TARANTO (A. T., 27-28-29)
Antichissima città dell'Italia meridionale, situata sul Mare Ionio, nel tratto in cui su questo mare la Penisola Salentina si salda al continente. Il primitivo nucleo cittadino sorge su di un cordone litoraneo che divide dal mare aperto (localmente distinto col nome di Mare Grande) un'area lagunare che si allunga considerevolmente verso l'interno a forma di due distinti seni circolari e che prende il nome di Mare Piccolo. Questa area lagunare comunica col mare aperto mercé due canali, che limitano per l'appunto il cordone litoraneo suddetto e sono sormontati da due ponti, l'uno in direzione di NO. dalla parte della stazione ferroviaria, l'altro in direzione di SE. verso la "Taranto nuova". Il primo ponte, detto di Porta Napoli, è lungo 115 m. e il canale che da esso è sormontato costituisce un'intaccatura naturale del cordone litoraneo; il secondo ponte è lungo 86 m., a una sola arcata, in ferro, e il canale che da esso è sorm0ntato è artificiale e fu tagliato nel 1480 con fine difensivo, per isolare la città. Questo ponte, costruito nel 1886, è girevole, perché, allo scopo di soddisfare le esigenze della marina militare e consentire il passaggio alle grandi navi, attraverso il canale, tra il Mare Piccolo e il Mare Grande, esso può essere aperto nel mezzo e permettere ai due bracci da cui è formato di girare su sé stessi e addossarsi ai parapetti del canale.
La topografia della città e il suo sviluppo dipendono, pertanto, dalle sue condizioni fisiche. Decaduta, con la conquista romana prima e con le invasioni barbariche dopo, dai fastigi a cui era pervenuta come fiorentissima città della Magna Grecia, Taranto si raccolse nel tratto più stretto del cordone lagunare suddetto, ove oggi è appunto la città vecchia con le sue quattro anguste strade parallele, unite fra loro da un dedalo di viuzze strettissime e tortuose, e con i principali monumenti medievali. Presso a poco in questi limiti, Taranto rimase sino alla costituzione a unità del Regno d'Italia, dopo di che, partecipe del magnifico rigoglio economico che tutta la Puglia ha avuto dalla seconda metà del sec. XIX, e divenuta, con la creazione del porto militare e con l'arsenale militare, una delle due importantissime piazze della marina militare italiana, essa si è spinta topograficamente al di là dei canali e ha costruito, prima verso SE., proprio dalla parte dell'arsenale, il suo ampio "Borgo", con una magnifica rete di vie diritte e parallele, con palazzi superbi, con vaste piazze e giardini, e ha cominciato a espandersi poi anche verso NO., nella zona del porto mercantile e della stazione ferroviaria, a creare la "città nuovissima", prospiciente al Mare Piccolo. Le cifre della popolazione rispecchiano questo recente progresso edilizio della città.
Dalle prime numerazioni dei fuochi ai primi censimenti del Regno d'Italia, la situazione demografica di Taranto si mantiene sempre modesta: figura di circa 2200 ab. verso la metà del sec. XVI e di 1650 alla metà del XVII, salvo a discendere a poco più di mille in seguito alla terribile pestilenza del 1656; si svolge con notevole progresso in tutto il sec. XVIII, raggiungendo nel 1800 la cifra di circa 17.000 abitanti; presenta nel 1861 la valutazione ufficiale di 27.484 ab., che passano a 27.546 nel 1871 e a 33.942 nel 1881. Lo sviluppo veramente straordinario della città si ha nel cinquantennio successivo: il censimento del 1901 segnala già 60.733 ab., che salgono a 103.807 nel 1921, e sono 127.230 nel 1936. Per questo suo progresso urbanistico e per il magnifico contributo dato negli anni della guerra mondiale, con il suo apparato militare, alla vittoria delle armi italiane, Taranto fu elevata nel 1923 a capoluogo di provincia ed ebbe nuovo fervore di iniziative nello sviluppo cittadino con la costruzione di splendidi edifizî (imponente fra tutti il nuovo palazzo del governo), col tracciato di ampie arterie stradali (mirabile specialmente il Lungomare), con la creazione di altri istituti d'istruzione, col miglioramento delle opere portuarie, ecc.
Il territorio comunale di Taranto, della notevole estensione di 310,16 kmq. (esso abbraccia anche le due frazioni di Statte e Talsano), è coltivato per poco meno di un terzo a seminativi, per un altro terzo a oliveti e per il resto a vigneti, frutteti, ecc. La coltura perciò prevalente nell'agro tarantino è l'olivo, che prospera rigogliosamente sugli ultimi terrazzi tufacei con cui le Murge scendono al Mar Ionio.
Molto esercitata a Taranto è la pesca, sia nel Mar Piccolo sia nel tratto del golfo che è compreso fra il continente e le isole S. Pietro e San Paolo (le antiche Cheradi); essa è costituita specialmente di aurate, triglie, cefali e acciughe.
Vasta rinomanza ha la coltivazione delle ostriche e dei mitili (cozze nere e cozze pelose), che trova nel Mar Piccolo condizioni ambientali assai favorevoli; essa è praticata da tempi antichissimi, ma si è migliorata e perfezionata solo recentemente; all'uopo Taranto è stata dotata di un Istituto demaniale di biologia marina, razionalmente attrezzato per le ricerche pratiche sulla molluschicoltura e in generale per le esperienze di biologia marina. La produzione delle ostriche è a Taranto altissima: si calcola a oltre 5 milioni di unità; quella dei mitili si è aggirata, negli ultimi anni, intorno ai 36-40 mila q. (10-20 mila nel 1914).
