Abstract
Tradizionalmente, il tema del trattamento dello straniero veniva in rilievo con riferimento agli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini all’estero, alla responsabilità internazionale dello Stato nei confronti dei cittadini stranieri per danni ad essi causati, ovvero, per il pregiudizio arrecato ai rispettivi beni o diritti patrimoniali. Seppure, soprattutto nel secolo scorso, siano stati effettuati diversi tentativi di codificazione delle norme internazionali in materia, non si rinviene oggi nel diritto internazionale un testo di riferimento, quale una convenzione sul trattamento dello straniero, dovendo essere ricostruito un corpus normativo fondato su una pluralità di strumenti. È, inoltre, in corso un’evoluzione del tema che pone maggiore riguardo ai profili relativi alla protezione internazionale dei diritti della persona.
Il termine straniero, in un’accezione negativa che mette in risalto la non-appartenenza ad una comunità politica, indica tanto colui che non possieda la nazionalità dello Stato in cui si trova (straniero in senso stretto), quanto chi non possieda alcuna cittadinanza (apolide). Quest’ultimo status, di natura particolare e di portata più limitata, riceve una protezione specifica da parte del diritto internazionale (si veda, in particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite per la riduzione dell’apolidia del 30 agosto 1961).
Il considerevole incremento del numero dei migranti nel mondo (nel 2013 erano 232 milioni a fronte di 79 milioni nel 1960), ovvero di stranieri che vivono, in misura più o meno stabile, sul territorio di un Paese diverso da quello di origine, mette ben in luce l’esigenza di definirne oggi lo status.
Tradizionalmente, il trattamento dello straniero nell’ambito del diritto internazionale assumeva rilievo con riferimento agli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini all’estero, alla responsabilità internazionale dello Stato nei confronti dei cittadini stranieri per danni ad essi causati, nonché, al pregiudizio arrecato ai rispettivi beni o diritti patrimoniali. L’esercizio della protezione diplomatica, da parte dello Stato, e l’esistenza o individuazione di standard di trattamento sono alla base del processo di formazione delle norme in materia di trattamento o condizione degli stranieri.
I tentativi di codificare lo statuto dello straniero sono rimasti senza successo e le convenzioni adottate sul tema si limitano a regolare specifiche categorie (rifugiati, apolidi, migranti lavoratori) oppure definiscono, su base bilaterale o multilaterale, norme che direttamente o indirettamente attengono al trattamento dei rispettivi cittadini (persone fisiche o giuridiche), o ancora riguardano determinati profili (es. traffico di persone), ma non affrontano la condizione dello straniero o del migrante in termini generali. Nel secolo scorso, l’emergere dei diritti umani ha, però, inciso direttamente e profondamente sulla condizione dello straniero, portando a riconsiderare il tema in maniera più ampia entro il quadro della protezione internazionale dei diritti della persona, rispetto all’approccio impostato sui vincoli ed impegni esistenti fra gli Stati nel trattamento dei rispettivi cittadini. Se, in una visione tradizionale, lo Stato è ritenuto libero di decidere in merito all’ammissione, al trattamento e all’espulsione dello straniero, quale prerogativa della propria sovranità, il processo evolutivo in corso solleva interrogativi in merito all’esistenza di standard o garanzie definiti a livello internazionale, in virtù degli obblighi di tutela dei diritti umani, a cui lo Stato debba attenersi. L’indagine deve pertanto opportunamente volgersi anche verso l’identificazione delle norme applicabili allo straniero nell’ambito delle convenzioni generali sui diritti umani.
Si constata, inoltre, soprattutto nell’ultimo decennio, il moltiplicarsi di processi di consultazione informale finalizzati a rafforzare la collaborazione e la fiducia tra Stati (nell’ambito delle Nazioni Unite sono stati promossi, in particolare, un High-Level Dialogue on Migration and Development, il Global Forum on Migration and Development e il Global Migration Group).
