ESTE, Taddeo d'
Figlio di Azzo di Francesco di Bertoldo, appartenente al ramo cadetto dei marchesi d'Este che riconosceva la sua origine in Francesco (m. 1312), secondogenito di Obizzo (II), primo signore di Ferrara, nacque con tutta probabilità ad Este (Padova).
È sconosciuto l'anno di nascita, da collocare comunque, con buona approssimazione, intorno all'ultimo decennio del sec. XIV.
Il padre, nato nel 1344 e morto nel 1415, dopo reiterati tentativi di succedere nella signoria di Ferrara al marchese Alberto, morto senza eredi legittimi, aveva stabilito nell'ultimo scorcio del secolo la propria dimora nella cittadina avita, ottenendo piena legittimazione dei suoi possessi e dei suoi diritti dalla Repubblica di Venezia, subentrata nel frattempo ai Carraresi nel dominio di Padova e del territorio.
Quanto alla madre, l'unico dato certo è la sua appartenenza al casato dei principi di Collalto. Sicuramente ebbe una sorella, Orsina, andata sposa a Federico, conte di Porcia, e un fratello, Francesco, con ogni probabilità morto senza credi in età giovanile dopo il maggio del 1424.
Nulla sappiamo dell'adolescenza e della giovinezza dell'Este. R possibile nondimeno affermare con relativa sicurezza che dovette ben presto seguire l'esempio paterno e abbracciare la carriera delle armi, spinto certo dal suo status sociale e ancor più dal bisogno di dare maggiore consistenza a un patrimonio familiare indubbiamente precario e modesto, ma al tempo stesso favorito dal fatto di esser divenuto suddito della Repubblica di Venezia e proprio negli anni del suo massimo sforzo espansionistico in Terraferma.
Il governo veneziano non si lasciò sfuggire l'opportunità di legare stabilmente al suo servizio un condottiero, presumibilmente dimostratosi versato nell'esercizio delle armi fin dalle prime prove cui venne chiamato, ma indubbiamente tenuto a riservare alle insegne marciane quella fedeltà e quella lealtà che la sua condizione di suddito, ancorché di recentissima acquisizione, dovevano consigliargli. E tutto questo proprio nel momento in cui le componenti della classe dirigente veneziana più attente a cogliere in tutti i loro risvolti gli inquietanti segnali che la drammatica guerra di Chioggia, da poco terminata, aveva lasciato percepire, si stavano attivando al fine di dotare la Repubblica di una struttura militare di Terraferma permanente, L'assoluta mancanza di informazioni circa gli anni giovanili dell'E. si oppone a qualsiasi tentativo di far luce sulle sue prime esperienze di soldato e soprattutto intorno al suo tirocinio di comandante di genti d'arme. Quasi certamente, comunque, il suo apprendistato di condottiero venne maturandosi, magari sulla scorta degli insegnamenti patemi, direttamente sul campo di battaglia piuttosto che alla scuola di qualcuno dei grandi capitani del tempo. Rispetto agli stessi poi l'E. conservò sempre, o per libera scelta o perché così costretto dagli avvenimenti e dalla sua particolarissima condizione di suddito veneziano prima ancora che di uomo d'armi, una posizione del tutto appartata, investito di ruoli e di funzioni non così pacificamente assimilabili a quelli solitamente assegnati al classico capitano di ventura. Non per questo l'E. non entrò in rapporto, e anche stretto, e spesso pure venato di accesa rivalità professionale, con i più ricercati condottieri di quegli anni, da Filippo Arcelli a Carlo Malatesta, dal Carmagnola a Francesco Sforza, dal Gattamelata a Gianfrancesco Gonzaga, agli ordini dei quali, ma sempre a seguito di preciso mandato delle autorità veneziane, si trovò talora a guidare la propria fidatissima compagnia, reclutata sostanzialmente nei possedimenti di famiglia e nel territorio veronese. Meritre non vanno sottaciuti, per gli insegnamenti che certamente gli procurarono e per l'esperienza che indubbiamente ne seppe trarre, gli scontri spesso assai poco fortunati con Niccolò Piccinino, con Niccolò Fortebracci, con Carlo Gonzaga e con Taliano Furlano, per ricordare i più famosi tra quei condottieri che militarono pressoché stabilmente in campo avverso.
