Sviluppo e trasformazioni sociali in India
La natura del processo di crescita
Secondo l’«Economic survey» del 2007-08, l’economia indiana si è mossa con decisione verso un’ulteriore fase di sviluppo. Fino a pochi anni fa tra gli economisti si discuteva se il tasso medio di crescita del Paese si fosse effettivamente innalzato sopra il 5-6% osservato a partire dagli anni Ottanta: oggi, invece, non vi è più alcun dubbio che i tassi di crescita del prodotto interno lordo (PIL) a prezzi di mercato abbiano superato l’8% annuo a partire dal 2003-04. L’accelerazione degli investimenti interni e del risparmio ha sostenuto la crescita e ha fornito le risorse per raggiungere l’obiettivo di crescita media annua del 9%, fissato dall’undicesimo piano quinquennale (2007-2012). I fondamentali macroeconomici continuano a ispirare fiducia e il clima per gli investitori è improntato a un grande ottimismo. Un forte aumento delle entrate ha reso inoltre possibile l’equilibrio fiscale imposto dal Fiscal responsibility and budget management act (FRBMA) del 2003, che per l’anno fiscale 2008-09 stabiliva un tetto del 3% al rapporto deficit/PIL.
Il Department of statistics, per il 2007-08, ha stimato un prodotto interno lordo a prezzi correnti di mercato pari a 46,93,602 crore (1 crore equivale a 10.000.000 di rupie). In questo anno fiscale, dunque, le dimensioni dell’economia indiana hanno superato i 1000 miliardi di dollari e il prodotto interno lordo pro capite previsto è risultato pari a 1021 dollari. Se si considera la stima in termini di parità di potere di acquisto (Purchasing Power Parity, PPP), il prodotto interno lordo indiano si è attestato a circa 3000 miliardi di dollari (calcolato con il nuovo fattore di conversione per l’elaborazione del PPP). L’India rappresenta dunque la quinta economia mondiale in ordine di grandezza, preceduta dagli Stati Uniti, dalla Cina, dal Giappone e dalla Germania.
Come si può rilevare dalla tab. 1, nel corso degli ultimi trent’anni si sono registrate significative variazioni delle quote di produzione e occupazione riferibili ai diversi settori dell’economia. In particolare, tra il 1978 e il 2007, il peso dell’agricoltura sul prodotto interno si è ridotto costantemente passando dal 44% al 20%. La quota della produzione industriale è cresciuta tra il 1978 e il 1993, rimanendo invariata fino al 2004 (28%), per poi ridiscendere al 25% nel 2007.
Infine la rapida crescita dei servizi osservata nel periodo 1993-2004 trova conferma anche per gli anni successivi. Una caratteristica distintiva dell’economia indiana è proprio il veloce incremento del settore terziario invece del percorso più tradizionale che contraddistingue altre economie emergenti e che vede un ruolo prevalente della componente industriale a bassi livelli salariali. La variazione delle quote di occupazione è fortemente associata a quella osservata nell’ambito della produzione.
Parametri macroeconomici
Una caratteristica particolarmente significativa dell’economia indiana è rappresentata dal costante aumento del risparmio privato nel periodo 1980-2004. Da valori medi del 14% nei primi anni Ottanta, il rapporto fra risparmio e PIL è salito al 28% nel 2003-04. Nell’intero intervallo di tempo, la crescita del risparmio privato ha trainato gli investimenti, anche se in modo non omogeneo, soprattutto in conseguenza delle variazioni del disavanzo fiscale e del saldo di parte corrente. Dopo la crisi del 1991, infatti, le politiche avviate dal governo hanno comportato una riduzione sia del disavanzo pubblico sia di quello di parte corrente. Il disavanzo fiscale ha raggiunto il livello più basso nel 1996-97, ma ha ripreso a salire toccando il 10% nel 2001-02. Considerato che il saldo delle partite correnti è rimasto negli stessi anni sostanzialmente in pareggio, il disavanzo fiscale ha assorbito una percentuale ragguardevole del crescente risparmio e questo ha condizionato la possibilità di investimenti privati. Le conseguenze di questo meccanismo di ‘spiazzamento’ (crowding out) devono però essere considerati con una certa cautela poiché, quando la spesa pubblica finanzia gli investimenti (per es., le infrastrutture), i risparmi privati assorbiti dal governo finiscono per contribuire in parte alla formazione di capitale fisso (Panagariya 2008).
La Reserve bank of India (RBI) ha trasformato una parte consistente dell’afflusso di capitali in riserve: nel 1993-94 e ancora nel 2003-04, per es., ha convertito oltre la metà dei capitali in entrata. Il disavanzo di parte corrente più elevato che si è registrato nel decennio compreso tra il 1994-95 e il 2003-04, è stato pari all’1,7% del PIL. Nel 2002-03 e nel 2003-04 si è registrato addirittura un avanzo delle partite correnti con un conseguente investimento all’estero dei risparmi interni. Pertanto, considerati il miglioramento delle partite correnti e l’apprezzamento della valuta, potrebbe risultare poco probabile un contributo significativo dei capitali esteri alla formazione del capitale domestico. È vero però che i benefici di un afflusso di capitali dall’estero devono essere valutati anche dal punto di vista dei collegamenti con i mercati mondiali, dell’introduzione di pratiche gestionali avanzate e infine dell’efficienza dei mercati finanziari.
