Sussidiarietà
Il carattere polisenso della formula linguistica 'sussidiarietà' deriva in linea di massima dalla diversa prospettiva da cui la si guarda. Esiste infatti una intricata mappa delle idee che intorno a quel termine si sono formate, nel tempo, a opera di diversi autori, in particolare studiosi della polis, giuristi e filosofi. Benché infatti sia stato il Trattato di Maastricht a contribuire in misura notevole alla rinascita dell'interesse intorno al principio di sussidiarietà, il quale - già enunciato nell'enciclica Quadragesimo anno del 1931 - per molto tempo era rimasto terreno di interesse della filosofia sociale, l'idea di sussidiarietà ha tuttavia radici molto antiche (v. MillonDelsol, 1992). Essa, infatti, compare già nella Politica (I 2, 1252b) di Aristotele, in riferimento al ruolo dei vari attori sociali e ai rapporti di questi con il potere politico; Tommaso d'Aquino, pur muovendo dal pensiero di Aristotele, tentò una più razionale sistematizzazione del concetto di sussidiarietà (De regno, I, capp. XII-XIII; Summa Theologiae, II, cap. II; Contra gentiles, III); interessanti affermazioni riguardo all'idea di sussidiarietà sono altresì rinvenibili nell'opera del giurista Johannes Althusius (Politica methodice digesta), il quale da attore e studioso della vita politica analizzò la società tedesca del XVII secolo. Non meno rilevanti appaiono poi i contributi in proposito di Kant, Hegel, Tocqueville, Proudhon, von Humboldt.Assumendo tuttavia una prospettiva che guardi alla sussidiarietà per le sue implicazioni giuridiche e politico-istituzionali, devono necessariamente rilevarsi alcuni dati di base: in primo luogo, la sussidiarietà implica una relazione; in secondo luogo, i soggetti di tale relazione si differenziano per la maggiore o minore 'dimensione' delle finalità, dei poteri, della efficacia della propria azione, e via di seguito.La prospettiva che qui si predilige impone di considerare la relazione di sussidiarietà tra soggetti che possono essere ricondotti rispettivamente nell'area dello Stato-istituzione, da un lato, e in quella della società civile e delle formazioni sociali, dall'altro. In questa prospettiva, peraltro, l'espressione giuridica della nozione di sussidiarietà viene generalmente indicata con la formula 'principio di sussidiarietà'.
È stato fatto rilevare in dottrina che il principio di sussidiarietà presenta almeno due aspetti, uno positivo e l'altro negativo, solo apparentemente in contraddizione tra loro (v. Millon-Delsol, 1993, p. 7).
L'aspetto negativo si concretizza in un dovere di non ingerenza, che deriva dalla convinzione che ogni autorità in generale, e lo Stato in particolare, non debba impedire agli individui e ai gruppi sociali di essere liberi di agire, di impiegare la loro energia, la loro immaginazione e la loro perseveranza al fine di raggiungere la piena realizzazione di se stessi, il tutto a vantaggio tanto dell'interesse generale, quanto dell'interesse particolare. L'aspetto positivo, invece, attribuisce a ogni autorità il compito di incitare, sostenere e, se necessario, sostituire gli attori insufficienti, in ottemperanza, quindi, a un obbligo che ha la dignità di un vero e proprio dovere di ingerenza.
Tra i due aspetti non vi è contraddizione, ma complementarietà e costante riequilibrio, dal momento che il rispetto della libertà di azione viene bilanciato dalla legittimità o, meglio, dall'obbligatorietà dell'intervento dell'autorità superiore, quando, in condizioni di 'scacco' o di 'insufficienza verificata', si debba procedere a sostituire l'attore insufficiente. Inoltre, in virtù del principio di proporzionalità, che costituisce una sorta di criterio di valutazione della portata e dell'ampiezza dell'ingerenza consentita, l'intervento dell'autorità superiore deve mirare esclusivamente al perseguimento degli obiettivi pubblici desiderati.