In ogni caso, l'E. non seppe o non volle, oppure ancora non gli fu permesso dagli avvenimenti e dallo stesso governo veneto, salire a quelle posizioni di primissimo piano tra i principali capitani degli eserciti veneziani che le premesse giovanili lasciavano presagire. Infatti, dopo aver rapidamente raggiunto, sebbene a seguito della morte di Filippo Arcelli, il grado di governatore generale dell'esercito, e con risultati decisamente lusinghieri, ritornò a rivestire nelle campagne immediatamente successive un ruolo affatto subordinato. E nonostante una fedele militanza più che trentennale al servizio della Repubblica di Venezia, che lo vide prendere parte a tutti i più importanti fatti d'arme che portarono alla conquista della Terraferma, egli si trovò sempre a combattere, ancorché spesso con notevole autonomia e talora magari alle dirette dipendenze del provveditore veneziano, agli ordini e secondo i piani di battaglia di questo o di quel capitano generale. Parimenti, le condotte a lui affidate non raggiunsero mai dimensioni ragguardevoli, cosicché non ebbe modo di verificarsi quel salto di qualità che gli avrebbe forse permesso di emulare le gesta dei grandi condottieri dell'epoca. Nel giudizio dei cronisti coevi venne nondimeno ritenuto più adatto a compiti strettamente difensivi piuttosto che offensivi, per quanto gli fossero unanimamente riconosciute notevoli doti di coraggio, ardimento e spregiudicatezza.
Stando a Marin Sanuto, fin dal giugno del 1414 l'E. si trovò a Zara, chiamato al comando di una condotta di 20 lance ai servizi della Repubblica, impegnata nella guerra contro Sigismondo di Lussemburgo, re di Ungheria, intenzionato a strappare ai Veneziani la città a lungo contesa. Ma già nel marzo dell'anno successivo, chiesta al Senato l'autorizzazione a rimanere a Este, per poter meglio seguire l'andamento di certi affari di famiglia, seriamente compromessi dalla recentissima morte del padre, ottenne la facoltà di non far ritorno a Zara e di rimanere con la sua compagnia a presidiare il territorio estense.
Dopo questa primissima, e non particolarmente significativa esperienza di guerra, l'E. si trovò attivamente impegnato l'anno successivo nelle operazioni militari che portarono la Repubblica di Venezia a conquistare Rovereto, feudo di Aldrighetto di Lizzana.
Prossima ormai a spirare la tregua quinquennale con Sigismondo di Lussemburgo, stipulata a Castelletto del Friuli il 17 apr. 1413, nel marzo del 1417 l'E., che nel frattempo aveva servito nella guarnigione di Verona agli ordini del capitano veneziano, venne richiamato in tutta fretta a Venezia. Il Senato, di fronte alla sua richiesta di essere dispensato dai suoi obblighi, a causa di certi debiti che ne avrebbero richiesto una più attiva presenza nei possedimenti aviti per seguire meglio gli affari di famiglia, non solo non volle privarsi dei suoi servizi, ma per permettergli di far proficuamente fronte alle sue necessità, con la "parte" del 5 aprile, gli aumentò la condotta a 50 lance e, concessagli soltanto una breve licenza di. quindici giorni, lo rimandò ai confini orientali.
Il 19 sett. 1418 le autorità veneziane rinnovarono la condotta all'E., portandola a 70 lance. Quindi, mentre il grosso dell'esercito agli ordini del governatore generale, Filippo Arcelli, si avviava alla volta del Friuli, ingiunsero all'E. di stazionare con la sua compagnia a Brugnera, piccolo borgo posto ai limiti estremi del territorio trevisano, lungo la direttrice Treviso-Udine, chiaramente in funzione di retroguardia e di accorta difesa del confine. Fino a tutta l'estate del 1419 il condottiero si tenne così alquanto appartato rispetto al teatro principale della guerra ormai dichiarata tra Venezia e il patriarca di Aquileia per il possesso del Friuli, nonostante che nel frattempo la sua condotta fosse stata aumentata a 100 lance.
