teatro
Il teatro del Rinascimento. – Prologhi. Ci sono prologhi in cielo e prologhi in scena, presagi visionari e antefatti concreti nel fenomeno, proprio della cultura italiana del Rinascimento, che è stato definito invenzione del teatro e che congiunge la nozione del t. antico ai mutamenti dello spettacolo nella città moderna. Uno dei prologhi apre un libro essenziale per le visioni e le idee sul t.: è l’editio princeps del De architectura di Vitruvio, stampata a Roma nel 1486 e introdotta da un’epistola di dedica dell’umanista Giovanni Sulpizio da Veroli al cardinale Raffaele Riario. Un altro prologo sta nel fermento e nella varietà di una festa che è della città e della corte: è il carnevale ferrarese di quello stesso anno, in cui viene rappresentato, nel cortile del palazzo ducale, il volgarizzamento dei Menaechmi di Plauto.
La distanza tra Roma e Ferrara, nel 1486, si misura con il diverso coinvolgimento degli umanisti. Sulpizio è allievo di Pomponio Leto, fondatore dell’Accademia romana, ed è docente di retorica presso lo Studium urbis. Dopo i contrasti con la corte papale dell’epoca di Paolo II, il gruppo dei pomponiani si è integrato, dal pontificato di Sisto IV, nelle istituzioni e nel mecenatismo della curia. La dedica di Sulpizio al cardinale Riario è un incoraggiamento rivolto al nuovo pontefice Innocenzo VIII e ai cardinali-mecenati perché riprendano il rinnovamento urbanistico avviato da Sisto IV. Al centro dell’esortazione si dichiara e si argomenta diffusamente l’invito a costruire un teatro. «Theatro est opus», scrive Sulpizio. Nel giustificare tale necessità, si ricordano le recite di tragedie e commedie latine attuate dagli umanisti e dai loro allievi nelle residenze cardinalizie. Gli umanisti studiano il t. antico e ne immaginano, e ne auspicano, la rifondazione. Trasferiscono questa urgenza alla città moderna rigenerata dai valori e dalle funzioni della città antica. Ma il t. degli umanisti romani è una dimensione dei rituali accademici. Dal 1483, Pomponio e i suoi celebrano sul Quirinale la festa del 21 aprile, genetliaco della città, con riti sincretici ed esercizi poetici e oratori. La recitazione della commedia antica o della commedia in latino era il vanto o l’esibizione mondana degli scolari e dei loro maestri. A Roma rientrava nei requisiti d’identità del sodalizio accademico. A Firenze, episodi come la recita dell’Andria di Terenzio organizzata da Giorgio Antonio Vespucci nel 1476 o come i Menaechmi inscenati dagli allievi di Paolo Comparini nel 1488, con un prologo di Angelo Poliziano, imitavano una pratica pedagogica tramandata nei trattati di retorica. A Venezia Marcantonio Sabellico, descrivendo nell’anno 1500 la recita, o la lettura, della commedia Stephanium di Giovanni Armonio, immagina di vedere il teatro di Marcello tra le mura di un convento. La sintesi tra archeologia e celebrazione è pienamente leggibile e concreta a Ferrara dal carnevale del 1486, nella sequenza lunga e densa di feste che propone la corte di Ercole I come officina dei simboli, dei generi, dei materiali letterari dell’avanguardia teatrale di fine Quattrocento (Cruciani, Falletti, Ruffini 1994). Grazie all’apporto degli umanisti locali, la festa estense annovera tra i momenti salienti la recitazione della commedia antica volgarizzata. I letterati del tempo ironizzano sulla mobilitazione dei maestri ferraresi per soddisfare la domanda di traduzioni. La cronologia delle feste della corte estense dal 1486 al 1503 sperimenta generi, autori e fautori di allestimenti con sostanziosi scambi con Mantova e Milano; poi, seguendo le tappe delle politiche matrimoniali, con la Roma di Alessandro VI Borgia (1492-1503) e della figlia Lucrezia. Nel 1487 vengono presentati la Fabula di Cefalo di Niccolò da Correggio e l’Amphitruo volgare. Nel 1491 alla ripresa dei testi plautini si aggiunge l’Andria di Terenzio. La sperimentazione sulla drammaturgia volgare conia generi misti che adottano convenzioni eglogistiche e apparenze mitologiche. L’archetipo del dramma di contenuto mitologico in volgare è l’Orfeo di Poliziano, nodo di simboli, stili e studi fiorentini e committenza gonzaghesca, le cui discusse ipotesi di datazione rimandano al 1480. La probabile mediazione dell’Orphei Tragoedia (Teatro del Quattrocento. Le corti padane, 1983, pp. 172-73) produce con la Fabula di Cefalo una libera versione della materia ovidiana, impaginata con clausole e intermezzi affidati al canto e alla danza. Anche l’interpretazione di Vitruvio tende in questo clima verso letture e distorsioni empiriche. Lo testimonia il trattato Spectacula di Pellegrino Prisciani, redatto tra il 1486 e il 1501.
Le celebrazioni estensi raccolgono e trasvalutano all’insegna dell’idea del t. materiali espressivi e tradizioni della città. Racchiudono nei cortili e nelle sale ducali il confronto tra città reale e città possibile, la tensione politica tra festa di corte e tradizioni rappresentative della comunità. Una tensione inevitabile, esemplare delle aporie che Manfredo Tafuri assegnava alle contrastanti prospettive della riscoperta del t. antico:
Sembra quasi di assistere a una divaricazione delle scelte. La cultura umanistica preme per la creazione in città di teatri stabili, emblemi di una humanitas destinata a riflettersi nell’intera vita urbana; papato, corti e aristocrazia rispondono assorbendo quella istanza nel chiuso delle sale dei palazzi, nei cortili, al massimo in teatri provvisori. [...] Al teatro come riunificazione della civitas, espressione di una nuova società civile che si rispecchia nel reperto classico rievocato sulla scena, si contrappone un teatro di corte spinto, dall’emulazione, verso l’invenzione di ‘attuazioni’ a fini celebrativi: un teatro, quindi, come instrumentum regni (M. Tafuri, Il luogo teatrale, 1976, in Il teatro italiano nel Rinascimento, 1987, pp. 55-57).