Infine, un’ulteriore incidenza sulla definizione del trattamento dello straniero va ascritta ai processi di integrazione regionale. Si distingue in tal senso il processo di integrazione europea, ove gli aspetti attinenti alla libertà di circolazione e di stabilimento dei cittadini degli Stati membri sono stati assunti a fondamento del progetto sin dall’inizio. Successivamente all’attribuzione di una specifica competenza all’Unione europea, nei settori dei visti, asilo e immigrazione, con il Trattato di Amsterdam del 1997 (in vigore dal 1999), il diritto dell’Unione europea ha significativamente innovato il quadro giuridico degli Stati membri anche con riferimento al trattamento dei cittadini di paesi terzi.
Le prime regole in materia si sono formate, da un lato con il riconoscimento da parte del “sovrano” al proprio “suddito” di un diritto di rappresaglia, dall’altro lato con la stipulazione di “accordi fra sovrani”, aventi ad oggetto le reciproche relazioni di pace e di amicizia e soprattutto di commercio. In tale quadro, tuttavia, lo straniero non veniva riconosciuto titolare di diritti, in quanto lo Stato rivendicava la più ampia libertà. Nel XIX secolo, la giurisprudenza arbitrale delle commissioni di reclamo (claims commissions, nate da accordi internazionali per la soluzione di controversie fra Stati relative alla protezione dei rispettivi cittadini, ovvero istituite dai singoli ordinamenti nazionali), contribuì in maniera significativa allo sviluppo delle norme sul trattamento degli stranieri, seppur con maggior attenzione ai profili di responsabilità degli Stati per i danni causati agli stranieri e alla legittimità e all’ammontare delle pretese avanzate in relazione agli stessi.
Emergeva nel frattempo, però, una diversità di visioni in merito al trattamento da riconoscere allo straniero: da un lato i sostenitori di un obbligo dello Stato di assicurare ad esso un trattamento non diverso da quello spettante ai propri cittadini (“standard di trattamento nazionale”) e dall’altro lato chi invece riteneva si dovesse assicurare un minimo di garanzia e protezione non inferiore a un certo parametro o standard (“standard minimo internazionale”). Una disputa anche politicamente connotata e riconducibile all’atteggiamento assunto dai Paesi latino-americani nei confronti dei Paesi europei e degli Stati Uniti per l’abuso compiuto nel ricorso allo strumento della protezione diplomatica, favorendo la nascita di quel movimento di contestazione dell’istituto, riassunto nella cd. dottrina Calvo, elaborata alla fine del XIX secolo dal giurista e diplomatico argentino, in base alla quale eventuali controversie coinvolgenti persone e beni stranieri sarebbero dovute essere soggette alle sole norme e alla sola giurisdizione nazionale. Va ricondotta a tale dottrina la clausola inserita dai Paesi latino-americani, nei contratti con imprese straniere, di rinuncia alla protezione del proprio Stato (cd. clausola Calvo).
All’inizio del secolo scorso, alcuni tentativi intrapresi, nell’ambito della Società delle Nazioni e a livello regionale, di codificare il trattamento dello straniero ebbero un esito deludente rispetto ai propositi iniziali. La Convenzione panamericana sulla condizione degli stranieri del 20 febbraio 1928 si limitò a dettare poche norme, riconoscendo tuttavia il principio della parità di trattamento degli stranieri quanto al godimento delle garanzie individuali e dei diritti civili essenziali, mentre il progetto di Convenzione sul trattamento degli stranieri, predisposto dal Comitato economico della Società delle Nazioni, ed oggetto di ampie discussione alla Conferenza di Parigi del 1929, non fu mai adottato.