Da quanto detto emerge che il principio di sussidiarietà appare rivolto per un verso alla protezione dell'autonomia dell'individuo dalle strutture sociali che rischiano di schiacciarlo; per l'altro, ai rapporti tra collettività, in particolare ai rapporti tra comunità o collettività inferiori e collettività superiori.Conviene subito mettere in evidenza che, nonostante suggerisca che un organo o una collettività superiore debbano limitare il proprio intervento fino a svolgere, a volte, semplicemente una funzione di supplenza, il principio di sussidiarietà non può essere utilizzato o interpretato come un argomento a sostegno della tesi che si debba sempre e comunque contenere o restringere l'intervento dello Stato. Anche se postula il rispetto delle libertà degli individui e dei gruppi, infatti, il principio di sussidiarietà non mette in discussione il ruolo e l'importanza dello Stato, ma, anzi, si preoccupa di valorizzarlo al massimo, pur provvedendo a una ridefinizione e a una razionalizzazione dei ruoli nella dinamica delle relazioni tra lo Stato e i cittadini, tra il pubblico e il privato.
Evidentemente, quindi, il principio di sussidiarietà induce una certa idea dello Stato, o meglio è esso stesso espressione di un certo complesso di caratteri costitutivi e fondanti uno Stato. Nell'ottica di un'organizzazione sociale ispirata al principio di sussidiarietà, infatti, lo Stato assurge al ruolo di garante finale dell'interesse generale, dal momento che il suo compito consiste nell'intervenire direttamente per soddisfare un bisogno reale della società, solo quando le collettività e i gruppi sociali, ai quali per primi spetta il compito di intervenire, non sono in grado di farlo.In questa prospettiva, un orientamento di pensiero mette in evidenza come il principio di sussidiarietà sarebbe in qualche misura rivelatore anche del regime politico vigente, nel senso che "s'en réclamer [al principio di sussidiarietà] induit un certain type de régime politique" (v. Ponthier, 1986, p. 1533). Il fatto che il principio di sussidiarietà non si soffermi a considerare direttamente il tipo di regime politico in cui esso opera, concernendo principalmente la sfera politica e dunque ponendo l'accento più sui criteri di attribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo che non sui modi di attribuzione e ripartizione del potere, non sembra sufficiente a escludere che esso non abbia alcuna influenza sul regime politico vigente.Se si considera infine il principio in esame con riferimento alle regole giuridiche che presiedono il funzionamento di un organismo giuridicamente rilevante, esso viene generalmente chiamato in causa ogniqualvolta ci si trovi di fronte a due possibilità, a due regole o soluzioni senza però che si determini una vera e propria alternativa tra le due. Infatti, mentre l'alternativa rappresenta una scelta tra due possibilità egualmente conseguibili, il principio di sussidiarietà opera solo quando la regola principale non può essere applicata; introduce in definitiva un regime di eccezione.
La corrente di pensiero liberale si avvalse della nozione di sussidiarietà esaltandone, però, solo l'aspetto normativo negativo, ossia il principio di non ingerenza.
Con il liberalismo economico, e il suo corollario dell'individualismo filosofico, si affermò una concezione della società in base alla quale solo l'individuo era da considerarsi soggetto di diritto, mentre i gruppi e le collettività sociali, guardati con crescente sospetto e diffidenza a causa della loro tendenza al corporativismo, venivano considerati titolari solo di diritti derivati.Secondo quest'impostazione la società era un'entità astratta, costituita dalla somma di entità individuali, separate le une dalle altre e preoccupate esclusivamente del proprio benessere. Persino l'idea di bene comune non era considerata altro che una chimera, perché si pensava che la finalità ultima della società coincidesse con il raggiungimento del massimo sviluppo individuale (v. von Humboldt, 1867).
Partendo da questa concezione della società, l'idea di sussidiarietà subì una metamorfosi e si iscrisse in un quadro ideologico nuovo, fondato sul rifiuto di una visione comunitaria della società, con i gruppi sociali nel ruolo di intermediari tra l'individuo e lo Stato. Ne derivò un sistema nel quale l'individuo e lo Stato divennero, nonostante la grande sproporzione esistente tra loro, due interlocutori diretti. L'idea di sussidiarietà del liberalismo valorizzava solo la prescrizione negativa che il concetto suggerisce (il dovere di non ingerenza), dal momento che imponeva che lo Stato non interferisse nelle azioni intraprese dal singolo, a meno che questi non si rivelasse incapace di perseguire il suo stesso interesse individuale. In quest'ottica, quindi, l'intervento dello Stato era considerato un'eccezione giustificata solo da una situazione di necessità urgente, ma transitoria (ibid, pp. 253 ss.).
