriormente il relativismo storico come quello psicologico, avvicinandolo alla scepsi nihilista, e dall'altro, sulla via dell'intuizionismo e dell'irrazionalismo sempre più spinto, ha contribuito a orientare la filosofia verso la confusa fantasticheria e l'arbitraria creazione di miti" (v. Lukács, 1954; tr. it., p. 445). Alle formule della polemica di Lukàcs, come già tanti anni prima alle osservazioni di Husserl, sfugge il significato del moto avviato da Dilthey per un arricchimento del concetto di ragione, in una nuova fondazione delle scienze dell'uomo e di una filosofia intesa come ‛scienza' della filosofia. D'altra parte proprio questo tentativo rispondente a un esigenza profonda della coscienza europea fra le due guerre contribuì per un verso alla eccezionale fortuna postuma di Dilthey, e per un altro all'acuirsi del dibattito sullo storicismo. Storicismo vero e falso, storicismo e sociologia, storicismo e fenomenologia ed esistenzialismo, relativismo e valori assoluti si tratta di una discussione che dilaga ovunque, mentre la crisi europea e l'approssimarsi della nuova guerra caricano di passione i termini del dialogo teorico. Come quando nel 1930 a Oxford Croce esclamava: ‟Per noi, filosofi e storici, lo storicismo - che vuol dire civiltà e cultura - è il valore che ci è stato confidato, e che abbiamo il dovere di difendere, tener forte e ampliare". Gli antistoricisti erano, a suo parere, ‟energumeni del nuovo o vacui restauratori dell'antico". Erano cioè quei fascisti e nazisti che, viceversa, Lukàcs condannerà come storicisti utilizzando, a volte, procedimenti simmetrici a quelli di Croce. Nella polemica sullo storicismo di quegli anni così drammatici fra le due guerre, si esprimevano, in effetti, lo scontro politico e la battaglia ideologica. Croce, nel 1930, indicava le radici ideologiche della lotta intorno allo storicismo, vero e falso: ‟Sono coteste, senza dubbio, e debbono essere, formule filosofiche, ma sotto di esse stanno fatti ben concreti e corpulenti, si muovono le dramatis personae della più moderna lotta politica, quali l'imperialismo e nazionalismo, il socialismo marxistico, lo statalismo che si decora del nome di ‛etico', la ripresa cattolica e clericale, e via enumerando. Fatti che preesistevano all'ultima grande guerra e in parte la produssero; ma che la guerra ha esasperato". E soggiungeva ‟L'antistoricismo odierno, dunque, par che non sia già un rovescio e un simbolo negativo di nuova sanità, ma impoverimento mentale, debolezza morale, eretismo, disperazione, nevrosi, e, insomma, un'infermità" (B. Croce, Antistoricismo, in ‟La Critica", 1930, XXVIII, pp. 406-407). Commentava Gramsci che, se lo storicismo era stato per Croce uno dei punti di forza, si trattava però di un ‛falso' storicismo. ‟Questo storicismo da moderati e da riformisti - osservava - non è per nulla una teoria scientifica, il ‛vero' storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, una ideologia nel senso deteriore. Infatti perché la ‛conservazione' deve essere proprio quella data ‛conservazione', quel dato elemento del passato? E perché si deve essere ‛irrazionalisti' e ‛antistoricisti' se non si conserva proprio quel determinato elemento?" (v. Gramsci, 1975, p. 1325).
Ambiguità e intreccio di motivi continuano così a traversare ancora la discussione sullo storicismo rendendo sempre più equivoco il termine, come risulta chiarissimo nel confronto fra Croce e Meinecke sulla fine degli anni trenta, allorché Meinecke, quasi a definire una volta per tutte la questione, tentò di mettere a fuoco le origini dello storicismo, storicizzandolo, e pubblicò nel 1936 Die Entstehung des Historismus, che integrò poi con i saggi del 1939 Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte (Senso storico e significato della storia). Il disegno storico di Meinecke è di per sé indicativo. Fermo restando che lo storicismo è ‟una delle maggiori rivoluzioni spirituali che il pensiero occidentale abbia prodotto", e che ‟il principio primo dello storicismo consiste nel sostituire a una considerazione generalizzante ed astrattiva delle forze storico-umane la considerazione del loro carattere individuale", le origini e il compito dello storicismo si vengono configurando come sforzo di ‟indebolire e rendere mobile" il giusnaturalismo ‟con la sua fede nella invariabilità dei supremi ideali umani e nella uguaglianza assoluta ed eterna della natura umana" (v. Meinecke, 1936; tr. it., p. 3). Il che significava vedere nello storicismo il rifiuto delle scienze naturali come modello unico del sapere, riprendendo la tematica di Vico. Da una ‛preistoria' che partiva da Shaftesbury, Leibniz e Vico, Meinecke approdava, oltre l'illuminismo, a Möser e a Herder, ma soprattutto a Goethe, collocato, come ‛pensatore storico', in una sorta di posizione privilegiata, guida perenne del pensiero e ben superiore a Hegel proprio perché, a differenza di Hegel, ‟non cercava di mettere [...] al guinzaglio la vita storica mediante un disegno provvidenziale indovinabile" (ibid., p. 498).
La reazione di Croce, consegnata nel 1938 a La storia come pensiero e come azione, poggia su una distinzione fondamentale accetta la condanna di una separazione, o trascendenza, del mondo dei valori; rifiuta ‟l'ammissione di quel che d'irrazionale è nella vita umana", almeno nella forma indicata da Meinecke. Scrive Croce in un testo notissimo: ‟ ‛Storicismo', nell'uso scientifico della parola, è l'affermazione che la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia. Correlativa a quest'affermazione è la negazione della teoria che considera la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo d'idee e di valori, e in un basso mondo che li riflette, o li ha riflessi finora, in modo fuggevole e imperfetto, e al quale converrà una buona volta imporli facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz'altro, una realtà razionale e perfetta" (v. Croce, 1938, p. 51). Fin qui l'accordo con Meinecke era pieno; ma la divergenza era altrettanto netta a proposito sia delle strutture categoriali (‟concetti puri e categorie, creatrici e giudicatrici perpetue di ogni storia", anche se immanenti al divenire), sia delle concessioni all'irrazionale. ‟Il Meinecke - rimproverava Croce - fa consistere lo storicismo nell'ammissione di quel che d'irrazionale è nella vita umana, nell'attenersi all'individuale senza per altro trascurare il tipico e il generale che vi si lega, e nel proiettare questa visione dell'individuale sullo sfondo della fede religiosa o del religioso mistero" (ibid., p. 52). Così, laddove Meinecke celebra Goethe, Croce si rifà, oltre Vico, soprattutto a Kant e a Hegel - all' ‛alto storicismo' di Hegel, perché ‟lo storicismo è un principio logico, ed è anzi la categoria stessa della logica, la logicità intesa in modo adeguato, quella dell'universale concreto" (ibid., p. 65). Lo scontro, lo sottolineò con finezza Meinecke nel 1939, era nel diverso modo d'intendere alcuni termini chiave: non a caso Rickert aveva distinto sette diversi significati di evoluzione. Lui, Meinecke, per individualità, per storia e storicismo intendeva cose diverse da Croce. Per lui l'individualità non era penetrabile dalla ragione logica, né, per questo, la storia scivolava in quella massa informe su cui ironizzava Croce. Principio della coscienza storica è proprio ‟il senso dell'individualità e dell'evoluzione della storia, il senso del perpetuo fluire e tramutarsi di tutti gli aspetti umani". Senza dubbio ‟questi aspetti sono tipi ricorrenti, e corrispondono a forme che dobbiamo giustamente universalizzare, ma ognuno di essi per proprio conto ha una caratteristica del tutto individuale e particolare". Né giova pretendere di immobilizzare in pretesi universali i ‟proteiformi mutamenti" della vita. D'altra parte, per tale rinunzia ‟la vita storica non si dissolve affatto in una massa informe. La storia è certo in perpetuo fluire, ma anche in perpetua produzione di forme e figure: di figure talora molto salde e in apparenza perciò appunto anche ben definibili, talora molto labili e simili a nubi" (v. Meinecke, 1939; tr. it., pp. 67, 72, 80).
Due modi, ancora, di intendere lo storicismo, due storicismi diversi, anche se poi, a guardare più da vicino il dichiarato hegelismo di Croce, e il suo assoluto razionalismo, non poche distanze paiono attenuarsi. Non a caso La storia è traversata tutta dal tema della vita, del valore della vita, sì che potrebbe quasi diventare motto dell'opera il grido di Goethe ‟Viva chi vita crea!" citato da Croce come espressione emblematica della propria teoria morale, che rifiuta con ironia la reazione antistoricistica condotta in nome di una ‟moralità fuori della storia", di pretesi valori e verità assolute. Con grande acume Troeltsch nel 1922 sottolineava il radicale distacco di Croce da Hegel, l'abbandono di una visione totalizzante per un ‟infinito progressismo" (‟sein Definitivismus in einen unendlichen Progressismus verwandelt"), l'influenza della discussione col positivismo e la psicologia, una singolare vicinanza alla teoria della struttura e alla filosofia della vita di Dilthey (‟man wird an Diltheys Strukturlehre und an die Lebensphilosophie erinnert"), con l'insistenza sul momento estetico, sull'intuizione come via d'accesso alla realtà nella sua individualità (v. Troeltsch, Der Historismus..., 1922, pp. 619-624). Troeltsch, insomma, metteva in evidenza come l'hegelismo di Croce presupponesse un ripensamento radicale di Hegel (‟das ist reichlich anders des Hegel"), un rifiuto della riduzione degli individui a marionette, uno spostamento del centro di gravità della ricerca dalla logica all'estetica ossia all'individuale (‟das Individuelle ist ihm Zentralproblem"), un significativo rifiuto della hegeliana filosofia della storia. Storicismo, anche per Croce, era venuto significando sempre di più fondazione della conoscenza storica, approfondimento critico ‟del relativismo, o piuttosto relazionismo storico", comprensione del significato dell'immanenza dei valori e del rapporto fra ‛pensiero e azione', condanna del falso storicismo. È falso storicismo, anzi antistoricismo, Croce chiamava ed esecrava, nel 1938, proprio quello che nel medesimo anno Aron considerava storicismo autentico ed esecrava ugualmente. Scriveva Croce che lo storicismo si oppone innanzitutto a ogni ‟accettazione o rassegnazione alla ‛necessità storica', cioè al fatalismo e all'inerzia, negazioni della storia che è attività, e della storiografia che è fonte di attività". Scriveva contemporaneamente Aron che ‟liberarsi dello storicismo significa innanzitutto sconfiggere il fatalismo" (v. Croce, 1938, p. 73; v. Aron, 1938, p. 300).