Nei decenni successivi, il mutato contesto internazionale determinato dal processo di decolonizzazione, con le conseguenti trasformazioni sociali e di governo e le istanze per un nuovo ordine economico internazionale, rinvigorì il dibattito, mettendo in discussione l’istituto della protezione diplomatica così come le norme sulla responsabilità per danni agli stranieri, ritenute espressione di un diritto internazionale proprio dei Paesi occidentali e imperialisti. Anche riprendendo le ragioni precedentemente invocate dai Paesi latino-americani, i nuovi Stati rivendicavano una sovranità piena sulle risorse naturali e su tutte le attività economiche esercitate nel territorio, affermando il diritto di espropriare e nazionalizzare senza doversi attenere a determinati limiti, e ribadendo la competenza delle giurisdizioni interne del Paese, e delle leggi nazionali, in caso di controversia. Significative in tal senso sono alcune risoluzioni delle Nazioni Unite, indicate quale ulteriore prova della libertà dello Stato, generalmente riconosciuta, di scegliere e organizzare il proprio sistema economico, adottando le misure ritenute necessarie a prescindere dalla nazionalità dei beni e delle persone coinvolte, salvo il riconoscimento di un eventuale indennizzo. Tale nuovo fermento non investì però il tema del trattamento dello straniero nel suo complesso, il dibattito essendosi incentrato essenzialmente sugli aspetti relativi alla nazionalizzazione e all’espropriazione.
Nuovi tentativi di codificazione del tema furono intrapresi a partire dagli anni Settanta, con esiti invero non molto diversi dal passato. La Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite decise di affrontare il tema della responsabilità dello Stato per danni causati alla persona o proprietà straniera. Il progetto di convenzione, elaborato dal relatore speciale Garcia-Amador, era tra l’altro inteso a conciliare le opposte teorie sugli standard di trattamento, anche alla luce dei principi di tutela dei diritti fondamentali proclamati nei principali strumenti internazionali. Tuttavia le proposte elaborate, in particolare quelle relative ai diritti civili e alle garanzie giurisdizionali, oggetto di critiche, per vari motivi attinenti sia al metodo, sia alla sostanza, non condussero all’adozione di una convenzione. Successivamente, su iniziativa della Commissione dei diritti dell’uomo, più precisamente dalla Sottocommissione per la lotta contro le misure discriminatorie e per la protezione dalle minoranze, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con risoluzione del 13 dicembre 1985, n. 40/144, adottò la Dichiarazione sui diritti umani delle persone che non sono cittadine del Paesi in cui vivono. In essa era definito il trattamento del solo straniero legalmente residente, sotto diversi profili, con attenzione alla necessità di garantire un complesso di diritti civili. Non esente da critiche, la Dichiarazione ha rivestito scarso rilievo pratico.
Secondo un’impostazione tradizionale, l’esercizio della protezione diplomatica in caso di violazione di un diritto commessa da uno Stato straniero all’estero nei confronti del cittadino si configura come un diritto proprio dello Stato (l’individuo non rilevando in quanto tale), che viene esercitata dallo Stato di origine sulla base di una “finzione”. La protezione dei diritti del cittadino è, infatti, attuata “fingendo” che la violazione sia stata, in realtà, perpetrata ai danni dello Stato stesso. Più di recente l’istituto è apparso caratterizzarsi per una maggiore attenzione ai diritti della persona offesa. Rilevano in proposito alcune importanti decisioni rese da Corti internazionali, nonché il Progetto di articoli sulla protezione diplomatica, adottato dalla Commissione di diritto internazionale nel corso della 58a sessione nel 2006, ove appunto si tiene conto, per alcuni profili (si vedano gli artt. 6 e 8 del Progetto) dei diritti della persona in quanto tale, piuttosto che di quelli del cittadino ovvero del Paese di appartenenza dello stesso. Particolarmente significative appaiono le considerazioni contenute nel Commentario al Progetto, che mettono in evidenza la progressiva evoluzione della posizione dell’individuo nell’ordinamento giuridico internazionale e dell’istituto stesso. Un altro aspetto rilevante del Progetto riguarda la possibilità di intervento dello Stato, in caso di grave violazione dei diritti umani.
Il tema della protezione diplomatica e consolare è stato affrontato anche nell’Unione europea, disponendo l’art. 23 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; nella parte relativa alla cittadinanza dell’Unione) che ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un Paese terzo in cui lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. La tutela diplomatica e consolare è, inoltre, espressamente riconosciuta quale diritto fondamentale del cittadino dell’Unione all’art. 46 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
L’affermazione dei diritti umani in ambito internazionale ha inciso significativamente sul tema del trattamento dello straniero.