Nella densità e nelle contaminazioni della festa s’incrociano gruppi, soggetti, identità e saperi che danno vita ai presupposti archeologici. Letterati rivolti per necessità o inclinazione agli usi rappresentativi della creazione poetica. Buffoni che esplorano il divario tra nuovi paradigmi della provocazione comica e intrattenimenti consueti delle comunità cittadine. Umanisti che trasformano in occasione di propaganda l’esercizio della recitazione scolastica. Sono questi i profili che si misurano, si confrontano e, talvolta, si sovrappongono negli esperimenti delle piccole corti italiane.
Se si ritorna a osservare l’officina ferrarese, tra il 1506 e il 1509, nelle stagioni seguite all’avvento di Alfonso I (sposo di Lucrezia Borgia nel 1502), si rileva l’affermazione di generi drammatici in volgare come l’egloga rappresentativa e la commedia regolare. La prima, attestata nei carnevali tra il 1506 e il 1508, si nutre delle varietà metriche e delle oscillazioni linguistiche della lirica cortigiana, riplasmata nei nuclei dialogici della convenzione bucolica, arricchita dalle digressioni cerimoniali, narrative e allegoriche attinte dalle prose dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro. Si tratta certo di una sponda delle riflessioni sul terzo genere, e quindi della traduzione pastorale della fabula satyrica, ma si tratta più sostanzialmente dello stadio embrionale, per convenzioni e materiali, degli sviluppi del dramma musicale. Nel 1508-09, con le rappresentazioni della Cassaria e dei Suppositi di Ludovico Ariosto, la commedia adotta la prosa (anche se alcune fonti sembrano contraddire, per la prima versione della Cassaria, la soluzione delle stampe) e impone alla contaminazione dei modelli latini l’acquisizione di un respiro mimetico e di un repertorio di casi che attraggono l’eredità novellistica di Giovanni Boccaccio. Il futuro dello spettacolo tra le corti e le città è nell’evoluzione e nel cambiamento di stato del genere comico. Individuandosi e poi emancipandosi nel crogiolo della festa, la commedia diventa veicolo autonomo di figure e lingue, e contenitore di stili di recitazione e tecniche espressive. L’articolazione e la qualità mimetica del genere comico soppiantano o rielaborano gli strati preesistenti: la declamazione di derivazione retorica, che contrassegna l’identità del t. scolastico; l’oralità narrativa tradizionale di canterini e improvvisatori; la deformazione mimica e linguistica dei buffoni; la recitazione espressiva e ritmica collegata ai moduli metrici e alle esecuzioni estemporanee della lirica cortigiana.
Nella costellazione dei centri e degli eventi, le figure che impersonano il livello alto dello spettacolo si sono individuate come portatrici e personificazioni di assetti e valori della letteratura recitata. Serafino Ciminelli, detto l’Aquilano (1466-1500), dando voce alle rime improvvisate o premeditate del canto «nel liuto» o «alla lira», attualizza e trasferisce i valori neoplatonici della poesia nei metri e negli accenti della lirica volgare cortigiana. Il suo biografo Vincenzo Colli, detto il Calmeta, ne ripercorre il circuito di protezioni, ascendenti e prestazioni, raccontandone le peripezie nelle Collettanee per la morte del poeta stampate nel 1504. La geografia di Serafino è la configurazione visibile della poesia come spettacolo, e dello spettacolo aulico come luogo di uno stato specifico della parola letteraria, teso tra l’altezza degli archetipi e il consumo diffuso. Attivo a Roma al servizio di Ascanio Sforza, dopo un soggiorno milanese durante il quale avrebbe appreso da un allievo del Cariteo la vena compositiva degli strambotti, torna a Roma, dove frequenta l’accademia di Paolo Cortese, fulcro degli esperimenti sulla lirica volgare. Si trasferisce poi a Napoli, sotto Ferdinando d’Aragona, e si accosta all’Accademia Pontaniana. Le guerre lo spingono a Urbino e a Mantova, scenari in cui si apre la rivalità con Antonio Tebaldeo. Si afferma poi a Milano nella corte di Ludovico il Moro e di Beatrice d’Este, alla cui morte, nel gennaio del 1497, ritorna a Roma. Serafino anima ovunque situazioni dove l’esecuzione della lirica poteva assumere sembianze allegoriche ed era sempre fatta di spettacolo, presenza del poeta come attore e musico. Il Calmeta attribuisce alla «forza del recitare» dell’Aquilano la diffusione di arie e testi delle sue rime.
Il rapporto tra recitazione e sfera pubblica intorno al 1500 chiama in causa personaggi dotati di profili istituzionali e poteri informali nella dimensione civica, come gli araldi comunali fiorentini Giovanni Battista dell’Ottonaio e Domenico Barlachia, banditore, recitante, buffone (Ventrone 1993). Una presenza analoga, plasmata nella mediazione tra classi, ambienti, credenze, caratterizza i buffoni veneziani Domenego Tajacalze e Zuan Polo Liompardi, protagonisti di occasioni celebrative di Stato come banchetti ducali e processioni carnevalesche, ma anche attori determinanti nell’autonomia simbolica della festa aristocratica. Niccolò Campani (1478-1523), detto lo Strascino per aver trasformato in requisito di scena le conseguenze e i lamenti del mal francese, realizza l’innesto tra improvvisazione poetica, deformazione comica e rovesciamento delle convenzioni bucoliche nella drammaturgia rusticale. Trasferitosi a Roma dal 1503, acquista fama nell’abbinare abilità del cantore e tipizzazione del contadino, prima nel contesto del mecenatismo del banchiere senese Agostino Chigi, poi negli ozi della corte papale, tra Giulio II e Leone X. La sua mediazione espressiva, sul fronte della parodia delle convenzioni pastorali, esplora e rinnova lo strumentario dei buffoni e approda al circuito delle corti. Dopo una trasferta a Mantova nel 1521, organizzata da Baldassarre Castiglione, muore a Roma nel 1523 (Valenti 1992; Pieri 2010).
