Subculture
Il concetto di subcultura presuppone necessariamente quello, antecedente e più comprensivo, di cultura. Si può dire che la subcultura contenga le proprietà di base che si riconoscono come costitutive di una cultura, o della cultura di cui la subcultura è parte, ma che possegga altresì sue caratteristiche e che riguardi ambiti ed estensioni specificamente definiti.Nella storia degli studi etnoantropologici la conformità di caratteri fra un sistema di cultura considerato come complesso e i suoi sottosistemi o i suoi livelli - le subculture - fu assunta come tratto primario. Così, R. Linton in The study of man presenta la differenza fra cultura e subcultura come differenza di scala, o più precisamente come differenza fra componenti e totalità integrata. La cultura, nella sua interezza, è sostanzialmente un insieme di subculture aggregate: "Mentre gli etnologi hanno sempre avuto l'abitudine di descrivere tribù e nazionalità come se fossero le unità primarie portatrici di cultura, in effetti la cultura totale di una società di questo tipo è un aggregato di subculture. All'interno di tribù o di civiltà non meccanizzate, queste subculture sono in genere vissute dai vari gruppi locali che formano la società totale, e vengono trasmesse all'interno di questi gruppi [...]. Ognuna delle subculture differisce per qualche aspetto da tutte le altre, e la cultura totale consiste nella somma delle sue subculture, più certi elementi che sono il risultato dell'interazione di queste" (v. Linton, 1936; tr. it., p. 305).
Impostazione, questa, che predilige una visione sintetica o 'sinteticistica': la cultura è scomponibile in segmenti o repliche locali, ognuna delle quali è suscettibile di generare un suo particolare universo di dominio. Occuparsi di culture locali o di varianti di un sistema culturale, di comunità o di ambiti specifici come se si trattasse di vere e proprie culture: è questo il principio, più o meno dichiarato, che si incontra nelle esperienze di ricerca che, fra gli anni trenta e quaranta del Novecento, accompagnano la formazione dell'antropologia urbana come disciplina scientifica. Ciò vale, ad esempio, per i programmi che ispiravano i sociologi della Scuola di Chicago, in primo luogo Robert Park, i quali assumevano esplicitamente l'etnografia come metodo di indagine sui fatti sociali. La città veniva rappresentata come una costellazione di 'aree naturali', che si specializzano e si differenziano sia, appunto, spazialmente, sia anche per il prevalere di determinate configurazioni sociali, costumi, stili e tipologie antropologiche (v. oltre, cap. 3). Rispetto alla categoria di etnia o di etnicità, la diversità subculturale appare come un'articolazione debole. La diversità etnica è stata concepita, tradizionalmente, come qualcosa di preliminare e di ascrittivo: si è etnicamente diversi perché si appartiene a identità 'originarie' irriducibili e non confondibili. La diversità subculturale, al contrario, dipende dalla variabilità interna alla comune appartenenza o alla comune partecipazione a un sistema di costumi condiviso. Questo non impedisce che talune analisi autorevoli (ci riferiamo per esempio agli studi relativamente recenti di Frederik Barth e di Anthony Cohen) cerchino di stabilire delle conversioni fra appartenenza culturale e appartenenza etnica. Nell'opera di Cohen (v., 1974) la differenziazione subculturale è intesa come una sorta di differenziazione etnica. I citymen, gli uomini d'affari della City di Londra, per esempio, possono legittimamente essere rappresentati come portatori di una specifica originalità, praticata e professata come esclusiva. Gruppi di questo genere finiscono per distinguersi e autoriconoscersi per l'identità professionale e sociale, ma anche per un'identità di stile, di modo di fare e di pensare. È vero, peraltro, che un simile accostamento fra l'appartenenza culturale e la sua 'etnicizzazione' è reso possibile da un impiego meno sostanzialista della categoria di etnicità. Per Cohen - come, prima di lui, per Barth (v., 1969) - l'appartenenza etnica è modificabile, può essere organizzata e influenzata da interessi di potere o da strategie di alleanza, così che, alla fine, l'etnicità può essere trasposta in subcultura.