Oltre però che nell'agricoltura e nella pesca, Taranto ha conseguito negli ultimi decennî un progresso assai notevole nell'attività industriale e commerciale, in gran parte peraltro determinato dalla sua più spiccata funzione marinara, dallo stesso sviluppo demografico e dalla mirabile trasformazione agraria del suo vasto retroterra, che risale fino alle alture di Martina Franca, di Gioia del Colle e di Ginosa. Sono così sorti cantieri per le costruzioni navali, fabbriche di laterizî e di ceramiche, di concimi chimici, di saponi, di conserve alimentari, pastifici e molini, oleifici, caseifici, fabbriche di mobili, calzaturifici; è in esercizio una delle più grandi fabbriche italiane di birra e ghiaccio; e sono in pieno sviluppo l'industria meccanica e quella poligrafica.
Il movimento commerciale, oltre che attraverso le linee ferroviarie (a Taranto convergono le linee provenienti da Metaponto, da Bari e da Brindisi), si svolge attraverso il porto mercantile, per il quale nel 1933 sono passate 300 navi con 240 mila tonn. di stazza. Il totale delle merci sbarcate fu nel 1933 di 215.137 tonn. (186.136 tonn. nella media annua del triennio 1931-1933) e quello delle merci imbarcate fu di 12.559 tonn. (6352 tonn. nella media del triennio 1931-33).
Monumenti. - L'acropoli greca sorse dove oggi si adagia la "vecchia Taranto"; a oriente era divisa dalla vera e propria città da un muro, di cui però non si notarono tracce durante i lavori eseguiti per la costruzione dell'attuale canale navigabile. La polis occupava invece uno spazio più esteso della "Taranto nuova" e si stendeva, necropoli compresa, verso levante, sino a raggiungere le mura che con il relativo fossato (il "canalone" di oggi) andavano dalla Masseria Colipazzo a Monte Granaro. Di tali mura di difesa furono identificati alcuni brevi tratti, a oriente, presso la masseria del Carmine e a settentrione, verso il Pizzone, immersi già nell'acqua di Mar Piccolo; né i dati degli antichi ci permettono di ubicare Porta Temenide e le altre "portulae" (ῥινοπύλαι) esistenti. Sappiamo solo che al di là della Temenide stava il tempio di Apollo Iacinzio e che da tale porta aveva inizio la via Plateia; ma tanto questa, quanto la via Soteira, ricordate da Polibio e da Livio, debbono essere ancora topograficamente chiarite; sembra solo che siano state notate le tracce dell'antica strada degli Argentarî che si dirigeva verso il quartiere della marina, a S. Lucia (Not. scavi, 1883, p. 179).
Dei diversi templi quello che si presume dedicato a Posidone conserva tutt'oggi in situ una maestosa colonna dorica: degli altri (di Ercole, della Pace, di Minerva, ecc.), creati talora dalla fantasia degli scrittori locali, è scomparsa ogni traccia. Di certo v'è che nella contrada Solito si rinvennero in un pozzo varie tavolette e alcuni vasi fittili relativi al culto dei Dioscuri, e che le divinità principali rappresentate dai plasticatori tarentini sono quelle di Demetra e Persefone, Artemide, Afrodite e Apollo Iacinzio.
Né meglio informati siamo sui monumenti civili che dovettero sorgere nella polis (museo e ginnasio) e nell'acropoli (Pritaneo); e ignoto è il sito dell'agorà. Più conosciuti sono invece i monumenti di età romana: le grandi terme s'innalzavano dove oggi il Lungomare s'incontra con il Viale Virgilio, i ruderi delle thermae Pentescinenses, alimentate da un'aqua nymphalis, si rinvengono nei pressi della chiesa di S. Francesco (all'angolo della via Duca di Genova) e avanzi di un altro edificio termale si notarono già presso la chiesa del Carmine.
Anche le vestigia dell'anfiteatro, in opera reticolata, si vedevano sino a non molti anni fa in un avvallamento al disotto dell'attuale mercato coperto; ma quasi tutti gli studiosi, per il fatto che Floro (I, 18) e Livio (XXII, 7) parlano di un theatrum maius, hanno finito col confondere questo anfiteatro con il teatro greco, di cui non conoscíamo il sito.
L' esistenza di un theatrum maius fa pensare alla probabile esistenza di un minore teatro o odeon.
Abitazioni romane con pavimenti a musaici furono casualmente messe in luce nel giardino dell'Istituto della Immacolata, e un abitato che sorgeva lungo l'antico porto di S. Lucia fu scavato nel R. Arsenale, presso il nuovo bacino di carenaggio.