Negli stessi anni t. e commedia restano, nelle imprese pubbliche degli umanisti, sinonimi dello spettacolo solenne. A Roma, pochi mesi dopo l’elezione al trono papale di Giovanni de’ Medici come Leone X, la tradizione degli accademici vive il suo episodio più alto e vistoso con la trasformazione della festa degli umanisti, le Palilie per la fondazione di Roma, nella celebrazione della stirpe medicea. Gli spettacoli per il teatro capitolino del settembre 1513 sono un evento al centro dell’attenzione storiografica come modello dell’alleanza tra intellettuali e maestranze, tra committenza artistica e moventi di storia urbana, e come episodio chiave nei conflitti romani fra curia e aristocrazia (Cruciani 1968). Si tratta di un ambizioso riassunto del passato degli allievi di Pomponio. Si dirà più avanti dell’ambiguità strutturale del teatro provvisorio edificato in Campidoglio, una sala decorata all’antica collocata nella piazza. I contenuti che abitano il teatro capitolino nei due giorni della festa sono il compendio della cultura antiquaria e retorica coltivata dagli accademici: le esibizioni oratorie e poetiche, la sfilata dei quadri viventi di argomento mitologico, la recita del Poenulus plautino; riti e simboli del sapere che hanno segnato la ricorrenza della fondazione, e ne segnano questa edizione rivolta al conferimento della cittadinanza romana al fratello e al nipote del nuovo papa. Ispiratore e maestro di cerimonie è il volterrano Tommaso Inghirami (1470-1516), cresciuto nella casa di Lorenzo il Magnifico e poi nella scuola di Pomponio, detto Fedra per l’interpretazione della protagonista nell’Hippolytus senecano, che ancora adolescente l’aveva reso celebre. Giulio II lo nomina nel 1510 prefetto della Biblioteca Vaticana ed è nel 1513 segretario del conclave che elegge Giovanni de’ Medici. In quegli anni lo ritrae Raffaello Sanzio.
Il 6 febbraio del 1513 ha luogo nel palazzo ducale di Urbino, alla corte di Francesco Maria Della Rovere, una festa teatrale comprendente la recita della Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, artefice due settimane dopo dell’elezione di Leone X. L’importanza della Calandria sta, com’è noto, nell’aver fissato, rivendicandoli nel prologo, i tratti distintivi della nuova commedia (in prosa, non in versi; moderna, non antica; volgare, non latina), perfezionando la sintesi dei Suppositi tra la commedia plautina e il repertorio novellistico. Nell’evento urbinate si realizza la concezione complessa di commedia, intermezzi e apparati, affidata a un gruppo di ideatori di cui è possibile ricostruire l’apporto: oltre al Bibbiena, Baldassarre Castiglione e Girolamo Genga. Castiglione, inventore degli intermezzi di contenuto neoplatonico, ne stila una dettagliata descrizione in una lettera a Ludovico di Canossa; Genga, che è stato allievo del Perugino, allestisce una scena prospettica che rappresenta la Roma della commedia di Calandro, ma anche un apparato che trasfigura sala e scena nella città senza tempo che è insieme Roma e Urbino. A parte i suoi valori intrinseci, la festa urbinate diventa per la sua risonanza l’antefatto di una vicenda sostanziale: la migrazione della commedia tra le feste, le corti, i centri urbani e le culture di spettacolo; l’affermazione di un prototipo che è tanto più pervasivo quanto più è flessibile e sensibile ai contesti. I passaggi della Calandria, e poi della Mandragola, la prima fortuna delle due commedie e il loro transito in diversi centri e situazioni, sono episodi decisivi in due sensi: perché attestano la fissazione di un canone che si insedia, si adatta e si diversifica nelle accezioni locali; e perché attraggono l’attenzione sul rapporto tra movimento dei comici e movimento dei testi. Le rappresentazioni romane della Calandria alla corte di Leone X sarebbero da inserire negli appuntamenti mondani convocati per la presenza di Isabella d’Este a Roma tra l’ottobre del 1514 e il carnevale del 1515. Probabilmente gli attori furono diversi rispetto a Urbino, e troppo vaghe sono le scarne informazioni di Paolo Giovio al proposito. Le corrispondenze tra Roma e Urbino registrano l’iniziativa del Bibbiena e il passaggio del «ruolo», cioè del copione, e quindi la ricostruzione del rapporto tra testo e azione. La sequenza dell’apparato urbinate (celebrato dall’ecfrasi del Castiglione) e della scena della ripresa romana (la cui eccezionalità è rilevata da Giovio e da Giorgio Vasari) segna una svolta nella storia dello spazio teatrale (le fonti in Cruciani 1983, pp. 440-46; Ruffini 1986).
L’evidenza dei passaggi illumina i soggetti promotori dell’avanguardia drammaturgica. Intorno alle attività della corte medicea a Roma si delinea la consistenza di una corrente di figure della buffoneria e della recitazione. La scia più visibile che s’intreccia al movimento delle commedie è la documentata peregrinazione teatrale di Francesco de’ Nobili da Lucca, detto Cherea, dal nome dell’adulescens innamorato e travestito dell’Eunuchus terenziano, attivo tra Venezia e le corti padane, poi nella Roma di Leone X, poi ancora a Venezia.
