TEATRO
(gr. ϑέατρον, derivato dal verbo ϑεάομαι "guardo, sono spettatore"; lat. theatrum).
L'edificio del teatro.
Antichità. - Da Erodoto (VI, 21) a Luciano (De salt., 83) la parola teatro ha indicato anzitutto la massa degli spettatori; ma, accanto a questo significato, v'è l'altro, di spazio destinato a sedili di un uso qualsiasi, e infine di area destinata a veri e proprî spettacoli, tralasciando l'estensi0ne della parola a edifizî affini come l'odeon (v.).
Fonti antiche per la conoscenza del teatro greco e romano sono: le rovine conservate, i testi epigrafici (dei quali alcuni, come quelli con i conti dei ἱεροποιοί di Delo, di rilevantissimo valore storico e antiquario), i capitoli 3-8 del libro V del De Architectura di Vitruvio e quelli 13-19 del libro IV dell'Onomasticon di Polluce oltre alle sporadiche testimonianze degli scrittori, per lo più poeti tragici e comici.
Origini. - Il teatro greco è nato nell'orchestra (ὀρχή "danza"), uno spazio attorno al quale per tempo si disposero gli spettatori e gli esecutori dei cori lirici; da Arione di Metimna - considerato il τραγικοῦ τρόπου εὑρετής - in poi, troviamo numerose testimonianze dell'andamento circolare di queste danze usate anche nelle cerimonie funebri. In contrasto con questo schema ionico-eolico, v'è l'altro, quadrangolare, di origine dorico-cretese. I due tipi di cori determinano disposizioni diverse dello spazio attorno all'orchestra, il primo origina la cavea (koilon) circolare, il secondo quella rettangolare che ha i suoi precedenti nell'agorà di Lató, nella cosiddetta tribuna angolare di Gourniá, nell'area teatrale di Festo in Creta, e che è stata poi fusa con quella circolare nel teatro di Torico in Attica del sec. VI a. C., trasformandosi perciò in ellissi. Comunque questo koilon, rettangolare o ellittico è sempre a pianta centrale. Molta incertezza regna sulla scena più antica per la mancanza di avanzi di un edificio scenico del sec. VI a. C. W. Doerpfeld e E. R. Fiechter la ritengono sorta da un altare-sepolcro e formata da un corpo aggettante davanti a cui si recitava, con due ali laterali per spogliatoi; E. Bethe pensa a una baracca per travestimenti; F. Noack adatta per ogni dramma un particolare tipo di scena; A. Frickenhaus immagina un edifizio rettangolare con due corpi aggettanti; H. Bulle infine, riprendendo l'idea dell'altare, crede che questo dal centro dell'orchestra si spostasse verso un'estremità, costituendo uno sfondo con qualche gradino davanti.
Parti del teatro greco. - Esse sono il theatron (ϑέατρον, theatrum), detto anche scientificamente koilon (κοῖλον, cavea; ma sull'uso antico di questo termine esistono forti dubbî), l'orchestra (ὀρχήστρα, orchestra), la scena (σκηνή, scaena). Il hoilon è formato dai sedili destinati agli spettatori ed è diviso verticalmente in kerkides (κερκίδες, cunei) da scalette che s'irradiano dal basso in alto, e orizzontalmente in settori da διαζώματα (praecinctiones), cioè corridoi; i sedili primitivi erano lignei. Quanto alla forma del koilon, le indagini più recenti hanno dimostrato che essa si basa su quella dell'orchestra. Le ali del koilon erano rinforzate da mura, dette ἀναλήμματα, che digradavano secondo gli scalini in modo da non impedire la vista ai lati; al fianco di queste erano scalette di accesso. Il numero delle kerkides varia assai (ad Atene 13, a Sicione 15, a Epidauro 12, a Siracusa 10), e così quello delle file dei sedili che si raccolgono entro un diazoma. I sedili della prima fila, con spalliera e bracciuoli, formavano la cosiddetta proedria, di cui, come in Atene e Oropo, facevan parte o un vero e proprio trono, o, come in Sicione e Megalopoli, dei larghi e comodi banchi, sovente con iscrizioni indicanti il nome dell'autorità religiosa o politica cui erano destinati. Per ragioni statiche, il koilon era generalmente appoggiato a un pendio naturale, tranne rare eccezioni, fra cui i teatri di Mantinea ed Eretria, sostenuti da mura imponenti o da impalcature.
L'orchestra era in origine uno spazio compreso fra quello destinato ai sedili e la scena, corrispondente a poco più di un semicerchio, con le estremità ricurve. Fino alla seconda metà del sec. IV a. C. - cioè fino alla costruzione della scena del teatro di Dioniso in Atene nel 330 a. C. - essa restò in questa forma, con largo canale all'ingiro per le acque, e un basso gradino attorno che delimitava il koilon. Successivamente, le estremità dell'orchestra si rettificano, la proedria si stacca dal resto dei sedili mediante un largo corridoio, e il canale è coperto da lastre marmoree che servono per il passaggio. Solo in Epidauro ed Eniade essa presenta un singolare anello di pietra circolare destinato alle evoluzioni del coro. Il terreno dell'orchestra era battuto, e al centro s'innalzava la ϑυμέλη o altare, di cui qualche traccia resta a Epidauro, Atene, Priene. Nell'orchestra esistevano anche canali sotterranei (Eretria, Segesta, Sicione, Siracusa) destinati, alcuni per scolo delle acque, altri per scopi scenici, altri infine per naumachie (Atene). L'orchestra era accessibile per mezzo di parodoi, cioè entrate laterali (v. parodo).
La parola σκηνή, che nel suo significato originale significa "tenda" indica, per ciò che riguarda il teatro, un edifizio destinato agli attori che vi recitano dinnanzi o sopra, e lo usano anche come deposito di costumi e scenarî. Nel teatro di Atene essa era lignea fino al secolo V a. C., e forse nel 420 a. C. ne fu costruita una in pietra; certo la scena del sec. V, in genere, era formata da un edifizio rettangolare con due vani quadrati sporgenti, e con divisioni interne (teatri di Atene e Siracusa). Con l'età ellenistica la scena, davanti alla quale molto probabilmente si recitava prima (sia pure su di una piccola elevazione che si rendeva necessaria per la separazione fra coro e attori), si trasforma, e assume sei aspetti differenti che H. Bulle ha così riassunti:
I. Scena del tipo segestano (sec. IV-III a. C.) con primo corpo di m. 3, su cui si eleva un piano intermedio di ordine dorico, e un piano superiore ionico terminante a frontone (Segesta, Tindari, Siracusa?, Pompei I). II. Scena con parascenî; a 2 piani, con parascenî chiusi (Nuova Pleurone, Tera I, Babilonia I). III. Scena di tipo misto: a 3 piani con frontone per theologeion e, parascenî arretrati e separati dal centro della scena (Epidauro). IV. Scena a parete schiacciata: a 2 piani e senza parascenî (Eretria II, Sicione, Elide, Mantinea, Orcomeno d'Arcadia, Delo, Priene I, Asso, Efeso). V. Scena a thyromata (II-I sec. a. C.): a 2 piani con aperture larghissime nel piano superiore, 305 per lo più (Oropo, Efeso II, Eniade II, Acre?, Priene II, Asso II). VI. Scena con colonnato (II-I sec. a. C.); parete della scena a 5 aperture, di cui le estreme un po' sporgenti sulle centrali (Magnesia sul Meandro, Taso, Pireo).
Il proscenio (προσκήνιον, proscaenium), menzionato nelle iscrizioni dei teatri di Oropo e Delo (Inscr. Gr., XI, 2, 158, A, 67), e già usato come vocabolo da Antifane (Athen., XIII, 587 b), quando non sta a indicare genericamente l'edifizio scenico come a Patara, è considerato generalmente un corpo avanzato di costruzione posto davanti al piano inferiore della scena in periodo ellenistico, con semicolonne sulla fronte (Delo, Priene), colonne a tutto tondo (Megalopoli, Eretria III), ovvero colonnati liberi (Atene, Pireo, Magnesia sul Meandro), e pilastri (Mantinea, Orcomeno, Segesta II, Siracusa II). Gli spazî fra le semicolonne erano chiusi da tavole dipinte (πίνακες), mentre nei proscenî con colonne a tutto tondo gl'intercolunnî erano liberi, salvo tre porte. Si è supposto che il proscenio avesse un precedente nel cosiddetto logeion ligneo con parete anteriore chiusa; questo si può documentare a Segesta, Tindari, e a Siracusa. È questo tipo di logeion che ha determinato il sorgere del proscenio per le mutate esigenze del dramma e della commedia. L'iposcenio (ὑποσκήνιον) non è altro che la parte inferiore e interna dell'edifizio scenico sita al disotto del logeion. I parascenî (παρασκήνια) detti da Vitruvio versurae procurrentes, sono delle costruzioni laterali della scena che, mentre nel secolo V-IV a. C. sporgono assai sulla scena, vengono poi a mano a mano riducendosi di proporzioni (v. es. tipico nei teatri d'Atene e Siracusa).