Il debito pubblico complessivo (come proporzione del PIL) comprende la componente del governo centrale (in rupie), quella dei governi regionali (al netto del loro debito verso il governo centrale), quella delle imprese pubbliche non gestite dal governo centrale e il totale del debito estero. Verso la fine degli anni Ottanta il contributo di quest’ultimo rispetto al debito totale era molto più consistente che in anni recenti e si è progressivamente ridotto, mentre è aumentato quello interno. Nel 2003, per es., il debito estero raggiungeva a stento il 15% del PIL, mentre quello interno si era innalzato fino al 75%.
Rimane aperta la questione dei rischi di una crisi finanziaria prodotta da livelli elevati di deficit fiscale e di debito. Nouriel Roubini e Richard Hemming (2004) sostengono che l’India continua a essere vulnerabile alle crisi finanziarie tanto quanto lo era nel 1991. Essi richiamano l’attenzione sull’elevato rapporto esistente tra debito e prelievo fiscale (430%) e tra pagamento degli interessi sul debito e prelievo (34%), e sottolineano inoltre la presenza di un alto livello di prestiti a breve e di un ampio volume di investimenti esteri di portafoglio (circa 52,7 miliardi di dollari tra agosto 1991 e dicembre 2005). Se si diffondesse la preoccupazione di un deprezzamento della rupia si potrebbe quindi verificare una massiccia fuga di capitali. Arvind Panagariya (2008) al contrario rifiuta con enfasi queste preoccupazioni considerando che la convertibilità dei capitali è soggetta a forti vincoli, che il debito a breve rappresenta in realtà una piccola proporzione delle riserve valutarie (5,3% nel 2004-05) e che, infine, gli ingenti disavanzi fiscali non si sono tradotti in ampi deficit delle partite correnti, le quali, negli ultimi anni hanno addirittura fatto registrare un saldo in attivo.
Disparità tra Stati e tra regioni
Raggruppando gli Stati indiani in base a tre livelli del PIL pro capite del 1993 (rispettivamente basso, medio e alto), si osserva che i primi 5 Stati a elevato reddito (Tamil Nadu, Gujarat, Hariyana, Maharashtra e Panjab) sono cresciuti a ritmi più sostenuti dei 5 Stati a basso reddito (Bihar, Orissa, Uttar Pradesh, Rajasthan e Madhya Pradesh). I 4 Stati a reddito intermedio (Bengala Occidentale, Andhra Pradesh, Karnataka e Kerala) sono però cresciuti a ritmi lievemente più rapidi dei primi cinque.
Se si esamina la diversificazione produttiva delle diverse aree regionali misurata in termini occupazionali per vedere come questa si sia modificata nel periodo 1993-2004, trova conferma l’ipotesi che il livello iniziale di diversificazione abbia contribuito ad accelerare la crescita dell’occupazione. Desta perciò preoccupazione la lentezza del processo di diversificazione produttiva di alcuni tra gli Stati più grandi come Bihar, Uttar Pradesh, Rajasthan e Madhya Pradesh. Inoltre (Kochhar, Kumar, Rajan, Subramanian 2006), la concentrazione produttiva all’interno di un settore, per es. quello industriale, influenza ulteriormente le differenze occupazionali tra gli Stati e di conseguenza i loro livelli di benessere.
Un altro aspetto da esaminare è la concentrazione geografica delle attività produttive. Le analisi effettuate mostrano come questa si sia sensibilmente ridotta nell’industria e nei servizi nel periodo 1993-2004, mentre è cresciuta moderatamente la concentrazione geografica del terziario avanzato (finanza e assicurazioni, servizi alle imprese ecc.).
Va considerato con allarme anche l’aumento della quota di lavoratori non sindacalizzati (con produttività e salari inferiori alla media), che costituiscono una larga parte dell’occupazione totale.
In definitiva tre fenomeni debbono essere evidenziati: il PIL pro capite a livello statale (GSDP, Gross State Domestic Product) è cresciuto più rapidamente negli Stati ad alto e medio reddito individuale che in quelli a basso reddito, allargando ulteriormente la disparità nei livelli di benessere; l’occupazione è cresciuta più rapidamente negli Stati inizialmente caratterizzati da maggiore diversificazione produttiva; gli Stati con un più basso livello di reddito iniziale presentano una maggiore concentrazione produttiva che tende a modificarsi più lentamente; la concentrazione geografica della produzione si è ridotta nell’industria e nel complesso dei servizi ed è aumentata soltanto in un sottogruppo di servizi.
Il carattere inclusivo della crescita
La capacità del processo di crescita di coinvolgere l’insieme della società può essere misurata valutando il modo in cui i benefici si distribuiscono tra i differenti gruppi familiari, distinti in base alla casta o al gruppo etnico e in base alla loro ripartizione territoriale (Topalova 2008; Gaiha, Thapa, Imai et al. 2008).
Da questo punto di vista, nonostante l’accelerazione della crescita tra il 1993 e il 2004, disuguaglianze e povertà restano evidenti. Per quanto si sia straordinariamente ridotta nel corso dei decenni più recenti, la percentuale di popolazione (soprattutto rurale) che vive al di sotto della soglia nazionale di povertà continua a essere molto alta, e peraltro persiste un’estrema disparità tra gli Stati. Jammu e Kashmir è quello con la più bassa percentuale di popolazione al di sotto della soglia di povertà (5,4%), ma ve sono altri nei quali questa percentuale è quasi 10 volte più elevata, come in Orissa, dove risulta pari a circa il 47%, la più alta dell’India. Analizzando la situazione a livello regionale, le differenze di povertà emergono anche con maggiore evidenza. Mentre gli Stati meridionali sono nel loro complesso caratterizzati da una percentuale intorno al 20% di popolazione al di sotto della soglia di povertà, gli Stati centrali e quelli orientali si attestano su una proporzione prossima al 32%.