Nondimeno, ai primi giorni dell'autunno, con l'approssimarsi delle soldataglie ungare al seguito del patriarca Ludovico di Teck, giunse anche per l'E. il momento di entrare nel vivo dell'azione. Agli inizi di novembre, infatti, venne richiamato dagli accampamenti di Porto Buffolé e spedito immediatamente a prestare soccorso a Cividale, di lì a poco investita in pieno dalle truppe patriarcali e sottoposta a un pesante assedio. Nella circostanza l'E. ebbe modo dì dimostrare la sua non comune abilità nell'organizzare le difese più opportune e di mettere così in evidenza gli aspetti più significativi delle sue concezioni strategiche, che lo resero giustamente famoso e celebrato anche presso i maggiori capitani di ventura del tempo. Approfittando della scarsa determinazione degli assalitori, egli riuscì a rompere l'accerchiamento al quale era stata sottoposta l'estrema piazzaforte veneziana e, provocate le truppe ungheresi a dar battaglia in campo aperto, le sconfisse irreparabilmente. Quindi, proseguendo la vittoriosa avanzata, giunse alla fine dello stesso mese a innalzare le insegne veneziane sui castelli di Gorizia e di Duino.
Conclusasi nel giugno del 1420 la conquista di gran parte del Friuli e raggiunta una tregua con Sigismondo, l'E. ottenne dalle autorità veneziane licenza di far temporaneamente ritorno a Venezia, e nel mese di settembre sposò Maddalena, figlia di Filippo Arcelli, il governatore generale dell'esercito in Friuli. Il Senato, per l'occasione, gli concesse di trattenersi lontano dagli accampamenti soltanto per il mese di settembre, imponendogli di far poi immediato ritorno in Friuli.
Con la "parte" del 20 genn. 1421 mentre si trovava ancora nei suoi possedimenti, venne sollecitato a recarsi con assoluta urgenza a Udine e di lì a muovere alla volta dell'Istria. Quindi, nominato governatore generale delle truppe veneziane, a motivo delle non buone condizioni di salute in cui versava l'Arcelli, ritiratosi in convalescenza a Padova, ricevette l'ordine di passare senz'altro all'iniziativa.
Ristabilitosi, Filippo Arcelli fece ritorno in Istria e riprese il comando delle operazioni, ma, gravemente ferito da un colpo di verrettone, il 21 luglio 1421 morì. Il comando generale dell'esercito venne così nuovamente affidato all'E. che, dopo aver espugnato nell'agosto del 1421 i castelli di Pinguente e di Pietra Pelosa, portò'a compimento, agli inizi del 1422, la conquista dell'Istria interna.
Terminate le operazioni, egli fece ritorno ai suoi possedimenti, non smobilitando per questo la sua compagnia, che anzi gli fu mantenuta, anche se alquanto ridotta nel numero. A differenza di altri condottieri l'E. venne comunque confermato, e proprio nei quadri di un esercito che quanto a consistenza raggiunse allora il livello più basso degli ultimi anni. Seguirono quindi alcuni anni di forzata inattività militare, segnati tuttavia da un'attenta riorganizzazione del patrimonio fondiario di famiglia e da una mirata serie di acquisti di case e terreni, localizzati con attenta oculatezza e nell'agro estense e in Padova città.
Nel marzo del 1426, dopo che si era aperta ancora una volta l'ininterrotta serie delle guerre d'Italia con il nuovo conflitto tra la Repubblica di Venezia e il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, l'E. venne sollecitato a unirsi, al comando di una compagnia di 100 lance, alle truppe assoldate per i Veneziani da F. Bussone detto il Carmagnola, nominato dopo non poche incertezze e perplessità capitano generale dell'esercito e impegnato nella conquista delle fortezze di Brescia e dei castelli.del territorio circostante. E fu proprio l'E. uno dei primi a entrare nella rocca della città conquistata con la forza delle armi.