Sulla pianta del teatro in generale, si è osservato che, contrariamente a quanto dice Vitruvio (V, 7), molti teatri (Nuova Pleurone, Sicione, Atene, Siracusa, Oropo) non corrisponderebbero alle rigide regole enunciate, in quanto la fronte della scena sarebbe arretrata rispetto alla circonferenza perfetta formata dall'orchestra, e non tangente ad essa come prescrive Vitruvio. Solo Priene corrisponderebbe a questa regola esattamente. A ogni modo si è potuto stabilire, in base a recenti e profonde osservazioni, che la distanza fra il proscenio e la cavea è sempre costante nel teatro greco, e il raggio della circonferenza dell'orchestra è il canone di tutto il sistema metrico del teatro.
I teatri greci conservati. - Il teatro più antico sopravissuto, con koilon a pianta ellissoidale, è quello di Torico in Attica, che si riporta a un tipo di tribuna ad angolo retto di origine cretese, fuso con la pianta circolare del coro ciclico. E di poco posteriore dev'essere il teatro di Atene. Il koilon è formato da 14 serie di sedili nella metà inferiore; 78 sarebbero stati in tutto, ma ora molti sono distrutti. L'orchestra del sec. V a. C. (di un'orchestra del VI dopo le recentissime indagini del Fiechter non è più il caso di parlare, ma si devono riconoscere in alcune fondazioni di breccia già identificate dal Doerpfeld dei muri di sostegno d'un'antica scena) comprendeva poco più di un semicerchio, ed era più alta e arretrata rispetto alla collina dell'attuale. A quest'orchestra corrispondeva la scena più antica lignea, le cui fondazioni furono trasformate nella στοά posteriore oggi conservata, con una grande porta al centro. Successivamente, l'orchestra e la scena si spostarono, e venne così costituita una scena in breccia con parascenî sporgenti. Su questa s'imposta ora una fondazione in calcare che sostiene la scena marmorea del sec. IV 330 a. C. circa) elevata sotto l'amministrazione di Licurgo. L'edifizio scenico marmoreo mantiene la stessa pianta di quello in breccia. Del koilon originario poco sappiamo: esso doveva in ogni modo avere una proedria formata di banchi nella fila inferiore dei sedili, di cui si sono trovati avanzi nel canale di scarico antichissimo che è all'interno della scena, e che ha un diverso orientamento rispetto all'orchestra attuale. Nel sec. IV a. C. il koilon fu trasformato, le sue ali rettificate, la proedria allontanata dai sedili mediante un largo passaggio; ma i troni oggi conservati sono del sec. I a. C., con numerose iscrizioni dei magistrati e sacerdoti che li occupavano, mentre il trono centrale del sacerdote di Dioniso è una bella opera neoattica con bassorilievi rappresentanti grifi alati e scene di vendemmia. In età ellenistica (sec. II a. C.) si costruì un proscenio in pietra ornato di 14 colonne con tre porte, e vennero assai rimpiccoliti i parasceni, aperti, che assunsero così il caratteristico aspetto dell'epoca.
In Attica ancora vanno ricordati i teatri di Ramnunte (uno spazio in pendio delimitato da una fila di sedili), di Icaria, di Torico II (ampliamento della cavea ed altare) del sec. IV a. C., del Pireo del sec. II a. C. e del sec. V a. C. (non conservato). Di altri teatri attici, a Eleusi, Acarne, Aissone, Salamina, nulla sappiamo. In Macedonia il teatro di Filippi della metà del sec. IV a. C. conserva l'analemma e parte delle parodoi che poi in età romana furono coperte come a Priene. A Larissa, Demetriade, Tebe Ftiotide, in Tessaglia, sono insignificanti avanzi; a Dodona in Epiro circa 52 file di sedili di un teatro grandioso con analemma imponente, ma senza resti della scena, del sec. IV-III a. C.; a Butrinto nell'Epiro settentrionale (Albania) è un grazioso teatro di 13 ordini di gradini, di età greca, con scena rifatta in periodo romano; a Strato in Acarnania è stato solo identificato il sito del teatro; a Nuova Pleurone in Etolia è un piccolo teatro del sec. III a. C., con scena appoggiata alle mura della città e torre al centro di essa; ad Eniade un teatro scavato per metà nella roccia del sec. IV a. C., poi riadattato nel III a. C. A Delfi è un grandioso teatro con scena a parascenî poco sporgenti del sec. III a. C., ricostruita nel 160 a. C. Dei tre teatri beotici, Tespie (sec. IV a. C., orchestra con cavea senza gradini), Cheronea (sec. III; solo cavea nella roccia) e Oropo, l'ultimo è il più importante e appartiene al sec. IV-III a. C. A Sicione nell'Acaia è pure un teatro dalla cavea interessante per la sua proedria ben conservata a lunghi banchi, la scena a grande vano diviso in più parti, proscenio ionico e parascenî larghi e poco aggettanti del sec. IV a. C.; in età romana il proscenio divenne marmoreo. A Egina, Orcomeno di Arcadia (sec. III a. C., tracce di scena lignea del tipo siceliota), Elide (III sec. a. C.), Micene, non resta gran cosa. Epidauro conserva mirabilmente il koilon d'un teatro grandioso di ben 55 file di sedili diviso in 22 settori; due porte, di cui l'occidentale ben conservata e grandiosa nella sua estrema semplicità, immettono nelle parodoi, ai lati delle quali sono delle rampe per il piano superiore della scena; parascenî assai schiacciati, proscenio aperto in centro e con 12 semicolonne applicate sulla fronte, orchestra con anello di pietra per l'evoluzione dei cori. Costruito da Policleto il Giovane, il teatro d'Epidauro è uno degli edifizî meglio conservati del mondo antico. A Megalopoli è un teatro caratteristico; a lato della scena s'è rinvenuta la σκηνοϑήκη, cioè il deposito per attrezzi e per una scena lignea. Il teatro, costruito nella prima metà del sec. IV a. C., ebbe importanza alla metà del sec. III a. C. col sorgere del proscenio. A Mantinea, resta un proscenio con 16 pilastri lignei, a Tegea solo parte del koilon. I più notevoli teatri delle isole dell'Egeo sono quelli di Delo, Tera, Rodi, Eretria di Eubea.
In Asia Minore i teatri, tutti sviluppati in piena età ellenistica, richiamano in modo evidente la scena di Delo. A Priene, abbiamo un grazioso edifizio con banchi di proedria interrotti più tardi da 5 troni e da un altare, un'orchestra a pianta ellittica, una scena divisa in tre vani e con tre aperture in basso e un portico sulla fronte; al piano superiore, mentre in un primo tempo esisteva una sola larga apertura (300 a. C.), poi ne vennero aggiunte altre due costituendo così una scena a thyromata; due porte obliquamente disposte davano accesso alle parodoi. Il teatro di Efeso, costruito nel sec. III a. C., presenta una scena con portico posteriore; nella metà del sec. II a. C., la scena venne ridotta a grandi aperture per thyromata e fu stabilito un proscenio marmoreo. Lo stesso principio del teatro di Priene si riscontra in quello di Asso. A Pergamo, koilon ripido di 80 gradini, con caratteristica scena a pilastri lignei asportabili, del sec. II a. C., su due file, sostituiti, alla fine del secolo, con pilastri marmorei. Ben poco resta del teatrino di Aschaga-Beiköi. A Magnesia sul Meandro il teatro sarebbe del principio del sec. IV a. C., con scena divisa in 5 vani, corridoio sui fianchi, e sulla fronte tre porte al piano superiore, che corrisponderebbero alle valvae regiae e hospitalis di Vitruvio. Una ricostruzione in marmo è documentata nel sec. II a. C.