Si osservi, inoltre, che per il liberalismo il ruolo dello Stato poteva essere suppletivo solo in campi rigidamente definiti; la difesa, la sicurezza e l'ordine pubblico, in particolare, erano considerati di competenza esclusiva dello Stato. Tra i settori nei quali l'intervento dello Stato era considerato opportuno, sia per ragioni tecniche (la necessità di assicurare regolarità e uniformità nell'erogazione del servizio) che per ragioni economiche, vi erano l'istruzione e l'assistenza agli indigenti che divennero ben presto un argomento di dibattito. Da notare, infine, che, dal momento che per il liberalismo la società non esisteva che come concetto astratto, lo Stato veniva considerato solo il garante delle finalità individuali e, perciò, non gli veniva attribuito alcun compito a carattere universale.
Ora, per quanto una concezione siffatta di uno Stato limitato nei fini e nelle funzioni debba ritenersi sostanzialmente naufragata nella storia delle idee, il fondamento di una tutela della libertà individuale attraverso la determinazione di precisi limiti alle attività dello Stato ha trovato in qualche modo espressione anche nel principio di sussidiarietà del liberalismo costituzionale tedesco, in particolare con Robert von Mohl (v., 1860) e Georg Jellinek (v., 1920). Per tali autori, come è noto, i limiti vanno apposti non tanto alle finalità e ai compiti dello Stato, quanto piuttosto alla realizzazione da parte dello Stato stesso. In particolare il pensiero di Jellinek al riguardo appare chiaro: lo Stato può e deve agire nella misura in cui l'azione individuale o cooperativa non è sufficiente a raggiungere il fine e nella misura in cui lo Stato, con i suoi mezzi, può realizzare più efficacemente l'interesse che si persegue (v. Hoffmann, 1993).
La concezione liberale del principio di sussidiarietà converge per certi aspetti con la dottrina sociale della Chiesa. Ora, come è noto, l'idea di sussidiarietà costituisce uno dei pilastri su cui si fonda la dottrina sociale della Chiesa, elaborata a partire dalla fine del XIX secolo. Essa inizialmente venne utilizzata accentuandone talvolta l'aspetto positivo (il dovere di ingerenza) a scapito di quello negativo (il dovere di non ingerenza) e, talvolta, viceversa; il tutto a seconda delle circostanze storiche e dei bisogni sociali più pressanti.
E infatti, mentre nel 1891, nell'enciclica Rerum novarum, Leone XIII aveva affermato la necessità dell'intervento dello Stato al fine di combattere gli eccessi prodotti dal liberalismo, nel 1931 Pio XI, nell'enciclica Quadragesimo anno, preferì porre l'accento sul principio di non ingerenza da parte dello Stato.Perciò, benché quella contenuta nella Quadragesimo anno ne costituisca la formulazione più conosciuta, la definizione del principio di sussidiarietà più completa (perché sintetizza i due risvolti normativi, positivo e negativo, in esso rintracciabili) si ricava solo abbinando le definizioni fornite da entrambe le encicliche citate."Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in sì gravi ristrettezze che da se stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l'intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre" (enciclica Rerum novarum, 1891, n. 7)." Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno ed uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
Perciò è necessario che l'autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione, cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso" (enciclica Quadragesimo anno, 1931, n. 28).
La linea di pensiero tracciata nelle citate encicliche ha conosciuto uno sviluppo pressoché costante nei documenti della Chiesa fino a rappresentare, oggi, un punto consolidato del magistero di Giovanni Paolo II, come si evince dall'enciclica Centesimus annus del 1991 (anch'essa celebrativa della Rerum novarum), ove si legge: "Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da una inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune".
Nella dottrina sociale della Chiesa, perciò, l'idea di sussidiarietà è considerata un principio in grado di orientare la ricerca di un punto di equilibrio tra le opposte tendenze all'ingerenza e alla non ingerenza; tendenze che, a loro volta, sono state percepite come delle pericolose tentazioni o come delle vere e proprie necessità, a seconda delle interpretazioni suggerite dalle circostanze storiche. La flessibilità del principio, inoltre, si è dimostrata particolarmente adatta alle esigenze di una società in continua evoluzione, nella quale la frontiera tra ingerenza e non ingerenza non è stata mai tracciata in via definitiva.
Nella dottrina sociale della Chiesa, inoltre, il principio di sussidiarietà ha acquistato la sua dimensione definitiva e, accanto all'aspetto negativo sottolineato dal liberalismo, ha assunto anche il significato di principio positivo. Da ciò è derivata anche una nuova visione del ruolo della comunità sociale e del potere politico, nella quale l'autorità in generale e lo Stato in particolare non sono più semplicemente tollerati come istanze necessarie, ma sono percepiti anche nel loro ruolo di armonizzazione, di sostegno e di garanzia dello sviluppo dell'individuo, con ciò affermando una sorta di integrazione tra il principio di sussidiarietà e il principio di solidarietà. Stato, quindi, inteso come strumento di solidarietà concreta, stante peraltro la crescente interdipendenza tra le varie componenti della società umana (v. Possenti, 1992).