Tombe si sono trovate e si rinvengono continuamente nel recinto della polis; forse come a Ruvo, a Canosa e nella stessa Sparta, esse sorgevano un po' dappertutto, presso i varî nuclei di abitazioni (Mayer, in Not. sc., 1898, p. 197). Nell'età greca esiste solo il rito dell'umazione, per lo più con tombe a fosse rettangolari, cavate nella roccia e coperte da lastroni; ma non mancano i sarcofagi di pietra carparo e le fosse ottenute nella nuda terra e non cintate da massi. Le tombe a camera con pareti dipinte e letti funebri sagomati, qualche volta decorati a pittura, sono piuttosto tarde. Molte tombe a fossa con materiale proto-corinzio e corinzio si trovarono nella contrada Montedoro, non molto distante dall'acropoli; però i complessi principali che vanno dal sec. VI al III a. C. giacevano o presso la Masseria Vaccarella e nella vicina contrada Madre Grazia, o nel tratto che dalla vecchia "piazza d'armi" si stende sino all'ex-baia di S. Lucia. Nell'età romana prevale il rito della cremazione con le urne di pietra o di marmo e con le olle di terracotta o di vetro; la grande necropoli dell'impero, scoperta (1931) nei lavori per la costruzione della Casa dei mutilati, poggiava su quella ellenistica, così come nella contrada Montedoro molte costruzioni, pur esse di epoca imperiale, erano apparse sovrapposte a quelle di epoca greca (Not. scavi, 1883, p. 179). Scarsissimo fu l'uso di sarcofagi figurati.
Quando Taranto rinacque per opera di Niceforo Foca si restrinse alla sola "rocca", all'estremità dell'istmo.
Il duomo fu riedificato verso il secolo XII in forme romaniche, che, pur sommerse da rimaneggiamenti e rifacimenti barocchi (1569 e 1657), affiorano ancora negli archetti ricorrenti nei fianchi della navata mediana e in una parte dell'abside. Bifore romaniche sveltiscono le forme tozze del campanile (1413). Ultimi restauri furono eseguiti nel 1871-73. L'intonazione barocca, che è già nella facciata (1713), predomina all'interno, che serba la struttura basilicale nelle tre navate spartite da solenni colonne di marmi antichi, coronate da mirabili capitelli, alcuni di provenienza romana o di ispirazione classica, altri scolpiti in modi bizantineggianti. Accresce splendore all'ampiezza della navata mediana il dorato soffitto ligneo (sec. XVII).
A destra dell'abside il fastoso "Cappellone" di S. Cataldo, rifatto in stile barocco dopo l'incendio del 1627, rivestito di marmi preziosi e ornata di molte statue marmoree, tutte non anteriori alla seconda metà del Settecento.
Notevoli sul sontuoso altare la statua argentea di S. Cataldo, opera di Vincenzo Catello napoletano (1892), e nella cupola ellittica gli affreschi di Paolo De Matteis (1713), rafliguranti episodî della vita del santo. Antiche opere di oreficeria e pregevoli oggetti sono serbati nel tesoro di S. Cataldo.
Nelle adiacenze del duomo è la chiesa di S. Domenico Maggiore (sec. XIII), che ha ancora, malgrado i molti rimaneggiamenti, una bella facciata romanico-gotica con maestoso portale.
Adagiato sulla riva destra del Mar Grande, quasi a vigile custodia dell'imbocco del Canale, è il Castello, munito di cinque tozzi torrioni cilindrici uniti da cortine. Si dice costruito dai Bizantini nel sec. X, rifatto da Ferdinando d'Aragona nel 1480 a difesa dalle incursioni turche, ingrandito dagli Spagnoli nel 1577. In tempi recenti fu in parte demolito per consentire la costruzione del ponte girevole.
Poderosa opera di architettura moderna in vista della glauca distesa delle acque ionie è il Palazzo del governo.
Il Museo nazionale ha preziose raccolte d'archeologia e d'arte classica. (V. tavv. LV e LVI).
Storia. - Antichità. - Taranto (Τάρας, Tarentum) fu colonia greca della Magna Grecia, fondata, nel corso del sec. VIII a. C., da coloni provenienti da Sparta. La tradizione sulla sua fondazione ci è giunta in due versioni, l'una di Antioco, l'altra di Eforo, conservate da Strabone (VI, 278 segg.): secondo Antioco, la città sarebbe stata fondata dai figli di quei Lacedemoni che avevano partecipato alla prima guerra messenica, cioè dai Partenî, i quali, guidati da Falanto, stabilirono la colonia in località già abitata da barbari Iapigi, di origine cretese; Eforo aggiunge che i Partenî spartani, avviatisi verso l'Italia, si congiunsero con gli Achei che guerreggiavano ivi contro i barbari e, durante questa guerra, fondarono la città. Capo dei Partenî ed ecista della colonia sarebbe stato Falanto; la città ebbe però il suo nome da quello di un eroe locale, Taras.