In Sicilia le testimonianze letterarie fanno porre il teatro di Siracusa nel sec. V a. C. Damocopo ne sarebbe stato l'architetto; vi si rappresentarono le Etnee e i Persiani di Eschilo nel 476 a. C. La prima scena con parascenî molto sporgenti, e canale profondo destinato al sipario, sarebbe dell'età di Gerone I. All'età di Gerone II appartiene un rimaneggiamento della scena. Fu in questo periodo che le varie kerkides vennero designate con nomi della famiglia di Gerone II e di divinità, forse per facilitare l'accesso degli spettatori forniti di tessere. Fra questi due periodi si è anche creduto di frapporre il proscenio ligneo, che è davanti al sipario e che si riporta alle necessità locali di rappresentazioni di commedie e farse popolari. Il teatro di Segesta ha una scena a vano rettangolare fra 2 parascenî assai sporgenti a pareti oblique nel piano superiore, un proscenio ligneo che secondo alcuni è addirittura romano, secondo altri (ed è opinione più attendibile) ellenistico; la scena è del sec. III a. C. secondo l'opinione corrente, ma esistono forti dubbî in merito. Certo si tratta d'un tipo singolare con parascenî aperti a logge, intermedio fra il classico e l'ellenistico. Il teatro di Tindari ha un'orchestra trasformata in periodo romano in konistra; dello stesso secolo (III a. C.) sarebbe la scena. Il teatro di Acre è pure del sec. III con proscenio a 11 semicolonne; quelli di Taormina (sec. III a. C.) e Catania mostrano ancora ben poco della loro struttura originale.
Il teatro grande di Pompei indica il passaggio dalla scena greca a quella romana, ma è ancora spiccatamente ellenico nel suo primo periodo, caratterizzato da parascenî obliqui, come a Segesta, e con la cavea a ferro di cavallo; fra i parascenî doveva esistere un proscenio assai alto, ligneo, per le rappresentazioni di commedie, e tre porte nel piano superiore. È del 200 a. C. circa; ma fu poi trasformato.
La questione della scena greca. - Fondandosi sulle testimonianze di Vitruvio (V, 7, 2) e Polluce (IV, 123) i dotti hanno creduto per lungo tempo che sulla scena si recitasse e nell'orchestra compiesse le sue evoluzioni il coro. E a questa opinione hanno dato particolare risalto anche le numerose testimonianze letterarie (Aristoph., Pax, 564, 175; Vesp., 1514; Eccl., 1152; Eq., 148; Lysistr., 864-84; Eschilo, Suppl., 713, ecc.), alle quali si possono contrapporre però altre che dimostrano la stretta relazione fra coro e attori (Soph., Aiax, 1182; Oedip. Col., 856; Eurip., Jon, 510; Med., 135; Hel., 1627; Aristoph., Eccl., 1114; Acharn., 325, 563; ecc.). Onde aveva buon giuoco il Doerpfeld nel dimostrare, sorretto dal silenzio dei monumenti del sec. V a. C., che in questo secolo gli attori recitavano davanti alla scena alla pari col coro. Lungo sarebbe qui riassumere la discussione che ormai in molti punti è superata, e che ha diviso nettamente gli studiosi in due campi, l'uno che fa capo al Doerpfeld, l'altro, oggi più numeroso, che fa capo a A. Frickenhaus, E. R. Fiechter, O. Navarre, C. Fensterbusch, H. Bulle, che ritengono che la scena avesse notevoli mutamentî dal sec. V a. C. in poi, quando, cessata la funzione del coro, la tragedia e la commedia vennero perdendo questa parte integrante, e il coro si atrofizzò, la scena si elevò fino a m. 4 circa con una profondità di proscenio di m. 4,50, ridotta poi nel sec. III-II a. C., a 2,50-3 metri. A ogni modo, è opinione generale che nei teatri del I tipo sopra distinto, si recitasse su di un logeion ligneo poco elevato con una parete architettonica di sfondo in alcuni casi, ovvero davanti a pinakes lignei fra colonne. Nel II-III-IV tipo, mentre alcuni (Doerpfeld) credono che si sia recitato davanti a pinakes del proscenio e che questo sia servito come sfondo, altri (Bulle) pensano che si recitasse sul piano della scena decorato nello sfondo di pannelli dipinti. Nel V tipo ci sono 3 o 5 aperture nel piano superiore, destinate a thyromata, cioè decorati, secondo il Fiechter e il Bulle, da prospetti di città o costruzioni ammassate, e da periacti ai lati. Al centro erano dunque le tre porte, la hospitalis e le regiae, e ai lati i periacti girevoli. Occorre notare che talvolta (Magnesia) le aperture erano sette. Nel IV tipo era un colonnato come sfondo, e periacti ai lati. Pergamo, Megalopoli e Sparta hanno conservato scene lignee in età ellenistica, cosa rarissima.
Concludendo, si può accettare ancor oggi la partizione generale di O. Puchstein:1. tipo occidentale, a parascenî (Atene, Tera, Pireo, Nuova Pleurone, Pompei, Segesta); 2. tipo a rampe (Epidauro, Elide, Sicione, Eretria II) o continentale; 3. tipo orientale (Delo, Priene, Asso) senza corpi sporgenti e con proscenio tutto attorno alla scena. Nell'evoluzione di questi tipi, e soprattutto nell'innalzarsi della scena del V sec. successivamente nel sec. IV-III a. C., è entrato però un fattore nuovo, sinora non sufficientemente rilevato: quello della scena italica, che si continua in quella fliacica rappresentata dai vasi dell'Italia meridionale. I quali non soltanto ci dànno elementi sicuri per ricostruire queste provvisorie scene in tre tipi (palco rozzo senza scale né sfondo; palco con scala e porta nel fondo: scena alta senza scala e colonne corinzie), ma anche ci indicano la scena a parascenî del tipo segestano; va segnalata ancora una oinocoe attica con scena alta e scala, che indica, per la prima volta in Grecia, che il mutamento della scena nel sec. IV a. C. è frutto del teatro italiota dove quest'esigenza è rispettata sino dagl'inizî.
Origini del teatro romano. - Ben poco sappiamo del teatro romano fino al sec. I a. C. Di tentativi precedenti, nel 179, nel 174, nel 154 a. C., non sappiamo nulla in particolare; ed è solo col 55 a. C., quando Pompeo costruì in Roma un teatro simile a quello di Mitilene da lui ammirato, che si ha notizia d'un edificio stabile. Da numerose testimonianze deduciamo che prima del 154 a. C. era abitudine dei magistrati preposti agli spettacoli porre dei banchi dinnanzi alla scena, che poi furon proibiti per alcuni anni obbligando così gli spettatori a stare in piedi. Questi sedili erano forse paralleli alla scena; poi venne in uso il teatro con cavea a semicerchio, a cui nell'80 a. C. Catulo aveva dato l'ombra con velarî. Intorno alla scena di questo teatro ligneo possiamo solo dedurre alcune notizie dalle commedie di Plauto e Terenzio, essendo ormai riconosciute insufficienti sia le illustrazioni dei codici terenziani sia la pitture pompeiane dei primi tre stili. La scena constava d'uno sfondo con tre porte e con un fanum; l'azione si svolge ante aedes, nel vestibulum sorretto da colonne ai lati della porta; e la decorazione dipinta era notevole sin dal 99 a. C. quando Cl. Pulcro la curò particolarmente. Quanto ai meccanismi di questo teatro primitivo, si ricordano solo i Claudiana tonitrua (Fest., 57, 10 M) per dar l'idea del tuono. Qual'è l'origine della scena romana? Scartata ormai l'idea del Doerpfeld che il teatro romano derivi dal greco, non restano che le ipotesi che valorizzano gli elementi locali. Il Fiechter pensa a un teatro latino chiuso, quadrato, di cui si avrebbe traccia in Pompei II; il Bethe ricorda il fiorire della farsa fliacica nell'Italia meridionale, passata poi nell'atellana, che avrebbe determinato l'innalzarsi del pulpitum romano. E a questa ipotesi che va dato oggi un giusto valore, poiché quella di un palco elevato è una esigenza locale viva e comune a tutti i popoli italici, a causa dello sviluppo notevole assunto dalla farsa popolare.