La cronologia delle presenze sceniche e politiche di Cherea scandisce il processo di diffusione dei materiali comici. Nei Diarii di Marin Sanudo, Cherea è presente a Venezia dal gennaio del 1508, ma il cronista accenna a sue presenze precedenti. In quella circostanza recita l’Asinaria di Plauto nella sala di un palazzo in costruzione nel sestiere di Cannaregio. La citazione della commedia plautina spiega la provenienza di Cherea se associata a una notissima fonte di storia della tipografia veneziana. Nel settembre del 1508, il lucchese chiede al senato marciano il privilegio di stampa per una vera e propria collezione di volgarizzamenti da Plauto e Terenzio e di altri testi da recitare. Alcuni dei volgarizzamenti recitati e trascritti a Venezia nel secondo decennio del Cinquecento corrispondono alle traduzioni usate nelle feste teatrali di Ercole I d’Este. Cherea trasporta dunque materiali dall’officina ferrarese. Negli anni della guerra accesa dalla lega di Cambrai, Cherea è intercettato dalle note sanudiane come agente diplomatico a Mantova e in Romagna, poi dal 1511 come segretario di Gaspare (detto Fracasso) Sanseverino, condottiero delle milizie veneziane. Mentre la stampa della collezione teatrale rimane irrealizzata, il Consiglio dei Dieci reagisce alla sua richiesta di utilizzare per commedie la Loggia di Rialto, negandogli quello spazio e intimando per il carnevale del 1509 la sospensione delle rappresentazioni pubbliche e private di «commedie, tragedie e egloghe». Cherea continua a recitare a casa del suo protettore. Quando Giovanni de’ Medici diventa papa Leone X, nel marzo del 1513, Cherea si trasferisce a Roma con Fracasso che lascia la condotta delle milizie veneziane. Non è dato di accertare la corrispondenza tra l’arte comica di Cherea e i fatti di spettacolo dell’età di Leone X se non per allusioni e ipotesi. C’è la notizia di una commedia in volgare, ma ‘in versi’, nel 1514 (e quell’anno è ripresa per Leone X la Calandria), riportata in un dispaccio a Isabella d’Este, in cui si ricorda il lucchese che «soleva recitare» a Mantova. Una nota di Sanudo del settembre del 1518 afferma che per le feste delle nozze di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino con Maddalena de la Tour d’Auvergne, celebrate nel palazzo di via Larga con rassegna di commedie e apparati, sono «stà mandati tutti li buffoni che in Roma si ritrovano e tra l’altri è andato Cherea per far commedie, per ornare tanto più la festa» (Diarii, a cura di N. Barozzi, G. Berchet, F. Stefani, R. Fulin, 25° vol., 1889, coll. 18-19). Il movimento di Cherea si allaccia nella nota sanudiana al flusso pendolare dei buffoni medicei tra Firenze e Roma, cui si riferisce già una lettera del gennaio 1513 inviata a Federigo Gonzaga da fra Mariano Fetti, creato di Lorenzo il Magnifico, nominato provveditore al piombo da Leone, animatore di pazzie, facezie, banchetti macabri e grotteschi, che si battezza nella missiva «maestro» del Bibbiena (Cruciani 1983, pp. 478-79). I «capricci» di fra Mariano, narrati in ottave e spacciati dal «furfante che vende le istorie» nel primo atto (I iv) della prima Cortigiana (1525) di Pietro Aretino, sono raffigurati, secondo una descrizione, nella tela che si apre sulla prospettiva di Ferrara dipinta da Raffaello per I Suppositi dell’Ariosto, rappresentata in Vaticano nel marzo del 1519. Per il carnevale del 1520, papa Leone chiede ad Ariosto una commedia. Ne nasce la prima versione del Negromante, ma il progetto di rappresentazione svanisce. La datazione della Mandragola al carnevale fiorentino del 1520 è coerente con i segnali intrinseci, con le evidenze testuali e con gli indizi sulla rappresentazione. Con questa ipotesi collima l’immediata ripresa romana negli ultimi giorni di aprile (Inglese 2006). Secondo la ricostruzione di Giovio (Elogia, 1546) la replica fu recepita a Roma cum toto scaenae cultu ipsisque histrionibus («con tutto l’apparato della scena e con gli stessi recitanti»). Ritroviamo la commedia di Callimaco sulla strada di Cherea. Fracasso Sanseverino è scomparso nel 1519, e nel dicembre del 1521 la morte di Leone X riporta Cherea a Venezia. Dal carnevale successivo, il lucchese ritorna in laguna da protagonista. Secondo le note di Sanudo recita due volte in febbraio la Mandragola al convento dei crociferi (recita replicata perché la prima non si era conclusa per la calca), con gli intermezzi del celebre buffone Zuan Polo (Padoan 1978, pp. 34-50). Qualche giorno dopo, nello stesso luogo, un prete, Giovanni Sanese, rappresenta la Calandria. Anni prima Cherea aveva prodotto il movimento dei volgarizzamenti dalla festa estense allo spettacolo nella città; nel secondo periodo veneziano, recita ancora il Plauto tradotto, ma inaugura e accompagna la diffusione dei prototipi della commedia volgare. La Mandragola ha preso forma al culmine delle redazioni del volgarizzamento dell’Andria (1517; 1519-1520). Ma rivela altre dimensioni peculiari dello spettacolo fiorentino. Dovrebbe essere successivo alle rappresentazioni del 1520 l’allestimento della Compagnia della Cazzuola, che la biografia vasariana di Giovanfrancesco Rustici collega all’apparato di Andrea del Sarto e Bastiano da Sangallo. Le imprese teatrali della Compagnia, fondata nel 1512, radunano artefici, novellatori, dicitori come l’araldo-buffone Domenico Barlachia, e borghesi facoltosi. Nella lunga digressione vasariana sulla Compagnia (G. Vasari, Le opere, a cura di G. Milanesi, 4° vol., 1879, pp. 609-19), appaiono i sostrati di invenzione e sapienza del grottesco antecedenti all’avvento della commedia in prosa (Ventrone 1993, pp. 161-64). La confidenza di M. con Barlachia risulta attestata dall’annotazione «ego Barlachia recensui» apposta alla trascrizione della Commedia in versi di Lorenzo di Filippo Strozzi. Certa è la presenza dell’araldo negli scambi di cerimonie burlesche tra i buffoni medicei. Secondo monsignor Vincenzio Borghini, Barlachia era «eccellente dicitore a commedia, e massime facendo le parti di un vecchio» (V. Borghini, Spogli manoscritti, BNCF, ms. II.X.115, c.38v); ne deriva la scontata candidatura a interprete di Nicia e di Nicomaco.
Dopo la rappresentazione della Mandragola di Cherea, c’è quella organizzata sempre a Venezia nel 1526 da Giovanni Manetti, attivo in quegli anni come impresario e finanziatore di conviti e di stampe (su di lui le ricognizioni e le ipotesi più recenti in Pieri 2010, p. 25). Al dialogo tra struttura comica e festa mobile rimandano, con importanti risvolti nell’elaborazione e nelle premesse degli intermezzi musicali (cfr. Pirrotta 1975), le versioni con gli interventi di Barbara Salutati, altri cantori e nuove canzoni (di cui due già inserite nella Clizia del 1525) della Mandragola progettata per Faenza, auspice Guicciardini, nel gennaio del 1526. La stessa Clizia era stata creata la prima volta in una festa di Iacopo Fornaciaio nel carnevale del 1525, dunque nel contesto delle compagnie di piacere dei borghesi fiorentini filomedicei.