Anche alla luce del principio di non discriminazione, che insieme a quello di uguaglianza, informa l’intero sistema dei diritti umani, è stata posta sempre maggiore attenzione verso un obbligo degli Stati di rispettare, proteggere e dare attuazione ai diritti fondamentali di tutti gli individui presenti nel loro territorio, a prescindere dalla nazionalità. Sulla base del principio di non discriminazione viene, infatti, sempre più di frequente valutata la legittimità di limitazioni apposte alla condizione dello straniero, caratterizzandosi il sistema dei diritti umani su una premessa di universalità che rende eventuali eccezioni fondate sulla nazionalità ammissibili solo in alcune limitate ipotesi in cui la distinzione tra cittadini e non cittadini sia funzionale ad uno scopo legittimo (si vedano le affermazioni nel rapporto The rights of non-citizens del Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei non cittadini Weissbrodt, doc. E/CN. 4/Sub. 2/2003/23 del 26 maggio 2003, contenente una sintesi dei principi generali e delle eccezioni applicabili ai diritti dei non cittadini).
Ulteriore incidenza sul tema va ascritta alle convenzioni e alle iniziative, attuate a livello regionale, e alla giurisprudenza delle rispettive Corti di salvaguardia dei diritti della persona. Inoltre, l’orientamento manifestato dalla Corte internazionale di giustizia, quanto all’affermazione di obblighi di carattere fondamentale o erga omnes che tutelano la persona umana indipendentemente dal vincolo di cittadinanza così come alcuni orientamenti manifestati dalle Corti costituzionali nazionali, in riferimento al tema della condizione giuridica dello straniero e dell’immigrazione, della sua ammissione ed espulsione e dei diritti da riconoscergli, hanno altresì inciso sull’evoluzione di detto statuto. Soprattutto, dagli anni Novanta, sono state numerose le iniziative intraprese dalle Nazioni Unite sul tema che, richiamando la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, come pure i principali strumenti di tutela dei diritti fondamentali elaborati in seno alle Nazioni Unite, confermano il progressivo inquadramento del tema nel più generale ambito della tutela dei diritti degli individui.
In tale solco va quindi collocata l’adozione, nel 1990, della Convenzione delle Nazioni Unite sulla protezione internazionale dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Tale convenzione, che contribuisce a definire lo statuto di una particolare categoria di essi (il migrante lavoratore), in relazione a una pluralità di aspetti (tra cui accesso al mercato del lavoro, istruzione, salute, diritti processuali) è entrata in vigore nel 2003, ma la sua portata appare limitata dalla circostanza che è finora stata ratificata essenzialmente dai Paesi di origine dei migranti. La Convenzione non definisce diritti specificamente rivolti ai migranti, se non in misura limitata, ma offre una più precisa interpretazione dell’applicazione delle norme in materia di diritti umani, contenute nel corpus dei diritti fondamentali, nei confronti dei lavoratori migranti. Essa, inoltre, contiene un elenco (parte terza) di tutti i diritti spettanti specificamente a tale categoria di stranieri, a prescindere dal proprio status, sancendone pertanto l’applicazione anche agli immigrati in posizione irregolare. Proprio questo aspetto rappresenta tuttavia uno dei profili più problematici, all’origine dell’ostilità di diversi Stati alla ratifica della Convenzione.
Allo stato attuale, appare quindi corretto ricostruire il trattamento dello straniero delineandolo come sintesi tra gli aspetti “tradizionali” e le norme che tutelano i diritti fondamentali dell’individuo. Emergono così alcuni diritti di carattere assoluto (è il caso in particolare del diritto alla vita o del divieto di trattamenti inumani e degradanti), rispetto ad altri per i quali invece si impone un’esigenza di bilanciamento tra la tutela dell’individuo e della comunità, e le restrizioni sono ammissibili purché apposte entro determinati parametri di legittimità. Tale mutato approccio amplia l’ambito degli obblighi dello Stato al riconoscimento di diritti che secondo l’approccio tradizionale non erano attribuiti allo straniero.