Le proprietà di base comuni ai due livelli di scala - quello comprensivo del sistema totale e quello parziale o di variante di un sottosistema culturale - possono essere elencate sommariamente. Come la cultura, la subcultura fornisce sistemi di pensiero, costumi, pratiche e codici di interazione sociale, stili di vita; in breve, tutto ciò che in diverse riprese l'antropologia ha proposto di definire come folkways (Sumner), patterns (Benedict), "modelli standardizzati di comportamento" (Nadel), "traffico pubblico di significati" (Geertz). La cultura non tralascia nessuno degli ambiti di presenza e azione umana; tende a culturalizzare tutto ciò che è suscettibile di dar vita a modi, morfologie e stereotipi di condotta. La cultura produce standard d'azione e di coazione, organizza risposte in situazioni più o meno prevedibili e fornisce alternative perseguibili. Tutto questo può essere attribuito anche a ciò che chiamiamo subcultura, sia pure a un livello subordinato. Modi di pensare, di presentarsi, di fare, scelte di valori che dipendono da influenze locali e da costumi più 'interni' o secondari rispetto a quelli primari possono tuttavia avere la stessa forza di orientamento che hanno i modi di pensare e i valori istituzionali.Il carattere collettivo, impersonale, trasmissibile e durevole dei patterns compare, dunque, tanto nel caso di modelli culturali che appartengono a un sistema inglobante e pervasivo (culture nazionali, gruppi etnicamente omogenei, intere famiglie etniche o linguistiche), quanto nel caso di sistemi o sottosistemi più ristretti, incorporati in sistemi inglobanti rispetto ai quali possono apparire a seconda dei casi come parti o segmenti, specificazioni o varianti, derivazioni o deformazioni.
Più difficili da determinare sono invece i caratteri distintivi. Ci limiteremo a indicare alcuni elementi che sembrano più rilevanti.
1. Un primo elemento di rilievo può essere individuato nella tendenza della subcultura a configurarsi come cultura subordinata rispetto alla cultura inglobante. Tale subordinazione assumerà non di rado il carattere di inferiorità. Taluni usi correnti del termine - nella variante di 'sottocultura' - suggeriscono appunto una connotazione di valore negativa (si tratterà allora di cultura degradata). L'opposizione di valore fra alta cultura e bassa cultura si intreccia con altre polarità oppositive: centralità/perifericità, istruzione/ignoranza, universalità/particolarismo. Tuttavia, almeno in termini formali, si può parlare di subcultura anche quando si tratta di complessi inclusi, parziali ma non inferiori.
2. Non minore importanza riveste la corrispondenza fra livelli di segmentazione culturale e livelli di segmentazione sociale. Finché permane il carattere comprensivo e inglobante di un sistema culturale primario, i suoi sottosistemi e le sue varianti appariranno conformi alla suddivisione del corpo sociale in gruppi, sottogruppi, livelli di status. In questa luce appare chiara la necessità di sostenere l'antropologia dei sottosistemi culturali con un'adeguata sociologia dei gruppi e dei sottogruppi.
Le definizioni canoniche associano la distribuzione dei livelli di cultura e subcultura alla mappa sociale per classi, ceti e gruppi che definisce un aggregato umano. In alcuni casi alla distinzione tra cultura e subcultura (e a quella corrispondente fra l'insieme e le sue sottoparti socialmente distinguibili) corrisponde una differenza non solo di oggetto o di categoria nel reale, ma anche di pertinenza disciplinare. Così, nel trattato di Antropologia culturale di Ember ed Ember - che gode da più di due decenni di un buon credito scientifico nel settore - l'antropologia culturale viene presentata come la disciplina che si occupa della cultura, mentre lo studio delle subculture dovrebbe essere affidato alla sociologia: "Quando parliamo di costumi condivisi e comuni in una società, che costituiscono l'oggetto centrale dell'antropologia, ci riferiamo alla cultura. Quando parliamo invece di costumi condivisi in un gruppo interno a una società, i quali sono oggetto della sociologia, ci riferiamo a una subcultura" (v. Ember ed Ember, 1973, p. 17).