La sostanza di queste leggende è confermata da varî elementi di fatto che ci sono presentati dalla storia e dalle condizioni più antiche della città: laconico fu il dialetto dei Tarentini, spartane le loro leggi, le istituzioni, le magistrature, spartana perfino la divisione topografica della cittadinanza in cinque phylai; sicché i moderni sono concordi nell'attribuire a coloni spartani la fondazione di Taranto. Alle origini della colonia la cronologia tradizionale (in Eusebio) assegnava la data del 706 a. C.: in realtà il sorgere di Taranto deve piuttosto - come anche la sua posizione geografica insegna - farsi risalire ad età più antica, sicuramente alla prima metà del sec. VIII. Il territorio ov'essa sorse era certamente popolato da altre genti, e precisamente da Messapî, affini agli Iapigi, non però di provenienza cretese, come argomentarono i Greci, bensì, com'è noto, di origine illirica. Il nome della città, Taras, è quello stesso del fiume, l'odierno Tara, che, dopo breve corso, si getta nel golfo esterno, a poca distanza dal Mar Piccolo. Nella figura del mitico ecista, Falanto, si è creduto di poter ravvisare un'ipostasi del dio Posidone o di Apollo Delfinio, identico all'Apollo Iacinzio, venerato ad Amicle, in Laconia; d'altra parte esso ci richiama anche la divinità omonima venerata in Arcadia, ipostasi anch'essa di Posidone, e ci fa pertanto supporre la presenza di elementi arcadi (della Messenia meridionale) fra i coloni che fondarono Taranto.
Il luogo ove fu posta Taranto, era in verità dei più favorevoli, per lo spazioso retroterra che si apriva all'attività dei coloni, per l'ottima ubicazione nei rapporti del commercio e anche dell'industria, giacché quel mare è abbondantissimo di pesci d'ogni specie e di molluschi. Magnifico il porto, il valore del quale è accresciuto dall'importuosità di tutta la rimanente costa italiana del Mare Ionio. Il solo ostacolo al fiorire della nuova città poteva essere rappresentato dall'ostilità degli abitatori del luogo (i Messapî) verso i nuovi venuti e dall'indole assai bellicosa di tutte le genti iapigie, in genere, che popolavano allora il territorio corrispondente all'odierna Puglia, arrivando, verso occidente, almeno fino al Bradano. I primi secoli di vita di Taranto sono infatti tutti dominati da una ininterrotta operosità guerriera, rivolta ad allargare il dominio della città sulla regione circostante. In un primo tempo, i Tarentini trovarono più agevole estendersi nella penisola Salentina, che entrò progressivamente nella loro sfera d'influenza, specialmente dopo che essi ebbero fondato, sulla costa orientale di essa, la piccola colonia di Callipoli (l'odierna Gallipoli).
Più difficile riuscì loro l'espandersi a settentrione, ove più ostinata e meglio organizzata si opponeva la resistenza degli Iapigi, i quali inflissero a Taranto una memoranda sconfitta, verso il 470 a. C. Questo avvenimento ebbe ripercussioni notevoli così sulla politica interna come su quella estera della colonia spartana: all'interno, segnò la fine del regime aristocratico, cui sottentrò una costituzione democratica; all'esterno, preclusa ai Tarentini, almeno momentaneamente, ogni espansione verso nord e verso oriente, li indusse ad allargare la loro sfera d'influenza dalla parte d'occidente, ove si stendevano le belle e feraci pianure di Metaponto.
Metaponto dovette ben presto subire la superiorità di Taranto e finì per accettarne una specie di protettorato politico; tanto che i Tarentini poterono far valere le loro aspirazioni sul territorio della Siritide, che pure era rimasto compreso, dopo la distruzione di Siri, dentro i confini di Metaponto. Quando, nel 444-43, fu fondata, nella regione dell'antica Sibari, la colonia panellenica di Turî, Turini e Tarentini furono per un decennio in lotta fra loro appunto per il possesso della Siritide: la guerra finì con un trattato, nel quale Turî e Taranto si accordarono per abitare in comune la città alle foci del Siris, la quale però doveva essere riguardata colonia tarentina. Di lì a poco i Tarentini fondarono, un po' più nell'interno, la città di Eraclea, di cui Siri rappresentò il porto (433 a. C.).
Quando si costituì, verso il 400 a. C., la Lega degli stati italioti, per parare il pericolo lucano, al quale erano esposte anche Eraclea e Metaponto, è probabile che anche Taranto ne abbia fatto parte - benché le fonti ne tacciano - ed abbia quindi seguitato ad appartenervi anche quando, nel 390, le forze della Lega furono impegnate a resistere alla politica di assorbimento di Dionisio il Grande di Siracusa: tuttavia è certo che essa assisté quasi inerte allo svolgersi di quegli avvenimenti; spiando ogni occasione per intervenire a ricondurre la pace tra i confederati e il despota siracusano.
Durante la prima metà del sec. IV, Taranto, amministrata dal saggio governo di Archita, rimase nei più cordiali rapporti con i tiranni di Siracusa e pare abbia ottenuto allora la presidenza della Lega italiota, la cui sede venne stabilita ad Eraclea. Taranto era allora una città ricchissima e popolosa, una delle maggiori del Mediterraneo: si calcola che dentro il perimetro di 15 km. delle sue mura, vivesse una popolazione di circa 300 mila abitanti.
Una così florida vita fu presto turbata dalla minacciosa pressione degl'indigeni dell'interno - Messapî, Lucani e Bruzî - che tuttavia Taranto riuscì in un primo tempo a vincere, con l'aiuto di Archidamo (339/8) e di Alessandro d'Epiro (334 a. C.). Da allora Taranto poté affermare il suo protettorato su tutte le genti iapigie e tenere in rispetto, per qualche decennio ancora, gli stessi Lucani. Nel 303 o nel 302 a. C., i Lucani ottennero però l'alleanza di Roma; onde i Tarentini, paventando il pericolo più grave di quanto poi in realtà non si dimostrò, cercarono ancora aiuti in Grecia; e la madre patria Sparta inviò loro il principe reale Cleonimo, della dinastia degli Agiadi. Ma i Romani offersero subito la pace a Taranto, che fu del resto ben lieta di potersi sbarazzare al più presto dell'incomodo protettore e che approfittò di questa occasione per includere, nel trattato stipulato con Roma, la nota clausola, la quale faceva divieto alle navi da guerra romane di spingersi più ad oriente del promontorio Lacinio.