Il principio di sussidiarietà sembra aver conosciuto una seconda giovinezza da quando il Trattato di Maastricht se ne è 'impossessato'. Questa considerazione è suffragata dal fatto che, nei dibattiti che la sussidiarietà inevitabilmente accende, essa appare come una "formula magica a effetti multipli" (v. Baudin-Culliére, 1995, p. 1). Come già sottolineato, quello di sussidiarietà è un concetto a forte valenza politica. Il principio di sussidiarietà enunciato dal Trattato di Maastricht, perciò, presenta non poche difficoltà concernenti l'individuazione del suo campo di applicazione, le condizioni e i limiti di tale applicazione, la valutazione della portata dei suoi effetti giuridici, la procedura di ricorso al principio e la procedura di controllo della sua corretta applicazione.
Nel Trattato di Maastricht il principio di sussidiarietà opera come criterio di attribuzione dell'esercizio della potestà normativa, ma, ciononostante, non è in grado di modificare, né in senso estensivo né restrittivo, quanto espressamente stabilito nei trattati istitutivi riguardo alla ripartizione della titolarità delle competenze tra Stati membri e istituzioni comunitarie (v. Rinella, 1994).
L'art. 3B del Trattato di Maastricht stabilisce che " La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato.
Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati al meglio a livello comunitario.L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato".In primo luogo, è possibile osservare che, in base all'art. 3B, 2° comma, il principio di sussidiarietà non è di applicazione generale, ma vale solo per quei settori che non sono di competenza esclusiva comunitaria. Il principio di sussidiarietà, quindi, si applica quando la competenza comunitaria convive con quella degli Stati membri, ossia nell'ipotesi di "competenza concorrente", definibile come un fenomeno di co-esercizio transitorio di potestà normative, da parte della Comunità e degli Stati membri, sul medesimo oggetto.
Dall'art. 3B, 2° e 3° comma, inoltre, sono ricavabili le due condizioni oggettive di esercizio dell'azione comunitaria: in primo luogo, le istituzioni comunitarie possono intervenire solo quando ciò risulta essere necessario; in secondo luogo, l'intensità del loro intervento deve essere proporzionale agli obiettivi perseguiti. Per quanto concerne la prima condizione, la necessarietà dell'intervento sussiste quando gli obiettivi che si perseguono non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri a causa della dimensione o degli effetti che l'azione prevista per conseguirli è suscettibile di produrre, ma possono, invece, essere realizzati meglio a livello comunitario.Il principio di sussidiarietà, quindi, impone di fare un confronto tra l'azione comunitaria e l'azione degli Stati membri: i termini del confronto, tuttavia, non sono identici, dal momento che l'azione nazionale va preferita se assicura il raggiungimento anche solo sufficiente degli obiettivi prescelti, mentre l'azione comunitaria prevale se garantisce un miglior raggiungimento di tali obiettivi (v. Daniele, 1995, p. 25). Ne consegue che l'incapacità degli Stati membri deve sempre essere motivata. Le istituzioni comunitarie, infatti, sono tenute a dimostrare la fondatezza del proprio intervento, ricorrendo ai criteri (peraltro suscettibili di valutazioni di merito) della dimensione dell'intervento stesso e degli effetti che esso è in grado di produrre.
Per quanto concerne la seconda condizione, invece, deve rilevarsi che, in base all'art. 3B, 3° comma, l'intervento comunitario (questa volta tanto nei settori di competenza esclusiva, quanto nei settori di competenza concorrente) deve rispettare il principio di proporzionalità, dal momento che deve essere limitato "a quanto necessario" alla realizzazione degli obiettivi previsti dal Trattato di Maastricht.In ultima analisi, sembra che vada condivisa l'opinione secondo cui "il principio di sussidiarietà e quello di proporzionalità hanno un effetto cumulativo diretto a condizionare la decisione sul se e sul come la competenza comunitaria va esercitata" (ibid., p. 26).