Se la connessione fra sottogruppi e sottoculture può essere mantenuta, in una certa misura, come proficuo principio d'orientamento, non è opportuno tuttavia limitare a questa norma la definizione del campo in cui si creano e si trasmettono subculture.Esistono circuiti di relazione che danno luogo a costumi e pratiche culturali anche quando non coincidono con vere e proprie classi collettive di aggregazione sociale. In questa prospettiva si terrà conto dei 'networks' di relazione, per esempio le reti della clientela politica, e delle aggregazioni temporanee o 'virtuali' (lo sport di massa, la circolazione elettronica, ecc.) dei 'quasi-gruppi' (v. Mayer, 1966; v. Hannerz, 1980). In tal senso è preziosa la puntualizzazione che Sigfried Nadel offre nel suo Lineamenti di antropologia sociale, discutendo del rapporto fra gruppi e culture:" Solo nel caso di piccoli gruppi omogenei, nettamente segregati da altri da ostacoli a qualsiasi tipo di rapporto, troveremo facile collegare una 'cultura totale' a una precisa 'società' o 'popolazione'. Altrove troveremo gruppi di varia consistenza, coesistenti in seno a un gruppo maggiore, e 'quasi-gruppi' estendentisi oltre quel limite. Non tutti saranno 'popoli' secondo i criteri che applichiamo normalmente; possono essere solo classi o strati sociali, sotto-tribù, popolazioni di distretti e così via. Ma possono mostrare complessi diversi di modi di comportamento, cioè apparire come portatori di culture differenti" (v. Nadel, 1951; tr.it., p. 441).
3. Bisogna ricordare ancora, ed è un tratto senza dubbio basilare, la direzionalità asimmetrica dei processi di elaborazione subculturale, che procede dall'alto verso il basso. Una subcultura si alimenta di materiali simbolici, ethos, paradigmi e patterns di condotta che provengono dai codici e dai depositi del sistema comprensivo, per riformularli in nuove configurazioni più o meno difformi. Si è soliti presentare tale asimmetria legandola alla stratificazione di classe, alla gerarchia di casta o ceto, o anche alla 'gerarchia etnica'.I meccanismi che generano e rigenerano la diversità sono piuttosto complessi. Se in generale si può parlare di diffusione dall'alto verso il basso (e quindi di assimilazione e ricezione dal basso), non si deve dimenticare che le dinamiche dell'identità subculturale sono attraversate da vettori di competizione, di contrasto e di rigetto. Il "consumo ostentatorio" (conspicuous waste), di cui parlava Veblen (1899) a proposito delle strategie di identità che il ceto borghese americano seguiva al suo tempo, è tanto una pratica di esclusione quanto un potente dispositivo sociale di propagazione imitativa. Costumi e ambienti sociali collocati in posizioni di status marcate da una disparità irriducibile possono tuttavia 'comunicare' in una sorta di inseguimento all'infinito che procede per cicli di differenziazione/imitazione/nuova differenziazione.Per altro verso, il passaggio della cultura dalle élites colte alle classi subalterne è contrassegnato da fenomeni di degradazione, selezione, ricomposizione, attraverso i quali i 'cascami di cultura' raccolti al livello sociale più basso vengono sintetizzati in condensazioni simboliche, di stile, morali e ideologiche sostanzialmente differenti. Su questo punto uno dei contributi più significativi proviene dalle Osservazioni sul folclore di Antonio Gramsci, che risalgono al 1929-1930, e sono state attentamente esaminate e riproposte da Alberto Mario Cirese (v., 1961-1962) nella sua teoria dei dislivelli di cultura.