La violazione di questa clausola da parte dei Romani, avvenuta, per ragioni che non è facile identificare, nel 281 a. C., ebbe per conseguenza il grande conflitto fra Roma e Taranto, nel quale la città italiota fu soccorsa dall'intervento di Pirro, re dell'Epiro (280-275 a. C.). Partito Pirro dall'Italia dopo lo scacco di Benevento, l'esiguo presidio epirota lasciato dal re nella città, al comando di Milone, resisté qualche anno ancora; poi (272 a. C.) Milone si risolse a consegnare Taranto ai Romani, ottenendo la libera uscita per sé e per i suoi. Taranto dové così assoggettarsi ad entrare in alleanza con Roma, a condizioni assai dure: fu obbligata a consegnare ostaggi e a fornire un certo numero di navi da guerra, fu privata del diritto di batter moneta e dové, sola fra le città federate, accogliere un presidio romano nella sua rocca.
Durante la prima guerra punica, assolse con lealtà i suoi doveri di città federata; ma, nel secondo conflitto con Cartagine, Taranto fu la prima delle città italiote a darsi ad Annibale (212 a. C.); l'acropoli rimase tuttavia in possesso del presidio romano; riconquistata, tre anni più tardi, dal vecchio Fabio Massimo, venne duramente punita del suo tradimento: i cittadini furono in parte uccisi e gli altri (circa 30.000) venduti schiavi; la città fu data al saccheggio, che fruttò ingenti ricchezze ai soldati e all'erario: per un riguardo, però, agli abitanti della rocca, rimasti sempre, per amore o per forza, obbedienti e fedeli al presidio romano che l'occupava, fu rinnovato in loro favore il vecchio trattato d'alleanza.
Taranto rimase ancora a lungo, per lingua e per costumi, eminentemente greca: nel 125 fu trasformata in colonia (colonia Neptunia) e, dopo la guerra sociale, in municipio romano: il suo porto e i suoi commerci seguitarono a fiorire, ma vennero gradatamente eclissati da quelli di Brindisi; sotto l'Impero, si latinizzò rapidamente.
Medioevo ed età moderna. - Difesa a lungo contro i Goti da Giovanni capitano di Belisario, fu conquistata da Totila (549); e quindi ripresa da Narsete vincitore di Teia. Fu espugnata dai Longobardi dopo lungo campeggiare. Quando Costante imperatore tentò di riprendere l'Italia, Taranto fu una delle prime conquiste (663); di lì mirò a Lucera e a Benevento. Fu ritolta ai Greci da Romualdo duca di Benevento, e saccheggiata. Tornò a Bisanzio l'803. Conquistata dai Saraceni a varie riprese (846, 868), fu liberata dalla flotta veneziana del prode Urso Patrizio (864), poi dall'imperatore Basilio (880), cui la strapparono nuovamente i Saraceni che ne fecero scempio e resero schiavi gli abitanti (15 agosto 927). Riconquistatala, Niceforo II Foca (967) la munì di nuove mura, torri e del borgo Martina, e ne fece centro militare importantissimo. Per circa un secolo fu saldo nucleo della resistenza greca, anche dopo che i Normanni conquistarono la Puglia. Fu occupata da Roberto il Guiscardo ed ebbe ad arcivescovo il suo parente Drogone; fu assegnata poi col titolo di principato a Boemondo d'Altavilla. Servì come principale porto d'imbarco per le crociate; sotto Guglielmo il Malo congiurò con Greci e baroni normanni ribelli. Fu assegnata poi a Tancredi, e, lui morto, alla vedova Sibilla; poi al duca di Durazzo. Ribellatasi a Federico II, fu ridotta all'obbedienza dopo il ritorno di lui dalla crociata. Unita col contado di Lecce, passò a Manfredi. Si mantenne a lungo fedele agli Angioini, appannaggio di Filippo, quartogenito di Carlo II d'Angiò, poi al figlio Roberto che ne fece puntello per la sua offensiva contro gli Angioini d'Ungheria e per la futura conquista dell'Impero d'Oriente. Passò poi a Giacomo Del Balzo, a Ottone di Brunswick, quarto marito della regina Giovanna, al capitano generale del re Carlo, Ramondello Orsini, conte di Lecce, del quale seguì le alterne vicende nella lotta contro i Sanseverino. Fu capitale di un grande principato stendentesi da Otranto ad Oria, abbracciante Terra di Bari, gran parte della Basilicata, del Principato Ulteriore e poi Acerra e Benevento. Morto Ramondello, fu due volte assediata e conquistata da Ladislao di Durazzo che, sposata la vedova di lui, divenne principe di Taranto. Fu devoluta poi alla regina quale nipote di un Orsini. Ferrante I ne allargò i privilegi (1463). Aiutò Otranto assediata