È stato detto, giustamente, che lo storicismo, tedesco e no, implica una filosofia dei valori, una teoria della conoscenza, e una concezione della politica. È stato anche sottolineato il peso periodizzante che per gli storici e gli storicisti tedeschi hanno avuto il dopo 1918 e il dopo 1945 (G. G. Iggers, The decline of classical national tradition in German historiography, in ‟History and theory", 1967, VI, pp. 383 e 393). In verità il dibattito sullo storicismo, sul suo significato, e sulla sua crisi, che si distese fra le due guerre, raggiunse il massimo della tensione, e della fortuna, alla fine degli anni trenta, quando il rifiuto di norme universalmente valide, il ripudio della teoria di una natura immutabile, la restituzione di ogni valore al contesto storico da cui emerge, sembrarono connettersi strettamente con il dramma di situazioni politiche reali, particolarmente in Germania e in Italia. In questo clima si determinarono anche gli sforzi maggiori per risalire alle origini, per definire le posizioni, per dissipare gli equivoci, per dialettizzare i contrasti. La discussione, il contrasto, ma anche le convergenze fra Meinecke e Croce, il tentativo di sintesi e di sistemazione storiografica di Aron il primo valido in Europa sono tutti segni di interesse, ma anche del concludersi di un periodo: una crisi e una trasformazione. Nel 1936 era uscito il volume dodicesimo delle opere complete di Dilthey; Dilthey era ormai un punto di riferimento obbligato per un serio discorso sulla crisi della filosofia. Come osserverà Löwith, Dilthey, traendo le conseguenze del suo pensiero essenzialmente storico, aveva dissolto il ‛tipo uomo', e distrutto la metafisica delle sostanze. Heidegger aveva, in fondo, radicalizzato lo storicismo di Dilthey, e in Sein und Zeit citava, consentendo, il testo di una lettera a Dilthey in cui Yorck von Wartenburg affermava che anche ‟l'uomo moderno, cioè l'uomo post-rinascimentale, è maturo per il seppellimento" (v. Heidegger, 1927; tr. it., p. 571; v. Löwith, Zur Kritik..., 1960; tr. it., pp. 242-243). Nel 1944, M. H. Hodges, pubblicando a Londra, auspice Mannheim, un volume su Dilthey (Wilhelm Dilthey. An introduction), lo concludeva appunto sui temi della ‛crisi della filosofia', sulla teoria della Weltanschauung, sulla posizione centrale e determinante dello storicismo di Dilthey: ‟una filosofia che distrugge le pretese della ragione speculativa e accentua il carattere umano, tutto umano, delle nostre più profonde convinzioni, delle nostre più illuminanti intuizioni" (v. Hodges, 1944, p. 107). Per questo non solo le aporie dello storicismo contemporaneo, ma le linee di tutto un modo nuovo di intendere la filosofia affondano le loro radici nel problema posto da Dilthey. Lì l'interpretazione di Hegel e del significato del positivismo, lì il neokantismo, la psicologia, le scienze storico-sociali; lì la filosofia della vita e delle concezioni del mondo. Dava sempre l'impressione - diceva Scheler di vedere infinite più cose di quante non riuscisse ad esprimere (v. Scheler, 1955; tr. it., p. 129). Solo riesaminandone alcuni temi si può comprendere bene lo storicismo contemporaneo in genere, nel suo differenziarsi dalla problematica ottocentesca sulla storia fino agli esiti odierni nell'ermeneutica.
4. Dilthey e lo storicismo tedesco del Novecento
Sul cadere degli anni trenta Aron scrisse che allora, a quasi un quarto di secolo dalla morte, Dilthey era ormai un filosofo ‛alla moda', e non accidentalmente, o a causa della recente pubblicazione di gran parte delle opere, compresi alcuni importantissimi inediti (v. Aron, 19694, p. 23). La ragione profonda di un successo così grande, anche se postumo, si doveva al fatto che nelle sue pagine si trovavano elementi con cui tutte le posizioni vitali del pensiero contemporaneo avevano dei debiti, o dovevano fare i conti. Interlocutore di Husserl come di Heidegger, mediatamente, per canali diversi, la sua presenza era destinata a farsi sempre più diffusa, e non solo per i suoi scritti più organici e più noti, ma per le sue ricerche storiche così ricche di significato teorico, per la sua concezione della storicità del filosofare, per la sua dottrina così spesso fraintesa e banalizzata - delle Weltanschauungen: per la sua ‟filosofia della filosofia".
L'immagine del ‛giovane Hegel' consegnata alla memoria famosa Die Jugendgeschichte Hegels (1905-1906), oggi completata coi frammenti postumi, ha avuto effetti decisivi, e non solo nella storiografia hegeliana, ma più in generale, sul piano del metodo, aprendo vie nuove (la Entwicklungsgeschichte) per affrontare, ora la genesi del sistema di Aristotele, domani il ‛giovane Marx'. La diversa immagine di Hegel, della formazione e della sostanza del suo pensiero, che si venne affermando fra le due guerre e oltre, è dovuta all'influenza di Dilthey (e dei testi ‛teologici' pubblicati nel 1907 dal suo allievo H. Nohl). Perfino un certo modo di prospettare la formazione del giovane Marx, e il suo rapporto con Hegel ‟uomo del futuro", andranno collegati con le impostazioni storiografiche di Dilthey. Né la valutazione di talune inflessioni del più recente ‛storicismo' hegeliano può prescindere da quella che Lukàcs (v., 1948; tr. it., p. 9) chiamò una ‟svolta nella concezione tedesca di Hegel", e che attribuì senz'altro a Dilthey e alla sua ‟grande popolarità". Lukàcs condannò in modo indiscriminato quello che considerò un ‟rinnovamento del romanticismo", una ‟interpretazione mistico-irrazionalistica" di Hegel che andava ‟incontro alle tendenze della reazione imperialistica", ma non cercò tutte le matrici delle letture ‛storicistiche' di Hegel, anche di quelle in apparenza più lontane da Dilthey. Se l'avesse fatto, si sarebbe meglio reso conto non solo che la fortuna di Dilthey era stata anche più grande di quanto pensava, ma che molti dei suoi giudizi andavano corretti.
L'ultimo periodo dell'attività diltheyana, non a caso collocato nel primo decennio del secolo, lo vede impegnato in una serie di temi rimasti centrali in tutta la discussione teorica del Novecento. Testi come Das Wesen der Philosophie del 1907, che quasi simbolicamente apre il volume Systematische Philosophie della serie teubneriana (degna tutta di attenta analisi), e Die Kultur der Gegenwart sembrano una sorta di preludio che accenna già tutti i motivi salienti di un secolo. Quella ‟critica della ragione storica" da cui Dilthey era partito fra kantismo e positivismo per dare un adeguato fondamento teorico alle emergenti scienze umane, in parallelo alla già fondata scienza della natura, lo porta, attraverso l'analisi della struttura del mondo umano, a riconoscerne l'essenziale storicità. Come è stato già detto, con lui ‟la critica della ragione storica sfocia [...] in una critica ‛storica' della ragione, vale a dire in una filosofia dell'uomo come essere storico" (v. Rossi, 1977, p. 82).
Autore non sistematico, che consegnò spesso a pagine non compiute, o non pubblicate, le sue più meditate conclusioni, Dilthey condensò tuttavia in limpide proposizioni i risultati di un travagliato processo tutto rivolto a intendere la storicità fondamentale dell'uomo (‟wir sind zuerst geschichtliche Wezen"): una storicità che può essere colta solo attraverso la conoscenza storica, e a cui è inadeguata ogni indagine meramente psicologica. ‟Il mondo storico - osserva (v. Dilthey, 1927; tr. it., pp. 372-373) - esiste sempre, e l'individuo non lo considera soltanto dall'esterno, ma è intrecciato in esso; né è possibile scindere queste relazioni [...]. Noi siamo esseri storici prima di considerare la storia. Appunto per questo ‟l'uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l'introspezione. Noi lo cerchiamo nella storia [...]".
In uno degli scritti più tardi (del 1910), rimasto frammentario e, a volte, quasi indecifrabile, ma tra i suoi più illuminanti, il Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, Dilthey ha esposto (con un richiamo quasi letterale a Vico) come intendesse la storicità (e la socialità) dell'uomo, e quindi il fondamento della conoscenza storica. Si tratta di una specie di summa dello storicismo diltheyano, indispensabile per una sua esatta definizione. ‟Io ho esperienza immediata (ich erlebe) - scrive - delle mie situazioni e sono intrecciato nelle azioni reciproche della società come punto d'incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali sono sorti dalla stessa natura umana che io vivo in me e intendo negli altri (ich in mir erlebe, an anderen verstehe). La lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti sono sorti in esso io sono, fino alla profondità non più penetrabile del mio io, un essere storico (ein historisches Wesen). In tal modo si presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo della storia la prima condizione per la possibilità della conoscenza storica sta nel fatto che io stesso sono un essere storico, e che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia (der, welcher die Geschichte erforscht, derselbe ist, der die Geschichte macht). Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente validi". Come si vede, Vico e Kant sono presenti entrambi a Dilthey, che continua ‟I principi della conoscenza storica non si lasciano elevare a principi astratti [...], poiché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono riposare su rapporti fondati nell'Erleben. Nell'Erleben vi è la totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell'intendere e qui è dato il principio della reciproca affinità tra gli individui" (ibid., p. 373).
Il circolo si chiude nel nesso fra Leben e Verstehen. I termini si scandiscono, si articolano, si ramificano storicità, temporalità, società, sistemi di cultura. ‟L'uomo singolo, nella sua esistenza individuale riposante su se stessa, è un essere storico: è determinato dalla sua posizione nella linea del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazione nel cooperare dei sistemi di cultura e delle comunità. Lo storico deve quindi intendere l'intera vita degli individui, quale si manifesta in un determinato tempo e in un determinato luogo. Questa è l'intera connessione che va dagli individui, in quanto orientati allo sviluppo della propria esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, all'umanità infine, e che costituisce la natura della società e della storia" (ibid., p. 220). La storia è storia della vita perché la vita è storia, e la storicità è la struttura dell'umanità perché la temporalità è la dimensione propria dell'uomo. La vita ‟è, per la sua materia, identica con la storia: in ogni punto della storia c è la vita, e la storia riposa sulla vita di ogni specie, nei suoi più differenti rapporti. La storia è soltanto la vita considerata dal punto di vista dell'intera umanità" (ibid., p. 364). La vita e l'intendimento della vita; la comprensione della vita a livelli sempre più profondi; il nesso vita-storia, ossia la storia come d e c i f r a z i o n e della vita attraverso la comprensione delle sue espressioni questo il nodo centrale dell'ultimo Dilthey, del resto in singolare consonanza con la situazione culturale di tutta l'Europa. ‟La radice ultima dell'intuizione del mondo è la vita", ripete; ma la vita si comprende, non nell'attimo, bensì ripercorrendone i processi, poiché essa è tempo, è relazione, è unità molteplice. ‟Diffusa sulla terra in innumerevoli corsi di vita particolari; rivissuta in ogni individuo; saldamente assicurata nella risonanza del ricordo (in quanto mero attimo del presente si sottrae, infatti, all'osservazione); afferrabile più compiutamente in tutta la sua profondità, così come si è oggettivata nelle sue manifestazioni, da parte dell'intendere e dell'interpretazione che non in qualsiasi percezione interiore [...], la vita ci è presente nel nostro sapere in innumerevoli forme, e mostra tuttavia ovunque gli stessi tratti comuni" (v. Dilthey, 1931; tr. it., p. 217). Lo scopo della lunga ricerca pare a Dilthey ormai raggiunto: il mondo storico è l'espressione della vita; nella conoscenza storica si coglie la vita nella sua diversità e profondità; si giunge a ‟comprendere la vita partendo dalla vita stessa"; se ne legge il senso segreto tutto spiegato nelle produzioni quali si manifestano nella storia; ‟penetrare sempre più profondamente il mondo storico" significa, infatti, ‟percepire, per dir così, la sua anima". La coscienza storica, l'accesso alla vita attraverso la decifrazione del geroglifico della storia è, a un tempo, lo scopo e la sostanza della filosofia, perché ‟la filosofia deve cercare non già nel mondo ma nell'uomo la connessione interna delle proprie conoscenze" (ibid.).