Il grado di effettiva autonomia che una subcultura può conseguire rispetto alla cultura di appartenenza è variabile, e variabili sono i fattori che concorrono ad accrescere o a diminuire questo distacco. Una subcultura può accentuare la rigidità dei patterns che riceve dalla cultura matrice, oppure può differenziarsene fino a produrre schemi di cultura contrari. Per quanto ampio possa diventare tale divario, resta il fatto che il concetto di subcultura presuppone l'inclusione. Se si accentua questo aspetto si avrà difficoltà ad ammettere che un sistema di valori e di costumi, interno a un altro più comprensivo, possa costituire una struttura separata e tuttavia inglobata in quella superiore. È per questo che, nella maggior parte delle definizioni antropologiche accreditate, si parla di non autonomia. Così, nella definizione proposta in uno dei manuali più diffusi negli Stati Uniti, il concetto di subcultura viene concisamente formulato come segue: "Un settore di una cultura estesa significativamente distinto, ma non autonomo, spesso basato su differenze di identità etnica, classe o casta, e/o sulla separazione geografica" (v. Hammond, 1978, p. 495).
Il valore di questa qualifica di non autonomia è tuttavia relativo. Una subcultura non può essere considerata autonoma fintanto che la sua esistenza dipende dal fatto che la cultura inglobante continui ad alimentarla di motivi, di materiali simbolici e di standard di comportamento. Nondimeno, il fatto stesso che entro un sottosistema culturale si insedino codici di condotta e orientamenti di pensiero che si distanziano dalla matrice comune da cui derivano è sufficiente a creare ambiti alternativi di libertà culturale i quali possono, quanto meno, coesistere con quelli formalmente codificati.
Più che di vera autonomia o separatezza si tratta qui di pluralità di livelli culturali, pluralità che talora coesiste negli stessi gruppi se non nella stessa persona. È un fenomeno tipicamente connesso alla crescente complessità delle società di massa, le quali ammettono, se non richiedono, che più identità (e più appartenenze a differenti livelli sottoculturali) convivano nello stesso soggetto sociale.
Alla molteplicità delle determinazioni dei ruoli, e delle configurazioni della 'persona', prestò attenzione Nadel, nel suo Lineamenti di antropologia sociale già menzionato. In una certa misura possiamo applicare il medesimo principio di variabilità all'ambito delle appartenenze culturali. Uno stesso soggetto si troverà a 'far parte' della subcultura del football per qualche aspetto e per qualche periodica occorrenza, della subcultura connessa ai networks informatici per altre occorrenze, della subcultura giovanile in altre ancora e così via.Una subcultura può dunque risultare inglobata e tuttavia anche parzialmente separata; essa ha infatti la capacità di definire alla sua scala ambiti di interesse, e perfino di norme o di sottonorme, che non si colgono - e in un certo senso 'non esistono' - finché si guarda alla scala dell'insieme. Per altro verso, continuerà a restare subordinata anche se potrà usufruire di spazi insufficientemente 'riempiti' dalla cultura totale o da questa abbandonati. Alcuni di questi connotati sono stati considerati come tratti distintivi della cultura popolare, tanto nell'accezione consueta di tradizione o folklore, quanto in quella, antropologicamente più congrua, di 'modi di vita', folkways e simili.Possono essere ritrovati in abbondanza esempi, se non veri e propri paradigmi antropologici, nei quali la cultura di livello inferiore viene trattata per i suoi caratteri distintivi e oppositivi (vale a dire, per opposizione tra superiore e inferiore, tra alta cultura e bassa cultura). Per tutti, si possono menzionare il concetto di 'cultura della povertà' di Oscar Lewis e la teoria della 'grande tradizione' e della 'piccola tradizione' di Robert Redfield e Milton Singer.
L'idea di 'subcultura della povertà' maturò, come spiega nella Prefazione a La cultura della povertà lo stesso Oscar Lewis, nello studio delle vecindades di Città del Messico. La ricerca ebbe come oggetto 171 famiglie povere di due quartieri popolari. Comparando questo caso con le analisi socioantropologiche che riguardavano più estesamente gli abitanti dei quartieri poveri nelle città, Lewis postulò che la ricorrenza di certi tratti di costume configurasse un modello specifico di cultura. "Fu la configurazione di questi tratti che, in mancanza di un termine migliore, chiamai subcultura della povertà" (v. Lewis, 1970; tr. it., p. 6).