L’analisi della disuguaglianza nei livelli di consumi pro capite, a livello aggregato e di singoli Stati e con riferimento alla distinzione tra aree rurali e aree urbane, permette di evidenziare, sulla base dei dati disponibili, l’emergere di un significativo aumento delle disparità nel corso degli anni Novanta che ha riguardato in prevalenza le aree urbane e ha interessato tutti gli Stati, con la sola eccezione del Bihar. Mentre nel corso degli anni Ottanta la disuguaglianza è rimasta stabile nelle zone urbane e si è ridotta nelle zone rurali, negli anni Novanta si è verificato il processo inverso.
Le stime riferite agli anni recenti, sia pure condotte in modo meno rigoroso e affidabile, indicano una tendenza all’aumento delle disuguaglianze di ricchezza. Chetan Ahya e Mihir Sheth (2007), per es., ipotizzano che l’accumulazione di ricchezza sia cresciuta a oltre il 100% del PIL negli ultimi quattro anni concentrandosi soprattutto sul mercato azionario, sul mercato immobiliare locale e sull’oro. I dati sulla concentrazione della ricchezza, in base ai quali il 4-7% della popolazione investe i propri risparmi in azioni, il 47% possiede una casa in muratura e il 37% delle famiglie più ricche possiede il 71% del valore dei beni durevoli (inclusi oro e gioielli), lasciano ragionevolmente ritenere che questa abbia riguardato solo una minoranza di benestanti.
Petia B. Topalova (2008) analizza la relazione fra tasso di crescita, composizione e grado d’inclusione, e misura quest’ultimo sulla base della differenza tra tasso di crescita dei consumi del 30% più ricco della popolazione e quello del 30% più povero. I risultati di questo studio indicano che: non esiste alcun rapporto tra la rapidità della crescita e la sua natura inclusiva; a una crescita più rapida del settore dei servizi si associa una maggiore divaricazione dei consumi dei ricchi rispetto a quelli dei poveri; l’ampliamento di tale divario è dovuto principalmente all’espansione del settore bancario e assicurativo.
Tutto ciò suggerisce che la forte espansione del settore dei servizi, tipica degli anni Novanta, ha contribuito ad accentuare le disuguaglianze, anche se non può essere esclusa una relazione inversa tra i due fenomeni. Un’altra questione affrontata da Topalova riguarda il rapporto tra regolamentazione dei rapporti di lavoro e distribuzione dei guadagni della crescita. In generale si ritiene che il settore dei servizi cresca più rapidamente di quello industriale negli Stati che hanno emendato la legislazione rendendola meno favorevole ai lavoratori. Poiché esiste una relazione fra struttura settoriale dell’economia e natura inclusiva della crescita, si sostiene che tali emendamenti siano andati a vantaggio della parte più ricca della popolazione, rallentando l’espansione del settore industriale.
Alcuni gruppi socialmente svantaggiati, le cosiddette scheduled castes e scheduled tribes (caste e tribù che la Costituzione indiana riconosce come gruppi in precedenza fortemente svantaggiati), rimangono in una condizione di acuta povertà. Uno studio recente (Kijima 2006) fornisce informazioni sorprendenti sulla relativa disparità negli stili di vita (o più precisamente nei comportamenti di spesa) tra questi e gli altri gruppi residenti nelle zone rurali dell’India, disparità che riflette non solo una dotazione più limitata di capitale umano e capitale fisico (per es., l’istruzione e la proprietà della terra), ma anche un minore ritorno economico per i gruppi svantaggiati a parità di capitale posseduto. Mentre si è registrata una certa riduzione nelle disparità di spesa tra il 1983 e il 1999, l’analisi fa emergere motivi di preoccupazione a causa del verificarsi di una situazione caratterizzata sia da una minore dotazione di risorse sia da un minore ritorno economico.
La disparità di risorse potrebbe essere il risultato di qualche forma di discriminazione e di oppressione di alcuni gruppi svantaggiati (per es., l’esclusione sociale potrebbe aver determinato difficoltà di accesso all’istruzione per periodi prolungati riducendo, a sua volta, le possibilità di accesso anche alle generazioni più giovani). Per altro verso, però, i diversi rendimenti di vari tipi di risorse potrebbero riflettere una valutazione distorta delle prestazioni dei membri di questi gruppi, denotando il persistere di un certo grado di discriminazione sociale. Questa spiegazione rimane tuttavia problematica, poiché i risultati individuali sono condizionati fortemente e in modo complesso dall’identità di ciascuno e dalle sue motivazioni. In particolare, l’esclusione sociale e un sistema discriminatorio di remunerazione può minare l’autostima, la motivazione al successo e, di conseguenza, i risultati ottenuti. Una condizione di deprivazione con profonde radici storiche modella le aspettative, contribuendo così a mantenere il gruppo nella povertà. Un’eredità di pregiudizi e di discriminazione perpetua inoltre uno stato di subordinazione e di passività. In altre parole, un sistema condiviso di atteggiamenti e di convinzioni stabilizza e uniforma un ridotto livello di aspettative e contribuisce a riprodurre nel tempo un destino di povertà.