Alle sue conclusioni Dilthey non giunse d'un tratto. Nel 1911, in una prefazione incompiuta rimasta a lungo inedita, ricordò come all'inizio della sua formazione ‟il monismo filosofico di Hegel era stato sostituito dalle scienze della natura". Psicologi, biologi e antropologi, Müller e Helmholtz da un lato, e dall'altro il positivismo di Comte e di Mill, si erano incontrati in lui con l'imponente lavoro della scuola storica e con la riflessione metodologica di Ranke e di Droysen. E se la metodologia di questi ultimi gli sembrava inadeguata, altrettanto insoddisfacente gli sembrava Mill (‟è dogmatico perché gli manca una formazione storica", annotava sul suo esemplare del Sistema di logica), anche se si rendeva ben conto delle istanze valide del positivismo, a molte delle cui esigenze confesserà di essersi sentito vicino. Purtroppo ‟il mondo storico non trovava posto nel mondo delle scienze", ed era quello il mondo che lo interessava. ‟Io ero cresciuto confessa in una insaziabile aspirazione di cogliere nel mondo storico l'espressione di questa stessa vita nella sua diversità e profondità [...], né i concetti della filosofia naturalistico-scientifica potevano soddisfare questo mondo che si muoveva in me". Ma ancor meno lo soddisfacevano metafisici e teologi ‟attraverso la violenta frattura del pensiero dalla conoscenza sensibile" (v. Dilthey, 1924; tr. it., pp. 134-135). Sembrava riproporsi così, in qualche modo, nei confronti delle ricerche storiche la situazione che Kant aveva affrontato quando aveva criticamente fondato le scienze della natura, avendo innanzi il lavoro dei fisici da Galileo a Newton. Non aveva dubbi sulla validità dell'impostazione kantiana del problema della filosofia; si trattava solo di completare il programma di Kant chiarendo come sia possibile per l'esperienza storica divenire scienza. ‟In esplicita analogia con l'impostazione kantiana come osserva Gadamer (v., 19652; tr. it., p. 263) egli poneva il problema delle categorie del mondo storico, cioè delle categorie che reggono la costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito". Senonché, e questo va sottolineato, egli tenne sempre presente che l'esperienza storica significa qualcosa di sostanzialmente diverso dall'esperienza nel campo delle conoscenze della natura. Scrive nel 1883, nell'Einleitung ‟I fatti della società ci sono comprensibili dall'interno, possiamo riprodurli fino a un certo punto in noi [...], e accompagnamo la nostra rappresentazione del mondo storico con amore e odio, gioia appassionata e tutto il giuoco dei nostri affetti. La natura invece è muta per noi. Solo la forza della nostra immaginazione diffonde su di essa un barlume di vita e di interiorità [...]. La natura ci è estranea. Per noi infatti essa è solo qualcosa di esterno, non di interno. Il nostro mondo è la società. In questa noi viviamo il giuoco delle azioni reciproche con ogni forza di tutto il nostro essere, perché percepiamo in noi stessi, dall'interno, in vivissima inquietudine, gli stati e le forze di cui si compone il suo sistema" (v. Dilthey, 1923; tr. it., pp. 55-56).
Nell'Antrittsrede in der Akademie der Wissenschaften del 1887, in una specie di professione di fede, dichiara: ‟Mentre l'intera natura è soltanto fenomeno e rivestimento di qualcosa di inafferrabile, è nell'individuo soltanto che noi sperimentiamo la realtà nel senso pieno; noi lo vediamo dall'interno e non solo lo vediamo ma lo viviamo. Io volevo studiare come elementi culturali del tutto dispersi si formino, in un tutto, nell'officina di un tale significativo spirito singolo, un tutto che a sua volta reagisce nella vita. Ho cominciato così a trovare un fondamento (Grundlegung) delle scienze particolari dell'uomo, della società e della storia. Io cerco per esso un fondamento (Fundament) e una connessione (Zusammenhang), indipendentemente dalla metafisica, nell'esperienza" (v. Dilthey, 1924; tr. it., p. 130).
Di Kant conservava il senso dell'interiorità come temporalità, volontà, responsabilità. Nell'Einleitung in die Geisteswissenschaften del 1883, in realtà l'opera di tutta la sua vita, osservava che ‟nella profondità e nella totalità dell'autocoscienza umana [...] l'uomo trova una sovranità del volere, una responsabilità degli atti, una capacità di sottomettere tutto al pensiero e di opporsi a tutto entro la libertà della sua persona, con cui appunto viene a scindersi da tutta la natura. In questa natura egli si trova realmente come un imperium in imperio, per usare un'espressione di Spinoza" (v. Dilthey, 1923; tr. it., p. 18). D'altra parte, dalla nuova psicologia e dalle istanze positivistiche Dilthey traeva anche il senso dell'uomo come unità psicofisica, nella connessione complessiva della natura. Nell'Auft bau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, nella preoccupazione di meglio chiarire il rapporto tra natura e storia, pur nella distinzione fondamentale della loro diversa costruzione, osserva che ‟la natura è il substrato delle scienze dello spirito. La natura non è solo il palcoscenico della storia; i processi fisici, la necessità in essi insita e gli effetti che ne derivano, formano il substrato di tutti i rapporti, del fare e del subire, dell'azione e della reazione nel mondo storico, e il mondo fisico costituisce anche il materiale per l'intero dominio in cui lo spirito ha espresso i suoi scopi, i suoi valori, la sua essenza" (v. Dilthey, 1927; tr. 1t., p. 197).
È tuttavia nel mondo storico, e solo nel mondo storico, che oggetto e soggetto del sapere coincidono; nell'Erlebnis, nell'esperienza vissuta, ‟l'uomo ha un'esperienza immediata della vita spirituale nella propria interiorità, senza mediazione concettuale" (v. Rossi, 19712, p. 25). Il mondo umano, che è il mondo storico, è una trama di rapporti interumani, che costituiscono la stessa personalità dell'individuo. La struttura dell'uomo è la sua condizione storica, distesa in un certo tempo e collocata in un certo ambiente; per questo la comprensione storica non può avvenire attraverso l'introspezione, ma solo, oltre l'Erlebnis e l'intuizione, mediante un continuo ‟riferimento retrospettivo" (Rückbeziehung). La conoscenza storica è la forma più vera di conoscenza di sé (v. Gadamer, 19652, p. 279). Solo se l'individuo fosse un mondo chiuso e completo, l'introspezione potrebbe essere sufficiente; ma proprio perché è una trama di espressioni e di azioni, l'uomo si conosce solo nella storia (‟der Mensch erkennt sich nur in der Geschichte"), e ‟se vi fosse una scienza dell'uomo, questa sarebbe un'antropologia capace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro connessione strutturale" (v. Dilthey, 1927; tr. it., p. 374). Vita, comprensione; Erleben-Verstehen; ‟il Verstehen è un ritrovamento dell'io nel tu; lo spirito si ritrova in gradi sempre superiori di connessione; e questa identità dello spirito nell'io, nel tu, in ogni soggetto di una comunità, in ogni sistema di cultura, e infine nella totalità dello spirito e nella storia universale, rende possibile la collaborazione delle diverse operazioni nelle scienze dello spirito" (ibid., pp. 293-294). È la vita che comprende la vita, ma solo nella dimensione storica, nell'ambito della memoria, fra i resti di cose passate, di manifestazioni racchiuse in fatti, parole, immagini di uomini che non sono più, interpretando con adeguate ermeneutiche le espressioni, completando i resti, riconducendo gli eventi dal loro isolamento alla connessione in cui sono sorti (ibid., pp. 374-375).
Il processo di compenetrazione fra vita e comprensione della vita, fra vita e coscienza storica, culmina nella costruzione delle concezioni del mondo (le Weltanschauungen) e si conclude nella ‟filosofia della filosofia". L'intuizione del mondo, che scaturisce dalla totalità della vita, cerca di esprimere, in forme diverse secondo i momenti storici diversi, ‟il senso e il significato della totalità". Dalla riflessione sulla vita, dalle esperienze molteplici sulla vita, emerge il volto della vita ‟volto contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e arbitrio; volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell'insieme" (v. Dilthey, 1931; tr. it., p. 220). Di qui i tentativi di soluzione del mistero della vita, attraverso la formazione di intuizioni del mondo che trasfigurano in una visione globale quella che è soltanto la chiarezza di un aspetto particolare. Quello che è ‛un prodotto della storia', parziale e determinato, tende ad assolutizzarsi. D'altra parte, le intuizioni del mondo, nell'arte, nella religione, nella filosofia, ‟non sono prodotti del pensiero, non nascono dalla mera volontà di conoscenza [...]. Scaturiscono dall'atteggiamento di vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della nostra totalità psichica". Sono le tappe del processo della vita nella conoscenza e nella volontà; sono molteplici e legate ai tempi, a contesti storici definiti. ‟A quel modo che la terra è ricoperta di innumerevoli forme viventi, tra le quali ha luogo una lotta continua fra la sopravvivenza e lo spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di intuizione del mondo, che si contendono fra loro il potere" (ibid., pp. 224-226). Così la molteplicità dei sistemi filosofici (e, non diversamente, delle intuizioni religiose e dei principi etici) si presenta illimitata e caotica, mentre solo un'adeguata storicizzazione consente di ‟eliminare l'aspra contraddizione tra le pretese di validità universale e l'anarchia storica dei molti sistemi" (ibid., p. 217). La filosofia della filosofia, ossia la storiografia come autocoscienza della filosofia, ‟distrugge [...] la fede nella validità universale di qualsiasi filosofia". Infatti, ‟ogni soluzione dei problemi filosofici appartiene, considerata storicamente, a un presente e a una situazione nel presente". È vero che l'uomo, ‟questa creatura del tempo", cerca la sicurezza adoperandosi per creare fuori del tempo qualcosa di durevole, anche se con ciò non fa che accentuare l'eterna contraddizione fra l'operare umano e la coscienza storica una contraddizione che è ‟la sofferenza segreta della filosofia contemporanea", in cui la creazione del filosofo si incontra con la coscienza storica", che dimostra come ‛l'essenza della filosofia si realizzi attraverso una molteplicità di manifestazioni". Afferma Dilthey che, ‟di fronte allo sguardo che abbraccia la terra e tutto il passato, scompare la validità assoluta di qualsiasi singola forma di vita, costituzione, religione e filosofia" (v. Dilthey, 1924; tr. it., p. 419; v. Dilthey, 1931; tr. it., pp. 216-217).