La subcultura della povertà non è delimitata né da una particolare appartenenza territoriale, né da un'originalità etnica netta. I tratti che la definiscono (assenza di partecipazione alla società più vasta; basso livello di organizzazione; assenza di una vera e propria fanciullezza; abbandono e maltrattamento delle mogli; marginalità) sono prevalentemente di carattere negativo o privativo. La loro correlazione è statistica e vige in un continuum: la strategia di identità che si riproduce al suo interno non segue una linea univoca, sia essa di scissione o, all'opposto, di fusione con il sistema inglobante. Essa piuttosto combina l'una e l'altra: reagisce in forma oppositiva e nello stesso tempo si adatta alla logica responsabile della sua esclusione: "Da un punto di vista teorico la caratteristica essenziale della subcultura della povertà è che essa rappresenta sia una reazione che un adattamento del povero alla propria esclusione e debolezza nella società globale" (ibid., p. 7).
Lewis fu criticato per aver impiegato il termine 'cultura' invece di 'subcultura'. Egli spiega, sempre nella Prefazione, che la sua scelta finale, 'cultura della povertà', fu dettata dal timore che il termine 'subcultura' suggerisse un'idea di inferiorità, come 'subumano', e che pertanto, se avesse adottato solo l'espressione 'subcultura della povertà', il pubblico di lettori non specialisti avrebbe facilmente interpretato questa scelta come una svalorizzazione.
La polarità 'piccola tradizione/grande tradizione', di cui Redfield e Singer (v., 1954) fornirono il nucleo di base in un importante articolo, assume per così dire un'ottica inversa rispetto a quella che predilige il passaggio di cultura dall'alto verso il basso. La 'piccola tradizione' (popolare, non colta, preurbana) è la fonte della 'grande tradizione', che si costituisce e si stabilizza nei centri urbani per opera di specialisti della conoscenza. Quando la grande tradizione prende forza e si afferma come cultura superiore, tende a propagarsi e a distruggere la piccola tradizione, con un processo di 'trasformazione eterogenetica'. La dialettica dei due livelli di tradizione possiede in se stessa un interesse socio-politico e cultural-ideologico. Secondo Redfield e Singer la grande tradizione si diffonde per opera di una categoria di dotti, la cui stessa esistenza esprime valori che hanno una rilevanza ideologica predominante. È nello studio della società indiana che il paradigma delle due tradizioni ha avuto applicazioni felici ad opera di Milton Singer (v., 1959) e successivamente di altri studiosi. Nel codice gerarchico induista, il popolare e il colto (la bassa religione dei villaggi periferici o delle caste inferiori e la tradizione brahmanica) si oppongono come il non raffinato, grossolano e pesante da una parte, e dall'altra il perfezionato e il raffinato. Non si tratta di due sezioni separabili di una cultura costituita per sintesi, ma piuttosto di gradi distanti di perfezione, in una scala che al vertice incarna valori positivi e alla base si degrada nel loro opposto. La piccola tradizione si configura pertanto come la forma corrotta o inferiore di un sistema che nella sua più perfetta espressione la trascende. Si sarebbe tentati di affermare che, in senso formale, tanto la grande quanto la piccola tradizione potrebbero figurare 'alla pari', come due distinte subculture comprese in un sistema comune. In realtà la tradizione colta, brahmanica, assume strutturalmente il ruolo di una cultura totalizzante. Sono il suo sistema di pensiero, il suo rituale e il suo potere simbolico che risultano comprensivi, mentre la piccola tradizione è subordinata e inglobata.