Alla luce di queste osservazioni due raccomandazioni sembrano importanti. In primo luogo è evidente la necessità di accrescere la disponibilità di risorse dei gruppi svantaggiati; in secondo luogo, una politica perequativa non può limitarsi ad aumentare le risorse di questi gruppi, ma deve necessariamente affrontare il problema del loro basso rendimento. A proposito di quest’ultimo aspetto, emerge che il senso d’identità può svolgere un ruolo potenzialmente importante nel mantenere condizioni di deprivazione. Se non si affronta il problema dell’appartenenza di casta o tribale, insieme alla sfiducia nel sistema di remunerazione, si corre il rischio di pregiudicare gli effetti positivi delle politiche perequative.
Altre dimensioni dello sviluppo
La crisi agricola
L’agricoltura indiana sta attraversando una crisi la cui gravità si manifesta in varie forme. Il tasso di crescita dell’agricoltura ha rallentato bruscamente negli anni successivi alla riforma del 1991. Ciò ha avuto effetti negativi sui livelli di vita di gran parte della popolazione rurale. Inoltre, i suoi effetti non sono stati omogenei e i piccoli agricoltori con poche risorse, soprattutto nelle regioni più dipendenti da fattori climatici, sono stati più duramente colpiti. Queste aree, che sono anche quelle nelle quali si verificano con maggiore frequenza episodi di siccità, sono le più soggette ad ampie fluttuazioni nella produzione e sono quelle in cui gli agricoltori fortemente indebitati sono talvolta spinti a ricorrere a misure estreme, e talvolta anche a togliersi la vita.
La pressione esercitata dalla crescita della popolazione sulle aree coltivabili in diminuzione ha determinato un netto decremento della dimensione media degli appezzamenti e una crescente marginalizzazione dei piccoli agricoltori. Nonostante la riforma agraria, la distribuzione delle terre coltivabili continua a essere sperequata. Per tutto il periodo 1991-2003, la quota delle proprietà di piccole dimensioni ha continuato ad aumentare. Il tasso di crescita del PIL agricolo si è ridotto dal 3,8% annuo del periodo 1980-81/1990-91 al 2,61% del periodo 1992-93/2002-03 (prendendo a parametro i prezzi 1999-2000).
Il rallentamento della crescita in agricoltura ha naturalmente condizionato l’occupazione, il cui tasso di crescita medio è sceso dall’1,41% nel 1983-1993 allo 0,63% nel 1993-2004. Poiché, nello stesso intervallo di tempo, il tasso di crescita dell’occupazione complessiva è passato dall’1,74% all’1,08%, l’aumento dell’occupazione extragricola non è riuscito ad assorbire completamente l’eccesso di manodopera che si è creato nelle aree rurali. Il risultato netto è stato il quasi raddoppio in termini assoluti del numero di disoccupati censiti, che sono passati da 7,49 milioni nel 1993 a 13,6 milioni nel 2004.
La responsabilità della crisi dell’agricoltura indiana è in larga misura da attribuire alle scelte governative e, in particolare, alla diminuzione di investimenti pubblici. La crisi, iniziata già alla fine degli anni Ottanta, si è aggravata all’indomani della riforma agraria, come conseguenza immediata di una brusca riduzione della quota della formazione lorda di capitale totale destinata al settore agricolo. Questa riduzione riflette soprattutto l’incapacità degli investimenti privati di compensare la diminuzione degli investimenti pubblici (Government of India 2008).
Due indagini del 2003 (All India debt and invest-ment survey e The situation assessment survey), condotte dal Ministry of statistics and programme implementation, forniscono interessanti informazioni sulle condizioni di indebitamento degli agricoltori indiani. Su 89 milioni di famiglie di agricoltori, 43 milioni (il 48,6%) risultavano indebitate. Le fonti dell’indebitamento erano però diverse a seconda dei gruppi di agricoltori: se, per l’insieme dei contadini, il 58% del debito proviene da canali istituzionali, il 25% circa da prestiti privati e per la parte rimanente da altri canali informali, nel caso dei piccoli agricoltori il debito verso le istituzioni finanziarie risulta pari solamente al 25% del debito totale. Questa situazione appare particolarmente preoccupante considerando che i piccoli agricoltori rappresentano circa l’84% del totale dei lavoratori del settore e che gli interessi sui debiti informali tendono a essere più elevati.
Un segnale drammatico del crescente disagio degli agricoltori è rappresentato dall’aumento dei suicidi osservato negli ultimi anni. L’analisi di questo fenomeno nel Maharashtra sembra sia da rintracciare principalmente nell’incapacità di restituire i prestiti dopo un cattivo raccolto.
Il problema dell’alimentazione
Il rallentamento del tasso di crescita della produzione di cereali per alimentazione ha determinato un relativo declino della loro disponibilità pro capite. La disponibilità e il consumo pro capite di cereali sono macroindicatori alimentari delle quantità mediamente disponibili, ma non danno indicazioni sulla loro distribuzione o sui livelli di consumo effettivo individuale. I valori medi, già bassi, possono in realtà nascondere iniquità nell’effettivo consumo di cereali poiché, in un contesto come quello indiano contrassegnato da forti disuguaglianze, i poveri consumano molto meno delle quantità medie teoricamente disponibili.
Il livello di assunzione di cereali corrispondente all’importo calorico di un’alimentazione adeguata è stato valutato dall’Indian council of medical research (ICMR) pari a 135 kg per persona all’anno, e quindi a 11,25 kg al mese (Swaminathan 2001). Il consumo effettivo di grano, uno dei cereali più utilizzati, rimane molto al di sotto di questi valori di riferimento sia nelle aree rurali che in quelle urbane. La popolazione rurale, che è presumibilmente maggiormente impegnata in lavori manuali, consuma mediamente meno rispetto alla popolazione urbana.