In tal modo Dilthey concludeva, con la teoria delle Weltanschauungen e della ‟filosofia della filosofia", il suo sforzo di una storicizzazione integrale del mondo umano che non intendeva cadere nè nelle ‛filosofie della storia' alla Hegel, nè nella ‛sociologia' alla Comte, delle quali, fino dall'Einleitung del 1883, aveva messo in evidenza l'assolutizzazione ‛metafisica'. Alla realtà storica con la sua ‟immensa varietà di valori particolari e di interazioni" gli Hegel come i Comte sostituiscono ‛entità metafisiche' come la Ragione universale e lo Spirito del mondo, o, senza cambiar nulla, la ‛Società' stessa, ‟affondando tutti i valori della vita in una unità metafisica che si dispiega nella storia" (v. Dilthey, 1923; tr. it., pp. 134-135). D'altra parte, però, neppure gli sfuggivano le contraddizioni dello storicismo. A due riprese, nel novembre del 1903 nel discorso in occasione del suo settantesimo compleanno, e nel 1911 nella prefazione abbozzata per i suoi saggi, Dilthey mise lucidamente in evidenza le tensioni, e le difficoltà, della sua ricerca. Sottolineò, innanzitutto, l'impossibilità, per il pensiero, di risalire al di là della vita (‟se vi fosse, al di là della vita che si svolge nel passato, presente, futuro, qualcosa di atemporale, dovrebbe esistere un antecedente della vita [...]; e questo antecedente del quale non abbiamo esperienza vissuta, sarebbe soltanto il regno delle ombre"). D'altra parte - soggiungeva in un'originale rilettura dello spirito oggettivo hegeliano - ‟la vita non ci è data immediatamente, bensì spiegata attraverso l'oggettivazione del pensiero", le cui forme e il cui ‛logismo' (das Denken und sein Logismus) possono essere analizzati per una fondazione (um Fundierung) teorica del sapere. Ancora ‟La civiltà (Kultur) è un intreccio di sistemi di fini. Ciascuno di essi, come la lingua, il diritto, il mito e la religiosità, la poesia, la filosofia, possiede una legge interiore (innere Gesetzlichkeit) che condiziona la sua struttura, che a sua volta determina il suo sviluppo". Di qui la necessità di indagare la natura e le condizioni (die Natur und die Bedingung) della coscienza storica, di attuare ‟una critica della ragione storica" che però sembra sboccare in una contraddizione insuperabile. ‟La finitezza di ogni fenomeno storico, sia esso una religione o un sistema filosofico, la relatività, quindi, dei diversi modi di interpretazione, da parte dell'uomo, dei nessi tra le cose, è l'ultima parola della concezione storica del mondo, tutto fluendo nel processo e nulla permanendo. Di contro si levano l'esigenza del pensiero e l'aspirazione della filosofia verso una conoscenza universalmente valida". Ne scaturisce una tensione drammatica fra la superiorità interpretativa dello storicismo rispetto a tutto il pensiero filosofico-scientifico del passato, e il rischio di un relativismo anarchico ‟La concezione storica del mondo (die geschichtliche Weltanschauung) è la liberatrice dello spirito umano dalle ultime catene che la scienza della natura e la filosofia non hanno ancora rotto ma dove sono i mezzi per superare l'anarchia delle convinzioni che minaccia di irrompere?" (v. Dilthey, 1924; tr. it., pp. 131-137).
Superare l'antinomia: questo era il compito che Dilthey dichiarava di lasciare ai continuatori. Purtroppo seguaci e avversari si limitarono spesso a frantumare in vedute e critiche unilaterali quella tensione, dolorosa ma vitale, che Dilthey era riuscito a salvare nella sua opera così lunga e varia, in cui trovano un'eco tutti i problemi suscitati dall'irrompere del tempo come elemento strutturale della realtà. Per questo, d'altra parte, Dilthey si rivela sempre di più un termine di riferimento indispensabile per ogni analisi critica e ogni valutazione delle tendenze storicistiche contemporanee, e non solo storicistiche dal dialogo con P. Yorck von Wartenburg a Husserl e Heidegger, fino all'ermeneutica di Gadamer, la presenza di Dilthey è determinante.
5. Filosofia dei valori, filosofia della vita, irrazionalismo e relativismo
Dilthey riconosceva a Hegel il merito di avere sottolineato l'esigenza di una comprensione storica del mondo dello spirito, e di avere sostenuto l'idea ‟grande e gravida di avvenire" dello sviluppo. Gli rimproverava la contraddizione fra coscienza storica della relatività del reale e pretesa metafisica di una ‛conclusione' della storia: ‟come può sussistere una pretesa del genere di fronte all'incommensurabilità dei mondi, alla multiformità degli sviluppi e all'avvenire senza limiti, che si nasconde in questo universo che procede verso creazioni sempre nuove?" (v. Dilthey, 1925, p. 219; v. Löwith, 1966, p. 193). Il rifiuto di ogni piano metastorico, di ogni sistema assoluto e chiuso, aveva costituito il punto di forza dello storicismo di Dilthey, che lo staccava e lo opponeva a tutti i presunti ‛storicismi' romantici. Al posto della metafisica la storia vuole cogliere il ‟volto infinito della vita"; ed è una storia non conclusa, non a disegno, non in progresso necessario, una storia che è vita sempre nuova, capace essa sola di rivelare l'uomo all'uomo: ‟was der Mensch sei, sagt ihm nur seine Geschichte" (v. Dilthey, 1931, p. 224). Vivace, e costante, la reazione a così netto rifiuto delle ‛teologali' filosofie della storia alla Hegel, e delle sociologie alla Comte, con le loro gabbie di presunte leggi generali dello sviluppo umano e di teorie unitarie del processo storico (v. Horkheimer, 1968; tr. it., vol. II, p. 269). Anche quanti riconobbero il peso della problematica diltbeyana rimisero in discussione i modi della distinzione fra scienza della natura e scienze dello spirito, e soprattutto le insidie di un relativismo che sembrava travolgere il mondo dei valori ed estendersi a tutta la conoscenza. W. Windelband (v., 1909, pp. 87 ss.), la cui opera di storico ebbe tanto peso, non esitò a condannare il relativismo storico per avere sostituito alla filosofia la storia ‟al posto della filosofia abbiamo oggi due surrogati la sua storia e la psicologia". La difesa della filosofia, d'altra parte, si unisce in lui alla riaffermazione della universale validità dei valori. Senza dubbio, riconosce, nessuno può contestare ‟la mutevolezza storica del termine ‛filosofia' "; ma proprio appellandosi a tale mancanza di un significato storico costante della ‛filosofia', egli la definisce per suo conto come ‟scienza critica di valori universalmente validi", caratterizzandola sia nel metodo (scienza critica) che nell'oggetto (valori universalmente validi). È la medesima coscienza empirica che scopre in sé la necessità ideale di ciò che deve valere universalmente: ed è, questa consapevolezza di una necessità indipendente da qualsiasi realizzazione nell'esperienza, la ‛coscienza normale' (la kantiana ‟coscienza in generale"), come misura assoluta, come razionalità valida per la mente al di là di qualsiasi verifica nei fatti. ‟Non si incorrerebbe in contraddizione - scrive molto significativamente Windelband nel 1882 - se si sostenesse che questa coscienza normale (Normalbewusstsein) è ciò che il linguaggio popolare intende propriamente col termine ‛ragione', cioè l'elemento sovraindividuale che deve valere universalmente" (W. Windelband, in Rossi, 1977, p. 306). Scienza dei valori assoluti, scienza della coscienza normale costantemente Windelband oppone, allo sforzo di Dilthey di cogliere l'immanenza dei valori nei processi storici, la trascendenza di un mondo ideale, sostanza di quel mondo della cultura che è ‟creazione e conservazione di ciò che sta al disopra dell'arbitrio degli individui". La distinzione kantiana dei due regni, della natura e dei fini, costituisce lo sfondo della riflessione del Windelband che, nel discorso tenuto nel 1894 come rettore dell'Università di Strasburgo su Geschichte und Naturwissenschaft, rifiutò la possibilità di distinguere due tipi di scienze in base al loro oggetto, natura e spirito, per riportarne la differenza su un piano puramente metodologico. La moderna scienza della natura, mettendo ‟la legge naturale al posto dell'idea platonica", ha riconosciuto nella ricerca del generale il proprio compito caratterizzante, mentre le discipline storiche hanno come oggetto il singolare e il transitorio. In un testo ben noto Windelband ha sintetizzato la sua posizione ‟nella conoscenza del reale le scienze empiriche cercano o il generale nella forma di legge di natura o il singolare nella forma storicamente determinata; esse considerano da una parte la forma sempre permanente, dall'altra il contenuto singolare, in sé determinato, dell'accadere reale. Le prime sono scienze di leggi e le seconde sono scienze di avvenimenti; quelle insegnano ciò che è sempre, e queste ciò che è stato una volta. Il pensiero scientifico [...] è nel primo caso ‛nomotetico', nel secondo ‛idiografico'. Se vogliamo attenerci alle vecchie espressioni, possiamo pure parlare in questo senso di un'antitesi tra discipline naturali e discipline storiche", anche se l'antitesi metodologica come Windelband sottolinea non esclude che ‟gli stessi oggetti possono essere sottoposti a un'indagine nomotetica e al tempo stesso a un'indagine idiografica" (W. Windelband, in Rossi, 1977, p. 320). Soggiungeva (e precisava) Rickert: ‟La realtà empirica diviene natura se la consideriamo sotto la specie dell'universale; diviene storia se la consideriamo sotto la specie del particolare" (v. Rickert, 1896-1902, p. 255). È stato detto che si tratta di una teoria assiologica della conoscenza (O. Oakes, Windelband on history and natural science, in ‟History and theory", 1980, XIX, p. 167). In realtà si tratta innanzitutto di rifiutare in sede teorica ogni privilegio riconosciuto da Dilthey e prima di lui da Vico alla conoscenza storica. ‟Natura di cose aveva detto Vico non è che nascimento di esse". Proprio rispondendo alla domanda ‛Kritische oder genetische Methode?' Windelband contrappone al sapere storico fondato sulla connessione di fatti la scienza fondata su sistemi interni di leggi, richiamando Rickert che tenne sempre distinta la nozione delle origini dalla fondazione logica (v. Rickert, 1896-1902, p. 10).
D'altra parte, alla storia veniva riconosciuta la funzione di criterio di scelta, entro il caos dei fatti, di ciò che contribuisce alla progressiva realizzazione del mondo dei valori. La conoscenza storica ravvisa il filo rosso che collega quanto contribuisce al costituirsi e accrescersi della cultura. ‟L'indagine storica acquista il carattere scientifico di una conoscenza universale in modo diverso dalla scienza naturale: noi consideriamo la storia come la realizzazione progressiva dei valori della ragione, come lo sviluppo della cultura in cui, dal caos degli interessi e delle passioni umane, il valore universale della vita spirituale diviene cosciente e si realizza" (v. Windelband, 19114; tr. it., p. 31). Sono i valori, le norme, le regole della ragione che consentono le scelte costitutive del divenire della cultura, del mondo della cultura. Trascendentale in senso kantiano, e con una funzione regolativa per entro il processo storico, in realtà il piano dei valori tende a una ontologizzazione in un mondo a sé stante, anche se proprio così rischia di svuotare di significato il processo storico che, viceversa, dovrebbe fondare.