Da ultimo, un contributo all'oggettivazione e alla possibile giustiziabilità del principio di sussidiarietà nell'ordinamento comunitario dovrebbe derivare dal recente Trattato di Amsterdam, che prevede un protocollo sui principî di sussidiarietà e di proporzionalità. È appena il caso di far rilevare che la tecnica cui si è fatto ricorso è sostanzialmente riconducibile alla 'costituzionalizzazione' di una serie di testi - peraltro dalla valenza giuridica non omogenea - intervenuti successivamente all'entrata in vigore del Trattato di Maastricht, al fine di estendere la base di riferimento per un intervento della Corte di giustizia capace di dirimere i dubbi sull'applicazione del principio in esame.
L'excursus che - seppure sommariamente - abbiamo sopra condotto porta a una prima ed elementare constatazione: il principio di sussidiarietà nasce e trae la sua origine concettuale e culturale nella sfera dinamica delle relazioni tra lo Stato e la società civile. Considerato in questa sfera tematica esso appare strettamente legato ad altri principî, non di rado espressamente sanciti dalle Carte costituzionali. Ci riferiamo in particolare al principio di solidarietà e al cosiddetto 'dovere di ingerenza'; alle libertà fondamentali dell'individuo e al suo diritto di svolgere e sviluppare la propria personalità e le proprie potenzialità nelle formazioni sociali che egli liberamente sceglie. Non meno intense appaiono le interrelazioni tra il principio di sussidiarietà così inteso e il principio democratico che presiede le moderne forme di Stato (v. Tosato, 1959).
Ora, considerato quale paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato e società civile, il principio di sussidiarietà assegna al primo un ruolo meramente suppletivo, o meglio sussidiario, verso la capacità della seconda di autoregolarsi e di far fronte alle finalità perseguite. Finalità che generalmente coincidono con l'interesse di una collettività, più o meno estesa, rispetto alla quale lo Stato mantiene un dovere di ingerenza sussidiaria.In questa prospettiva preme ribadire che se è pur vero che l'idea di sussidiarietà porta a una tendenziale limitazione della sfera d'azione dello Stato a favore delle componenti della società civile, non può d'altra parte essere assimilato in qualche modo all'idea di 'Stato minimo' sostenuta da un filone estremo del pensiero liberale che ha avuto in Robert Nozick il più noto dei suoi esponenti e dal quale, almeno a questo proposito, anche Friedrich August von Hayek ha preso le distanze (v. von Hayek, 1982). Costoro, in effetti, sono portatori di una visione individualistica che appare fortemente in contrasto con la tradizione comunitaria e solidale in cui ha preso corpo l'idea di sussidiarietà dello Stato (v. Nozick, 1974).
La flessibilità e la sua naturale adattabilità alle dinamiche sociali hanno reso possibile, come si è visto, nel tempo, la traslazione del principio in esame anche verso aree tematiche diverse seppure in qualche modo riconducibili per analogia alle radici della sussidiarietà. Si è in altre parole estesa l'applicabilità del principio in questione a una serie di ipotesi nelle quali le relazioni tra soggetti, di diversa natura e di diversa dimensione, presentassero una forte dinamicità e variabilità d'orientamento. Rispetto a queste relazioni, il principio di sussidiarietà ha dimostrato - o almeno così è apparso a coloro che l'hanno invocato - di poter assolvere una funzione di principio ispiratore, criterio di interpretazione, parametro ordinatore, modello di riferimento, fino ad assumere talora la veste di vera e propria regola giuridica.
Peraltro, a guardare i percorsi di analisi battuti dalla dottrina, proprio questi ambiti per così dire derivati di applicazione del principio di sussidiarietà hanno ricevuto maggiore attenzione, rimanendo in ombra invece la sussidiarietà dello Stato verso la società civile nella sua accezione originaria. Gli studiosi del diritto e delle istituzioni politiche, quindi, hanno privilegiato il principio di sussidiarietà nella sua valenza di modello di riferimento per la ripartizione delle attribuzioni e dell'esercizio delle stesse tra diversi livelli di governo nell'ambito dell'organizzazione politica di uno Stato o di un ordinamento sovranazionale.A ben considerare, poi, quel legame di derivazione tra concetto originario e derivato appare talora indebolirsi a tal punto da determinare nell'osservatore la percezione di trovarsi di fronte a principî diversi, residuando come elemento comune soltanto il nomen e la matrice originaria. In altre parole, pur avendo tratto origine da una particolare interpretazione dei rapporti tra Stato e società civile, intesa quest'ultima nelle sue diverse espressioni, il principio di sussidiarietà riferito all'articolazione verticale dei rapporti di potere tra i diversi livelli di governo dello Stato, ha finito in buona sostanza per assumere valenze e significati molteplici. Al punto che sarebbe più corretto parlare di una sussidiarietà 'federale' e di una sussidiarietà 'comunitaria', per limitarci alle tematiche più assiduamente frequentate nei recenti studi giuridici.