Chiusasi nell'aprile del 1428 con la pace di Ferrara questa prima fase della guerra veneto-viscontea, ottenuta licenza dalle autorità veneziane, offrì il servizio della propria condotta a papa Martino V, e unitamente alle genti di Giacomo Caldora partecipò alla riconquista di Bologna.
Fu questa l'unica, ancorché breve e limitata, parentesi nella più che trentennale militanza dell'E. al servizio dei Veneziani, che comunque incoraggiarono il condottiero in quanto non del tutto estranei alla vicenda. Nel 1431 egli si ritrovò infatti nuovamente al servizio attivo della Repubblica, occupato a respingere un rinnovato assalto del patriarca di Aquileia che, sollecitato dalla diplomazia milanese, si era spinto a recuperare, alla testa di più di 6000 uomini tra Ungheresi e, Tedeschi, almeno una parte del suo dominio temporale. Le autorità veneziane, in attesa del Carmagnola, trattenuto con il grosso dell'esercito in Lombardia, avevano spedito in Friuli quale provveditore Francesco Loredan, e l'E., particolarmente esperto di quei luoghi, unitamente a Stefano Maramonte alla testa delle loro compagnie. I due capitani, in difetto di uomini rispetto al nemico ben più numeroso, poterono impegnarsi esclusivamente in azioni di disturbo e solo l'arrivo del Carmagnola e della sua nutrita cavalleria, forte di circa 4500 uomini, valse a mettere definitivamente in fuga le truppe patriarcali, sconfitte disastrosamente a Rosazzo.
Ritornato quindi in Lombardia, l'E. rimase agli ordini del Carmagnola fintantoché questi, sospettato di tradimento, nel marzo del 1432 venne richiamato a Venezia e il 5 maggio condannato a morte. Al Carmagnola nel comando generale dell'esercito veneziano successe Gianfrancesco Gonzaga, e proprio dal Gonzaga l'E. ricevette l'incarico di recarsi in Valtellina a reprimere la ribellione che, ispirata dal Piccinino e validamente guidata da Stefano Quadrio, stava procurando serie difficoltà agli indispensabili collegamenti tra le terre venete e quelle lombarde di recentissima acquisizione. Dopo che in una prima fase la fortuna aveva arriso alle armi venete, essendosi spinti troppo avanti tanto l'E. quanto l'altro condottiero, Cesare Martinengo, pungolati in questo anche dalle insistenze del provveditore Giorgio Corner, l'esercito veneziano rimase privo di adeguate difese, soprattutto lungo il versante settentrionale del fronte. Tra il 26 e il 28 novembre, inevitabilmente, i Veneziani vennero assaliti dal Piccinino, che aveva ricevuto per l'occasione notevoli rinforzi da Stefano Quadrio, accerchiati e gravemente sconfitti. Lo stesso E. venne in questo episodio fatto prigioniero e condotto a Milano, e la medesima sorte subirono il Martinengo, Taliano Furlano e pure il Corner, destinato quest'ultimo a subire le conseguenze dell'ira del Visconti, desideroso di vendicarsi sul malcapitato provveditore veneziano dell'esecuzione del Carmagnola.
Non durò a lungo tuttavia la prigionia dell'E.: a seguito della pace raggiunta il 26 aprile dell'anno seguente tra la Repubblica e il duca di Milano venne infatti liberato, anche se a prezzo di un esoso riscatto. Nondimeno le autorità veneziane, riconoscendo nelle traversie e nelle spese sopportate dall'E. una sorta di titolo di merito, nonostante avessero intrapreso un rigoroso programma di sistematica smobilitazione dell'esercito per meglio adeguarlo alle mutate esigenze, lo confermarono nella sua condotta di 200 cavalli e lo destinarono alla custodia della guarnigione degli Orzi Nuovi.