Con Rickert l'esigenza di una sempre più rigorosa fondazione delle scienze storico-sociali, di un'analisi sempre più precisa della loro struttura logica, si lega all'accentuazione del problema del valore, e all'approfondimento della relazione ai valori (Wertbeziehung). Sollecitato da una viva esigenza teorica, mentre rimprovera a Dilthey una ‟mancanza di pensiero rigorosamente concettuale", tenta di dare il massimo di significato alle conseguenze della riflessione di Windelband. Il suo sforzo è quello di definire la logica delle scienze storiche, e cioè di un sapere individualizzante (l'‛idiografico' di Windelband; ma è termine che Rickert non usa senza riserve) nei confronti della scienza generalizzante (il sapere ‛nomotetico'). Mentre in questa è essenziale l'elemento generale o comune, svincolato da qualsiasi relazione di valore, nel sapere individualizzante, o storico, ‟l'individuale può diventare essenziale s o l t a n t o in riferimento a un valore. Eliminando ogni relazione di valore si eliminerebbe anche l'interesse storico e la storia stessa" (v. Rickert, 1904-1905; tr. it., p. 369). Nella molteplicità indifferenziata degli eventi lo storico rileva l'essenzialità dell'individuale guardando al piano dei valori (‟come quelli dello Stato, delle organizzazioni economiche, dell'arte, della religione ecc."). La conoscenza di ‛relazione di valore', si badi, è puramente teoretica, e non ha a che fare con la valutazione pratica. Il fatto, cioè, può essere positivo o negativo rispetto alla realizzazione di un determinato valore nella storia dell'umanità; lo storico, in quanto tale, non giudica il contributo del fatto, ma definisce soltanto la relazione puramente teoretica di valore, ossia il rapporto rispetto al valore. ‟In virtù della relazione teoretica degli oggetti con questi valori, vale a dire in riferimento al fatto se e come la loro individualità significhi qualcosa per questi valori, la realtà si articola agli occhi dello storico in elementi essenziali e inessenziali, senza ch'egli debba pronunciare un giudizio di valore diretto, positivo o negativo, sugli oggetti" (ibid., pp. 368-370). Ma se è chiara l'esigenza di scientificità avalutativa della logica della storia che, senza valutare, considera il rapporto dei fatti ai valori, l'essenza trascendentale del mondo dei valori formali, ‟la cui graduale realizzazione si compie nel corso della storia", sembra svuotare di senso quel divenire storico a cui proprio dovrebbe dare un senso. La totalità del mondo dei valori è al di là, indipendente dalla storia umana e dal loro riconoscimento. Garantisce il senso della storia dell'uomo, della cultura, ma non è l'opera dell'uomo a porre i valori. L'uomo, mediante la relazione ai valori, opera per la loro realizzazione storica nella cultura. Come è stato osservato, Windelband e Rickert ‟passano attraverso lo storicismo", senza svolgerne le istanze profonde. Allo storicismo successivo lasciano delle difficoltà da superare piuttosto che delle eredità da godere (v. Rossi, 19712, pp. 181-183). Di più: nel momento in cui intendono difendere con maggior rigore una presa di posizione metodologica contro ogni prevaricazione metafisica, in realtà elaborano anch'essi concezioni del mondo' a difesa delle quali, più o meno consapevolmente, combattono contro altre ‛concezioni del mondo'. Così nel 1920 Rickert attacca tutta la filosofia della vita, da Dilthey a Simmel, a cui, più tardi, aggiungerà, in parte, anche Weber e Jaspers. I filosofi della vita gli sembrano avere dimenticato, tutti, che compito della filosofia è trarre dal caos degli Erlebnisse il cosmo di un sistema di concetti e di giudizi. Di qui il dubbio se dalla loro produzione sia mai venuto un qualsiasi contributo ‛scientifico' al sapere (v. Rickert, 1920, pp. 171-172). Era soprattutto una risposta a Simmel di cui nel 1918, l'anno della morte, era uscita l'opera che costituisce ormai il sintomatico punto d'arrivo di un travagliato svolgimento ‛metafisico' di alcuni motivi della tematica diltheyana: Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel. Anche Simmel era partito dal problema critico delle scienze storico-sociali, della morale, della sociologia e della conoscenza storica, unendo sollecitazioni kantiane e positivistiche con forti simpatie per Goethe, Schopenhauer e Nietzsche. Nel progressivo approfondimento dei caratteri delle scienze sociali, della morale e della sociologia, e dei loro metodi, si era trovato dinanzi al problema della struttura delle conoscenze storiche, fondata, per lui, sull'identità del soggetto umano con l'oggetto, che nella storia è sempre un altro individuo umano, e quindi risolto sul terreno della comprensione psicologica. Nel corso di queste analisi era venuto accentuando una prospettiva relativistica, in cui anche le categorie svelavano la loro origine psicologica, e ogni assoluto era alla fine rifiutato. Negli Hauptprobleme der Philosophie, del 1910, Simmel aveva sottolineato la vanità dell'appello a ogni riferimento unico. ‟Il diritto ideale di ciascuna di queste grandi forme [categoriali] di costruire un mondo totale dall'insieme dei contenuti, si realizza solo nell'inevitabile imperfezione di una situazione storica, in cui solamente essa è vivente, con tutte le accidentalità, gli adattamenti, le delusioni o le deviazioni dell'evoluzione, con tutte le unilateralità individuali, in breve con tutte le singolarità e le manchevolezze che la realtà storica, legata alle condizioni del tempo, presenta di fronte all'idea e al principio" (v. Simmel, 1910; tr. it., p. 45). Principio ‛metafisico' di tale variare del mondo è la vita, e nella finale filosofia della vita si conclude la riflessione simmeliana. La vita nel suo perenne fluire e autotrascendersi (Mehr-Leben e Mehr-als-Leben) si definisce nella forma che la individua, e la immobilizza, finché il suo fluire riprende attraverso la distruzione di q u e l l a individualità, in una dialettica tragica. ‟La forma, questa vera unicità metafisica, individualizza il suo contenuto concreto. Essa lo identifica, lo stacca dalla continuità fluente, gli dà un significato proprio; in questo modo limitandolo lo pone come antinomico rispetto all'eterno fluire dell'essere. Ma poiché la vita in ogni sua espressione come cosmo, come genere, come individuo è questo eterno fluire, essa si oppone continuamente alla forma: nasce di qui l'eterna lotta, per lo più invisibile e sotterranea, ma spesso palese ed evidente, fra il progresso della vita e l'immobilità rigida degli stadi di cultura: di qui, infine, la trasformazione continua della cultura" (v. Simmel, 1918; tr. it., p. 27). Con singolare corrispondenza, mentre Simmel negli ultimi scritti, dai capitoli di Lebensanschauung a Der Konflikt der modernen Kultur, tutti del 1918, sembrava riflettere nei toni tragici della metafisica della vita l'esito catastrofico della prima guerra mondiale, Max Weber, nella conferenza del 1919 tenuta all'Università di Monaco, Wissenschaft als Beruf concludeva anch'egli su una dicotomia radicale fra una scienza, e una tecnica scientifica, che spogliano il mondo da ogni incanto, e le fughe mistiche e le chiese consolatrici. ‟È il destino dell'epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori supremi e sublimi siano diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i singoli [...]. A chi non sia in grado di affrontare virilmente questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di tornare in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, bensì schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chiese, largamente e misericordiosamente aperte. Esse non gli rendono il passo difficile. Comunque bisogna compiere - è inevitabile - il ‛sacrificio dell'intelletto', in un modo o nell'altro" (v. Weber, Gesammelte Aufsätze..., 1922; tr. it. pp. 41-42).
Quello che è stato chiamato il ‛vento gelido' della rigorosa scientificità (Wissenschaftslehre) weberiana (v. Löwith, 1966, p. 188), sembra trarre forza, in una paradossale simmetria con la ‛tragica' filosofia simmeliana, dal fallimento di quel sapere storico che Dilthey aveva inseguito nella sintesi fra vita e comprensione della vita. Attraverso la mediazione scientifica, la ‛comprensione' diltheyana mirava a penetrare e agire sulla vita e sulla società. Il mondo umano, per Dilthey, non aveva sopra di sé un cielo di valori eterni, nè dentro di sé una forza infinita; doveva essere opera dell'uomo e cioè degli individui nella loro relazione reciproca (P. Rossi, Introduzione a W. Dilthey, Critica della ragione storica, Torino 1954, pp. 29-30). Per Weber la ragione, la scienza, definiscono i rapporti di mezzo a fine in base ai dati di fatto dell'esperienza. Oggetto delle scienze storico-sociali è l'agire razionale, secondo procedimenti di razionalizzazione causale. La conoscenza scientifica, constatata la molteplicità degli ‛ideali', dei ‛valori', dei ‛fini ultimi', constata altresì e valuta sul piano meramente tecnico l'adeguatezza, o meno, dei mezzi rispetto ai fini. Ma la scelta dei valori, dei fini, delle ‛divinità', non è ‛scientifica'. Weber ama richiamarsi lo fa in più luoghi all'osservazione del ‟vecchio e lucido" Mill, secondo cui sul terreno dell'esperienza non si giunge a un dio solo, ma a un politeismo. L'uomo può sperimentare solo la lotta fra una pluralità di valori, ognuno vincolante; la scelta è sempre, ancora, lotta contro gli dei non scelti, e contro gli altri uomini. ‟Su questi dei e sulle loro lotte domina il destino, non certo la ‛scienza'. È dato solamente intendere che cosa sia il divino nell'uno o nell'altro caso, ovvero in un ordinamento o nell'altro. Ma con ciò la questione è assolutamente chiusa" (v. Weber, Gesammelte Aufsätze..., 1922; tr. it., p. 32). Lontano da Dilthey, Weber segue Rickert non solo nell'impostazione logico-metodologica del problema delle scienze storico-sociali, ma anche nella netta distinzione fra ‛relazione ai valori' e ‛valutazione' (giudizio di valore). Alle scienze storico-sociali, infatti, compete, con la spiegazione causale (comune a tutto il sapere scientifico), ‟la valutazione teleologica dell'agire empiricamente constatabile". Trattandosi di una valutazione ‟di carattere puramente ‛tecnico', cioè relativa all'esperienza", circa ‟l'adeguatezza del mezzo allo scopo di fatto voluto dall'agente, nonostante il suo carattere di valutazione non perde affatto il piano dell'analisi empirica del dato" (ibid., p. 129). Ma mentre in Rickert il rapporto ai valori nella conoscenza storica diventa costitutivo del mondo della cultura, in Weber la separazione fra mondo dei valori e conoscenza scientifica è radicale. Alla scienza non compete valutare, o scegliere. Condizione necessaria delle scienze storico-sociali è l'avalutatività. La scelta dei valori è questione di fede, ed è legata alle concezioni del mondo e della vita, nonché alle mutevoli situazioni storiche. ‟Che il soggetto [...] debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo affare personale, e riguarda il suo valore e la sua coscienza, non già il sapere empirico. Una scienza empirica non può mai insegnare a nessuno cio che egli d e v e, ma può insegnargli soltanto ciò che egli p u ò e in determinate circostanze ciò che egli v u o l e" (ibid., p. 61). La scienza può misurare il costo di una scelta, può indicare gli accessi e calcolare le conseguenze. ‟Tradurre la misurazione in decisione non è certo più compito possibile della scienza, bensì dell'uomo che agisce volontariamente egli misura e sceglie tra i valori secondo la propria coscienza e la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogni agire, e naturalmente anche, secondo le circostanze, il non-agire, significa [...] una presa di posizione in favore di determinati valori, e perciò [...] contro altri. Compiere la scelta è però cosa sua" (ibid., p. 59-60).
La divaricazione fra conoscenza e valore giunge in Max Weber all'estremo. Per un verso, infatti, la determinazione del rapporto fra realtà empirica e valore, ossia la definizione del senso della ‛cultura', deve essere condotta, a suo parere, in modo da essere riconosciuta valida da tutti, ‟anche da un cinese". Per un altro verso i valori, nella loro pluralità e nei loro conflitti, se devono essere analizzati ognuno per sé, se possono essere individuati nella loro struttura e nei loro reciproci rapporti, sono però ‛scientificamente' incommensurabili. Costituiscono, ciascuno in sé, un sistema assoluto. Dirà ‟Come si possa fare per decidere ‛scientificamente' tra il v a l o r e della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro". Sono ‛divinità' diverse, e tali restano in ogni tempo. Senso e significato, idee di valore, guide delle scelte senza cui non vi sarebbe ricostruzione storica ma tutto questo al di fuori della scienza . Assurda l'idea di un sistema dei valori che possa consentire articolazioni definitive ‟La corrente dell'accadere sconfinato procede senza fine verso l'eternità. E sempre nuovi e diversamente atteggiati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomini, cosicché rimane fluido anche l'ambito di ciò che acquista valore e significato da quella infinita, e sempre uguale, corrente dell'accadere, configurandosi come ‛individuo storico' ‟ (ibid., pp. 100-101). Assurdo un sistema totale di scienze della cultura. ‟La ‛cultura' è una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire nel mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo" (ibid., p. 96).