La diversità di interpretazioni emerge nitidamente dal confronto tra sostenitori e detrattori del principio in questione. È sufficiente ricordare che per i suoi sostenitori il principio di sussidiarietà è il corollario naturale della libertà e della dignità umana, dell'autoamministrazione, della realizzazione di sé e della responsabilità umana, e ha certamente un carattere giuridico, dal momento che riconosce l'esistenza di un diritto naturale, che anche nel diritto positivo ha trovato più di una concretizzazione, in ragione delle possibilità di una sua applicazione in tutti i campi della vita sociale (v. Mahon, 1985, p. 220).
Per i suoi detrattori, invece, la regola della sussidiarietà non è un principio giuridico generalmente applicabile, ma piuttosto un principio politico, con tutti gli svantaggi, in termini di applicabilità, che da ciò derivano. Costoro sottolineano, infatti, che l'applicazione del principio di sussidiarietà implica una valutazione politica del tutto soggettiva di concetti quali capacità e incapacità, insufficienza, fallimento, interesse generale e così via.È stato fatto notare, inoltre, che il principio di sussidiarietà può essere 'degradato' al rango di componente del principio di proporzionalità, il quale mira a equilibrare i mezzi utilizzati con gli scopi perseguiti e, a sua volta, si scompone in tre elementi: l'adeguatezza, la sussidiarietà e la necessità (v. Knapp, 1991, p. 113).
Pur nella molteplicità delle interpretazioni, sembra tuttavia necessario riconoscere che a un principio di sussidiarietà teoreticamente unitario corrisponde, sul piano dommatico, una pluralità di estrinsecazioni della sussidiarietà stessa - forse dovremmo dire una pluralità di sussidiarietà - che si esprime nelle diverse disposizioni che traducono quel principio in norme di diritto positivo.In altre parole: il principio di sussidiarietà è in grado di essere tradotto in più norme giuridiche, tra loro diverse, che interpretano e adattano il principio di sussidiarietà al campo di applicazione specifico. Esiste dunque una soglia di demarcazione tra la sussidiarietà teoreticamente intesa e le sussidiarietà dommaticamente intese; soglia alla cui individuazione il modello di origine stadleriana, cui ci accingiamo a rivolgere l'attenzione, sembra poter dare qualche significativo contributo. V'è da chiedersi, cioè, se possa configurarsi un modello teorico di riferimento del principio di sussidiarietà che in qualche modo funga da parametro di interpretazione o da tertium comparationis rispetto alle diverse espressioni del principio stesso. In altri termini, un modello d'analisi costruito per finalità euristiche.
Lo schema messo a punto negli anni cinquanta da Hans Stadler (v., 1951) offre alcuni spunti per l' elaborazione di un modello d'analisi. Secondo questo autore, nella formulazione del principio di sussidiarietà si possono riconoscere tre componenti essenziali: 1) i soggetti, 2) gli oggetti e 3) le asserzioni normative.
1) I soggetti tra cui intercorre un rapporto di sussidiarietà sono 'singulares homines', 'communitas', 'minores et inferiores communitates' e 'maior et altior societas'. Spetta all'interprete, di volta in volta e in relazione alla 'sussidiarietà' - direi, tra le tante - in esame, circoscrivere e definire meglio questi soggetti: da una parte deve infatti stabilirsi la portata dei termini 'singolo individuo' e 'comunità' (o 'società') e, dall'altra, bisogna spiegare i parametri che pongono il distinguo tra società piccole e inferiori e società grandi e superiori. È sulla base di questa elaborazione che possono identificarsi i soggetti portatori di diritti e di doveri che scaturiscono dall'applicazione del principio di sussidiarietà: la formazione sociale viene contrapposta al singolo e poi la formazione sociale più grande a quella più piccola. Ora, mentre identificare il singolo non rappresenta di solito un problema insormontabile, meno agevole può risultare invece il riferimento preciso alle formazioni sociali. Il principio di sussidiarietà contrappone i gruppi sociali più piccoli e inferiori a quelli più grandi e superiori: è questa l'unica distinzione riguardante le comunità che vi si trova espressa. Inoltre, questa contrapposizione non crea nessuna categoria definitiva: ciò significa che uno stesso gruppo sociale può talvolta essere il 'soggetto attivo' del rapporto di sussidiarietà e qualche altra volta essere il 'soggetto passivo'. Secondo Stadler solo le posizioni della famiglia e dello Stato rimangono invariate, perché vengono comunemente riconosciute rispettivamente come forma sociale più piccola e forma sociale più grande. Tutti gli altri gruppi sociali possono modificare le reciproche posizioni a seconda dei gruppi sociali rispetto alle quali vengono di volta in volta contrapposti (v. Utz, 1953). Questa visione dello Stato enunciata da Stadler come entità maggiore appare oggi non più sostenibile se si considera lo sviluppo e la posizione che hanno assunto, limitatamente a certi settori, gli ordinamenti internazionali e sovranazionali (si pensi, rispettivamente, all'ONU o al WTO o alla UE).