Parti del teatro romano. - La cavea, divenuta un esatto semicerchio, e costruita su archi e vòlte, è legata alla scena mediante delle logge e delle vòlte dette confornicationes o vomitoria che coprono le antiche parodoi. Davanti alla scena, decorata riccamente di vari ordini di colonne, è un pulpitum (logeion) alto 5 piedi, e cioè piu basso del proscenio ellenistico. La scena ha tre aperture sulla fronte e due sui lati, e presenta una ricca decorazione a colonne, di parecchi piani, oltre a varie nicchie. I sedili di onore, posti sovente sulle arcate fra l'orchestra e la scena, son detti tribunalia. La scena, fra le colonne, era decorata variamente; davanti a queste colonne erano scene mobili, e macchine per spingere e far scomparire monti, foreste, case, ecc. Il sipario era abbassato durante lo spettacolo in un apposito canale, e alzato alla fine. Altri siparî minori (siparia, vela) erano frapposti negl'intervalli tra un mutamento scenico e l'altro; dei vela decorati erano stesi sulla cavea per riparare dal sole gli spettatori.
I teatri romani conservati. - Il teatro stabile di Roma più antico fu quello di Pompeo, cui seguirono nel 13 a. C. quello di Balbo, di cui si ignorano i particolari struttivi, quello di Marcello iniziato nell'11 a. C., e poi un teatro di Traiano di cui nulla sappiamo di preciso, al pari di un ipotetico theatrum Antoninii. Il teatro di Pompeo fu costruito circa il 55 a. C., a imitazione di quello di Mitilene: tale imitazione si deve intendere relativamente alla decorazione della scena con colonne, e non alla forma del teatro, essendo quello di Mitilene ellenistico (e quindi l'orchestra era più di un semicerchio) e quello romano comprendendo invece mezza circonferenza. Nel Lazio notiamo ancora i teatri di Ostia e di Tuscolo; il primo di età augustea, con vasta cavea oggi molto restaurata e scena decorata di nicchie rettangolari e curvilinee; il secondo è soltanto in parte scavato e noto per il rinvenimento d'alcuni pezzi architettonici. Quello di Napoli, fors'anche di età augustea o tiberiana, presenta la stessa scena con nicchie rettangolarie curvilinee, e con tre stili diversi all'esterno; del sec. I d. C. è il teatro d'Ercolano con orchestra a semicerchio perfetto, scena a nicchia centrale, canale per sipario nell'iposcenio, e costruito parte sulla roccia e parte in muratura. Sorto ai tempi dell'indipendenza osca e poi romanizzato sotto Augusto, è il grande teatro di Pompei con la parte inferiore della cavea formata da gradini continui recanti i sedili d'onore (bisellia): l'orchestra comprendeva un semicerchio; il pulpito era alto m. 1 circa con nicchie per statue nel proscenio e canale per sipario e scale di comunicazione con l'orchestra. Altri teatri erano a Nemi, Falerî, Minturno, Posillipo, Pozzuoli, Bacoli, Miseno, Sorrento, Suessula, Nola, Capua, Benevento, Gioiosa Jonica, Lecce, Catania (con cavea appoggiata alla collina, ma sorretta anche da corridoi a vòlta), Taormina (ricostruito in periodo romano, con colonne davanti alla scena, poi usato come arena e per naumachie; il piccolo teatro era forse un odeon); nell'Italia centrale e settentrionale sono Aosta (chiuso fra mura parallele, ridotto a un semicerchio), Libarna (con scena a parete diritta con colonne), Torino, Verona, Milano, Gubbio, Fiesole, Ferento, Teramo, Spoleto. In Francia i più noti sono quelli di Arles e Orange, il primo di età augustea, il secondo pure del sec. I. A Fourvières e a Lione (grandioso teatro di m. 105,50 di diametro, orchestra con pavimentazione policroma, pulpitum e muro di fondo, del sec. II d. C.) altri edifizî importanti. Nella Spagna si ricordano i teatri di Mérida e di Sagunto. Venendo al bacino dell'Egeo e all'Asia Minore, notiamo in Epiro il teatro grandioso di Nicopoli, di età augustea; a Corinto un interessante teatro con alto muro che separa l'orchestra dalla cavea, decorato di pitture con scene gladiatorie; non se ne conosce ancora bene la scena. In Asia Minore un tipo di teatro speciale si afferma in epoca romana, distinto dagli altri per la sola esistenza della columnatio davanti alla parete della scena, che è continua e diritta, e per la maggiore altezza di questa lateralmente chiusa da parascenî semplici. A Termesso in Pisidia è un grandioso teatro di m. 66 di diametro al cui sommo è un portico coperto, con orchestra di più di un semicerchio e scena a 5 porte. È forse del sec. I a. C. Dello stesso secolo, ma ricostruiti poi in età antoniniana, sono i teatri di Patara, Mira, Sagalasso, Iasso; del tempo di Marco Aurelio è il teatro perfettamente conservato di Aspendo. In Arabia, Bostra mostra una fronte della scena a tre nicchie e decorazione forse a tre piani, Es-Suhba una scena a tre porte fra nicchie curvilinee, Gerasa una scena a tre porte fiancheggiate da colonne come a Termesso; sono forse tutti del sec. III d. C. I teatri africani mostrano affinità coi teatri del tipo occidentale: Gemila, Dugga e Khamissa hanno press'a poco lo stesso tipo di scena a tre nicchie con tre aperture circondate da pilastri e colonne, mentre dietro manca il vano per ripostiglio, che invece è situato negli stretti parascenî; altri teatri a Timgad, Philippeville, Guelma, Cirene, Apollonia, Tolemaide, Sabratha e Leptis Magna. Tutti questi teatri stanno tra il periodo degli Antonini e dei Severi; la scena di Sabratha, fra due grandi parascenî, mostra la stessa divisione in tre nicchie delle precedenti, con una columnatio forse triplice e un pulpito decorato di rilievi marmorei del più alto interesse per la storia della scultura romana (giudizio di Paride, una scena tragica e una di mimo, altre di sacrifizio e libazione, altre politiche riferentisi al patto fra Roma e Sabratha, le Muse, ecc.).
La rarità dei teatri originariamente romani in Grecia è compensata dalle trasformazioni che quasi tutti gli edifizî greci hanno subito in età romana, consistenti nell'abbassamento del piano dell'orchestra fra i sedili e il pulpito, nel costruire il pulpito nuovo e cingere l'orchestra con un'alta transenna, oppure abolendo le scalette inferiori della cavea; a volte, come a Siracusa, le estremità del koilon sono tagliate, e si modificano i seggi della cavea. La più tipica trasformazione si verifica nel teatro di Dioniso in Atene, con proedria marmorea di età augustea assai bene conservata che sostituisce quella più antica, e trono centrale del sacerdote di Dioniso, e con un bema o pulpito romano che si avanza sulla scena ellenistica e taglia l'orchestra; la fronte del pulpito ha interessanti rilievi della seconda metà del sec. II d. C., con scene celebranti il culto di Dioniso. Trasformazioni notevoli subiscono anche i teatri ellenistici di Priene e Pergamo. Sulla base degli esempî conservati si possono distinguere tre tipi di teatro romano: un tipo con scena a parete rettilinea (teatri di Marcello a Roma, Efeso, Termesso, Sagalasso, ecc.), a nicchia centrale e pareti rettilinee ai lati (Arles, Orange, Ercolano, Pompei, Gemila, ecc.), a tre nicchie (Siracusa, Sabratha, Bostra, ecc.). Trasformazione e forse ricostruzione totale presenta il piccolo teatro di Coo.
Il teatro antico di Vitruvio. - Pur avendo i teatri greci un'identità generica di schema nella forma a ferro di cavallo e nelle parodoi, è stato notato che la regola vitruviana (V, 7) sul modo di costruire un teatro greco è tutt'altro che praticata nel mondo antico, e non è vero che sempre il quarto lato del quadrato iscritto nel cerchio sia la finitio proscenii per il teatro greco, perché spesso esiste un intervallo fra la scena e l'orchestra. A mano a mano che ci avviciniamo all'età ellenistica, la scena avanza e si salda maggiormente col koilon e con l'orchestra; è questa la ragione per cui si crede oggi che Vitruvio abbia tenuto presente nella sua regola i teatri asiatici, dove già in età ellenistica questo avvicinamento è avvertito. Con l'iscrizione di 4 triangoli equilateri in un cerchio, di cui si prende il lato più vicino alla scena per fronte, si ha lo schema del teatro romano. La cavea si salda con l'orchestra e la linea del pulpito costituisce quasi il diametro di questa scena lunghissima. Più rispondente ai monumenti è dunque questa descrizione della scena romana.