Lo Strauss ha osservato che ciò che stacca M. Weber dallo storicismo è l'affermazione di un mondo di valori metatemporali, anche se poi lo ha rimproverato per non avere mai definito quei valori (v. Strauss, 1953, p. 39). In realtà Weber ha esasperato alcune aporie dello storicismo il rapporto fra teoria e prassi, fra esistenza e valore. È possibile rendersi conto del significato del nostro operare; non è traducibile in termini di ragione la nostra scelta del criterio. Senza dubbio - come si legge in quel Platone che egli cita - è l'anima che sceglie il suo demone, ma quando lo sceglie non è nè saggia nè stolta (v. Rossi, 19712, p. 361). E questo non è un trionfo della ragione. Il disincanto del mondo attraverso la scienza significa una ‟progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione"; la vita dell'arte non implica, invece, progresso dell'arte. La scienza medica cerca in tutti i modi di conservare la vita al moribondo, ‟non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta". Una storia come conquista progressiva di valori non sussiste; la scelta dei valori è davvero, per l'uomo, scelta del proprio senso, del proprio essere e del proprio destino. Che la scienza abbia un senso ha commentato Jaspers (v., 1932; tr. it., p. 76) non si potrà mai dimostrare mediante la scienza; la funzione progressiva della scienza si esaurisce in una conquista di maggiore chiarezza.
Se sul relativismo di Weber si è giustamente discusso, indiscutibilmente relativistica è invece apparsa sempre la conclusione dell'opera di O. Spengler, anch'essa frutto della crisi della prima guerra mondiale, e uscita in due volumi fra il 1918 e il 1922 (Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte). Ogni cultura è un organismo vivente; la sua storia è una biografia che ne ripercorre il ciclo vitale; come una pianta è radicata in una terra; il suo destino è la sua logica organica; la sua forma interna è il suo destino. Incomunicabili nei loro universi simbolici, vivono ciascuno la durata della loro vita con i loro irriducibili sistemi di valori. Senza dubbio lontano da Dilthey e dalle tematiche che ne erano scaturite, Spengler tuttavia vi si collegava facendo in qualche modo precipitare in forma vistosa, e talora in sfoghi deliranti, motivi del dibattito sullo storicismo, dall'irrazionalismo al relativismo. Erano, talune, sollecitazioni di una crisi la cui eco si sente nell'ultimo Simmel, e che percorre le pagine dei Troeltsch e dei Meinecke, con il loro dibattersi contro il relativismo per la difesa dei valori. Fra il 1916 e il 1922 Troeltsch lotta contro l'‛anarchia dei valori', anche se, di fronte allo sforzo di Rickert di assolutizzarli su un piano trascendentale, cerca di dimostrarne l'immanenza nell'individuo, l'individualizzazione storica. ‟Relatività dei valori scrive in Der Historismus und seine Probleme non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio; designa l'intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di fatto e di ciò che deve essere. Questo intreccio può e deve essere colto ogni volta - sia che si tratti dell'individualità singola di una persona, sia che si tratti dell'individualità collettiva di un popolo o di una comunità culturale - mediante [...] l'approfondimento di se stessi, nonché mediante la comprensione e la conoscenza delle situazioni e del condizionamento storico" (v. Troeltsch, 1922; tr. it. in Rossi, 1977, p. 869). Anche Meinecke nelle sue maggiori opere e nel suo sforzo di storicizzare lo storicismo, se sottolinea l'antitesi fra lo storicismo e il giusnaturalismo, fra lo storicismo e qualunque idea di una ragione assoluta e immutabile, deposito di verità eterne, contesta l'identificazione di storicismo e relativismo, e sostiene che l'assoluto è nella storia senza essere riducibile alla storia. Che l'antinomia sia solubile per la logica umana, Meinecke non crede, e sembra non escludere il ricorso alla fede. Non a caso nel 1940 Croce, nel metterlo in guardia contro le soluzioni mitologiche, il morboso romanticismo e il decadentismo, fece le difese del proprio ‛razionalismo' e immanentismo.
Commenterà non a torto Cassirer, nel 1942, che, piuttosto che di un problema di critica della conoscenza e di metodologia, si trattava ormai di un contrasto fra ‛concezioni del mondo' difficile a trattarsi con argomenti puramente scientifici (v. Cassirer, 1942; tr. it., p. 32). In verità già negli anni venti le prospettive del dibattito si erano venute trasformando profondamente. Non solo avevano inciso i grandi eventi, dalla Rivoluzione d'ottobre alla catastrofe della Germania; alcuni degli interlocutori di rilievo erano scomparsi: Simmel, Weber, Troeltsch. Nel dibattito sulla storia sarebbero tornati Hegel e Marx, e anche il ‛giovane Hegel' e il ‛giovane Marx', con tutto quello che significherà una rilettura in chiave di testi prima ignoti, e spesso di singolare rilievo. Lukács nel 1923 sono anni di eccezionale densità in Storia e coscienza di classe, pur nel dichiarato abbandono di ‟lenti metodologiche ampiamente condizionate da Simmel e da Max Weber", e ormai sotto l'influsso di Hegel piuttosto che degli ‟studiosi contemporanei di ‛scienze dello spirito' ‟ (v. Lukács, 1923; tr. it., pp. VII-VIII), in realtà risentiva ancora fortemente degli storicisti e di Rickert, e ne ‟trasferiva nel corpus del marxismo alcuni dei motivi centrali" (G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Bari 1970, p. 31), ovviamente trasfigurandoli. Nel 1 927 in Sein und Zeit Heidegger, risentisse (come voleva L. Goldmann) o meno dell'opera di Lukács, portava in primo piano i temi della problematica diltheyana sulla storicità sottolineandone il significato teorico.
Se con gli anni venti una stagione dello storicismo tedesco sembrava concludersi in una crisi profonda, tra gli anni trenta e quaranta venne emergendo la possibilità che, piuttosto che di morte e di dissoluzione, fosse il caso di parlare di trasfigurazione.
6. Lo storicismo italiano fra Croce e Gramsci
È quasi un luogo comune della storiografia filosofica contemporanea la contrapposizione fra uno storicismo italiano rappresentato da Croce, e a Croce in qualche modo connesso, e lo storicismo tedesco, da Dilthey in poi. Hegeliano l'uno, con incidenze complesse del materialismo storico nella sua formazione, di matrici kantiane l'altro; idealistico e provvidenzialistico il primo, metodologico il secondo; ottimistico il primo, e fiducioso che la storia sia il progressivo affermarsi dello spirito nel mondo, consapevole il secondo della crisi dei valori e della responsabilità dell'uomo nel divenire storico.
In realtà il cammino di Croce fu assai tormentato: rendendosi conto delle posizioni che andavano assumendo gli storicisti tedeschi, di cui conobbe a fondo e criticò il lavoro, con alcuni di essi direttamente si confrontò, come con Meinecke, mentre altri lo discussero, come Troeltsch e Weber. Proprio Troeltsch, nel 1922, sottolineò due punti: che le vie seguite dallo storicismo in Italia non erano separate dal generale sviluppo del pensiero europeo; che la teoria hegeliana aveva assunto in Croce un aspetto del tutto nuovo per l'influenza di psicologia e filologia, di positivismo e marxismo. Perciò bisognerà parlare con estrema cautela di un hegelismo crociano, e cosi pure delle risonanze in lui del materialismo storico, mentre converrà tenere presente come, di fronte alla sollecitazione di problemi analoghi, un diverso impianto categoriale portasse Croce a dare risposte diverse (v. Sasso, 1975, p. 1045). Comunque è certo che egli nacque alla filosofia sul cadere dell'Ottocento, proprio riflettendo su arte e storia, e sulle pretese, positivistiche da un lato e hegeliane dall'altro, di annullare, anche se in modi opposti, la distanza fra individuale concreto e vivente, quale l'arte esprime e la storia rappresenta, e le leggi generali che costituiscono l'oggetto della scienza della natura. Proprio le pagine di Schopenhauer e del Lazarus, e le opere di Dilthey (l'Einleitung) e dell'‛acuto' Simmel, gli offrono argomenti per sottolineare la distinzione fra ‛scienze della natura' e ‛scienze dello spirito'. Nel 1896, discorrrendo del primo dei saggi di Labriola su Marx, Croce rifiuta tutte le filosofie della storia in quanto attardate ‟costruzioni della teologia e del misticismo metafisico". Una filosofia della storia, infatti, sia essa di Hegel o di Spencer, è ‟una riduzione concettuale del corso della storia", costretto nella sua totalità entro un disegno già compiuto, e poco importa che si faccia appello al Dio e alla Provvidenza di sant'Agostino, o all'idea e allo spirito di Hegel, o al ‟sacro mistero dell' e v o l u z i o n e" dei positivisti (v. Croce, 1900, p. 14). Il rifiuto delle filosofie della storia metafisiche e teologali si univa, secondo Croce, alle riflessioni metodologiche contemporanee degli ‛storicisti', di cui ricorda come particolarmente importanti due soli esempi: Simmel e Antonio Labriola. Anche in Marx, il Marx che lo interessa e che si rifiuta di ridurre a Hegel (‟l'hegelismo era la p r e c u l t u r a del giovane Marx"), vede innanzitutto una nuova metodologia (‟non è una filosofia della storia"; è ‟un nuovo m e t o d o , con che si nega che sia una nuova t e o r i a ‟). In tal modo, insistendo sull'estetica per un verso e sulla riduzione della storia sotto il concetto generale dell'arte per l'altro, Croce veniva a collocarsi su un terreno analogo a quello dei Rickert e dei Dilthey, a cui si richiamava esplicitamente nella discussione del rapporto tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, fra Natur e Geschichte. Rifacendosi a un testo di Lazarus, e a una pagina di Labriola, Croce delineava la divergenza fra scienze (della natura) e storia: ‟Da una parte concetti generali, dall'altra rappresentazioni concrete condensate, se non addirittura individuali; qui il singolo come esemplare astratto, là il singolo come individualità concreta; qui fine della ricerca è la legge generale, là il processo individuale" (M. Lazarus, Über die Ideen in der Geschichte, Berlin 18722, cit. da Croce, v., 1919, p. 18). Nel 1902, reclamando addirittura la priorità di certe sue tesi generali rispetto a Rickert, Croce sottolinea come, da Aristotele in poi, ‟la scienza ha sempre avuto unico oggetto l'universale, il necessario, l'essenziale, mentre la storia si occupa dell'individuale, dell'empirico, di quello che appare e scompare nel tempo e nello spazio. La storia, dunque, è conoscenza, non scienza" (v. Croce, 1919, pp. 186-187), e conoscenza dell'individuale da distinguersi dall'intuizione artistica, con cui per altro è connessa. Con Rickert, di cui ha ben presente e utilizza Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften (1896-1902), tende a sottolineare le convergenze; e Windelband e Rickert rimangono a lungo suoi interlocutori, anche se nel 1907 confessa a Vossler di avere l'impressione che la loro indagine si smarrisca nelle ricerche metodologiche col rischio di diventare una nuova scolastica (Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949, Bari 1951, p. 103). Tuttavia ancora nella Logica del 1909 loda Rickert per avere osservato che in sede epistemologica il termine ‛natura' designa non già una realtà, ma un particolare punto di vista dal quale si guarda la realtà per raggiungere il fine della semplificazione concettuale (v. Croce, 1909, pp. 386-387). Né c'è bisogno di insistere qui sulle vicinanze di temi, pur nella differenza dei ‛sistemi', fra visione rickertiana della scienza della natura e teoria crociana degli pseudoconcetti (v. Sasso, 1975, p. 1045), ma non può neppure sottovalutarsi l'eco della fermissima asserzione del Rickert, già citata, che ‟la realtà empirica diviene natura se la consideriamo sotto le specie dell'universale, e diviene storia se la consideriamo sotto le specie del particolare". Come non andranno sottaciute, a proposito della questione dei giudizi di valore, talune possibili corrispondenze fra la tormentata difesa crociana della ‛distinzione' e l'aspra battaglia weberiana per l'avalutatività della scienza.