dai Turchi (1480). Durante la discesa di Carlo VIII, mentre i nobili tarantini avevano propositi di resistenza, terrazzani e pescatori, stanchi e maldestri nell'uso delle armi, aprirono le porte ai Francesi. Assediata da re Ferdinando, non volendo tornare agli Aragonesi, alzò bandiera veneziana (9 ottobre 1496), minacciando, se non fosse stata accolta da Venezia, di darsi ai Turchi; ma, non soccorsa a tempo dai Francesi, si arrese agli Aragonesi per fame (4 febbraio 1497). Nella lotta tra Francia e Spagna, fu difesa da Ferdinando, primogenito di re Federico, contro le truppe di Consalvo di Cordova cui cedette il 1° marzo 1502. Mantenuta dagli Spagnoli, nonostante l'assedio del Nemours, il re cattolico la fortificò. Ma ciò non valse a intimidire Turchi e Barbareschi, né a impedire l'invasione del Lautrec e dei Veneziani (1528 e 1529). Fortificata da Giovanni d'Austria, servì egregiamente quale concentramento di navi (immesse nel Mar Piccolo abbattendo parte del ponte costruito da Niceforo Foca), alla vigilia e durante la battaglia di Lepanto (1570-71), cui parteciparono molti Tarentini. Dal 1577 al 1597 furono eseguite nuove fortificazioni, reso navigabile alle galee il fosso tra Mar Grande e Piccolo, costruiti bastioni e torri sul mare e verso terra, costruito un muro terrapienato sulla strada verso Lecce. Queste fortificazioni tennero in rispetto i Turchi, nonostante il continuo incubo di loro flotte (nel 1594 una flotta di 100 navi assediò Taranto, difesa da don Carlo d'Avalos; poi nel 1598, 1599, 1657, 1671). Nel 1647-48, in coincidenza col moto masanielliano, proteste della plebe contro i nobili più che contro gli Spagnoli, lotta fra nobili asseragliatisi nel castello, e popolani padroni delle artiglierie, facilmente schiacciati dal Cardona; ammutinamento per il bando della leva. Taranto partecipò all'impresa dei Dardanelli e alla difesa di Candia (1656). Sotto i viceré fu negletta; e ancor più decadde nel sec. XVIII. Si democratizzò dall'8 febbraio all'8 marzo 1799: vide il processo politico del suo arcivescovo Giuseppe Capecelatro; tornò a Napoleone col patto segreto di Firenze (21 marzo 1801); fu occupata il 23 aprile dall'armata francese del generale Soult, che intraprese subito lavori di fortificazione, piazzò 100 cannoni e 14 mortai, istituì l'arsenale di artiglieria e un deposito di armi per volere di Napoleone che intendeva fare di Taranto "une sorte de Gibraltar". Sgombrata dopo Amiens, ma non privata del materiale di artiglieria affluito da Ancona e da Livorno, fu ripresa da Gouvion-Saint-Cyr. Sguernita per il tentativo napoleonico contro le coste inglesi, fu ripresa dopo Austerlitz, ebbe un presidio di 13.000 uomini; e nel decennio cosiddetto francese (1806-1815) divenne la più sicura base navale contro gl'Inglesi, stabiliti a Capri e in Sicilia, e i Russi a Cattaro. Giuseppe Bonaparte portò al massimo l'efficienza militare di Taranto; il Murat affrontò l'organica riorganizzazione di forti, magazzini, caserme, diede alla città la fisionomia che tuttora conserva. Taranto declinò allorché la campagna napoleonica contro la Russia spostò il centro della lotta verso l'Europa centrale e settentrionale. Dopo il 1815, sembrando inutile e dannosa la fervida attività navale e militare napoleonica, Ferdinando IV Borbone abbandonò l'attrezzatura di Taranto. Taranto fu centro di azione del Church nella repressione del brigantaggio e del movimento liberale all'indomani del Congresso di Vienna; rimase tranquilla nel 1820-21: ma ciò non le risparmiò il presidio di 200 Austriaci. Nel 1848 i contadini e l'infima plebe si agitarono per rivendicazioni agrarie e per disoccupazione e dissodarono alcuni terreni comunali, minacciarono il saccheggio contro i notabili del luogo, liberali; questi, a loro difesa, organizzarono una guardia civica, poi un governo provvisorio presidiato dalla guardia nazionale. Nel 1860 un battaglione di garibaldini disarmò il castello e i soldati della riserva, e prese il comando delle armi; 44 Tarentini parteciparono alla spedizione di Sicilia; fra essi Nicola Mignogna, poi prodittatore della Basilicata, anello di collegamento fra il gruppo liberale meridionale, Mazzini e il governo di Torino. Nel'61 fu attraversata da una ventata di reazione borbonica, fino al'63 dal brigantaggio.
