Taide
Etera ateniese (sec. IV a.C.), cui furono attribuite imprese e fortune che ne favorirono la fama leggendaria e determinarono l'assunzione del suo nome con valore antonomastico, come tipico delle meretrici, specialmente nella commedia. T. è così anche il nome della cortigiana che agisce nell'Eunuchus di Terenzio. In una scena della commedia in cui ella non interviene direttamente, il miles Trasone (v.) chiede al parassita Gnatone (v.) come T. abbia accolto il suo dono di una schiava: " Magnas vero agere gratias Thais mihi? ". E il parassita risponde: " Ingentes " (Eun. III 391-392). A quest'episodio risale in qualche modo If XVIII 133, dove Virgilio indica a D., tra gli adulatori immersi nello sterco della seconda bolgia, una sozza e scapigliata fante che si graffia e si agita scompostamente: Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse " Ho io grazie / grandi apo te? ": " Anzi maravigliose! ".
Se non è revocabile in dubbio che questa di D. sia per l'appunto la T. terenziana, e che nelle terzine dantesche suoni l'eco della scena citata dell'Eunuchus, molto più arduo è il problema di definire con sicurezza il rapporto fra i due testi. Che D. leggesse direttamente il testo della commedia sembra da escludere, giacché la sua interpretazione del dialogo non è compatibile con il contesto originale donde risulta chiarissimo che non T., assente, ma Gnatone risponde a Trasone e che le parole " agere gratias " valgono semplicemente " ringraziare " per il dono di cui si è parlato prima; inoltre la T. terenziana ha tratti gentili che non paiono ammettere la sconcia contraffazione del personaggio dantesco. A parziale spiegazione dello scambio tra Gnatone e T. già Benvenuto suggeriva che sebbene materialmente la risposta fosse pronunziata dal parassita essa riferiva il messaggio di T. a Trasone e quindi poteva valere come vera e propria risposta della cortigiana a costui. Questa chiosa non ci sembra meritare la sufficienza con cui è stata respinta da qualche studioso moderno, anche se appare inadeguata a sciogliere le altre difficoltà che si oppongono all'assunzione dell'Eunuchus come fonte dantesca.
Più convincente, in ogni modo, risulta l'ipotesi che D. trovasse citato il passo di Terenzio presso una fonte intermedia; e prevale ora tra i dantisti l'opinione che questa fonte sia da riconoscere nel De Amicitia di Cicerone, operetta familiare a D. e citata già da Pietro nella seconda e terza redazione del suo commento (sia pure come elemento puramente accessorio e secondario rispetto all'Eunuchus che per lui è la fonte diretta del luogo paterno). Scrive Cicerone: " Nec parasitorum in comoediis adsentatio faceta nobis videretur nisi essent milites gloriosi. ‛ Magnas vero agere gratias Thais mihi? ' Satis erat respondere: ‛ magnas '; ‛ ingentes ' inquit " (Amic. XXVI 98). Così decontestualizzato il passo terenziano ammette più facilmente il travisamento operato nella Commedia: Cicerone non precisa chi siano gl'interlocutori, e non ha nulla d'inverosimile per un lettore medievale (e per D. stesso, che offre ad altro proposito esempi di letture ugualmente deformanti) lo scambio del nominativo " Thais " con un vocativo e per conseguenza l'attribuzione a T. della risposta. Vero è che Cicerone, se spiega con il suo commento l'interpretazione dell'episodio come esempio di adulazione, precisa d'altro canto che si tratta della " parasitorum... adsentatio "; inoltre non emerge dalla sua pagina alcun suggerimento per il ritratto ferocemente oltraggioso di T. che D. ha voluto tracciare, anzi nemmeno ne risulta che si tratti di una cortigiana. Certo D. può ben aver compreso una puttana nella categoria dei ‛ parassiti ' (a lui, che non leggeva Plauto né Terenzio e ignorava molte cose del costume antico, il termine non doveva riuscire specifico ma piuttosto genericamente ingiurioso), ma la vera questione è un'altra: come sapeva egli della professione di T. se non aveva letto l'Eunuchus e Cicerone non lo informava? Credendo impossibile rispondere a questo interrogativo con l'ausilio dei soli dati fin qui esposti, alcuni studiosi hanno preferito invocare un luogo del Policraticus di Giovanni di Salisbury (III 4) dove la scena di Terenzio è riproposta bensì sulla falsariga ciceroniana e quindi senza apportare elementi d'informazione nuovi rispetto al De Amicitia, però con l'inquadramento della citazione in un discorso di più largo respiro sul ‛ fetore ' del vizio di adulazione del quale sono naturalmente infette anche le meretrici. Senza voler discutere qui il problema se D. conobbe il Policraticus e se gliene vennero suggerimenti per l'invenzione della fetida pena degli adulatori, noi ci limitiamo a osservare con il Barchiesi e il Padoan che il ricorso a Giovanni di Salisbury è nella fattispecie tutt'altro che risolutivo; mentre le istanze che hanno mosso a tentare questa via sono molto più pienamente soddisfatte dal rinvio alla già accennata tradizione diciamo così antonomastica di Taide. Il Padoan ha molto opportunamente segnalato una favola in versi, De Iuvene et Thaide, compresa nel Liber Aesopi di Waltherio Anglico che D. conobbe nell'originale redazione latina o in qualcuno dei numerosissimi volgarizzamenti (v. ESOPO), dove T. compare con i caratteri largamente topici della puttana venale e lusingatrice. Non sapremmo se proprio a questo raccontino possa attribuirsi il merito di aver consentito a D. di trasformare in un personaggio il nudo nome trovato presso Cicerone (o, in altre parole, di aver fatto convergere in un unico quadro gli spunti forniti da due testi diversi, accomunati da quel solo nome di Taide). È più prudente concludere che la favola di Waltherio può considerarsi un documento del fatto che la cultura medievale continuava a fare di T. il tipo della cortigiana, però degradato e infamato; e che per D. essa era un personaggio insieme storico e tipico, colto nel momento terenziano-ciceroniano ma capace di vivere autonomamente una sua vita tradizionale donde riverberava su quel momento un fosco colore.
Il gesto di T. descritto in If XVIII 132 (e or s'accoscia e ora è in piedi stante) non ha trovato spiegazioni convincenti. Merita di essere ricordata la chiosa del Porena, che vi scorge una prova del fatto che lo sterco della bolgia sarebbe prodotto dagli stessi dannati.
Si ricordi infine che la grafia Taidè accolta dal Vandelli non è autorizzata dalla regola dell'ossitonia per i nomi greci, giacché Taide non risale al nominativo Thais ma alla forma bisillaba parossitona dei casi obliqui.
Bibl. - M. Barchiesi, Un tema classico e medievale. Gnatone e T., Padova 1963 (esauriente anche per la bibliografia anteriore); G. Padoan, Il " Liber Esopi " e due episodi dell'Inferno, in " Studi d. " XLI (1964) 75-102. Vedi anche la bibliografia sub v. TERENZIO.