Lo straniero non gode, tradizionalmente, di quelle situazioni giuridiche soggettive che danno titolo ai componenti della collettività di partecipare attivamente al suo governo, alla formazione della volontà dello Stato: il diritto di elettorato attivo e passivo, l’accesso agli impieghi e uffici pubblici in genere, la libertà di associazione per fini politici, sono in linea di principio riservate dalle Costituzioni ai cittadini. Alcune eccezioni limitate a un diritto di elettorato a carattere locale si rinvengono nell’ambito di iniziative convenzionali promosse dal Consiglio d’Europa (in particolare la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale) e nell’istituzione della cittadinanza dell’Unione europea. Pur emblematiche di un processo di sempre più stretta integrazione e assimilazione esse sono, tuttavia, rivolte ai soli cittadini dei rispettivi Paesi membri. A tale esclusione è correlata la non sottoposizione ad obblighi di carattere politico: lo straniero non ha l’obbligo (in linea di massima) di prestare il servizio militare, dato il dovere di fedeltà che lega l’individuo al Paese di appartenenza.
Va, in un profilo evolutivo, segnalato che la residenza legale e prolungata in un Paese diverso da quello di cittadinanza sta assumendo rilievo nell’ambito del rapporto tra l’individuo e lo Stato, tanto da far ritenere che sia in corso di formazione una nozione distinta da quella di cittadinanza, tesa ad esprimere l’appartenenza ad una comunità, e definibile come “cittadinanza di residenza” o cittadinanza “civile” o “civica”. La persona residente acquisirebbe uno status che, per certi profili, assomiglia a quello del cittadino, vale a dire della persona riconosciuta dallo Stato come proprio appartenente. Diversi atti e programmi successivi alla “comunitarizzazione” della politica in materia di visti, asilo e immigrazione (Trattato di Amsterdam, 1997) hanno affrontato il tema della partecipazione alla vita pubblica dei migranti, prospettando una nozione di “cittadinanza civile”. Considerazioni in proposito sono state espresse anche dal Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti (Rapporto annuale, 2011).
Nell’ambito dei diritti civili si riscontra una maggiore coincidenza tra l’approccio tradizionale e la nuova prospettiva di tutela dei diritti della persona. Anche allo straniero sono, infatti, riconosciuti i diritti e le libertà necessarie ad una vita degna della persona umana, quali appunto il diritto alla vita, alla sicurezza della persona, alla libertà individuale, ma anche il diritto a non essere ridotto in schiavitù, a non essere sottoposti a tortura, a trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti, all’inviolabilità delle propria vita privata, alla libertà di pensiero, di comunicazione, di religione, al riconoscimento della personalità o capacità giuridica. Significative sono in proposito alcune recenti affermazioni di Corti internazionali che hanno ritenuto il divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani o degradanti, formulato in termini assoluti in atti e convenzioni internazionali, uno dei valori fondamentali delle società democratiche, per il quale non sono ammissibili deroghe ed eccezioni, anche in caso di emergenza pubblica che minacci la vita della nazione, una regola del diritto internazionale generale vincolante per gli Stati in ogni circostanza (Corte internazionale di giustizia, 30.10.2010, Sadio Diallo - Repubblica di Guinea c. Repubblica democratica del Congo, par. 87; C. eur. dir. uomo, 29.1.2008, Saadi c. Regno Unito). Seppur soggetto ad un bilanciamento, sempre crescente rilievo, con riferimento al trattamento dello straniero, al suo allontanamento e più di recente alla sua immissione sul territorio, assume la protezione della famiglia ed il diritto alla vita familiare, anch’esso sancito negli strumenti internazionali sui diritti dell’uomo.