Nel maggio del 1434 gli nacque dalla moglie Maddalena Arcelli il figlio Bertoldo, destinato a seguire le orme paterne e a condividerne le sorti e le fortune di fedele condottiero della Repubblica. Oltre a Bertoldo ebbe sicuramente anche due figlie, Costanza, figlia naturale, unitasi in matrimonio con Antonio Benzoni, ed Elena, andata sposa a Lodovico dei conti Torriani di Udine. Forse, proprio in conseguenza dell'avvenuta nascita e delle nuove responsabilità familiari, ai primi di giugno dello stesso anno, mentre si trovava a Padova, dettò al notaio Conte della Valle il proprio testamento, mentre ormai si profilavano minacciose nuove avvisaglie di guerra e le autorità veneziane lo sollecitavano a unire le sue forze a quelle di Tiberto Brandolini e del Gattamelata che già si trovavano in Romagna.
Raggiunte le restanti truppe della lega antiviscontea, impegnate a recuperare Bologna all'obbedienza del papa, dopo aver partecipato tra il giugno e l'agosto del 1434 a non mediocri fatti d'arme, l'E. incontrò ancora una volta sulla sua strada Niccolò Piccinino, e anche in questa occasione le sorti gli furono avverse. Sorprese infatti il 28 agosto a transitare disordinatamente tra carriaggi e vettovagliamenti per il ponte di San Lazzaro, all'uscita di Imola verso Castel Bolognese, le genti della lega vennero assalite, con indubbia accortezza tattica e notevole senso d'opportunismo, dal Piccinino e messe in fuga. Mentre il Gattamelata, ancorché ferito, riuscì a fuggire e a salvarsi, l'E. venne fatto prigioniero e solo l'intervento del marchese di Ferrara valse a farlo liberare di lì a poco tempo.
Nel marzo del 1435, mentre si trovava in Este con la sua compagnia, ricevette il delicato incarico di sventare con le armi il tentativo di Marsilio da Carrara di impadronirsi di Padova. Questa volta l'E. corrispose in pieno alle aspettative del Senato e, occupata la città, la restituì riappacificata all'autorità dei rettori veneziani. In premio della fedeltà dimostrata, e proprio in un ambito e in un'occasione che avrebbero forse potuto dar esca a una sua eventuale aspirazione dinastica, il 3 aprile dello stesso anno venne ascritto al patriziato veneziano, con tutti i suoi figli ed eredi, e ammesso al Maggior Consiglio. E ancora, il 6 aprile successivo, per ordine del Consiglio dei dieci, gli fu donata la casa che era stata del traditore Ludovico Buzzacarini, posta in Padova nella contrada delle Colombine.
Dopo un brevissimo periodo di forzata inattività, l'11 ag. 1435 l'E. fu inviato con tutta celerità a ingrossare con la sua compagnia le genti di Francesco Sforza e del Gattamelata, impegnate a soccorrere Camerino, minacciata da Niccolò Fortebracci.
Riaccesosi nuovamente nel 1437 il conflitto con Filippo Maria Visconti, l'E. e il Gattamelata vennero sollecitati a rientrare immediatamente in Lombardia. Mentre il Gattamelata, elevato al rango di capitano generale delle armate della Repubblica, a seguito della defezione di Carlo Gonzaga, passato al servizio del Visconti, ebbe l'incarico di coprire Verona, l'E., al quale nel gennaio del 1438 il Senato veneziano aveva aumentato la condotta fino a 200 lance, parte delle quali già di spettanza del Gonzaga, venne lasciato a difendere Brescia, contro la quale si profilava minaccioso l'assalto di Niccolò Piccinino e di Taliano Furlano. In perfetta sintonia con il rettore veneziano Francesco Barbaro, l'E. predispose un'accurata difesa della città che fu messa in grado di resistere, in condizioni che i cronisti del tempo (da Cristoforo da Soldo al Manelmì) non esitarono a definire disperate e drammatiche, a un assedio destinato a protrarsi ben oltre l'estate dell'anno successivo.
Proprio nel predisporre le difese più opportune e adeguate alle esigenze del momento, l'E., nonostante dal settembre del 1438 fosse rimasto soltanto con un migliaio di fanti e seicento cavalli, anche questa volta, come in altre occasioni, mise in evidenza le sue doti migliori, ampiamente riconosciutegli dagli stessi Bresciani che, una volta scampato il pericolo, gli tributarono solenni onori. E quasi a ricompensa dei suoi meriti, con la "parte" del 29 dic. 1438, il Senato gli elevò la condotta a 1.000 cavalli.