Le nuove finalità navali e militari dell'Italia unita, prospettate da Tarentini illustri quali Cataldo Nitti, i nuovi equilibrî e le nuove contese avanti e dopo il taglio di Suez, ridiedero valore a Taranto. Costituita - su relazione del gen. L. Valfré di Bonzo (1865), e studî e scandagli di R. A. de Saint-Bon - base di dipartimento navale e dell'arsenale, approvvigionò la flotta italiana durante la guerra del 1866. I lavori di demolizione delle antiquate fortificazioni furono iniziati nell'82 e ultimati nel'96. Nell'83 fu messa la prima pietra all'arsenale, poi scavato il bacino di carenaggio, livellato il terreno retrostante, allargato e approfondito il canale fra Mar Grande e Piccolo: lavori ultimati e inaugurati, presente il sovrano, il 21 agosto 1889. La trasformazione integrale della marina da velica a vapore e l'affermarsi della nuova arma - il siluro - richiesero ritocchi e correzioni ai lavori eseguiti e da eseguire. Le grandi manovre del 1907 furono una specie di prova generale degl'impianti di Taranto. La spedizione libica e la guerra mondiale documentarono la grande importanza di Taranto nella difesa dell'Italia e nella politica mediterranea. Il Mar Piccolo e l'arsenale videro inusitata, febbrile attività, essendo Taranto l'unico porto di grande ampiezza, l'unico completamente attrezzato in vicinanza della zona dell'attività bellica. A Taranto, al sicuro da insidie, ma pronte a intervenire erano le flotte italiana, francese e inglese; lì faceva capo tutto l'ingente traffico per l'armata d'Oriente che operava a Salonicco e in Macedonia; lì da Suez confluivano i convogli franco-inglesi dalle lontane colonie con preziose riserve di uomini e di materiali; lì finivano le ideali linee di sbarramento partenti da Tobruk e da Lero.
Monete. - La zecca di Taranto fu la più attiva di tutta la Magna Grecia, perché coniò ricchissime serie monetali dalla seconda metà del sec. VI all'occupazione annibalica. La moneta corrente è costituita dalla didramma d'argento, di gr. 7,97-7,77, del sistema denominato appunto italico-tarentino; ma insieme furono coniati anche i nominali inferiori. Le didramme si distinguono in varî gruppi bene caratterizzati per tipi, tecnica e stile, seppure la loro cronologia non sia del tutto fuori discussione.
Il primo periodo (circa 540-473) è caratterizzato dal gruppo delle monete a rovescio incuso; vi si alternano i tipi del giovane Taras sul delfino e di Apollo Iacinzio; segue il secondo gruppo a rovescio in rilievo, coi tipi della ruota, dell'ippocampo e dell'effigie di Taras. Col cambiamento di costituzione coincide il cambiamento di tipo della moneta, che inalbera la figura del Demos-Taras o Falanto, seduto, nudo, con in mano varî emblemi. Alla fine del periodo già si alterna questo con il tipo più proprio tarentino del cavaliere, il quale dominerà per più di due secoli questa monetazione. Sia questo tipo sia quello di Taras sul delfino si presentano in una grande quantità di varianti, con varî simboli, monogrammi, nomi di magistrati monetarî e cittadini.
Questa ricchissima serie di stateri del cavaliere è stata distinta da A. J. Evans in dieci gruppi che si susseguono cronologicamente. Più semplici sono le emissioni dei primi due gruppi datati al 450-380; il terzo gruppo (380-345) appartiene al periodo di Archita, e comprende i conî più belli, e le più ricche emissioni; al quarto (344-334), che comprende il periodo di Archidamo e della prima guerra lucana, e al quinto (334-302), di Alessandro il Molosso e di Cleonimo, si appongono serie ancora bellissime. In qualche sigla e monogramma si vuol vedere la firma di due artisti incisori (Aristosseno e Kal....), che hanno firmato anche qualche serie contemporanea di Eraclea. Al sesto periodo (302-281), che si estende da Cleonimo a Pirro, appartengono tutte le serie a peso pieno che, oltre alle sigle e ai monogrammi dei monetarî, portano il nome del magistrato cittadino.
Si aggregano a questo periodo le serie cosiddette "campano-tarentine": un gruppo peculiare di didramme di peso ridotto (gr. 7,51-6,80) corrispondente a quello delle monete correnti al difuori del territorio tarentino, nei distretti del Sannio e dell'Apulia già sotto l'influenza del sistema monetario campano. I tipi sono: una testa femminile diademata o con sfendone (tipi campani), e il cavaliere che incorona il suo cavallo (tipo tarentino). Queste serie si considerano coniate da Taranto sia per correre fuori dei confini dello stato sia quali una coniazione federale fra Taranto e Napoli. Il settimo gruppo corrisponde al periodo dell'egemonia di Pirro (281-272) e comprende le didramme di peso ridotto a 6 scrupuli (gr. 6,80); l'ottavo e il nono a quello dell'alleanza romana (272-235-228) nel quale Taranto conserva il diritto di coniare l'argento; le serie sono ancora ricche e varie di simboli e di nomi, ma l'arte decade. Il periodo decimo è contemporaneo dell'occupazione annibalica (212-209). L'Evans è di parere che Taranto venne privata del diritto monetario già nel 228; certo si è che notiamo una scissura decisa nella monetazione, che riprende per breve ora, ma in misura ridotta; la maggiore unità coniata è ora la dramma, del peso del vittoriato o del denaro romano ridotto o anche della dramma fenicia corrente in Sicilia già dalla metà del sec. IV (gr. 3,80-3,40). Poche e scarse sono ora le emissioni coi soliti tipi; poi la zecca tarentina tace per sempre.