Per decenni la categoria di subcultura è stata associata allo studio della marginalità, della devianza (ciò che una volta si definiva 'patologia sociale' o 'disadattamento'). La criminalità, il vagabondaggio o il nomadismo urbano, l'alcolismo fornirono materia di inchiesta e di osservazione nelle monografie che gli studiosi della Scuola di Chicago pubblicarono negli anni venti e nel decennio successivo. È d'obbligo ricordare qui l'opera fondamentale di Park, Burgess e McKenzie, The city, pubblicata nel 1925, nella quale viene prospettata quella particolare forma di etnografia della città che studia le 'regioni morali', i 'mondi sociali' di un complesso urbano come universi culturali distinti. In queste nicchie ecosociali si muovono diverse figure e diversi tipi riconoscibili: i vagabondi, i senzatetto, i ragazzi delle bande, le bande di zona. Gli attori sono materia viva dell'identità distintiva nello spazio culturale che occupano. Si forma nei dettagli una mappa definita di specializzazione culturale, entro un cosmo urbano e suburbano mutevole, non solo in termini spaziali, ma di ethos e di modello antropologico. Vengono alla luce in tal modo le zone 'interstiziali' di cui parla Trasher (v., 1927): la gangland, il territorio delle bande, il 'mondo della strada', le sale da ballo a pagamento, le mense e gli alberghi per i poveri. Sono luoghi, 'aree naturali', in cui si condensano stereotipi di comportamento, moduli e stili di azione. Sono luoghi di esperienza etnografica per chi voglia osservarli da vicino, nei quali la cultura 'locale' assume i connotati visibili di un modo di vivere, condiviso e comunemente codificato.
Esistono però vasti campi che non sono né devianti né marginali, nel senso convenzionale oggi corrente, e che a buon diritto possono essere esaminati come sottoinsiemi culturali. È il caso delle culture giovanili, della cultura operaia e di altri ambiti o livelli di espressione e di socialità non istituzionale.Vi sono somiglianze di approccio, se non anche di livello di osservazione - l'interesse per la vita quotidiana, per le forme della comunicazione interna e per gli stili di interazione -, che giustificano un certo parallelismo fra l'etnografia della devianza e l'etnografia della vita quotidiana di classi o generazioni (gli adolescenti, i disoccupati, gli operai, gli immigrati, ecc.). Altre, e forse più profonde, somiglianze rinviano tuttavia ad analogie che riguardano le relazioni strutturali di potere. Il fatto stesso di incorporare identità collettive alternative (magari stigmatizzate) configura un potenziale di irregolarità sistemica, una sorta di antagonismo virtuale o debole che predispone a classificarne il contenuto e i portatori come qualcosa a parte. In tal senso si potrebbe dire che la subculturalità e la subalternità (proprietà che, ripetiamo, consideriamo connesse al principio formale dell'inclusione), oltre a essere qualità strutturali correlate alla gerarchia e all'appartenenza, si presentano come segni di identità sociale e fonti di valori antagonistici.
È lungo questa frontiera, interna al corpo sociale - la città o la comunità politica - e al suo spazio culturale, che nella seconda metà del nostro secolo hanno preso forma aree di identità segregata e oppositiva fondate più sull'inversione dei valori istituiti che sulla loro denuncia politica. I movimenti underground, le comuni, taluni movimenti 'nativisti' sorti nell'immigrazione metropolitana, una certa versione nichilista della cultura proletaria (di un proletariato urbano decaduto e disilluso) possono essere ricordati qui come esempi di formazioni subculturali suscettibili di trasmutare in controcultura oppure, a seconda della loro capacità di essere assorbite e riconvertite nel consumo di massa, in espressioni di stile e in manifestazioni collettive di un ideale di way of life. Una volta trasformate in stili e forme iconizzate di autopresentazione, queste controculture diventano una veste estetica e ideologica permutabile e leggera, che può essere ricombinata o dismessa in funzione dei mutamenti di gusto, e che, soprattutto, è destinata a perdere gradatamente il potere distintivo che possedeva in origine.
Una copiosa letteratura di ispirazione sociologica, semiologica o antropologica dedica da tempo attenzione ai fenomeni delle mode, dei movimenti e degli stili che si sono succeduti, soprattutto negli ambienti metropolitani e delle periferie urbane, in Europa e negli Stati Uniti fra gli anni sessanta e settanta (v. Hebdige, 1979; v. Hall e Jefferson, 1976; v. Mungham e Pearson, 1976).