Ma donde deriva il teatro romano? Chi ha detto dall'ellenistico totalmente, come W. Doerpfeld, si trova poi imbarazzato a spiegare la parete della scena con la ricca columnatio: e chi lo crede esclusivamente indigeno difficilmente può capire la nascita dell'orchestra. È indiscutibile dunque che abbiano agito elementi greci sulla formazione dell'orchestra, come il già sviluppato colonnato del teatro ellenistico può aver dato l'idea al romano; ma dobbiamo riconoscere nella parete della scena romana l'influsso dell'imitazione di edifizî grandiosi pubblici e privati, e nel largo e lungo pulpito romano l'opera indipendente del genere comico italico, che si sviluppa su di un palcoscenico elevato. Originalità di sviluppo architettonico, dunque, che corrisponde esattamente all'originalità del teatro latino nei mimo e nella commedia d'arte. La grandiosità del teatro romano nella scena, dovuta anche all'uso non esclusivamente drammatico dell'edifizio, che fu arena per giuochi, lotte, naumachie, è l'espressione geniale d'un motivo architettonico nuovo, liberamente elaborato e assurto a potenza monumentale, ben più di quel che non avesse fatto il teatro greco.
Bibl.: O. Navarre, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des Antiquités, s. v. Theatrum; A. Frickenhaus, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IIIA, col. 470 segg., s. v. Skene; C. Fensterbusch, ibid., V. A, col. 1384 segg., s. v. Theatron; F. Wieseler, Theatergebäude, Berlino 1857; I. Höpken, De theatro attico saec. a. C. quinti, Bonn 1884; A. Müller, Lehrbuch der griech. Bühnenalterthümer, Friburgo 1886; id., in Philologus, Supplem. 1891-1893, p. 3 segg.; C. Lanckoronski, Städte Pamphyliens u. Pisidiens, Vienna 1890; G. Oehmichen, Bühnenwesen, Monaco 1890; W. Christ, in Sitzungsberichte München. Akad., 1894, p. i segg.; W. Doerpfeld-E. Reisch, Da griech. Theater, Atene 1896; E. Bethe, Prolegomena zur Gesch. des Theat. im Altert., Lipsia 1896; O. Puchstein, Die griech. Bühne, Berlino 1901; A. Streit, Das Theater, Vienna 1903; J. Durm, Baukunst der Griech. und Römer, Stoccarda-Lipsia 1905 e 1910; Haigh, The Attic theatre, Oxford 1907; C. Fensterbusch, Die Bühne des Aristophanes, 1912; E. Fiechter, Die baubesch. Entw. des ant. Theaters, Monaco 1914; F. Noack, Σκηνὴ τραγική, Tubinga 1915; A. Frickenhaus, Die altgr. Bühne, Strasburgo 1917; I. T. Allen, The Greek theatre of the Vth before Chr., California 1919; M. Bieber, Die Denkmäler zum Theaterwesen im Altertum, Berlino 1920; A. v. Gerkan, Das Theater v. Priene, Monaco 1921; G. E. Rizzo, Il teatro greco di Siracusa, Milano 1923; O. Navarre, Le théâtre grec, Parigi 1925; Flickinger, The Greek theatre and its drama, 3a ed., Chicago 1926; H. Bulle, Untersuchungen an griech. Theatern, Monaco 1928; E. Fiechter, (Ant. griech. Theaterbauten) Die Theater von Oropos (1930), Oiniadai u. Neu Pleuron, Sikyon, Megalopolis (1931), Stoccarda; G. Libertini, Il teatro antico e la sua evoluzione, Catania 1933; P. E. Arias, Il teatro greco fuori di Atene, Firenze 1934; H. Bulle, Eine Skenographie (94. Winckelmanns-progr.), Berlino 1934; E. Fiechter, Das Dionysostheater in Athen, Stoccarda 1935 (voll. 3).
Le rappresentazioni odierne nei teatri classici. - Sul cadere del mondo classico i teatri dai quali oramai da lungo tempo è esclusa la rappresentazione della tragedia, rifugiatasi, da tempo, nelle scuole, servono unicamente a commedie, spettacoli di pantomime, esibizioni di mimi e saltimbanchi, giuochi da circo. Contro di questi la Chiesa cristiana ottiene inibizione e Agostino vittoriosamente proclama per omnes civitates cadunt theatra. Né quando il teatro latino e poi quello greco risorgono con l'umanesimo, i vecchi edìfizî sopravviventi ancora per la loro salda struttura in tante città del mondo antico, riprendono la loro antica funzione: ché anzi attraverso la costruzione del Teatro Olimpico di Vicenza, che il Palladio con lo Scamozzi erige per l'Edipo Re tradotto dal Giustiniani (1585), la resurrezione del dramma greco coincide proprio con l'inizio della clausura dello spettacolo in quel nuovo tipo di edifizio che è il moderno teatro coperto.
La ripresa di spettacoli nei teatri - e anche anfiteatri - antichi s'inizia nel sec. XVIII in Italia. Una grande opera non sembra sia stata tentata però prima del 1874 quando nel teatro di Orange la Norma è data con grande pompa; nel 1888, nello stesso teatro romano riappare l'Edipo Re di Sofocle, interpretato dal Mounet-Sully, cui seguono ben presto tragedie antiche e lavori di carattere classico, negli antichi teatri di Arles, Camplieu, Cartagine, nell'Arena di Nimes.
In Italia una rinascita del teatro all'aperto, già vagheggiata da D'Annunzio nel 1898, si ha nel 1902 per iniziativa di Angiolo Orvieto e Augusto Franchetti, con l'Edipo Re, rappresentato nel teatro romano di Fiesole. Con questo spettacolo può dirsi che le rappresentazioni classiche nei teatri antichi trovarono un clima di singolare perfezione in Italia. Riprese due anni dopo a Fiesole con Le Baccanti di Euripide, tradotte da Ettore Romagnoli, esse passarono nel 1914, con l'Agamennone di Eschilo nel grandioso teatro di Siracusa ad opera dello stesso Romagnoli e di un comitato locale presieduto dal conte M. T. Gargallo, che le hanno continuate periodicamente dal 1921. Creato nel 1925 l'Istituto nazionale del dramma antico, è ora questa istituzione che promuove gli spettacoli siracusani, e attraverso il suo riordinamento del 1929 estende la sua iniziativa e coordina gli spettacoli classici all'aperto in tutta Italia (Paestum, Taormina, Agrigento, Pompei, Ostia, ecc.) mentre promuove nel bollettino Dioniso, gli studî sul teatro antico. Anche in Grecia (Atene, Delfi) da qualche anno si sono avute recite di dramma greco nel testo originale.
Le triennali rievocazioni del teatro greco a Siracusa, ormai di fama mondiale, presentano i capolavori del teatro ellenico con interpretazione che muove nei suoi elementi dallo spirito antico, ma non è fredda restituzione scientifica di elementi antichi. (V. cambellotti, VIII, tav. XCV; scenografia, XXXI, tav. V).
Bibl.: Sulle recite si veda: B. Pace, Nuova Antologia, 1° maggio 1933, e la rivista Dioniso, Bollett. dell'Ist. nazionale del dramma antico, Siracusa.
Medioevo ed età moderna. - L'edificio teatro, dopo gli esempî grandiosi dell'antichità classica, segue nel Medioevo in modo più rapido di ogni altro edificio la vicenda comune di decadenza generale dell'architettura e delle arti. Mentre in questo periodo alcuni tipi di edifici si sottraggono a questa decadenza, si sviluppano e si affermano in una fioritura meravigliosa, che ci dà opere monumentali e di altissimo valore d'arte, come la cattedrale e il castello, per altri invece si assiste al completo decadimento e quasi alla loro totale scomparsa dalla vita architettonica come, ad es., il teatro, gli edifici per spettacoli, le terme, ecc. La Chiesa nella sua grande opera tende, naturalmente, a moralizzare il teatro e mentre la produzione teatrale si trasforma in modo profondo, il teatro, inteso come edificio stabile, scompare. Gli spettacoli si svolgono all'aperto e sono i misteri e le rappresentazioni sacre, fatti da confraternite talvolta ambulanti, spettacoli ai quali il popolo partecipa e s'immedesima. Bastano, alle modeste esigenze dello spettacolo, la piazza della cattedrale, un prato o tutto al più un qualsiasi locale un po' vasto, di volta in volta adattati quando è necessario, con palcoscenico provvisorio e con scene fisse allineate e che mostrano simultaneamente agli spettatori, tutti gli ambienti necessarî allo sviluppo e al susseguirsi delle vicende (fig.1).