Nel settembre del 1439 gli scontri, ai quali prese parte anche l'armata navale del Garda, si concentrarono tra Maderno e Salò. Il 25 dello stesso mese l'E., trinceratosi proprio a Maderno, mentre la flotta veneziana veniva bombardata da terra e assalita alle spalle da quella viscontea, dovette arrendersi alla schiacciante superiorità delle milizie di Taliano Furlano. Fatto prigioniero insieme al provveditore veneziano Stefano Contarini e a Evangelista Manelmi - il cronista bresciano che fornirà un dettagliato resoconto della cattura e della successiva prigionia - l'E., circa il quale Pier Candido Decembrio, nella Oratioinfunere Nicolai Picinini, parlò di "usata disgrazia", venne condotto a Peschiera.
Il 10 febbr. 1442 era comunque certamente a Venezia, dove prese parte alla giostra tenutasi in onore delle nozze di Iacopo Foscari, figlio del doge: alla sua compagnia toccò il premio, diviso con le milizie del Gattamelata e dello Sforza.
In quello stesso anno, rimasto vedovo da poco della prima moglie, si sposò con Margherita Pio, appartenente alla famiglia che signoreggiava su Carpi, e l'11 ottobre dell'anno successivo, anche a motivo delle mutate condizioni di famiglia, dettò un nuovo testamento, sempre al notaio padovano Conte della Valle.
Il 17 giugno del 1443 fu comandato dalle autorità veneziane, che in una loro scrittura lo avevano definito "persona pratica, intelligentissima et nobis fidatissima", a raggiungere in Ravenna Francesco Sforza, capitano generale della lega antipontificia, e a porsi con la sua compagnia di 800 cavalli sotto la sua obbedienza, facendosi interprete degli interessi, non solo militari, della Repubblica. Agli ordini dello Sforza prese quindi parte alla battaglia di Monte Lucio e nel marzo del 1444 si ritirò negli accampamenti invernali.
Nel giugno nel 1445 l'E., con funzioni di governatore dell'esercito, seppure sprovvisto del titolo formale, venne inviato al comando di una condotta di 1.000 cavalli e di 400 fanti a Bologna, a prestare soccorso alla parte dei Bentivoglio che dopo l'assassinio di Annibale stava soccombendo ai Canedoli, fedeli interpreti della politica filoviscontea. La permanenza dell'E. a Bologna si protrasse fino all'agosto dell'anno successivo quando, accordatosi segretamente con Guglielmo di Monferrato, già al servizio dei Visconti, riuscì a provocarne la diserzione e il passaggio agli stipendi della Repubblica con tutta la sua compagnia e a ottenere la consegna di Castelfranco. Mentre l'altro capitano visconteo, Carlo Gonzaga, difensore di Castel San Giovanni, spinto a battaglia campale dall'E., riusciva a stento a guadagnare la salvezza con la fuga, le truppe veneziane poterono conquistare la rocca e mettere così fine alla guerra di Bologna, richiamate ormai, e con insistenza, dai nuovi teatri di guerra di Lombardia.
Raggiunto finalmente ai primi di settembre il grosso dell'esercito, che agli ordini di Michelotto Attendolo stava difendendo Cremona dall'attacco milanese, l'E. ebbe modo di partecipare alla vittoriosa battaglia di Casalmaggiore e alla spartizione dell'abbondante bottino conquistato.