Il saggio di Dick Hebdige, ad esempio, passa in rassegna le sottoculture inglesi dalla metà degli anni cinquanta alla fine degli anni settanta: teddy boy, mod, skinhead, punk, rasta e molti altri. Oggetto predominante della trattazione sono, più che i gruppi, i modelli estetici massificati nella società giovanile, fra l'ideologico, il musicale, l'espressione corporea e dell'abbigliamento, il costume. Le subculture giovanili si manifestano in oggetti, e "gli oggetti sono sempre più portatori di significato in quanto esprimono lo 'stile' della sottocultura", stile che è qualcosa di mobile, pervasivo, esclusivo. L'identità sociale dei portatori dei differenti moduli di stile (giovani della classe lavoratrice bianca, minoranza nera, immigrati dalle Indie Occidentali) viene trasposta, se non sublimata, negli ambiti di espressione della musica, della danza (i sound systems, i luoghi di socialità e di consumo alternativo), della moda (di strada, punk, skinhead), per dar luogo a veri e propri sottosistemi di antagonismo simbolico, 'forme simboliche di resistenza'.
In una società complessa la proliferazione delle subculture è talmente abbondante e rapida da suggerire l'idea di una capacità di variazione illimitata. Nel medesimo tempo il successo di una certa sottocultura rivela forme di regolarità, se non di uniformità, che si possono imputare a strategie commerciali, alle opportunità tecnologiche della distribuzione e alle esigenze dei linguaggi mediatici.
Come già si è accennato, le identità subculturali vivono in una sorta di instabilità irrisolta fra l'autoriconoscimento senza contaminazioni (e, quando è possibile, la pratica di aggregazioni sociali non sottomesse al controllo istituzionale) e la dipendenza rispetto al mercato, il diventare oggetto riproducibile in repliche consumabili. Così, per esempio, i bikers (che si riconoscono nella passione per le grandi motociclette, come le Harley Davidson), i cultori della danza di strada, i punks, i gruppi afro o rasta possono essere considerati ciascuno come modello per sé, in questo senso riservato a quanti lo adottano e lo professano nel loro proprio costume, ma per un altro verso possono essere usati come moduli o ingredienti di cui chiunque può appropriarsi combinando a piacere uno stile con l'altro, desocializzandoli, ossia sottraendo tutti gli elementi che ne impacciano la trasferibilità.
Perciò, più che come dottrine simboliche compatte, le subculture moderne e postmoderne dovrebbero essere trattate come complessi soggetti a scomposizione e riaggregazione. Le loro parti possono essere staccate e riutilizzate, desocializzate e risocializzate in contesti molto differenti da quelli entro i quali risiederebbero la loro origine e la loro purezza.In realtà, la norma è la non purezza, il sincretismo, la rete. Il paradigma della rete è particolarmente idoneo a definire lo spazio ideale della trasmissione di cultura nell'ambito di cui qui si parla. La rete configura sistemi relazionali non gerarchici, multicentrici e perfettamente relativi. Comunicare per reti, come oggi accade mediante i sistemi elettronici informatici, è un po' come muoversi in una dimensione di completa libertà aggregativa. Questo presupposto fornisce già di per sé una base efficace di definizione subculturale. Le denominazioni oggi diventate usuali ('il popolo di Internet', le 'autostrade elettroniche', i 'gruppi di discussione' e così via) rinviano a una realtà etnografica atipica, e purtuttavia prorompente. L'antropologia che l'accompagna, o dovrebbe accompagnarla, ha bisogno di un riadattamento profondo dei suoi termini metodologici. Il 'terreno' dell'inchiesta si sposta dallo spazio fisico del contatto diretto fra persone allo spazio immateriale della comunicazione per segnali che 'stanno per' la persona e anzi le danno una nuova esistenza sostitutiva. Qualcosa di più radicale, in verità, ha creato le premesse dei cambiamenti; il 'modo di vita urbano' è stato anch'esso riconvertito. La 'neutralizzazione dello spazio urbano' e la 'perdita del centro' (v. Sennet, 1990) aboliscono i confini e indeboliscono la percezione dello scarto fra interno ed esterno, creano la dimensione dell'esistenza di quella che è stata definita la "massa mediatizzata" (v. Signorelli, 1996), dimensione nella quale, al limite, le subculture si moltiplicano all'infinito, mentre la cultura inglobante si disperde e tende a scomparire. (V. anche Cultura; Devianza; Minoranze culturali).