È logico che con questa organizzazione rudimentale e di fronte a esigenze così modeste, il teatro, inteso come edificio stabile, non abbia più ragione di esistere. È soltanto nel Rinascimento, quando col rifiorire degli studî classici la produzione teatrale si trasforma e dimostra nuove esigenze, che gli architetti vengono chiamati a soddisfarle. Nel clima politico e sociale nel quale si sviluppa questo meraviglioso rivolgimento, tutto inteso a risuscitare l'antica grandezza, è logico che anche gli architetti rivolgano, per la soluzione dei nuovi temi ad essi proposti, la loro attenzione agli edifici dell'antichità classica e li prendano a modello dei nuovi. Però, come è avvenuto per tutti gli altri tipi di edifici, essi, in buona fede, nell'intento di risuscitare le forme classiche dell'antico teatro dànno luogo invece a soluzioni e forme del tutto nuove.
Era un nuovo tema che a essi si presentava e che non poteva avere se non svolgimento ed espressione nuova.
E difatti, mentre nella forma planimetrica sembra che in parte risorga il teatro antico, l'organismo architettonico risulta affatto trasformato da alcune varianti apportate allo schema classico, quali la copertura dell'ambiente riservato agli spettatori e, ciò che è ancora più importante, la separazione di tale spazio dal palcoscenico, di modo che gli spettatori non sono più direttamente partecipi dello spettacolo. In apparenza queste modifiche possono sembrare insignificanti, ma da esse deriverà invece, come si è detto, un organismo architettonico completamente diverso. Infatti, non abbiamo più l'architettura spaziale del teatro antico, con migliaia di spettatori comunicanti con la scena, riuniti all'aria aperta, sotto l'immensa vòlta del cielo, in luoghi dove alla suggestione dello spettacolo simbolico si aggiungeva quella più alta dell'affascinante bellezza di un paesaggio o di un panorama grandioso; ma sale ben chiuse, relativamente anguste, con spettatori stipati, avidi di vedere e di ascoltare uno spettacolo basato sulla finzione scenica e del quale era ed è necessario cogliere ogni particolare e non lasciarsi sfuggire alcuna sfumatura dei gesti e alcuna inflessione della voce degli attori. Il pubblico più non partecipa alla rappresentazione, la scena non si fonde più con il pubblico, ma ne è invece separata dalla bocca d'opera e dal sipario.
Il primo teatro stabile così costruito, è il Teatro Olimpico di Vicenza, iniziato dal Palladio (1580) e ultimato dallo Scamozzi (1583). In esso non rimane del teatro antico se non il concetto delle gradinate semicircolari e della scena fissa. Per tutto il resto, la modifica è già profonda. A questo fanno seguito quello di Sabbioneta (1588), dello Scamozzi, e l'altro più vasto di Parma (1618), di Giovan Battista Aleotti di Argenta.
Ma la tradizione del teatro antico viene presto e completamente abbandonata; sorgono infatti nella prima metà del Seicento i primi esempî di quello che poi sarà il teatro moderno. Il Seghizzi prima, nei teatri di Venezia (1630) e di Bologna (1640), e subito dopo i Bibiena, adottano un tipo di sala a forma allungata con gli angoli fortemente arrotondati, quasi a forma di U, nella quale le gradinate scompaiono per essere sostituite dalla platea e dai palchi disposti in più ordini (fig. 5). Forme queste non dipendenti dal capriccio dell'architetto, ma sorte probabilmente dalla necessità di realizzare le migliori condizioni acustiche della sala e di rendere più facile il problema costruttivo della copertura.
Da questi esempî che rappresentano il primo vacillante passo verso la determinazione del teatro moderno si giunge presto ai teatri Apollo e Argentina di Roma, il primo dell'architetto Carlo Fontana (1675) e l'altro del Theodoli, nei quali il nuovo organismo è già completamente sviluppato e dimostra i suoi spiccati caratteri di robustezza che gli faranno conquistare il mondo.
Ed è infatti un'altra delle glorie italiane, generalmente poco note, quella di aver diffuso nel mondo oltre alla musica e all'opera, anche questo nuovo tipo di edificio.
Su esso si modellano tutti i teatri del secolo successivo e, pur attraverso modifiche e perfezionamenti, mantiene la sua struttura nell'Ottocento e nell'età moderna. Si può considerare composto, sotto l'aspetto distributivo, di tre parti distinte: la parte o meglio il gruppo degli ambienti di rappresentanza (atrio, ingressi, vestiboli, ecc.), il gruppo di ambienti che si compendiano nella sala e infine quello del palcoscenico. Ciascuno di questi tre gruppi di ambienti è destinato a una funzione diversa e quasi indipendente dalle altre, pur costituendo nell'insieme, un organismo unitario e armonico.
Nel tipo di teatro suddetto, che poi sarà chiamato italiano, il gruppo degli ambienti di rappresentanza ha uno sviluppo piuttosto limitato. La sala, invece, con i suoi annessi, è quella che maggiormente richiama lo studio e l'attenzione dell'architetto, in collaborazione col fisico, specie per quello che si riferisce all'assoluta necessità di realizzare in essa le migliori condizioni acustiche. Per tali ragioni ad essa viene data la forma di ellisse troncata dal boccascena, normalmente al suo asse maggiore; lungo il perimetro si sviluppano dal pavimento alla copertura molteplici file di palchi che evidentemente migliorano le condizioni acustiche della sala; questa viene coperta da un soffitto piano, evitando ogni forma di vòlta la cui adozione può risultare pericolosa agli effetti delle buone condizioni acustiche suddette.
Il palcoscenico, con la scena non più fissa e gli ambienti annessi, assumono un più ampio sviluppo in relazione alle nuove esigenze dello spettacolo.
Tra i maggiori esempî di questo tipo, citiamo la Scala di Milano del Piermarini, che ancor oggi rimane nelle sue parti essenziali, ed è uno dei più importanti teatri d'Italia (fig. 7).
Alla Scala di Milano fanno seguito alla fine del Settecento e nel secolo XIX, nel periodo aureo quindi della musica italiana, innumeri altri teatri sia nelle principali città della penisola sia nelle cittadine di provincia. Rammentiamo il Carlo Felice a Genova (1827), il Regio (1738) ed il Carignano (1752) a Torino, il S. Carlo a Napoli e poi il Verdi a Pisa (1867), quello dei Rozzi a Siena (1816), il Lauro Rossi di Macerata, il Petruzzelli di Bari e altri tanti per quante sono le città d'Italia.
Verso la fine del Settecento e nell'Ottocento, i Francesi pur adottando lo schema suddetto, cercarono di migliorarlo e di abbellirlo, dando origine a quello che è chiamato il teatro del tipo francese. In questo, il gruppo degli ambienti di rappresentanza ha maggiore sviluppo e sontuosità; la sala è di forma meno allungata ed è costituita in pianta da un semicerchio raccordato con il boccascena da due curve opportunamente studiate agli effetti dell'acustica e della visibilità (sala a ferro di cavallo).
Anche nel senso altimetrico la sala si modifica; le file dei palchi sono limitate alla sola parte inferiore, mentre in alto una grande galleria in ritiro, aumenta lo spazio e la grandiosità dell'ambiente. A completare questo effetto di grandiosità, al soffitto piano viene sostituita la vòlta, sapientemente raccordata ai muri perimetrali (fig. 8). La zona del palcoscenico occupa uno spazio maggiore e vi si sviluppano gli ambienti accessorî.
Queste modifiche tendono a separare ancor più la sala dal palcoscenico e a dare alla prima, con i suoi annessi, sale, vestiboli e ridotti, il carattere di ritrovo mondano e a formare di questo gruppo di ambienti sontuosi, frequentati da un pubblico festoso e agghindato, un nuovo spettacolo talvolta più interessante di quello svolgentesi sul palcoscenico.
Esempio massimo di questo tipo di teatro, caratteristico dell'Ottocento, è l'Opéra di Parigi di A. Garnier (1861-1875), realizzato con una grandiosità e una magnificenza non comune, anche in edifici del genere, e nel quale la sala è, fra gli ambienti riservati al pubblico, non certo il maggiore e il più ricco e fastoso (figg. 9 e 10).