Per quanto riguarda, in particolare l’infanzia, la malnutrizione in India è ancora molto diffusa. Secondo il Fifth report on the world nutrition situation delle Nazioni Unite (2004), la percentuale di bambini indiani sottopeso raggiunge il 47% rispetto al 28% dell’Asia; il 45% dei bambini presenta ritardi nella crescita rispetto al 30% dell’Asia e il 16% presenta segni di malnutrizione rispetto al 9% dell’Asia. Infine, in tutti gli Stati indiani la percentuale di bambini sottopeso risulta sistematicamente più elevata nelle zone rurali rispetto a quelle urbane.
L’occupazione e le retribuzioni femminili
L’impiego delle donne nel settore industriale e in quello dei servizi si caratterizza per il luogo di lavoro, le mansioni assegnate e il tipo di contratto. Le donne sono in prevalenza impiegate in imprese informali piccole o piccolissime, a bassa intensità di capitale. Nei servizi le donne lavorano generalmente come collaboratrici domestiche. Anche quando sono inserite in settori moderni della produzione, la discriminazione nei loro confronti trova espressione nei compiti assegnati e nel salario corrisposto. Ciò che emerge chiaramente dai dati disponibili sui salari agricoli è la clamorosa violazione non solo della legge sul salario minimo del 1948 (Minimum wage act), ma anche di quella sulla parità retributiva del 1976 (Equal remuneration act).
Altri indicatori
Oltre che dal tasso di povertà, il benessere generale dipende da altri fattori e diversi indicatori mostrano che, nell’ultimo decennio, vi è stato un rapido aumento del livello complessivo malgrado alcuni aspetti contraddittori. In particolare, si è assistito a una crescita nella qualità delle abitazioni e nella diffusione della proprietà di alcuni beni durevoli e anche gli indicatori di salute hanno confermato un netto miglioramento. Si sono ridotte in modo significativo la mortalità materna e quella infantile, si è registrata una notevole diminuzione della mortalità generale e un aumento dell’aspettativa di vita alla nascita (tab.2). Nonostante questi progressi, la mortalità infantile rimane elevata e la mortalità materna continua a rappresentare un problema. Quest’ultima è tre volte più alta che in Cina e, all’interno della stessa India, si hanno significative variazioni regionali con tassi molto più bassi nel Kerala che nel resto del Paese.
Il governo sta aumentando la spesa sanitaria, ma sarà difficile raggiungere gli obiettivi di riduzione della mortalità materna senza modificare le modalità di offerta dei servizi e senza aumentare la loro accessibilità soprattutto negli Stati più poveri, tenendo in particolare presente che nelle strutture sanitarie pubbliche si registra un assenteismo che raggiunge il 40% per il personale non medico e una percentuale ancora più elevata per il personale medico (Chaudhury, Hammer, Kremer et al. 2006).
Gli interventi di politica economica e il loro impatto
La liberalizzazione della distribuzione al dettaglio
Il commercio al dettaglio in India è stato di recente esaltato come un’attività con grandi potenzialità e grandi prospettive di crescita. Andrew Thomas Kearney (2006), confrontando trenta mercati emergenti, mostra come l’India continui a essere il Paese con maggiori investimenti in questo comparto. Ciò nonostante, il settore commerciale indiano è estremamente frammentato e le reti commerciali nazionali sono ancora in una fase iniziale. Senza dubbio, dopo l’agricoltura, il commercio (al dettaglio e all’ingrosso) è la principale fonte di occupazione del Paese, e concorre per circa il 13% alla formazione del PIL, occupando 40 milioni di persone, cioè il 9% del totale della forza lavoro.
Il settore del commercio al dettaglio indiano può essere suddiviso in organizzato e non organizzato. Studi condotti da KPMG, PricewaterhouseCoopers e altri stimano un valore complessivo del commercio al dettaglio pari a 200 miliardi di dollari, di cui la distribuzione organizzata rappresenta il 3% circa (6,4 miliardi di dollari). Secondo alcune proiezioni contenute negli stessi studi, la distribuzione organizzata dovrebbe crescere del 25-30% all’anno, raggiungendo un valore pari a 23 miliardi di dollari nel 2010; attualmente essa impiega circa 500.000 addetti rispetto ai circa 39,5 milioni della non organizzata.
Alcune società multinazionali già presenti sul mercato indiano stanno crescendo di oltre il 100% all’anno e molte altre stanno programmando il loro ingresso nel commercio al dettaglio indiano. Attualmente il governo autorizza in modo automatico investimenti esteri diretti fino al 100% del totale nel comparto del cash and carry e fino al 51% in quello della distribuzione al dettaglio monomarca; ai grandi operatori è consentito anche aprire esercizi in franchising.
Le zone speciali
Negli ultimi anni il governo indiano ha considerato con crescente favore una politica di sostegno allo sviluppo di zone economiche speciali. In particolare, nel 2000 il governo ha sostituito le Export processing zones (EPZ) con le Special economic zones (SEZ), che beneficiano di numerosi incentivi e agevolazioni non concessi alle prime. Con la legge sulle SEZ del 2005, e i relativi regolamenti emanati nel febbraio 2006, il sistema è stato definitivamente formalizzato. La principale caratteristica della nuova legge è la finalità dichiarata di consentire il rapido svolgimento di tutte le procedure di autorizzazione. La legge, come già accennato, assicura anche numerosi incentivi, tra i quali un regime fiscale favorevole.