Forte di ben 1.200 cavalli e di altrettanti fanti, il 20 ag. 1447 prese così possesso, a nome delle autorità veneziane, di Piacenza, che si era data spontaneamente alla Repubblica, e ne resse il governo fino all'ingresso del provveditore Gherardo Dandolo, avvenuto il 15 settembre. Provvide quindi senza indugi alla difesa della città, destinata inevitabilmente a subire l'assedio milanese. Come previsto dall'E., infatti, attorno a Piacenza si concentrarono immediatamente le truppe dì Francesco Sforza, intenzionato a riprendere il più presto possibile il controllo della città, al fine soprattutto di evitare che l'esempio offerto da questa venisse seguito dagli altri centri lombardi. L'assedio, quasi una replica di quello altrettanto celebre cui era stata sottoposta otto anni prima Brescia, si protrasse fino al 16 novembre quando l'E., a corto di difensori e non più in grado, come pure era stato nell'immediato passato, di organizzare efficaci sortite diversive, dovette arrendersi allo Sforza, complice anche il tradimento di un suo ufficiale che aprì ai Milanesi la porta di San Lazzaro. Caduta la rocca, ritenuta fino a quel momento inespugnabile, l'intera città venne immediatamente occupata, senza che vi fosse un minimo tentativo di resistenza, e crudelmente saccheggiata.
L'E. conobbe così ancora una volta la prigionia, che tuttavia fu di breve durata, sia per l'amicizia personale che lo legava allo Sforza, che lo elesse anzi arbitro delle contese sorte tra i suoi capitani per la spartizione del bottino, sia, come annotò il Navagero, per il desiderio di quest'ultimo di non inimicarsi troppo la Repubblica.
Riacquistata la libertà, l'E. ritornò al campo veneziano e poté adoperarsi, proprio grazie all'amicizia che lo legava allo Sforza, su espresso mandato del Senato, per il riscatto dei capitani rimasti nelle mani dei Milanesi. Venne quindi inviato a presidiare Mozzanica, importante postazione strategica nella Ghiara d'Adda, ma, sottoposta la località nel maggio del 1448 ai continui assalti delle truppe sforzesche, e impossibilitato a difenderla, fu costretto a ritirarsi su Brescia.
Mentre si combatteva ancora per il possesso di Mozzanica, il 21 giugno - ovvero il 23 secondo altre fonti tra le quali Cristoforo da Soldo - l'E. morì improvvisamente, prima di raggiungere Brescia.
Trasportato il suo corpo a Brescia, il 24 giugno gli vennero resi solenni onori funebri, alla presenza dei maggiori esponenti della città e di una folla imponente. 1 Bresciani non avevano infatti dimenticato quanto l'E. si fosse adoperato per la difesa della città durante il tragico assedio di dieci anni prima. Il cadavere venne quindi sepolto a Este, nella chiesa di S. Francesco, nell'arca di famiglia. In suo onore Borso, duca di Ferrara, fece successivamene erigere nella stessa chiesa un monumento funebre, andato distrutto nel 1797.
La morte del tutto imprevista fece sorgere il sospetto di un suo possibile avvelenamento commissionato dalle autorità veneziane, non del tutto soddisfatte del modo con cui aveva difeso Piacenza e preoccupate di una sua eventuale diserzione. L'ipotesi, sostenuta fermamente da Antonio di Rivalta negli Annales Placentini, per quanto verosimile e pur sempre possibile, non trova conferma in altre fonti, soprattutto documentarie, e sembra essere anzi decisamente in contrasto con l'atteggiamento tenuto in seguito dalla Repubblica nei confronti dei figlio trattenuto.
Nulla sappiamo della prima giovinezza di Bertoldo, natogli dalla prima moglie Maddalena Arcelli nel maggio del 1434, probabilmente ad Este; certo è che egli, quamquam puer, fu confermato in servizio al comando della compagnia che era stata del padre (B. Bembo, Oratio in funere Bertholdi marchionis Estensis; Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat. XI139 (4432), ff. 17v-18r). Nel 1453 Bertoldo partecipò con 1.200 cavalli alla difesa di Brescia contro gli Sforzeschi, restando ferito in battaglia ai primi di agosto. L'anno successivo Borso d'Este gli confermò il possesso dei beni aviti; dopo la pace di Lodi (1454) si ritirò momentaneamente a vita privata. Verso la fine del 1457 il suo nome figura tra i membri della delegazione padovana guidata da F. Capodilista, che si recò a Venezia per rendere omaggio al nuovo doge Pasquale Malipiero. In quell'occasione ebbe da Padova l'incarico di organizzare, per festeggiare l'elezione, un torneo in piazza S. Marco; a quel torneo, tenutosi l'anno seguente, partecipò egli stesso coi suoi uomini.