Secondo una chiosa di Giorgio Vasari all’indispensabile digressione sui fasti della Cazzuola, dopo la riduzione delle feste sociali a una cena e commedia annuale, i compagni «recitarono in diversi tempi» la sequenza canonica della Calandria, della Cassaria, dei Suppositi e della Mandragola (G. Vasari, Le opere, cit., 4° vol., p. 617). La forma comica ricercava idiomi e gruppi, toccava situazioni che vanno analizzate sia come fattore genetico sia come alveo di rielaborazione dei nuovi repertori. La fisionomia di rivista e montaggio di attrazioni, e la mimesi del disordine riconosciute nella Cortigiana dell’Aretino, particolarmente nella prima redazione romana del 1525, sono l’esito di una consapevole esasperazione, quasi di una filosofia dell’incoerenza strutturale in cui si poteva rovesciare e vanificare la composizione. Un’operazione che assumeva senso e mordente nel momento in cui si consolidavano i tratti e i valori di una maniera.
I primi circuiti della commedia volgare evidenziano l’incrocio di figure mobili e realtà stanziali. Indiscutibile è la consistenza di un tessuto connettivo di iniziative che si innerva con un doppio sistema di contatti tra i centri sensibili della diplomazia e della mondanità: il movimento dei testi, che tocca e anima situazioni e tradizioni eterogenee, e/o la mobilità di chi li recita, che talvolta promuove, come è certo nel caso di Cherea a Venezia, il movimento dei testi. La portata mimetica della commedia non risiede soltanto nella sua forma dialogica e nella sua articolazione, ma nell’assorbire e trasvalutare le culture del rappresentare e le figure dell’intrattenimento, gli scenari della città reale, e le lingue e le figure che offrono agli occhi degli spettatori i contrasti tra corte, città e contado. La questione della lingua è centrale nella pulsazione e nelle accezioni dello stile. Da un lato, c’è la fluidità di un genere irriducibile, perché consegnato al confine tra lo scritto e l’orale, tra lingua letteraria e lingua d’uso; dall’altro, la questione dell’imitazione dell’ethos, sostanziale nella definizione dell’esercizio comico fin dalle sue genealogie scolastiche, e rinnovata e convalidata nella diretta audacia del rappresentare gesti e ambienti, facendo mimesi e critica dei comportamenti umani. Carlo Dionisotti ha agganciato alla collocazione cronologica della Mandragola la posizione assunta sulla lingua comica nelle battute finali del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. La diffida, se non la preclusione, di ogni lingua comica estranea alla tradizione fiorentina si fondava sulle osservazioni intorno ai «termini e motti [...] proprii e patrii» e sulle obiezioni alla mancanza dei «sali che ricerca la comedia» in Ariosto (Discorso, §§ 67-70). L’aggancio interessa qui perché lega l’argomento polemico dello stile comico alla cronologia dei testi e a quella delle rappresentazioni, e in senso più lato agli orizzonti espressivi e ai sostrati recitativi della commedia. Scrive Dionisotti:
[Machiavelli] era uomo che non poteva disinteressarsi di una commedia, per l’appunto i Suppositi, di autore ferrarese, rappresentata a Roma il 6 marzo 1519 nella corte del fiorentino Leone X, davanti a un pubblico in cui molti, forse i più, erano fiorentini, parecchi gli amici e i conoscenti di lui Machiavelli. Il quale per di più, non sappiamo quando, ma certo a distanza brevissima di tempo, si trovò ad essere con la sua Mandragola competitore dell’Ariosto in quello stesso teatro, davanti allo stesso pubblico. Da questa competizione, nel 1519, non prima, nasce il riferimento polemico ai Suppositi nel Dialogo (Machiavellerie, 1980, p. 311).
La critica ad Ariosto («i motti ferraresi non li piacevano») lasciava un varco aperto ad altre posizioni. Il privilegio delle radici apriva oltre Firenze il genere comico al policentrismo e al pluralismo dei motti. Espressione del peculiare incrocio padovano tra contado e università, tra mimesi rusticale e retaggio delle sette goliardiche (Paccagnella 1984), Angelo Beolco, detto Ruzante, fu l’artefice, grazie al suo retroterra e all’appoggio del mecenatismo di Alvise Cornaro, della più importante sintesi tra identità di attore e profilo letterario. Sulla riuscita di Ruzante si basa l’autorità dell’aperta polemica con i codici linguistici ed erotologici di Pietro Bembo, e anche l’adozione dello stesso Ruzante come personificazione del relativismo linguistico teorizzato da Sperone Speroni (la stampa del Dialogo delle lingue è del 1542, anno della morte del Beolco). Le ragioni della riflessione accademica riconducono alla rivendicazione dell’eccellenza teatrale. Nel congedo della Betìa, probabilmente collegato a una rappresentazione veneziana del 1525, si dichiara esplicitamente la competizione della drammatica padovana, già impostasi nei ludi scenici dell’aristocrazia lagunare, con i fasti recenti della commedia volgare. «Benché non siamo né a Roma, né a Firenze o a Urbino» – citiamo la traduzione di Ludovico Zorzi dal pavano – «e vi siano state qui tante guerre e rovine, ne abbiamo pur fatta una di commedia; e ne faremo delle altre, per tenere alto il nome di Padova» (Ruzante, Teatro, a cura di L. Zorzi, 1967, p. 508). Ruzante dilatava la questione, intrinsecamente polemica, della sopravvivenza culturale padovana a Venezia, verso il quadrante dei bilinguismi costitutivi, dei sistemi letterari e dei loro riflessi regionali. La scelta dei termini di confronto probabilmente non era casuale, né per la lingua, né per la commedia. Urbino voleva dire il luogo della teoria, della cultura e della koinè cortigiana, e voleva dire la Calandria. Ripresa a Roma l’anno seguente, la commedia del Bibbiena aveva inaugurato l’egemonia delle feste teatrali di Leone X, in cui s’era poi incrociato il confronto tra la ripresa dei Suppositi, il progetto irrealizzato del Negromante e le rappresentazioni del 1520, tra febbraio e aprile, tra Firenze e Roma della Mandragola. In quel momento della traiettoria di Ruzante c’è dunque, programmaticamente, la rassegna delle eccellenze recenti e il progetto della differenza. Si è opportunamente osservato, a proposito della Betìa, come «il profilo di un’intera tradizione di spettacolo locale – ‘irregolare’ dal punto di vista della forma drammatica – sia assunto e distribuito in una forma già avvertita come canonica» (P. Vescovo, Il tempo tra gli atti (primi appunti), in Tra commediografi e letterati. Rinascimento e Settecento veneziano, a cura di T. Agostini, E. Lippi, 1997, p. 121). La Betìa resta il referto quasi etnografico di una drammaturgia eterodossa, sorretta dallo schema del mariazo, il rito nuziale che catalizzava gli esercizi comici in pavano. A un analogo confronto con le chiavi e i motivi delle egloghe ferraresi e l’eredità del Sannazaro si era ispirata l’irruzione della Pastoral nella traiettoria dell’egloga rappresentativa in area veneta (1521, data presunta). E l’assimilazione ai tempi e alle cadenze della commedia si compie con la progressione delle stesure della Moscheta, tra il 1525 e il 1528.