Più complessa è la riflessione in merito alla libertà per lo straniero di circolare, trasferirsi e soggiornare in Paese diverso dal proprio. Sebbene diversi trattati internazionali garantiscano espressamente la libertà di circolazione agli stranieri, ed in particolare il diritto di circolare liberamente all’interno del territorio statale ed il diritto di emigrare, questa garanzia non include il diritto di immigrare in un Paese diverso dal proprio, tanto da far ritenere il diritto di emigrare un diritto “monco” o “asimmetrico”. Un tema che assume drammatico rilievo con riferimento al crescente numero di persone che tentano di fare ingresso, con qualsiasi mezzo e anche a rischio della vita, nel territorio di altri Stati. Controverso, ed al centro della più recente elaborazione, è anche il profilo attinente alla “criminalizzazione” del migrante, ovvero alla condizione giuridica dello straniero che abbia fatto ingresso o si trattenga sul territorio nazionale, in violazione delle norme sull’immigrazione, per il quale si prospetta la possibilità di reprimerne penalmente la condotta e limitarne i diritti, anche con effetto dissuasivo dell’irregolarità.
Oltre ai diritti sostanziali di carattere essenziale, allo straniero sono riconosciuti, quale corollario degli stessi, diritti e garanzie procedurali. Essi comprendono il diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso, a un equo, sollecito e pubblico processo avanti a un’autorità giurisdizionale indipendente e imparziale, il diritto di difesa, il diritto al rispetto dei principi di legalità e tassatività anche in ambito penale. Particolarmente significative a tale proposito appaiono le cautele contenute nella CEDU (artt. 6 e 13) e nel Patto per i diritti civili e politici (art 2, par. 3). L’art. 1 del protocollo n. 7 della Convenzione è invece specificamente dedicato alle garanzie procedurali contro l’espulsione dello straniero. Tale previsione incontra tuttavia il limite derivante dall’applicazione limitata alla sola espulsione dello straniero regolarmente soggiornante. Le garanzie procedurali in relazione alla misura di espulsione disposta verso lo straniero rappresentano, tuttavia, un tema complesso, ove si ravvisano differenze negli strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali e nelle legislazioni nazionali.
Per quanto attiene ai diritti economici e sociali, pur in presenza di un movimento a favore dell’affermazione e riconoscimento, espresso in specie nel Patto internazionale che disciplina, per l’appunto, i diritti economici, sociali e culturali, e sebbene la Dichiarazione adottata a conclusione della Conferenza mondiale sui diritti dell’uomo (Vienna, 25 giugno 1993) metta in luce l’universalità, l’interdipendenza e la stretta connessione di tutti i diritti della persona, essi risultano attuati con minor forza, anche in ragione del fatto che (specie i diritti sociali) presuppongono azioni positive da parte dello Stato, richiedendo di operare delle scelte sulla ripartizione delle risorse per la collettività.
In passato, anche l’attribuzione di diritti economici e sociali allo straniero era visto come un aspetto del più generale rapporto tra lo Stato di origine e lo Stato di destinazione dello straniero. All’inizio del secolo scorso furono adottate diverse convenzioni multilaterali sotto l’egida dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che tuttavia subordinavano l’attribuzione di diritti (in particolare con riferimento ai lavoratori migranti) alla condizione di reciprocità. Anche sotto questo profilo, quindi, l’emergere del paradigma dei diritti umani ha svolto una significativa influenza, come testimonia il rapporto presentato nel 2010 al Comitato economico e sociale delle Nazioni Unite dal Commissario per i diritti umani (E/2010/89), ove si sottolinea che il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità e il principio di uguaglianza operano anche in tale ambito. Pertanto i diritti economici e sociali sanciti, in particolare, nel Patto sono considerati applicabili ad ogni persona, inclusi i non-cittadini, in tutte le variegate categorie quali i rifugiati, i richiedenti asilo, gli apolidi, i lavoratori migranti le vittime di tratta, a prescindere dal loro status giuridico, dovendo pertanto le distinzioni fra i cittadini e non cittadini, tra migranti e non migranti, o tra diversi gruppi di migranti, fondarsi su criteri “proporzionati e ragionevoli”.