Arnold, D.O. (a cura di), The sociology of subcultures, Berkeley, Cal., 1970.
Barth, F. (a cura di), Ethnic groups and boundaries. The social organization of culture difference, Bergen-Oslo-London 1969.
Berger, B.M., Suburbs, subcultures, and the urban future, in Planning for a nation of cities (a cura di S.B. Warner jr.), Cambridge, Mass., 1966.
Cirese, A.M., Il folklore come studio dei dislivelli interni di cultura delle società superiori (1961-1962), in Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma 1997, pp. 11-162.
Clarke, J., Hall, S., Jefferson, T., Roberts, B., Subcultures, cultures and class, in "Working papers in cultural studies", 1975, n. 7-8, pp. 9-74.
Cohen, A. (a cura di), Urban ethnicity, London 1974.
Cohen, A.K., Delinquent boys. The culture of the gang, Glencoe, Ill., 1955 (tr. it.: Ragazzi delinquenti. La cultura della banda, Milano 1963).
Ember, C., Ember, M., Cultural anthropology, Englewood Cliffs, N.J., 1973.
Fischer, C.S., Towards a subcultural theory of urbanism, in "American journal of sociology", 1975, LIII, pp. 1311-1314.
Hall, S., Jefferson, T. (a cura di), Resistance through rituals, London 1976.
Hammond, P.B., An introduction to cultural and social anthropology, New York-London 1978.
Hannerz, U., Exploring the city. Inquiries toward an urban anthropology, New York 1980 (tr. it.: Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Bologna 1992).
Hebdige, D., Subculture. The meaning of style, London 1979 (tr. it.: Sottocultura. Il fascino d'uno stile innaturale, Genova 1983).
Hoggart, R., The use of literacy, London 1957 (tr. it.: Proletariato e industria culturale, Roma 1970).
Kroeber, A., Anthropology, New York 1948 (tr. it.: Antropologia, Milano 1982).
Lewis, O., Anthropological essays, New York 1970 (tr. it.: La cultura della povertà e altri saggi di antropologia, Bologna 1973).
Linton, R., The study of man, New York 1936 (tr. it.: Lo studio dell'uomo, Bologna 1973).
Mayer, A., The significance of quasi-groups in the study of complex societies, in The social anthropology of complex societies (a cura di M. Banton), London 1966.
Mungham, G., Pearson, G. (a cura di), Working class youth culture, London 1976.
Nadel, S.F., The foundation of social anthropology, London-Glencoe, Ill., 1951 (tr. it.: Lineamenti di antropologia sociale, Roma-Bari 1974).
Park, R.E., Burgess, E.W., McKenzie, R.D., The city, Chicago 1925 (tr. it.: La città, Milano 1967).
Redfield, R., Singer, M.B., The cultural role of cities, in "Economic development and cultural change", 1954, III, 1, pp. 53-73.
Sennet, R., The conscience of the eye. The design and social life of cities, New York 1990 (tr. it.: La coscienza dell'occhio. Progetto e vita sociale nella città, Milano 1992).
Signorelli, A., Antropologia urbana. Introduzione alla ricerca in Italia, Milano 1996.
Singer, M. (a cura di), Traditional India: structure and change, Philadelphia, Pa., 1959.
Sobrero, A., Antropologia della città, Roma 1992.
Trasher, F.M., The gang: a study of 1313 gangs in Chicago, Chicago 1927.