Questa politica, che si ritiene possa incentivare significativamente le esportazioni e assicurare l’aumento dell’occupazione e degli investimenti nelle SEZ, non è esente da critiche. Gli oppositori sostengono che il sistema di incentivi possa essere utilizzato a vantaggio degli investimenti immobiliari piuttosto che a sostegno dell’industria per l’esportazione. Preoccupazioni sono anche state espresse circa l’allontanamento degli agricoltori dalle terre che vengono acquistate, la riduzione nella disponibilità di terreni fertili e produttivi, la notevole perdita di entrate fiscali e gli effetti negativi di un processo di crescita diseguale (Aggarwal 2006). Proteste per l’acquisto delle terre e per l’allontanamento dei contadini dai loro campi si sono già tradotte in episodi di violenza a Nandigram (un villaggio del Bengala Occidentale) nel marzo 2007. Si sta diffondendo la convinzione che la semplice compensazione economica per i terreni venduti non rappresenti una soluzione efficace e che siano necessarie valutazioni attente dell’impatto sociale delle SEZ e misure adeguate per fronteggiarlo.
Di fronte al rischio di una violenza diffusa, il comitato parlamentare, presieduto da Murli Manhoar Joshi, ha raccomandato nel suo rapporto sulle SEZ che il governo congeli l’autorizzazione a nuove zone e stabilisca un tetto alla superficie delle aree da destinare ad attività industriali.
Si fa strada la diffusa percezione che il sistema indiano delle SEZ, per quanto possa apparire simile al sistema cinese di incentivazione economica, se ne differenzi in realtà in misura rilevante. Per es., mentre la Cina ha seguito un approccio molto graduale, istituendo solo 6 SEZ negli ultimi anni, l’India ne ha già istituito 19, approvate 234, previste 162 e ha accettato richieste per la creazione di altre 19 SEZ (Sarma 2007). La Cina, inoltre, ha definito una rigorosa politica di utilizzazione del territorio che mira a proteggere le terre coltivabili, mentre l’India non ha sviluppato nessuna politica del genere.
In un recente ed esaustivo studio econometrico che confronta la politica delle zone speciali in Cina e in India, Chee Kian Leong (2007) esamina gli effetti sull’economia dell’apertura all’estero: i risultati confermano che l’aumento delle esportazioni ha avuto ripercussioni positive ma abbastanza modeste. Inoltre, anche l’aumento del numero di zone speciali ha effetti trascurabili sulla crescita economica. In conclusione, questi risultati suggeriscono che il maggiore contributo alla crescita è assicurato da un ampliamento del processo di liberalizzazione e non dal semplice aumento delle zone speciali. Infatti queste ultime non incorporano forze dinamiche in grado di orientare l’economia verso un processo di sviluppo sostenibile. Infatti queste zone non si possono isolare dal più ampio contesto economico e istituzionale del Paese. La chiave per il successo del processo d’industrializzazione consiste nella capacità dell’assetto istituzionale di orientare stabilmente le imprese verso un costante aggiornamento tecnologico e verso i mercati mondiali; la creazione di zone in grado di offrire vantaggi competitivi sulla base della minimizzazione dei costi deve infatti essere considerata soltanto un espediente transitorio.
Le privatizzazioni
In un’economia mista come quella indiana, al settore pubblico è stato storicamente affidato un ruolo importante anche se, a partire dal 1991, la politica economica nazionale ha subito una trasformazione radicale. La situazione di grave dissesto della finanza pubblica ha spinto verso una riduzione delle partecipazioni pubbliche. In molti altri Paesi, politiche di questo tipo sono state parte di un processo di liberalizzazione, ma questo non è il caso dell’India, dove le politiche di liberalizzazione hanno piuttosto assunto il carattere di privatizzazioni di tipo greenfield, che consentono cioè l’entrata del settore privato in aree precedentemente di monopolio pubblico. Pertanto i privati hanno investito in settori come l’energia, le ferrovie, le strade, l’aviazione, le telecomunicazioni.
Il processo di privatizzazione solleva diversi problemi di natura generale. Sorgono innanzi tutto questioni riguardanti le conseguenze economiche della vendita di imprese pubbliche, la valutazione se disinvestire sia effettivamente la strategia migliore per il governo oppure se le privatizzazioni siano in grado di realizzare i risultati che si propongono.
Dal punto di vista dell’approccio microeconomico ortodosso, è perfettamente possibile sostenere che in molti contesti (l’esistenza di esternalità o la presenza di un monopolio naturale sono gli esempi più ovvi) la proprietà pubblica consente di ottenere risultati migliori in termini di efficienza. Per altro verso, nei casi in cui sono evidenti i fallimenti dello Stato, la privatizzazione si può rivelare la scelta migliore (Kaur 2003). In altre parole l’allocazione dei diritti di proprietà è rilevante perché determina gli obiettivi dell’impresa e i sistemi di monitoraggio delle performances manageriali. È ragionevole attendersi che la conseguenza di un trasferimento di proprietà dal pubblico al privato comporti un miglioramento dell’efficienza. Il ricorso alle privatizzazioni, tuttavia, viene auspicato non tanto per accrescere l’efficienza delle imprese pubbliche, quanto in base all’assunzione che esse faranno aumentare il grado di concorrenza. Diversi studi hanno infatti indicato che non è tanto il cambiamento di proprietà a migliorare l’efficienza quanto piuttosto l’aumento di concorrenza. In presenza di sufficienti livelli di concorrenza non ci sarebbero differenze di efficienza tra imprese pubbliche e imprese private. Se dunque l’obiettivo è quello di aumentare l’efficienza di imprese per le quali la mancanza di concorrenza è il problema principale, un semplice cambio di proprietà non produce necessariamente i risultati desiderati. In effetti, un aumento del grado di concorrenza può essere sufficiente a far migliorare l’efficienza delle imprese statali.