Dalle cronache veneziane si può estrarre un’immagine mossa, ma eloquente. La situazione di Venezia a metà degli anni Venti intercetta il campionario delle interpretazioni del t. attraverso gli istrioni che impersonavano anime discordi, ma interferenti della commedia. La presenza di Ruzante e l’importazione della tradizione recente contribuiscono a un sistema che assomma e sintetizza celebrazione e intrattenimento, scenari dogali e consumo vistoso dell’aristocrazia, adozione di drammaturgie complesse da parte dei buffoni-araldi e affermazione di attori immigrati nell’orbita dei giovani promotori delle Compagnie della Calza. Se si leggono nelle note di Sanudo i repertori e il casting dei carnevali di ca’ Arian nel 1525 e di ca’ Trevisan nel 1526 (Diarii, cit., 38° vol., 1893, coll. 559-60, 40° vol., 1894, col. 789), la parata di Ruzante e di Menato, di Cherea, del sensale fiorentino Manetti (che nel 1526 organizza la Mandragola), del buffone Zuan Polo e dei suoi compagni e apprendisti, testimonia di inclinazioni e direzioni del rappresentare ben oltre il catalogo dei generi. Il lusso aggiornato e acculturato della metropoli veneta assorbe e supera la parabola delle piccole corti e di Roma (Guarino 1995).
Non si sa che cosa corrispondesse nei fatti all’espressione «picturatae scoenae facies», usata da Sulpizio da Veroli nel Vitruvio del 1486 per alludere allo sfondo delle recite dei pomponiani. Non sappiamo che cosa fosse materialmente la «prospettiva di una terra» menzionata da un cronista come sfondo delle feste ferraresi del 1508, e attribuita a Pellegrino da Udine, in cui viene rappresentata la Cassaria. Si trattava di immagini e artifici che suggerivano lo schema del t. antico o il ritratto di una città sospesa tra realtà e idea al centro dei repertori della celebrazione. Il contesto materiale degli eventi che aprono la strada al t. delle commedie e delle scene non è l’edificio teatrale che l’interpretazione di Vitruvio insegue nelle carte e nei rilievi delle rovine, ma la sala o il cortile del palazzo, trasformati da segni provvisori o permanenti dell’antico, dal distillato dei mestieri del rappresentare e dai simboli della città. Il teatro capitolino del settembre del 1513, frutto maturo dell’archeologia degli accademici, è una soluzione tanto sintomatica quanto paradossale, un «vero simulacro» dell’edificio antico, come scrive la descrizione di un testimone, che adotta pianta rettangolare e iconografie storico-mitiche della sala cardinalizia, elevandola a tempio teatrale nella piazza del Campidoglio (Cruciani 1968; Farinella 1992). Le matrici del costruire all’antica e la pittura illusionistica si erano manifestate altrimenti nel cantiere della villa e delle feste del banchiere dei papi Agostino Chigi. Baldassarre Peruzzi costruisce nel 1511 la villa oltre Tevere del mecenate e la soluzione della facciata nord, portico e frons scaenae, articola il rapporto tra architettura privata e scena monumentale, allestendo lo sfondo permanente in cui si cimentano lo Strascino e i suoi compagni. La scena di pietra di villa Chigi (poi Farnesina) è un momento determinante nell’affermazione di quella che è stata battezzata «scena a portico» (Zorzi 1977); e che in realtà, a parte i dubbiosi ascendenti delle illustrazioni delle stampe dei comici latini, si attua nell’uso teatrale di fattori strutturali neoclassici. Si tratta di una soluzione che a Roma vanta il precedente di palazzo Riario, poi della Cancelleria, e che è stata ascritta negli studi su cortili e teatri alla matrice dell’«anfiteatro rovesciato».
Restando aperta la discussione sulla struttura degli apparati e sulla peculiare tradizione simbolica della città nel contesto estense (Zorzi 1977, pp. 559), si può risalire alla creazione e alla prima fortuna della Calandria del Bibbiena, tra Urbino e Roma, come al momento in cui si instaura lo spazio scenico elaborato dalla pittura prospettica in quanto matrice del luogo teatrale. La prospettiva scenica diventa forma simbolica e matrice dello spazio delle rappresentazioni anche sovrapposta alla normalizzazione prospettica della città, e partecipe della dialettica tra ordine simbolico e realtà difformi e deformi convocate dalla mimesi comica. La consapevolezza del modello è testimoniata dagli stessi artefici. Nel Secondo libro di Perspettiva (pubblicato a Parigi nel 1545), così intitolato in quanto secondo dei libri sull’architettura pubblicati dall’architetto bolognese, Sebastiano Serlio sigilla l’assorbimento dei prototipi vitruviani dei tre generi drammatici (tragedia, commedia, fabula satyrica) nell’affermazione della scena prospettica. Definendo il ruolo dei pittori prospettici nella scena moderna, Serlio enuncia la sequenza degli architetti-pittori che l’hanno realizzata: Donato Bramante, Girolamo Genga, Baldassarre Peruzzi, Raffaello, Giulio Romano. Mentre per Bramante si discutono le ipotesi di interventi scenografici e si rinvia alla creazione degli spazi del Belvedere Vaticano, la menzione di Genga rimanda alla scenografia urbinate della Calandria del 1513. L’attribuzione al Genga è dovuta alle sue frequenti responsabilità per gli apparati festivi del ducato. L’allestimento fonde Urbino e Roma, città ideale e simboli della città reale, insediando la sintassi prospettica nella scena come «città irrealizzabile ma culturalmente reale», riecheggiata nell’assetto complessivo dell’allestimento della sala (Ruffini 1986). Peruzzi, attivo nel teatro capitolino, presiede sia al progetto architettonico sia agli affreschi illusionistici di villa Chigi; e soprattutto crea la successiva scena della Calandria romana del 1514 e altri apparati prospettici decantati da Vasari; Raffaello, che nel 1518-19 progetta per villa Madama un t. di osservanza vitruviana, collocato nel contesto degli spazi della villa romana antica, realizza la scena dei Suppositi ariosteschi in Vaticano nel 1519. Sulla centralità di Peruzzi e delle sue sintesi romane è decisiva quanto enfatica la testimonianza retrospettiva di Vasari. Nella biografia del Peruzzi riscritta per la seconda edizione delle Vite (1568), l’artista aretino scrive dell’allestimento della Calandria romana, e di altre invenzioni sceniche peruzziane, come dello spartiacque tra gli usi dello spettacolo tradizionale («feste e rappresentazioni») e il ripristino della sintesi di commedia e prospettiva («l’uso delle commedie e conseguentemente delle scene e prospettive») che qualificava la «maniera moderna» del t. rinascimentale. La pagina va citata anche se l’identificazione complessiva dei riferimenti ai fatti resta problematica.