Ricche e varie serie di oro ha pure coniato questa zecca dalla metà del sec. IV a. C., che si suddividono in due gruppi: il primo comprende tutte le emissioni dal 340 circa al 281; sono stateri di gr. 8,61 che al tipo dell'effigie femminile accoppiano varî tipi con le figure di Taras, del cavaliere, dei Dioscuri, ecc. Sono infine coniate, in oro, dramme, semidramme, oboli e litre, con tipi varî. Il secondo e ultimo gruppo data dall'occupazione annibalica, e comprende un solo statere e un tetrobolo.
La moneta di bronzo fa tardi la sua apparizione a Taranto, nel secolo III, con pochi tipi, non molte emissioni, e non assume mai vera importanza nella circolazione.
La provincia di Taranto.
Costituita nel 1923 col territorio spettante all'ex circondario di Taranto, ha un'estensione di 2436 kmq. e una popolazione (1931) di 302.833 ab.: la densità è di 124 ab. per kmq.; essa è formata da 27 comuni. Fisicamente risulta del fianco più meridionale delle Murge e della zona occidentale del cosiddetto istmo messapico. Il tratto murgiano è solcato da profondi burroni, detti "gravine". Meno che nelle aree elevate, ha scarsa piovosità. Il litorale, per molti secoli fortemente malarico, si presenta spopolato; l'unico centro abitato marittimo è Taranto; negli ultimi anni grandi opere di bonifica hanno risanato e restituito all'agricoltura intensiva molte di queste zone costiere; nelle altre i lavori sono tuttora in corso. La provincia è coltivata specialmente a seminativi, a uliveti, a vigneti e a mandorleti.
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Su Taranto antica v., per la topografia: T. N. D'Aquino, Delle delizie Tarantine, versione e commento di C. A. Carducci, Napoli 1771; G. B. Gagliardo, Descrizione topogr. di Taranto, ivi 1811; G. B. Dal Lago, Sulla topografia di Taranto, Palermo 1896; Relaz. di scavi in Not. scavi, 1881, p. 376 (Viola); 1883, p. 178 (id.); 1884, p. 126 (id.); 1885, p. 258 (id.); 1894, p. 90 (id.); 1897, p. 212 (Patroni); 1897, p. 227 (Mariani); 1911, p. 411 (Quagliati); 1903, p. 205 (id.); 1906, p. 468 (id.); R. Bartoccini, La necropoli romana di Taranto, in Taranto, 1934. Per la storia: R. Lorentz, De origine veterum Tarentinorum, Berlino 1827; id., De civitate Tarentinorum, Naumburg 1833; id., De rebus sacris Tarentinorum, Elberfeld 1836; id., De veterum Tarentinorum rebus gestis, Luckau 1838; Doehle, Geschichte Tarents, Strasburgo 1877; D. De Vincentiis, Storia di Taranto, Taranto 1878, voll. 5; J. Geffcken, Die Gründung von Tarent, in Jahrbüch, für Philol., CXLVII (1893), p. 177 seg.; A. Cortese, Le origini di Taranto, in Atti della R. Acc. scienze di Torino, XLIX (1914), p. 1037 segg.; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, 2a ed., Città di Castello 1928, I, p. 82 segg.; II, p. 435 segg.; G. Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia, Firenze 1924, pp. i segg., 283 segg.; id., La Magna Grecia da Pitagora a Pirro, Milano 1928. Per la numismatica: A. J. Evans, The Horsemen of Tarentum, in Numismatic Chronicle, s. 3a, IX (1889), pp. i, 228; G. Macdonald, Coin Types, Glasgow 1905, passim; M. Vlasto, in Num. Chron., 1909, p. i segg.; id., Taras Oikistes, 1922 (Numismat. Notes a. Monogr., n. 15); W. Giesecke, Italia numismatica, Lipsia 1928, passim; Q. Quagliati, Quattro tesoretti di monete greche, in Atti e memorie Istituto italiano numism., VI (1930), p. 3 segg.; VII (1932), p. 3 segg.; L. Breglia, Di alcuni tesoretti monetali del Museo Taranto, ibid., VIII (1934) p. 20 segg.
Su Taranto medioevale e moderna v., per la storia: Fraccacreta, Teatro topografico storico, Napoli 1818, I, pp. 116-119; N. Corcia, Storia della Due Sicilie, ivi 1847, III, pp. 347-77; D. L. De Vincentiis, Storia di Taranto, cit. Abbondante bibliografia su Taranto è nella Rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti, e in G. Gay, L'Italia meridionale e l'impero bizantino, trad. ital., Firenze 1917, pp. 47-50, 104-106, 179-181, 193-195, 313-315, 339-342, 437-441, 492, 499-501 e passim; A. Martini, Breve storia di Taranto narrata al popolo, Taranto 1923, pp. 91-95; G. C. Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Bari 1930 (a pp. 263-265 v'è un Catalogo dei castellani e dei comandanti della piazza forte, dal 1489 al 1860). Per l'arte e i monumenti: F. Gregorovius, Nelle Puglie, Firenze 1882, pp. 399-451; A. Valente, Taranto (Il castello, il ponte e la cittadella), Taranto 1883; id., Santa Maria della Giustizia, ivi 1897; A. Martini, Guida di Taranto, ivi 1901; E. Bertaux, L'Art dans l'Italie Méridionale, Parigi 1904, pag. 492, passim; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, III, Milano 1904, p. 663; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I: Il Medioevo, Torino 1927.