Nello scenario indiano il processo di privatizzazione ha determinato una serie di contraddizioni, tra cui il fatto che il ricavato delle privatizzazioni è stato inferiore a quello previsto e non si sono verificati gli attesi risultati in termini di efficienza. Inoltre sorgono problemi riguardo alle conseguenze fiscali delle dismissioni pubbliche e alle carenze democratiche del processo di privatizzazione. Un ricavato dalla cessione di quote delle aziende pubbliche che si rivela inferiore agli obiettivi fissati dal governo è motivo di preoccupazione e, d’altra parte, non è ancora chiaro se tale cessione indurrà effettivamente lo Stato e i nuovi azionisti a monitorare i manager in modo più efficace. A tal proposito, si deve innanzi tutto osservare che, a partire dal 1991-92, è stato ceduto ai privati meno del 2% delle azioni di aziende pubbliche: se si assume che per ottenere effettivi guadagni di efficienza si dovrebbe vendere almeno il 51% delle azioni, risulta evidente che tali guadagni non possano realizzarsi, anche se è lecito attendersi che si verifichino in quelle aziende che il governo, a partire dal 2000, ha deciso strategicamente di vendere interamente.
In conclusione, in molti casi la riduzione della partecipazione pubblica non ha realmente cambiato la proprietà, poiché il governo mantiene la maggioranza azionaria. Livelli insufficienti di informazione e di trasparenza non hanno inoltre consentito la vendita libera, competitiva ed efficiente delle azioni. Per giunta, dato che le imprese statali non ricavano direttamente benefici monetari dalla loro vendita (i proventi sono incassati dallo Stato), esse si sono dimostrate riluttanti a produrre e distribuire prospetti informativi, contribuendo a rendere il processo poco trasparente e spesso privo di garanzie esplicite.
Un’altra importante questione riguarda le caratteristiche che devono avere i potenziali acquirenti di quote delle imprese statali. Se si intende realizzare l’obiettivo di una proprietà diffusa, l’offerta di azioni al pubblico sembra la scelta migliore; nel caso in cui questa strada non sia percorribile, un’alternativa può essere una vendita riservata ai dipendenti. La strada più difficile è quella di una vendita ad altre aziende, in particolare se si tratta di aziende estere. La logica della privatizzazione di imprese di proprietà dello Stato dovrebbe in linea di principio favorire i potenziali investitori domestici, sebbene la vendita all’estero di quote di minoranza può essere un fattore importante di successo nel concludere una vendita prevalentemente destinata all’investimento interno.
L’offerta pubblica è la pratica migliore da seguire per effettuare privatizzazioni ma, sfortunatamente, il mercato indiano dei capitali non è sviluppato a sufficienza e gli investitori potenziali rappresentano meno dell’1% della popolazione. Esiste dunque la necessità di far emergere un mercato ancora sottosviluppato e contemporaneamente procedere con le privatizzazioni. È ovvio che quando la vendita è rivolta a soggetti privati (e non al pubblico in generale) si determina un difetto di democrazia economica e si rende impossibile una proprietà azionaria diffusa.
Nel processo di privatizzazione rimane sempre aperta la questione se sia stato in primo luogo opportuno vendere alcune aziende e se continui a essere opportuno insistere nel programma. Sebbene sia difficile rispondere a queste domande senza tenere conto del quadro generale dei meccanismi concorrenziali e regolamentativi, in generale si può comunque sostenere che la privatizzazione è e continua a essere opportuna nei casi in cui i fallimenti del mercato sono meno gravi dei fallimenti dello Stato.
Vincoli
La sfida principale per ottenere i maggiori benefici possibili dalla globalizzazione consiste nella creazione di un clima economico favorevole agli investimenti. Ciò implica la capacità di definire un sistema rigoroso di regolamentazione delle industrie che comprenda il sostegno alla concorrenza, il superamento di ritardi e inefficienze burocratiche, la lotta alla corruzione e il miglioramento delle infrastrutture. Se un clima favorevole agli investimenti è chiaramente importante per le grandi aziende del settore formale dell’economia, lo è almeno altrettanto per le medie e piccole imprese. Su questo presupposto, la World bank (Doing business 2008, 2008) ha creato un indice di ‘facilità d’impresa’. In una graduatoria di 178 Paesi basata su questo indice, l’India è salita di 12 posizioni dal 2007 al 2008, passando dal 132° al 120° posto. Nonostante questo miglioramento, l’India si colloca ancora nella zona più bassa della graduatoria. Mentre l’India ha realizzato miglioramenti significativi nell’accesso al credito e nel commercio con l’estero, la sua posizione è invece peggiorata nell’avvio di nuove imprese, nell’assunzione di lavoratori dipendenti, nella registrazione delle proprietà, nel pagamento di imposte e nella liquidazione di un’impresa.
L’India è ancora lontana dall’avere pienamente sviluppato il suo potenziale economico. Un sistema di regole più adeguato e miglioramenti nelle infrastrutture potranno probabilmente determinare più alti livelli di produttività e di crescita economica. In tal senso un problema di particolare gravità è quello della corruzione, che può assumere forme diverse, quali la coercizione o la collusione. La corruzione è, in sostanza, un problema di governance, deriva infatti da un’amministrazione pubblica debole ed è resa possibile dal monopolio di singoli (o di organizzazioni) sulla disponibilità di un bene o di un servizio, dalla discrezionalità nelle decisioni, dalla limitata o inesistente trasparenza delle loro azioni, da bassi livelli di reddito (Gaiha 2003).