Più controverso appare oggi il riconoscimento dei diritti economici e sociali nei confronti dei migranti in posizione irregolare. Le misure di controllo dell’immigrazione che abbiano per scopo o effetto di scoraggiare gli immigrati irregolari dall’accedere ai diritti economici e sociali, specie quelli di base (come i servizi o le strutture sanitarie, imponendo per esempio un obbligo di denuncia dello straniero irregolare in capo al personale, ma anche l'istruzione, oppure che neghino l’accesso a tali diritti al fine di scoraggiare l’ingresso dello straniero irregolare), possono tuttavia configurarsi come sproporzionate ed in contrasto con tale orientamento.
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948); CEDU; Convenzione per la riduzione dell’apolidia del 30 agosto 1961; Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966; Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 16 dicembre 1966; Convenzione delle Nazioni Unite sulla protezione internazionale dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 18 dicembre 1990; Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale del 5 febbraio 1992; Progetto di articoli sulla protezione diplomatica, in Yearbook of the International Law Commission, 2006, vol. II, parte seconda; artt. 18-25 e 67-80 TFUE; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione il 7 dicembre 2000, un testo modificato venne proclamato dalle stesse istituzioni il 12 dicembre 2007 a Strasburgo).
Per i dati statistici: International Migration 2013, UN-DESA, New York, 2013.
Sul tema del trattamento dello straniero in generale, si veda nel passato, Basdevant, S., Etranger (Théorie générale de la condition de l’), in Rép. DI, VIII, 1930, 4 ss.; Borchard, E.M., The diplomatic protection of citizens abroad, New York, 1915, 3 ss.; Brownlie, I., Treatment of aliens: assumption of risk and the International standard, in International Recht und Wirtschaftordnung, Festschrift für F. A. Mann, München, 1977, 309 ss.; Doehring, K., Aliens, in Encyclopedia of public International law, VIII, Amsterdam-New York-Oxford, 1985, 6 ss.; Giuliano, M., Lo straniero nel diritto internazionale, in CI, 1981, 329 ss.; Lillich, R.B., Duties of States regarding the civil rights of aliens, in RCADI, 1978, III, 339 ss.; Roth, A.H., The minimum standard of International law applied to aliens, Leiden, 1949, 32 e 62 ss.; Verdross, A., Les Règles internationales concernant le traitement des étrangers, in RCADI, 1931, II, 327 ss.
Più di recente, i vari contributi in Aleinikoff, T.A.-Chetail, V., (eds.), Migration and International Legal Norms, The Hague, 2003; Benvenuti, P., (a cura di), Flussi migratori e fruizioni dei diritti fondamentali, Ripa di Fagnano Alto, 2008; Chetail, V., (a cura di), Mondialisation, migrations et droits de l’homme: le droit International en question, II, Bruxelles, 2007; Hailbronner, K.-Gogolin, J., Aliens, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, Oxford, 2009; Nascimbene, B., Straniero nel diritto internazionale, in Dig. pubbl., XV, Torino, 2000, 179 ss.; Nascimbene, B., Lo straniero nel diritto internazionale, Milano, 2013, pubblicato anche come voce Straniero (diritto internazionale), in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, 884 ss.; Nascimbene, B., Le droit de la nationalité et le droit des organisations d’intégration régionale. Vers de nouveaux statuts de résidents?, in RCADI, 2014, 253 ss.; Tiburcio, C., The Human Rights of Aliens under International and Comparative Law, The Hague-Boston, 2001; Pisillo Mazzeschi, R.-Flauss, J.P., (sous la direction de), Migrations de populations et droits de l’homme, Bruxelles, 2011; i vari contributi in Sir Plender, R., Issues in International Migration Law, Leiden, 2015; Rubio Marin, R., (ed.), Migration and Human Rights, Collected Courses of the Academy of European Law, Oxford, 2014; Weissbrodt, D., The Human Rights of Non-citizens, Oxford, 2008.