Il 1° maggio 1463 l'Estense partecipò coi suoi armati a un nuovo torneo, organizzato da Padova per festeggiare l'ascesa al dogado di Cristoforo Moro: insorta una lite fra i suoi uomini e quelli del Colleoni e del Gattamelata, il Moro, pro bono pacis, preferì dividere in parti uguali i premi tra i contendenti e far ripetere il confronto il giorno successivo alla presenza di Borso d'Este. La giostra si tenne con quaranta cavalieri per parte, e in questa occasione gli estensi, dopo che Bertoldo ebbe scavalcato il condottiero avversario Antonello dalle Corna, risultarono vincìtorì.
Nello stesso mese Bertoldo, preferìto al Colleoni, veniva nominato governatore generale di Morea col compito di respingere l'offensiva turca. Dopo aver superato non lievi difficoltà economiche per la riorganizzazione e l'armamento delle sue truppe - dovette tra l'altro richiedere come anticipo alla Serenissima 100 corazze, e indebitarsi pesantemente col suocero Gentile da Leonessa - partì nell'estate per la Morea, dove condusse contro i Turchi una discussa campagna. In particolare l'Anonimo Veronese nella sua Cronaca (Venezia 1915, a C. di A. Soranzo, p. 195) lo accusa sia di aver sottovalutato le capacità militari del nemico, sia di aver perpetrato per avidità saccheggi indiscriminati.
Dopo essere riuscito a conquistare Argo, Bertoldo pose l'assedio a Corinto; ma qui, colpito al capo da un fromboliere turco, morì il 4 nov. 1463.
Le sue spoglie tornarono nel marzo del 1464 a Venezia, dove furono celebrate esequie solenni; per incarico della Serenissima l'orazione funebre fu composta e letta da B. Bembo. Suecessivamente la salma fu trasportata ad Este e sepolta, alla presenza di Alberto d'Este, accanto a quella del padre nella cappella maggiore della basilica di S. Francesco; nell'occasione l'orazione funebre fu tenuta da L. Carbone.
Bertoldo aveva sposato in data imprecisata lacopa di Gentile da Leonessa, imparentandosi così non solo col condottiero orvietano, ma anche col Gattamelata, che aveva a sua volta sposato una sorella di Gentile. Dal matrimonio non nacquero figli e la vedova si risposò più tardi col veneziano Pietro Valier.
Fonti e Bibl.: Este, Arch. della Magnifica Comunità, reg. 33: Annali della Magnifica Comunità di Este, pp. 13 s., 91 s., 341, 342, 345-350, 354; Ibid., reg. 47: Liber marchionum, cc. 6r-29v; Ibid., filza 48: Marchesi d'Este e Camerlengaria, cc. 1r, 3r, 20r-24v, 35r-36v; Archivio di Stato di Venezia, Miscell. codici, I, Storia veneta, 57: Cronaca attribuita a Donato Contarini, VI, cc. 180, 184, 211; VII, cc. 126, 140, 156, 202, 219; Ibid., 58: Trattati e croniche varie, cc. 175v, 183v, 185r, 192r; Ibid., 59: Cronaca Veniera attribuita ad Antonio Donà, cc. 153rv, 163v-164r, 165v-166r, 172v, 178v, 180v; Ibid., Miscellanea codici, III, Codici Soranzo, 32: G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, pp. 195 s.; Ibid., Consiglio di dieci, Deliberazioni miste, reg. II, c. 34r; reg. 16, c. 104v; Ibid., Collegio, Notatorio, reg. 14, c. 49v; Ibid., Privilegi, reg. 2, c. 19v; Ibid., Senato, Deliberazioni miste, reg. 51, c. 8r; reg. 52, cc. 2r, 8r; reg. 53, c. 78r; reg. 60, c. 212v; Ibid. 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