Tra gli effetti della corruzione vi sono la riduzione delle entrate fiscali, la conseguente difficoltà di mantenere i servizi pubblici e l’impatto negativo sul loro costo unitario. Se si osserva il problema da un altro punto di vista, sono state sottolineate le conseguenze negative della corruzione sulla possibilità di un’efficiente allocazione delle risorse, sugli investimenti (in particolare quelli esteri) e sulla crescita.
Il quadro legislativo indiano comprende norme come la legge per la prevenzione della corruzione (Prevention of corruption act) o le leggi sulla trasparenza approvate in molti Stati, ma il rispetto di queste norme è palesemente inadeguato. Anche quando si intraprende un’azione legale le sentenze richiedono tempi molto lunghi e spesso non sono definitive.
È stata già richiamata l’attenzione sul ruolo svolto dalla flessibilità del mercato del lavoro nel favorire la diversificazione produttiva e l’aumento della produttività. Un quadro delle distorsioni indotte dalle diverse regolamentazioni del mercato del lavoro può essere delineato sulla base delle analisi condotte da Kaushik Basu e Annemie Maertens (2007), Timothy Besley e Robin Burgess (2004) e Kalpana Kochhar, Utsav Kumar, Raghuram Rajan, Arvind Subramanian (2006). Il mercato del lavoro indiano è disciplinato da 45 leggi nazionali e da un numero di leggi almeno quattro volte superiore a livello statale. Gli indici della World bank riflettono la labirintica complessità del mercato del lavoro indiano. Qualche miglioramento è stato realizzato negli indici di difficoltà di assunzione, di rigidità dell’orario, di rigidità dei contratti e i costi di licenziamento, mentre si registra ancora una posizione molto alta in classifica per quello che riguarda la possibilità di licenziamento.
Besley e Burgess sottolineano gli effetti negativi delle leggi a favore dei lavoratori sugli investimenti e sulla produttività del settore industriale formale e rilevano che, cosa ancora più importante, queste norme non sembrano avere neppure migliorato le condizioni dei lavoratori. Philippe Aghion, Robin Burgess, Stephen Redding e Fabrizio Zilibotti (2006) dimostrano che l’impatto negativo delle norme di protezione del lavoro si è accentuato nel periodo successivo agli interventi di liberalizzazione. Kochhar, Kumar, Rajan, Subramanian (2006) sostengono che gli effetti negativi non si limitano a una riduzione della produttività, ma creano anche barriere all’ingresso di nuove imprese.
Basu e Maertens (2007) argomentano in modo convincente che un mercato del lavoro più flessibile permetterebbe alle imprese di adattarsi meglio alla volatilità dei mercati nei quali operano, consentendo il ricorso a modalità differenti di rapporto contrattuale. La ricetta proposta consiste quindi nell’adozione di contratti flessibili, nella creazione di un sistema di welfare di base riservato ai lavoratori che perdono il posto e nella rapida soluzione delle vertenze di lavoro. Come fare a mettere in atto questa ricetta è ovviamente un’altra questione.
Guardando al futuro
L’India ha senza dubbio migliorato in misura significativa i suoi risultati economici con tassi di crescita che da valori annuali del 3,5% negli anni Ottanta hanno raggiunto attualmente l’8,5%: nonostante questo aumento, esistono ancora ampi margini di miglioramento. Il livello medio di produttività dell’India è solamente il 9% di quello statunitense e il 75% di quello cinese ed è dunque possibile migliorarlo attraverso l’ampliamento e l’ammodernamento dello stock di capitale e delle infrastrutture, attraverso un aumento del livello di qualificazione della forza lavoro e mediante uno spostamento di risorse verso settori a produttività più elevata, in particolare dall’agricoltura all’industria manifatturiera.
Il raggiungimento nel medio periodo di tassi di crescita del 10% annuo, che rappresentano l’obiettivo dichiarato del governo, richiederà ulteriori riforme strutturali. Alcune delle sfide cruciali che i decisori politici devono affrontare per garantire la competitività dell’economia indiana sono in particolare: aumentare la concorrenza interna limitando il ricorso agli interventi regolamentativi; favorire la crescita nei settori dell’economia a forte intensità di manodopera attraverso riforme del mercato del lavoro; ridurre la presenza dominante dello Stato nel settore finanziario ampliando il mercato dei capitali; sviluppare politiche fiscali coerenti a tutti i livelli di governo riorientando la spesa pubblica e rendendo meno discriminatorie le imposte sulle transazioni domestiche e sulle importazioni; migliorare le infrastrutture e la fornitura di servizi pubblici specialmente nelle aree urbane; migliorare il capitale umano facendo funzionare meglio il sistema educativo.
In conclusione l’India ha realizzato notevoli progressi nel rendere la sua economia più aperta e maggiormente orientata al mercato. Ciò si è tradotto nell’avvio di un percorso di crescita sostenuta, nella riduzione della povertà e nel miglioramento di numerosi indicatori sullo stato di salute della popolazione. A fronte di questi successi, il livello medio delle condizioni di vita rimane insoddisfacente ed esistono grandi disuguaglianze tra gli Stati, le aree geografiche e i gruppi socioeconomici. La principale sfida che l’India deve affrontare è oggi quella di sostenere, e possibilmente accelerare, il suo sviluppo garantendo la massima diffusione possibile dei miglioramenti nelle condizioni di vita. Vincere questa sfida richiede un ulteriore sforzo di riforma in molti campi.
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