La concezione di un teatro così fatto, trovava in Germania, specie per opera di Riccardo Wagner, una forte reazione, dalla quale ebbe origine un terzo tipo di edificio che va sotto il nome di teatro tedesco. Esso, pur mantenendo il tipo e i concetti distributivi fondamentali del vecchio teatro italiano, differisce da esso in modo abbastanza accentuato. Scopo principale per il quale sorge è quello di non distrarre l'attenzione degli spettatori e di togliere al teatro il carattere di mondanità accentuatosi in special modo nel tipo francese.
Ristabilire la continuità e il contatto tra la sala e il palcoscenico, concentrare su questo tutta l'attenzione del pubblico, restituire il teatro alle sue origini popolari e mistiche furono i concetti informatori delle nuove costruzioni. Nel teatro di Bayreuth (1871) costruito sotto la guida dello stesso Wagner, la sala non ha più la forma ellittica o a ferro di cavallo (fig. 11), ritornano le gradinate disposte secondo archi di cerchio mentre i palchi sono limitati alla sola parete di fondo; il proscenio aumenta di ampiezza e tutto è fatto in modo da non distrarre il pubblico dallo spettacolo. L'orchestra viene celata alla vista del pubblico e affondata in uno spazio situato a un livello inferiore a quello della sala (il cosiddetto golfo mistico); il palcoscenico aumenta notevolmente di ampiezza, mentre la sua attrezzatura e i suoi servizî vengono perfezionati e accuratamente nascosti alla vista del pubblico.
I teatri costruiti secondo questi concetti sono numerosi e importanti: Principe Reggente a Monaco di Baviera, Municipale di Elberfeld, Covent Garden di Londra, Chicago Opera House (fig. 12 e 13), fino a quello recentissimo di Stratford on Avon.
Nell'epoca moderna è difficile poter dire quali siano i tipi che si seguono nelle costruzioni teatrali. Ci troviamo in un periodo di evoluzione nel quale le tendenze ondeggiano fra il tipo del teatro francese, ricco e sontuoso, con la separazione del pubblico dal palcoscenico, col suo carattere di mondanità e di lusso (tipi americani) e la tendenza del teatro tedesco di concezione austera, nel quale il pubblico partecipa e si immedesima alla rappresentazione, come elemento vivo e palpitante di essa.
Il numero grandissimo delle sale da spettacolo costruite negli ultimi tempi non dimostra una tendenza netta e precisa e neppure un semplice orientamento verso un nuovo determinato tipo. I vecchi schemi vengono generalmente abbandonati senza che ad essi se ne sostituiscano dei nuovi definiti.
Rimane soltanto la distinzione dei soliti tre gruppi di ambienti, alla quale fa riscontro una grande varietà di forme planimetriche e distributive e una vastissima applicazione di mezzi tecnici di ogni genere, tipica del nostro tempo, sia nella realizzazione costruttiva, sia nella forma delle sale, nelle quali i progressi, sia pure ancora modesti, dell'acustica architettonica ci consentono di non affidarci più completamente al caso e di determinare speciali forme mediante le quali è possibile realizzare buone condizioni acustiche, sia infine (e più che in ogni altra parte) nei palcoscenici nei quali il fattore tecnico diventa predominante nella realizzazione artistica dello spettacolo.
Fra gli esempî più significativi di queste diverse tendenze e di questi tentativi, citiamo quelli dell'architetto Oscar Strand e del Kranich a palcoscenici multipli (fig. 14 e 15) e del Perret e Granet riprendendo e sviluppando i concetti che già Vincenzo Ferrarese e Charles Nicole alla fine del Settecento e il Semper e il Van der Velde avevano esposto con l'adozione del palcoscenico tripartito (fig. 16), quelli di Walter Gropius, del Salomonson, del Norman Bel Geddes, nei quali il palcoscenico si interna fortemente nella sala giungendo all'intimo contatto del pubblico con lo spettacolo, riprendendo con questo e sviluppando la concezione unitaria di Riccardo Wagner (fig. 17 e 18).
Ancora più spinte sono le concezioni del teatro simultaneo di A. Pronasko e di S. Syrkus (fig. 19) e dei nuovi teatri russi di grandi proporzioni, arditi in ogni loro parte, dai profili delle sale amplissime, ai procedimenti costruttivi, ai rapporti fra pubblico e palcoscenico (fig. 20). Queste concezioni per quanto ardite e nuovissime (non ancora però collaudate dall'esperienza) sono già superate dal nuovo problema che si sta imponendo agli architetti e ai tecnici: quello del teatro di masse, destinato cioè a enormi adunate di popolo e a spettacoli particolarmente adatti per grandiosità e per caratteri a questo nuovo tipo di teatro.
Naturalmente contro queste grandiose concezioni sta la limitata possibilità dei nostri mezzi tecnici e la non adatta produzione teatrale. Per quello che si riferisce al problema architettonico, basta accennare che con l'aumentare delle dimensioni delle sale le difficoltà costruttive aumentano in proporzione sempre più grande fino a raggiungere limiti che per noi sono attualmente insuperabili; le difficoltà di realizzare buone condizioni di visibilità e soprattutto acustiche crescono anch'esse in maniera gravissima, fino ad imporre limiti insormontabili, anche più stretti dei precedenti.
Il teatro oggi attraversa indubbiamente una crisi di evoluzione; divenuto insufficiente ai nostri bisogni il teatro dell'Ottocento assistiamo a un rapido rivolgimento, a un'affannosa ricerca di forme nuove e di nuovi schemi, a un intimo travaglio che certamente ci porteranno a soluzioni ben definite e a nuovi schemi rispondenti alle nuove necessità, alle nuove concezioni estetiche e ai nuovi ordinamenti sociali.
In questa ricerca difficoltosa, l'architetto non può operare da solo e non può anticipare i tempi. In nessun altro tipo di edificio come in questo, la sua opera è strettamente legata a innumerevoli fattori sociali, artistici e politici.
Dopo questa breve rassegna, possiamo accennare più dettagliatamente che sotto l'aspetto architettonico, i teatri si possono raggruppare in due grandi categorie: teatri lirici e teatri di prosa. Nei primi, condizione essenziale da realizzare è quella della buona audizione del canto e della musica. Date le esigenze e la grandiosità degli spettacoli che in questi teatri vengono eseguiti, e la possibilità di poterli ascoltare anche da una distanza relativamente grande, i teatri per tali spettacoli vengono sempre costruiti di dimensioni molto più ampie di quelli per la prosa; il palcoscenico è sempre assai vasto per soddisfare adeguatamente alle particolari esigenze delle rappresentazioni e per potervi far muovere agevolmente le notevoli masse dei cori, delle comparse, dei corpi di ballo; gl'impianti tecnici di ogni genere hanno in essi enorme sviluppo per soddisfare alle suddette esigenze.
I teatri di prosa sono invece di ampiezza molto minore, sia perché le dimensioni delle sale devono essere contenute entro i limiti ai quali può giungere la parola degli attori e può essere ottenuta la perfetta visibilità dell'espressione dei loro volti durante la recitazione, sia perché lo spettacolo ha bisogno di un'attrezzatura tecnica molto più semplice e modesta e quindi di palcoscenici più piccoli e meno complessi.
Si potrebbe infine considerare una categoria intermedia di teatri, quella cioè per le rappresentazioni di operette e riviste, categoria che non ha però caratteri distintivi ben precisi.
Qualunque sia il tipo di teatro, esso deve comprendere, come già si è detto, tre gruppi di ambienti: quello d'ingresso e di rappresentanza, quello della sala e quello della scena. Il primo gruppo è costituito dai portici e peristilî di ingresso, atrî, biglietterie, vestiboli di controllo, guardaroba, scale principale e secondarie, gallerie, corridoi, disimpegni, ecc.
Il secondo gruppo comprende la sala con i varî ordini di posti: platea, palchi, gallerie, loggiati, ecc., e l'orchestra; sale e ridotti, bar, servizî varî e simili.
Il terzo gruppo, il più complesso, comprende il palcoscenico, il proscenio, il retro- e il sotto-palco, i magazzini delle scene, dei mobili, delle armature, dei costumi, degli accessorî, ecc., i camerini e i ridotti per gli artisti, i camerini per i cori, le comparse, il corpo di ballo; le sale per le prove di tutte le suddette categorie di attori, i locali per i vestiaristi, i parrucchieri, i sarti e tutti gli artefici addetti alle truccature; quelli per i macchinisti, gli elettricisti, ecc.; gli uffici per il regista, il maestro di canto, quello di ballo, il direttore d'orchestra, lo scenografo. Infine gli uffici della direzione, dell'amministrazione (che eventualmente possono essere disposti anche con gli ambienti del primo gruppo), la biblioteca, i locali per i pompieri, e naturalmente gli ambienti varî di servizio, gl'ingressi al palcoscenico e quelli di servizio, i vestiboli, i controlli, ecc.