Comunque la mediazione di un Hegel e un Hegel della maturità, non quello della giovinezza che Dilthey andava rivelando succeduta alla lettura di Herbart e di Marx, e il colloquio con Gentile, sostituito al dialogo con Labriola, portarono Croce, per un verso alla riduzione a pseudoconcetti empirici dei contenuti delle scienze della natura, e per un altro verso, sul terreno delle scienze dello spirito, a una ‛riforma' di Hegel sempre più lontana dalle vie dello storicismo tedesco. Va aggiunto che nei medesimi anni lo studio più intenso di Vico (ma il libro del 191 1 è dedicato a Windelband) contribuì ad accentuare in lui il motivo della superiorità e del privilegio della conoscenza storica nei confronti dell'‛incertezza' della scienza della natura. Proprio la Logica, che fu il maggior tentativo ‛sistematico' del Croce, con la teoria degli pseudoconcetti e con la ‛riduzione' delle scienze della natura a tecniche aventi una mera funzione pratica sul terreno empirico, cercò di risolvere in modo definitivo il dibattito fra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, rifiutando alle prime dignità di scienza, e indicando nella storia ‟il mare in cui sboccava il fiume dell'arte, ingrossato da quello della filosofia" (v. Croce, 1909, p. 227). Confessando, sempre nella Logica, il processo ‟lento e faticoso" del suo pensiero, Croce concludeva: ‟Dall'accentuazione del carattere di concretezza, che la storia ha rispetto alle scienze empiriche e astratte, io sono passato, via via, ad accentuare il carattere di concretezza della filosofia; e, condotta a termine l'eliminazione della duplice astrattezza, le due concretezze (quella che avevo rivendicato dapprima alla storia, e quella che ho rivendicato poi alla filosofia) mi si sono svelate, in ultimo, una sola" (ibid., pp. 226-227).
Non si capisce, però, fino in fondo, la conclusione del Croce, se non si tiene presente l'operazione che in quei medesimi anni egli era venuto facendo su Hegel, che aveva spogliato di ogni sistematizzazione, di ogni scansione, di ogni ‛astrattezza', ‟per un nuovo e più alto eraclitismo". Ne era venuto fuori un Hegel in cui ‟lo spirito e la sua storia sono identici, e identiche a loro volta la filosofia e la storiografia"; in cui ‟la libertà non è il ‛fine della storia', un fine raggiunto o da raggiungere, ma il suo principio motore e perciò identico con lei"; in cui ‟il fine dello spirito non è nè l'astratto pensiero né l'astratta azione, ma il pensiero che si fa azione e l'azione che si fa pensiero, ossia lo spirito stesso, che, in quanto è vita, non ha altro fine che la vita, tutta la vita, e non una parte della vita" (v. Croce, 1913, pp. 164-167). Non molto prima Croce aveva concluso la Filosofia della pratica, appunto, sull'infinità della Vita, sul mistero che cinge la Vita, sul processo senza fine della storia che è progresso, anche se il momento ineliminabile del mistero distrugge la pretesa delle filosofie della storia di definire il piano della Provvidenza e di scandirne le tappe (v. Croce, 1909 , pp. 179-180 e 411-412).
Si trattava ormai, come Cassirer osservò, di battaglie metafisiche: se si vuole, dello sfondo metafisico di una concezione della vita che andava molto al di là di una filosofia critica. Fra una concezione del mondo a cui Croce rimase fedele: la celebrazione del divenire della vita come unità fondamentale dell'essere, che percorre tutta la sua riflessione, fino a quella specie di inno alla vita che, sotto il segno di Goethe, troviamo in La storia come pensiero e come azione del 1938. ‟Viva chi vita crea! cantava Volfango Goethe. Ma la vita promuovono tutte le forme dell'attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere della pratica utilità" (v. Croce, 1938, p. 42). Nello stesso libro, e in un singolare confronto col Meinecke, il Croce propone anche una definizione dello storicismo: ‟ ‛Storicismo', nell'uso scientifico della parola, è l'affermazione che la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia" (ibid., p. 51). Va aggiunto che questa vita, questa realtà in perenne svolgimento, per lui è anche, nella sostanza, processo di razionalizzazione che lo storicismo ritrova. Croce, non va dimenticato, pubblica il libro su La storia nel 1938, e fino dal 1930 sempre di più insiste sullo storicismo come visione del divenire storico, come moto di liberazione e lotta per la libertà, colorando la sua concezione, e la sua battaglia, di crescenti atteggiamenti ideologici, sottolineando senza posa ‟l'intimo rapporto tra storicismo e sentimento di libertà e di umanità" e l'unità di pensiero e azione. Di qui, anzi, la polemica aspra contro tutto un aspetto di Hegel, nonché del Marx discepolo di Hegel e ideatore di ‟uno storicismo teologico-materialistico, senz'alito di umanità e di libertà". Di qui la critica anche agli storicisti tedeschi ‟devoti servitori del re e dello Stato", e il richiamo alla ‟poca efficacia civile e pratica della loro filosofia storicistica, che perse via e via il generoso spirito illuministico di unità". Non relativistico, ma propugnatore dell'autonomia della coscienza morale contro la trascendenza dei valori, ‟il vero senso dello storicismo" gli sembra ‟non solo necessario alla filosofia e alla storiografia, ma altresi al lontano e vicino risanamento della vita morale e politica europea" (ibid., pp. 65-72).
Ideologia e concezione del mondo, senza dubbio, sono al centro di questo storicismo crociano: e chi prescinda dal clima europeo, e specialmente tedesco e italiano dell'età nazista e fascista alla vigilia della guerra, rischia di fraintenderlo e di falsarlo, così come si fraintendono The poverty of historicism di Popper (1944-1945) o Die Zerstörung der Vernunft di Lukács (1954) quando si dimentica la carica polemica e la componente ideologica di opere nate sotto la spinta di preoccupazioni e passioni politiche. Del resto Croce, nella breve avvertenza premessa al libro del 1938, fu molto chiaro: il suo storicismo voleva suonare condanna di quanti, ‟in nome di un astratto assolutismo morale", ponevano ‛la moralità fuori della storia". Il suo scopo era quello di mettere a fuoco il processo teorico attraverso il quale il pensiero storico nato dalla passione pratica giunge a convertire quella passione in ‟risolutezza di azione" (v. Croce, 1938, p. VIII). Va aggiunto che la sofferta fedeltà alla distinzione e all'eternità delle forme dello spirito, e quindi la costante affermazione della coscienza morale nella sua assolutezza formale, mentre cercava di fondare criticamente la tesi di un'ascesa progressiva della storia, all' ‟astratto assolutismo morale" di chi lo accusava di relativismo opponeva una recuperata struttura dello ‛spirito' capace di rispondere alle più valide richieste di una legge eterna senza finire nelle secche di una immota natura (v. Antoni, 1957, pp. 194-195).
Nel quadro di una forte tensione politica, e in un rapporto in parte di dipendenza e in parte di rifiuto nei confronti di Croce, va letto anche lo storicismo di A. Gramsci, anzi la sua interpretazione della ‛filosofia della prassi' come ‛storicismo assoluto'. ‟La filosofia della prassi osserva è lo ‛storicismo' assoluto, la mondanizzazione e la terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia", ossia l'immanenza che rifiuta ogni piano metastorico di realtà, ‟ogni residuo di trascendenza e di teologia, anche nella loro ultima trascendenza speculativa" (v. Gramsci, 1975, p. 1437). Gramsci peraltro, quando fra il 1932 e il 1933 espone la sua interpretazione storicistica della ‛filosofia della prassi', oppone il suo storicismo sia a quello di Croce che a quello di Labriola e Gentile. Egli interpreta la ‛struttura' come passato, mentre il ‟presente operoso", aperto al futuro verso le nuove attuazioni attraverso la volontà, ha carattere sovrastrutturale. In questa prospettiva la ‛natura' dell'uomo altro non è se non ‟l'insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita", in continuo svolgimento, e ‟non qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi" (ibid., pp. 1874-1875).
A queste conclusioni Gramsci non era giunto d'un tratto, né senza avere risentito nella sua formazionedell'insegnamento di Croce e della reazione antipositivistica, che è fenomeno europeo ben più ampio del cosiddetto ‛idealismo italiano', e che prepara quella lettura hegeliana di Marx a cui contribuì non poco il lavoro preparatorio anteriore alla guerra mondiale proprio di pensatori come Dilthey e Croce (v. Jay, 1973; tr. it., p. 64). Il discusso articolo della fine del 1917, La rivoluzione contro il ‛Capitale', si colloca in un complesso di scritti omogenei, tesi a porre l'accento sul momento della volontà e dell'azione capace di ‛rivoluzionare la situazione. Non i fatti, le condizioni ‛economiche', ma l'uomo, anzi la società degli uomini, ‟sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale" che si impone ai fatti, e diventa ‟la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà obbiettiva" (v. Gramsci, 1958, pp. 150-151). Ne viene un'interpretazione ‛umanistica' di Marx, tutta centrata nell'‛atto storico' come sintesi di uomo e realtà, di teoria e prassi, mentre ‟canoni del materialismo valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbono diventare ipotesi sul presente e sul futuro" (ibid., pp. 154-155). Nella rivolta contro il positivismo anche Gramsci fa appello a Vico, e nel clima della fine della guerra batte sulla ‛fluidità' della storia e della realtà, dove nulla è ‟fisso, irrigidito, definitivo" (ibid., pp. 178-179). È uno storicismo, questo di Gramsci, che va inserito per un verso fra la catastrofe dell'Europa e la Rivoluzione del 1917, e ricollegato per un altro alle riprese filosofiche di un marxismo non sderotizzato, riletto in chiave hegeliana, dal Lukàcs di Geschichte und Klassenbewusstsein al Korsch di Marxismus und Philosophie (1924). Né va dimenticato come Gramsci, proprio per la sua attiva partecipazione politica, rimanesse legato alla situazione italiana da Croce contro Croce. D'altra parte è proprio il richiamo di Croce alla ‛ragione' e all'‛eterno' che determina, nelle rifiessioni degli anni trenta, la sua rivolta ‟questo storicismo da moderati e da riformisti non è per nulla [...] il vero ‛storicismo'; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, un'ideologia nel senso deteriore" (v. Gramsci, 1975, p. 1325). E continua domandandosi perché mai chiamare ‛irrazionalisti' e ‛antistoricisti' quanti non condividono una particolare concezione dello storicismo, che è poi un ‛falso' storicismo. Il distacco di Gramsci da Croce era ormai evidente, anche se lo storicismo gramsciano accoglieva non poche eredità crociane. Fra queste, l'uso polemico dello storicismo, prima contro il positivismo e la concezione positivistica del socialismo poi per una nuova interpretazione del marxismo come filosofia della prassi, e contro ogni concezione disposta a vedere nella storia l'espressione di un intima e infallibile razionalità", che procede ‟con interna necessità", contro l'assoluto che è e resta assoluto anche se non e una realtà immota al di là delle stelle, ma il processo stesso del reale, cioè la storia" (v. Antoni, 1964, p. 35). Qui, appunto, si colloca anche la radice del distacco definitivo da Croce.