2) Quanto agli oggetti della sussidiarietà, Stadler indica i compiti che il singolo può svolgere di propria iniziativa e con i propri mezzi e i compiti che le società più piccole e inferiori riescono a eseguire autonomamente con buoni risultati. Si tratta nel complesso di tutto un ambito di attività di cui il singolo individuo e le comunità più piccole sono normalmente e ordinariamente in grado di occuparsi. Peraltro, fa rilevare Stadler, affinché il principio di sussidiarietà possa avere una corretta applicazione, è necessario che il singolo e le comunità/società abbiano a disposizione i mezzi necessari per la realizzazione delle proprie finalità. Se i mezzi in loro possesso non sono sufficienti, allora entrano in gioco i gruppi sociali più grandi.Secondo il nostro modo di vedere, a questo punto i soggetti maggiori hanno due possibili ambiti di azione: si assumono la responsabilità dell'adempimento dei compiti in questione pleno iure, oppure forniscono il loro aiuto mettendo a disposizione i mezzi e gli strumenti mancanti o carenti. Il punto della questione sta nell'effettiva allocazione della potestà decisionale in ordine al fine perseguito.
3) Terzo punto fondamentale nella formulazione del principio di sussidiarietà secondo lo schema di Stadler è ciò che esso asserisce in termini normativi. La norma che scaturisce dal principio in generale afferma che non si possono sottrarre al singolo o alle formazioni sociali più piccole i compiti che essi/esse sono in grado di realizzare. Il divieto di ingerenza s'intende riguardo alla società più grande e superiore che è chiamata a determinare i diritti e i doveri dei suoi componenti, e anche il loro spazio d'azione. È questa società più grande ad avere maggiori possibilità di sottrarsi al rispetto del principio di sussidiarietà, essendo in posizione di forza rispetto a quei gruppi sociali che le si contrappongono. Il riferimento di Stadler allo Stato - che egli considera la formazione sociale in assoluto più elevata in grado di stabilire e influenzare in modo notevole la crescita dell'intera società civile - appare evidente. Oggi, alla luce delle evoluzioni storiche, questa considerazione va estesa a comprendere i soggetti dell'ordinamento internazionale e sovranazionale, come già accennato.In conclusione, nella visione di Stadler, questo schema si presta a essere tradotto in termini di diritto positivo. In tale prospettiva, il principio di sussidiarietà presuppone una 'salita' dal basso verso l'alto, oppure un'estensione di cerchi concentrici il cui punto di partenza è la persona. Da questa infatti traggono origine le diverse formazioni sociali. Ogni gruppo sociale si congiunge agli altri attraverso gli aiuti che offre loro, fino ad arrivare nella società più ampia e importante, nella quale la persona umana trova contemporaneamente il suo completo sviluppo e il soddisfacimento di tutti i suoi bisogni. Questa 'societas perfecta' è lo Stato il cui ordinamento è caratterizzato dalla universalità dei fini.