Quando si recitò al detto papa Leone la Calandra commedia del cardinal di Bibbiena, fece Baldassarre l’apparato e la prospettiva che non fu manco bella, anzi più assai che quella che aveva altra volta fatto [...]; et in queste sì fatte opere meritò tanto più lode, quanto per un gran pezzo adietro l’uso delle commedie e conseguentemente delle scene e prospettive era stato dismesso, facendosi in quella vece feste e rappresentazioni. Et o prima o poi che si recitasse la detta Calandra, la quale fu delle prime commedie volgari che si vedesse o recitasse, basta che Baldassarre fece al tempo di Leone X due scene che furono meravigliose et apersono la via a coloro che ne hanno poi fatto a’ tempi nostri (G. Vasari, Le opere, cit., 4° vol., p. 600).
Da pochi anni è stato restituito a Vasari il foglio 291 degli Uffizi, che nella tradizione degli studi era stato identificato come il disegno di Peruzzi per la Calandria romana (Petrioli Tofani 1994). Il conflitto e lo spostamento delle attribuzioni testimoniano l’elaborazione di strutture e convenzioni nel repertorio dei pittori prospettici. I disegni del Peruzzi erano stati ereditati dal Serlio. Il salto di qualità dell’invenzione peruzziana rispetto ai precedenti lascia comunque tracce nel corpus dei disegni scenici del senese. Seguendo le biografie vasariane, il segmento successivo della sperimentazione e delle competenze su prospettive e commedie sono gli interventi fiorentini di Bastiano da Sangallo, detto Aristotile proprio per la scienza prospettica (Zorzi 1977, pp. 92-93). Bastiano si era formato a Roma con il Bramante e promosse l’adozione fiorentina della città in prospettiva prima per le feste medicee del 1518 e poi per le commedie del Segretario. «Fu di grande aiuto in tutti gli apparati, e massimamente in alcune prospettive per commedie» per le nozze medicee del settembre 1518. Poi,
avendosi a fare recitare dalla Compagnia della Cazzuola in casa di Bernardino di Giordano, al canto di Monteloro, la Mandragola piacevolissima commedia, fecero la prospettiva, che fu bellissima, Andrea del Sarto et Aristotile; e non molto dopo, fece Aristotile un’altra prospettiva in casa Iacopo Fornaciaio, per un’altra commedia del medesimo autore (G. Vasari, Le opere, cit., 4° vol., pp. 436-38).
Al cugino di Bastiano, Battista da Sangallo, spettano postille e disegni marginali di un esemplare dell’editio princeps vitruviana del 1486 con gli schizzi, pertinenti al V libro del De architectura, che alla definizione dei tre generi della scena affiancano tre abbozzi di prospettive, matrici delle incisioni corrispondenti alla tripartizione vitruviana in Serlio.
L’eredità del Peruzzi è duplice: da un lato, c’è l’imposizione della scenografia dipinta e della prospettiva urbana, e il suo perfezionamento scenotecnico; dall’altro, la soluzione architettonica destinata agli usi teatrali dei cortili monumentali. Un esito direttamente legato al cortile di villa Chigi è il sito realizzato da Alvise Cornaro nella sua residenza padovana, dove, con funzionalità provvisoria, si accolgono le recite ruzantiane. Per i contatti e le influenze anche qui soccorre un tracciato biografico. Giovanni Maria Falconetto (1468 ca.-1535) avrebbe maturato a Roma già in un primo soggiorno negli anni Ottanta del Quattrocento l’esperienza archeologica e antiquaria della formazione veronese. Ulteriori soggiorni romani, condivisi con il Cornaro, lo introducono all’ambiente chigiano. L’incontro con il Peruzzi suggerisce al Falconetto l’archeologia immaginaria degli affreschi dello Zodiaco a Mantova (1520) e finalmente la loggia di casa Cornaro, edificata nel 1524, in coincidenza con l’affermazione della drammaturgia ruzantiana a Venezia. La prospettiva dipinta di Padova, evocata nel prologo della rappresentazione ferrarese della Moscheta nel carnevale del 1528 (o 1529), è forse la stessa città universale su cui ironizza il prologo del Negromante ariostesco, ripreso per l’occasione davanti a una prospettiva per cui Cremona «[...] è la medesima / Che fu detta Ferrara, recitandosi / La Lena [...]». L’adozione della prospettiva urbana s’insedia a casa Cornaro con l’apparato che sintetizza la romanità di Padova nella rappresentazione della Vaccaria del Ruzante nel carnevale del 1533. L’importazione in area veneta della scena prospettica coinvolge Serlio e Vasari. Il primo racconta nel trattato del 1545 del t. ligneo provvisorio in cui aveva adottato l’impianto prospettico, realizzato a palazzo Porto-Colleoni a Vicenza nel 1539. Il secondo realizza nel 1542 a Venezia per una compagnia della Calza l’allestimento della Talanta dell’Aretino. In quell’allestimento il Vasari è debitore all’invenzione scenica più articolata del suo maestro Bastiano da Sangallo: l’apparato per la rappresentazione del Commodo di Antonio Landi nel 1539 per le nozze di Cosimo I, nel cortile di palazzo Medici. Qui la libera profondità prospettica, la copertura del soffitto e la cavea a gradoni con pianta allungata anticipano le soluzioni del Vasari nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio e del teatro di Bernardo Buontalenti agli Uffizi. La soluzione ambigua del ripristino con tecniche moderne del t. antico si realizza nel Teatro Olimpico progettato da Andrea Palladio nel 1580 e concluso per l’inaugurazione da Vincenzo Scamozzi nel 1585, con l’insediamento della scena prospettica in rilievo dietro il frons scaenae monumentale opposto alla cavea. Il progetto palladiano è legato all’edizione di Vitruvio di Daniele Barbaro, e la sua portata archeologica è sostenuta dalla committenza degli accademici vicentini. E magnificata dalla portata dello spettacolo tragico, l’Edipo re sofocleo, tradotto da Orsatto Giustiniani, allestito per l’inaugurazione.