In realtà, per usare ancora una volta l'esatta diagnosi di Cassirer in Zur Logik der Kulturwissenschaften (1942; tr. it., p. 32), si trattava alla fine di un urto tra ‛concezioni del mondo' e ideologie ‟difficilmente intaccabile da argomentazioni scientifiche". Si trattava, in Italia, di lotte politiche che i tempi drammatici acuivano. L'eco si coglie facilmente nella storiografia più ancora che nelle controversie dottrinali dagli sfoghi ‛rivoluzionari' di Tilgher alle opere di Antoni, dalle aspre recensioni ad Antoni di Cantimori alle pacate analisi di Pietro Rossi. E anche chi rimanda a un altro giorno la storicizzazione delle pagine gramsciane, ma intanto ne critica le affermazioni ‛storicistiche', fa opera piuttosto di ideologo che di storico inteso a chiarire il controverso incontro fra storicismo e marxismo (v. Althusser e Balibar, 19732, vol. I, pp. 150-184).
7. Osservazioni conclusive
Come si è sottolineato, lo storicismo, in quanto posizione teorica specifica volta ad affrontare il problema dei fondamenti e del significato delle scienze storico-sociali, e del rapporto di tali scienze con le scienze della natura, si è affermato e svolto fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento soprattutto in Germania. In Italia lo storicismo ebbe una sua affermazione nel Croce, e nel dibattito intorno al Croce, le cui posizioni per altro, connesse fino dalle origini a quelle di alcuni pensatori tedeschi, si vennero intrecciando più strettamente alla sua critica del marxismo e alla sua ‛riforma' della filosofia hegeliana. Si dovrà comunque e tener presente che la genealogia da lui disegnata per il proprio storicismo (Vico, De Sanctis, Labriola; Kant, Hegel e Marx), andrà corretta e integrata con non pochi rappresentanti del pensiero tedesco contemporaneo.
In Francia Dilthey e Simmel ebbero qualche risonanza in connessione col bergsonismo e col diffondersi della ‛filosofia della vita', e più tardi sulla scia dell'interesse per Husserl e per Heidegger, a causa della presenza di Dilthey in Sein und Zeit. Di historicisme tuttavia in Francia si è parlato soprattutto di recente, nelle discussioni sul marxismo e la dialettica, nei confronti con posizioni strutturalistiche, sotto forti spinte ideologiche. Se R. Aron seppe dare alla cultura francese, già alla vigilia della seconda guerra mondiale, la prima opera importante sullo storicismo tedesco, gli scarsi effetti delle sollecitazioni contenute nel suo libro dimostrano il diverso orientamento della ricerca filosofica in Francia. Quando nel 1950 Aron tracciò un rapido panorama degli studi di filosofia della storia nel suo paese, ne collocò il centro in una ‛ontologia della storicità'. Vedeva radicate nella storicità dell'esistenza umana una fenomenologia della struttura della storia, e una teoria della conoscenza storica che gli sembrava raccoglierne l'eredità ‛storicistica', in un momento in cui dominavano la scena Husserl e Heidegger con i loro epigoni francesi, da Sartre a Merleau-Ponty, e con i problemi delle interpretazioni di Marx (v. Aron, 1950, pp. 320-340). Quando nel 1947 uscì la versione francese dei due fondamentali volumi di scritti di Dilthey, Die geistige Welt. Einleitung in die Philosophie der Lebens (Le monde de l'esprit, tr. di M. Remy, Paris 1947), il traduttore osservò che, nonostante tutto, Dilthey allora era ‟quasi sconosciuto in Francia". Tale sarebbe sostanzialmente rimasto, nè quella non lieve fatica ebbe gran risonanza. Lo storicismo di cui si è poi molto discusso fu altra cosa: di Hegel e di Marx; il preteso umanismo e storicismo di Marx uno scontro, molto spesso, di ideologie.
In Spagna, e nei paesi di lingua spagnola, Dilthey e Simmel ebbero notevole risonanza con la filosofia della vita e il relativismo. Basti ricordare J. Ortega y Gasset, e la pubblicazione della Sociologia di Simmel avviata nel 1927 per iniziativa della ‟Revista de Occidente", mentre la traduzione delle opere di Dilthey uscirà in Messico, in otto volumi, a cura di E. Imaz (1944-1945).
Nei paesi di lingua inglese lo storicismo non ebbe seguito se non di polemiche anche vivaci, con l'eccezione, in Inghilterra, di R. Collingwood, i cui legami con Croce sono ben noti, e di cui The idea of history uscì postuma nel 1946 da inediti elaborati dopo il 1936 e messi insieme da T. M. Knox. Per non dire di A. Toynbee, e della sua vicinanza a Spengler, nonché dei suoi esiti teologizzanti. In realtà nel mondo anglosassone lo storicismo fu, in genere, respinto, anche se, a volte, se ne combatté una immagine parziale, o costruita come bersaglio polemico. È il caso del noto scritto di Popper, The poverty of historicism, che confuta un modello di storicismo che ha per padre Platone e per esponenti Hegel e Marx. ‟Per ‛storicismo' intendo dichiara un tipo di approccio alle scienze sociali che assume la ‛previsione storica' come scopo principale e la considera raggiungibile attraverso la scoperta dei ‛ritmi' o dei patterns, delle ‛leggi', delle ‛tendenze' che sottostanno all'evoluzione della storia" (v. Popper, 1957; tr. it., p. 18). Popper sa benissimo di combattere argomentazioni che, a sua stessa conoscenza, ‟non furono mai proposte dagli storicisti". Certamente si tratta di una ideologia che ben poco ha a che fare con lo storicismo dei Dilthey e dei Rickert, dei Windelband e dei Meinecke, per non dire del Croce.
In realtà, giova ripeterlo ancora una volta, con la fine della seconda guerra mondiale la fase costruttiva, e la stessa crisi dello storicismo, erano ormai concluse, anche se il contributo dei Dilthey, dei Simmel, dei Weber, fermentava e riemergeva, di continuo, per canali diversi, in ogni serio dibattitto sulle ‛scienze umane', sul loro metodo, sul loro fondamento, sul loro rapporto con le scienze della natura, e, più in generale, sull'uomo, sul mondo dell'uomo e sul suo divenire. Certo, come ha osservato Gadamer, il tentativo di Dilthey di ‟giustificare epistemologicamente le scienze umane col concepire il mondo storico alla maniera di un testo da decifrare" non era riuscito a risolvere il rapporto con le scienze della natura, ma aveva chiarito bene che ‟lo studio del passato storico non è un'esperienza storica, bensì un'opera di ‛decifrazione' ", ponendosi al di là dell'ermeneutica romantica (v. Gadamer, 1963, pp. 35-36). Dilthey aveva messo a fuoco non pochi problemi del sapere storico; attraverso Husserl e Heidegger egli ha continuato a pesare in modo sorprendente anche su posizioni lontane da lui. É stata diltheyana perfino la filigrana di certo ‛antistoricismo'.
D'altra parte proprio per questo la difficoltà maggiore di un discorso sullo storicismo rimane quella preliminare, dell'ambiguità di un termine usato nel Novecento, fino a oggi, per caratterizzare orientamenti diversi, se non opposti, o, svuotato di senso specifico, per indicare il riferimento a una qualche generica prospettiva storica nell'affrontare i problemi dell'uomo e i mutevoli aspetti della realtà, cercando di interpretare ogni ‛testo' riportandolo a un ‛contesto'. Una volta G. Boas ha osservato che fino ai tempi moderni ben pochi filosofi hanno preso sul serio il tempo. ‟Un mondo di idee statiche e perfette, un mondo di materia immobile, un mondo di cose in sé, un mondo di esseri eterni, un cielo abitato da anime spoglie di qualunque attributo terrestre e quindi temporale: ecco i regni in cui il filosofo ‛stanco del tempo' poteva rifugiarsi". L'irrompere del tempo in ogni aspetto della realtà, impose di sostituire il cambiamento all'immutabilità, l' ‛eraclitismo' all' ‛eleatismo' (v. Boas, 1957, p. 612). Di qui, non solo l'impetuosa crescita delle scienze storiche e l'imporsi della questione della conoscenza storica, ma la problematizzazione della storicità del reale e della presa di coscienza del divenire. Di qui il tentativo di determinare i ritmi e le leggi di tale divenire, cristallizzandolo nei sistemi totali delle filosofie della storia, tese a fissare una regolata scansione degli eventi nel progresso continuo e sicuro, interpretato a volte come un eterno ritorno circolare, e a volte, invece, come un'ascesa senza fratture entro forme categoriali ciclicamente ritornanti. Storicismo, così, si chiama la considerazione generale della realtà nella prospettiva del divenire temporale; storicismi, le filosofie della storia intese a immobilizzare il divenire nelle gabbie di ritmi inderogabili, che annientano ogni fare umano, nella vanificazione della storia medesima. Generico il primo uso, e privo di significato effettivo; rivolto l'altro a un piano metastorico in cui riafferma il primato una visione metafisica di strutture metatemporali.
Lo storicismo tedesco avviato da Dilthey e, almeno in parte (e in un certo periodo), quello italiano del Croce nacquero proprio dalle esigenze alimentate dalla crescita delle scienze storiche, dal fiorire della nuova psicologia ‛scientifica', e dal confronto, imposto dal positivismo, con le scienze della natura. Quali i fondamenti e i metodi delle scienze storiche? Una risposta soddisfacente non sembrava venire dalle metafisiche, anzi dalle ‛teologie', sottese alle grandi filosofie della storia hegeliane e comtiane. Né meno discutibile apparve presto la tesi che fra scienze storiche e scienze naturali la differenza fosse solo dell'oggetto: là, la ‛cultura'; qua, la ‛natura'; là il tempo e qua lo spazio. Alla profonda differenza dell'oggetto non poteva non corrispondere la differenza del metodo, e tanto di più in quanto l'oggetto del sapere era, nel caso delle scienze storiche, l'attività stessa del soggetto, alla cui struttura appariva intrinseca la temporalità, e un concretarsi individuandosi. Di qui lo sforzo di caratterizzare metodi e strumenti conoscitivi peculiari (die Logik der Kulturwissenschaften di Cassirer), e il comprendere, l'intuire, e la tentazione di subordinare l'uno all'altro tipo di scienze. Di qui la straordinaria ‛attualità' ritrovata da un pensatore come Vico (in Dilthey come in Croce) che, se molto concesse alla seduzione della teoria dei corsi e dei ricorsi, cercò di individuare il ‛proprio' delle scienze storiche nel rapporto tra conoscere e fare, da lui luminosamente individuato.
Comunque nel nodo di temi messi a fuoco da Dilthey come da Rickert, da Simmel e Weber come da Croce, non è difficile ritrovare i problemi e falsi problemi che hanno agitato le discussioni più recenti: dal metodo delle scienze sociali alla vera o presunta antinomia fra storia e struttura, dal conflitto fra natura e storia alla disputa sulle due culture, dalla condanna del relativismo alla difesa dei valori eterni, dalla rivolta contro lo storicismo alla ‛crisi della ragione'. Come è stato scritto assai bene, ‟se sono scomparsi dalla scena gli indirizzi specifici" che allo storicismo ‟si richiamavano ciò è avvenuto perché il suo insegnamento è diventato patrimonio comune della filosofia, anzi della cultura contemporanea. Se lo storicismo in quanto tale non esiste più, la sua eredità è presente, in varia forma, dovunque" (v. Rossi, 1966, p. 472).
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