Lo Stato è quindi l'ultimo dei cerchi concentrici che partono dal singolo individuo e si può quindi affermare che esso costituisce la periferia della struttura derivante dal principio di sussidiarietà. In questa prospettiva, nel percorso dell'assegnazione dei compiti e dei ruoli, lo Stato si trova alla fine: è ad esso che spetta completare quello che il singolo e le comunità più piccole non possono condurre a termine. Peraltro, oggi lo Stato può cedere, come effettivamente accade, parte dei suoi compiti a soggetti sovranazionali, estendendo così, per quelle materie, i cerchi concentrici.A ben vedere, poi, la terza componente della tripartizione stadleriana, cioè l'asserzione normativa insita nell'idea di sussidiarietà, troverà di volta in volta la sua esplicitazione più consona in relazione al soggetto e all'oggetto. Sicché, a titolo meramente esemplificativo, la sussidiarietà 'federale' recherà con sé il precetto della prossimità degli atti dei governanti ai governati; la sussidiarietà 'comunitaria' quello dell'azione comunitaria come eccezione, rispetto alla ordinaria azione statale, accompagnata dall'onere della prova (motivazione) circa l'insufficienza degli atti nazionali rispetto agli obiettivi.In definitiva, la tripartizione suggerita dallo Stadler consente di razionalizzare gli elementi costitutivi del principio di sussidiarietà, dando luogo a un modello dotato di una sufficiente astrazione dalla molteplicità delle forme di esplicazione del principio stesso. Solo a queste condizioni, d'altra parte, esso potrebbe valere quale modello euristico, senza la pretesa di 'descrivere' il principio nel suo effettivo dispiegarsi nelle differenti realtà giuridiche. Ricorrendo, dunque, a una costruzione teorica sembra possibile mantenere l'unità teoretica del principio a fronte di una pluralità dommatica di manifestazioni dello stesso.Il modello d'analisi sarebbe dunque così schematicamente articolato: (I) quanto ai soggetti, il nodo è dato dalla relazione di sussidiarietà: (a) la quale esiste, indipendentemente dal fatto che sia stata attivata, in forza di un riferimento normativo e (b) intercorre tra un soggetto minore e un soggetto maggiore; (c) essa non implica, né presuppone, una contestuale relazione gerarchica diretta (anche se non la si può escludere in senso assoluto); (II) riguardo all'oggetto, il modello evidenzia principalmente due aspetti: (a) le funzioni e le attribuzioni che l'ordinamento assegna al soggetto minore della relazione di sussidiarietà e che questi è ordinariamente in condizione di svolgere con sufficiente efficacia rispetto ai fini e agli interessi perseguiti; (b) al tempo stesso i fini e gli interessi perseguiti con quelle funzioni e attribuzioni non sono estranei al soggetto maggiore, ma rientrano nella sfera più ampia, rispetto a quella del soggetto minore, delle sue finalità che potremmo dire 'statutarie'. Il che giustifica la sua eventuale e eccezionale attivazione in funzione sussidiaria.Sempre riguardo all'oggetto, sono rilevabili altri due ordini di problemi: una prima questione attiene al rapporto tra i contenuti dell'azione primaria e i contenuti dell'azione sussidiaria. In particolare v'è da chiedersi se l'azione sussidiaria debba essere, rispetto all'azione primaria insufficiente, solo integrativa, o del tutto sostitutiva; una seconda questione riguarda il momento dell'attivazione dell'azione sussidiaria, che dovrebbe trovare la sua legittimazione in una sorta di codecisione tra i soggetti coinvolti attraverso una successione preordinata di atti complessi; (III) infine l'asserzione normativa. Il contenuto generale dell'asserzione normativa è riconducibile al divieto di sottrarre arbitrariamente al soggetto minore i compiti che esso può ordinariamente assolvere (quei compiti cioè che gli sono attribuiti o riconosciuti, espressamente o implicitamente, dall'ordinamento). Andrebbe poi incluso come elemento essenziale dell'asserzione normativa anche il dovere/potere di agire sussidiariamente in capo al soggetto maggiore, la cui eventuale inosservanza configurerebbe una fattispecie di omissione. Ora, l'asserzione normativa recante il principio di sussidiarietà per operare direttamente nell'ordinamento giuridico richiede di essere trasposta in termini puntuali, riferiti a fattispecie concrete. Questa trasposizione può seguire, naturalmente, itinerari diversi: (a) il primo, per certi versi auspicabile, è quello della puntuale disciplina della fattispecie di applicazione della sussidiarietà e del procedimento destinato ad accertare le condizioni di 'attivazione' della sussidiarietà stessa; (b) il secondo è l'itinerario affidato all'interpretazione giurisprudenziale della norma generale recante l'affermazione del principio di sussidiarietà.In entrambi i casi il principio di sussidiarietà sarebbe destinato ad assumere un contenuto puntuale, giuridicamente determinato e/o determinabile, dommaticamente inquadrato in un contesto di riferimento normativo sufficientemente delineato.In conclusione, l'articolazione suggerita dal modello di analisi di origine stadleriana sembra offrire una griglia di lettura di base di quelle diverse sussidiarietà che nel principio di sussidiarietà hanno la loro comune matrice.
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