Le sale e gli apparati fiorentini del Vasari e del Buontalenti realizzano le condizioni per la perfezione mimetica della scenotecnica, e le funzioni della nuova scena tradiscono o modificano il mandato archeologico. Bisogna comunque capire quanto sia parziale una storia ricostruita come evoluzione degli spazi monumentali, nei decenni in cui è una topografia di spazi neutri e funzionali a consentire l’insediamento delle pratiche di spettacolo oltre la frequenza e i confini degli apparati aulici.
Il policentrismo linguistico e organizzativo, la varietà dei generi e degli assetti introducono una geografia potenziale che si converte nei percorsi delle imprese comiche dalla metà del secolo. L’estensione dei modelli si spiega anche con il permanere di presidi e iniziative stanziali e locali, che sono le accademie dei colti, o le forme associative degli artigiani e degli aristocratici, sostrato reticolare delle strategie dei gruppi di specialisti che assumono iniziative dinamiche e si muovono da centro a centro. Bisogna che si sia determinata l’ampiezza e la costanza di queste configurazioni, perché possano pensarsi un t. quotidiano, o una festa dilatata, premesse delle stanze pubbliche aperte dai decenni successivi a Venezia, a Roma, a Firenze, a Napoli (Ferrone 1993).
Intorno al 1530, nell’eclissi di Roma succeduta alla catastrofe culturale del sacco del 1527, si osservano caratteri e assetti particolari. Le ultime esibizioni di Cherea a Venezia si inseriscono nel quadro delle nuove ambizioni di romanità del doge Andrea Gritti e prolungano la serrata contesa tra committenza aristocratica e accentramento statale. A Padova, la Piovana e la Vaccaria, scritte e rappresentate nel 1532-33, segnano nella cronologia ruzantiana la convergenza conclusiva tra classicismo e territorio. L’assorbimento della tradizione comica si connota a Venezia con la libertà linguistica conquistata dal Ruzante, e produce la «vera istoria» della Veniexiana; e la specifica ibridazione di dialettalità e pluringuismo nelle scene e nei libri di Andrea Calmo e del suo circolo (Vescovo 1996). A Roma nel 1531 Peruzzi allestisce per una rappresentazione delle Bacchides di Plauto, in una festa di nozze Cesarini-Colonna, la sua interpretazione scenica più realistica della città dei contemporanei.
Tra circuito delle feste e flusso delle commedie, un episodio di grande rilevanza è la ripetuta partecipazione di Ruzante alla ripresa del t. ferrarese ispirata dall’Ariosto. I riferimenti del prologo alla scena collocano la recita della Moscheta a Ferrara nel carnevale del 1528 o del 1529; altre due notizie riportano interventi del Beolco a Ferrara nel 1529. Risale al gennaio del 1532 una lettera, presumibilmente autografa, in cui Ruzante scrive a Ercole II di aver penato per raccogliere i recitanti per la commedia, e chiede che la rappresentazione sia differita per quanto possibile, «perché se imparerà meglio. [...] Io non verrò innanzi, per venire in barca insieme con i compagni, ché mi scuserà un provarla. Messer Lodovico Ariosto serà buono per fare acconciar la scena» (Ruzante, Teatro, cit., p. 1253). Le sortite del gruppo di Ruzante e il t. «naturale» di canti e contrasti del contado pavano incontravano l’ennesima stagione ferrarese, interrotta nel dicembre del 1532 dall’incendio del teatro di corte e l’anno successivo dalla morte di Ludovico.
Se la tragedia resta prevalentemente terreno di ricerca e dibattito delle compagini accademiche; e la pastorale e le altre interpretazioni del terzo genere aprono a diverse accezioni, e su diversi livelli, il fronte del t. musicale, la configurazione delle nuove tradizioni locali è il presupposto congeniale al policentrismo e alla duttilità di itinerari e interventi del nuovo professionismo dei comici. L’identità artistica e organizzativa delle compagnie italiane si sviluppò sistematizzando le effimere convergenze dei progetti festivi, elaborando, trasformando e contaminando condizioni di committenza, tecniche e risorse dello spettacolo delle corti. Il t. dei professionisti è dalla metà del Cinquecento realtà quotidiana di organizzazione e commercio dell’intrattenimento. La nozione di «teatro venduto», adottata per fissare uno dei tratti costitutivi del fenomeno (Taviani, Schino 1982), designa un orizzonte di elaborazione dell’identità, il trasferimento delle sintesi della festa di corte nella dimensione del consumo diffuso e nel raggio dello spettacolo nomade, e riassume lo spostamento dalla sfera del mecenatismo all’invenzione di un’economia articolata tra spazi e consuetudini della città. Nella mediazione costante e capillare attuata dai mestieri dello spettacolo, la commedia italiana è apparsa agli studi culturali vecchi e nuovi come la contaminazione più leggibile tra la componente colta e la corrente ‘popolare’ del Rinascimento. La circolazione delle commedie, le interpretazioni locali e le eccezioni linguistiche rendono nello stesso tempo distinte e comunicanti tradizione dei testi e tradizioni del fare scenico. Una condizione che alimenta la vasta cultura letteraria dei comici e la loro autonomia dalla drammaturgia scritta. L’invenzione di spazi e strategie delle compagnie dei professionisti presuppone l’impasto fra tradizioni municipali, sperimentazioni di artefici e umanisti, provocazioni e simboli della festa, fattori caratterizzanti delle scene italiane nei primi decenni del Cinquecento.
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