La disposizione del primo gruppo di ambienti, per quanto meno difficile delle altre, presenta tuttavia necessità notevoli.
Generalmente gl'ingressi al teatro vengono separati a seconda delle categorie di posti, allo scopo di evitare affollamento e intralci e di suddividere il pubblico secondo le categorie sociali.
Quasi sempre vengono disposti accessi separati per il pubblico che giunge a piedi e per quello in vettura. Questo criterio della suddivisione delle varie correnti di pubblico che affluisce al teatro, risponde a un ordine logico, ma presenta però l'inconveniente di dover moltiplicare gli atrî e i vestiboli di controllo. Per ovviare a questi inconvenienti è opportuno adottare schemi dispositivi tali da far convergere verso un controllo unico le varie correnti del pubblico che entra in teatro, mentre è necessaria la disposizione divergente degli atrî e delle porte di uscita, seguendo una successione di ambienti (gallerie vestiboli, ecc.) che permetta il graduale passaggio dalla temperatura degli ambienti interni a quella più fredda della strada.
In alcuni esempî l'arrivo al coperto delle vetture viene ricavato sotto il piano del teatro, rialzando sensibilmente i vestiboli e la platea come nell'Opéra di Parigi (figg. 9 e 10).
In altri teatri sono disposti invece sui lati dell'edificio, come nel Massimo di Palermo (fig. 21), e infine una terza soluzione, forse la più comune, è ottenuta collocando un'estesa pensilina o un porticato lungo il prospetto principale come nella Scala di Milano (fig. 7).
Ciascuna di queste soluzioni ha pregi e difetti che qui non è il caso di esaminare e discutere.
In prossimità degl'ingressi e degli atrî sono di solito collocate le biglietterie diurne e serali, disposte in modo, specialmente le seconde, da non disturbare il passaggio degli spettatori. Dopo queste vengono i controlli, i vestiboli, le scale e i corridoi di accesso ai diversi ordini di posti.
Il vestibolo principale, dal quale si accede alla platea e ai palchi, ha quasi sempre dimensioni notevoli ed è concepito generalmente con la ricerca di effetti scenografici e con grandiosità e ricchezza (figg. 23 e 24).
Nei vestiboli ha luogo, come si è detto, lo smistamento del pubblico verso i varî ordini di posti.
Lungo i percorsi degli spettatori debbono essere situati i guardaroba, ciascuno dei quali non dovrebbe servire più di 50 persone, ed essere collocato in modo da non intralciare il passaggio del pubblico. Dai vestiboli e dagli atrî partono le scale ordinarie, e quasi sempre il grande scalone di onore che assurge a eccezionale importanza architettonica specialmente quando la platea è posta a un livello superiore a quello stradale (fig. 10).
Le scale ordinarie devono essere in numero tale e disposte e calcolate in modo da permettere, in caso di allarme, lo sfollamento del pubblico in un tempo brevissimo (di solito, cinque minuti). Oltre a queste si dispongono scale di sola uscita, di sicurezza e di servizio.
Ciascuna delle scale suddette deve servire un determinato settore di posti e deve essere studiata e costruita secondo speciali norme stabilite in Italia da regolamenti prefettizî (vedi Bibl.). Le scale debbono avere forma regolare, escludendo le rampe elicoidali, circolari ed ellittiche o comunque in curva o aventi gradini di forma speciale. Le rampe debbono avere un numero limitato di gradini, la cui superficie può essere calcolata in base a cmq. 20 per persona oppure secondo la regola data dal Daviond che stabilisce la portata della scala, tenendo conto che una persona occupa una lunghezza di gradino di 50 cm. e che percorre la scala affollata con una velocità media di un gradino ogni cinque secondi.
Avendo preventivamente stabilito il numero dei posti del settore disimpegnato da una scala, è possibile con una delle regole suddette, calcolare la larghezza delle rampe, tenendo presente che il settore considerato deve potersi sfollare nel tempo stabilito di cinque minuti. I regolamenti sopra citati stabiliscono norme precise e dettagliate e ad essi rimandiamo il lettore che desideri maggiori indicazioni sull'argomento.
Aggiungeremo ancora ai criterî di ordine generale esposti che ogni scala deve condurre da ciascun settore, direttamente all'esterno, senza interrompersi nei diversi piani e che non vi deve essere alcun angolo della sala che non sia servito direttamente da una scala.
Per quanto riguarda infine i corridoi, gallerie e disimpegni ricordiamo soltanto che questi, considerati nel loro insieme, devono poter contenere tutti gli spettatori del settore di posti al quale essi adducono e che per ovvie ragioni non devono avere lungo il percorso dislivelli bruschi e gradini.
Lo studio dispositivo di questo primo gruppo di ambienti considerato dà luogo a due ordini di soluzioni architettoniche: una che segue una concezione ampia e regolare con ambienti della comune forma rettangolare che si dimostra ottima e logica salvo l'inconveniente grave della difficoltà del raccordo con la linea curva della sala (figg. 25 e 25 bis), difficoltà che si manifesta anche esteriormente in un'evidente mancanza di organicità dell'edificio.
L'altra, secondo la quale i suddetti ambienti vengono disposti in corpi di fabbrica anulari in modo che la facciata del teatro risulti l'organica espressione della sala (teatri di Magonza, di Odessa, Monaco, Leningrado, ecc., figg. 26 e 26 bis).
Tale soluzione fa però generalmente dei principali ambienti di rappresentanza sale senza forma e di non felici proporzioni estetiche.
Il gruppo degli ambienti della sala occupa in generale la parte centrale del teatro e ne è generalmente la più importante ma non la più vasta.
Abbiamo già esaminato la sua evoluzione e le sue forme planimetriche e altimetriche nei varî periodi e nei principali tipi di teatri.
Le condizioni che l'architetto deve realizzare per ottenere una buona sala, qualunque sia il tipo di teatro, sono: a) ottenere che tutti gli spettatori di qualunque ordine di posti, abbiano la perfetta visibilità del palcoscenico; b) che la sala risulti acusticamente nelle migliori condizioni; c) che possa contenere il maggior numero di posti, compatibilmente con tutte le altre esigenze da soddisfare; d) che risulti di ottimo effetto estetico e non priva di grandiosità e decoro.
Riguardo alla prima delle condizioni è necessario che ogni fila di posti sia rialzata rispetto a quella antistante di un'altezza tale da consentire che il raggio visuale che va dall'occhio dello spettatore al limite inferiore del palcoscenico sfiori la sommità del capo dello spettatore della fila antistante e non sia da questo ostacolato e interrotto.
Molte sono le regole in uso per la disposizione delle successive file di posti rispondenti a questa condizione; in tesi generale si può asserire che il profilo longitudinale dei posti segue una curva logaritmica di espressione molto semplice, che si ottiene facilmente integrando l'equazione differenziale alla quale si giunge, esprimendo analiticamente la condizione di visibilità sopra enunciata (Salvi, Nikolsky, Ciocca, A. B. Raudall ed E. S. Crawley, ecc.; fig. 27).
La linea suddetta può anche essere costruita graficamente per punti, tenendo presente che la distanza verticale da superare col raggio visuale in ogni linea di posti è quella corrispondente fra l'occhio e la sommità del capo che è in media di 15 cm. (fig. 28).
In senso planimetrico è altresì necessario che il raggio visuale di uno spettatore comodamente seduto, risulti possibilmente normale al quadro ipotetico rappresentato dal boccascena. In altre parole, lo spettatore non deve assumere posizioni incomode o volgere la persona o lo sguardo per osservare il palcoscenico, in qualunque punto della sala egli si trovi. Sotto questo aspetto, la disposizione delle gradinate del teatro antico, risulta pressoché perfetta.
Meno buona è invece la disposizione dei posti di platea e specialmente dei palchi nelle sale costruite dal Seicento ad oggi.
Tale difetto viene in parte corretto con soluzioni di compromesso, disponendo i posti di platea secondo archi di cerchio di raggi molto ampî, per non perdere spazio utile fra il palcoscenico e la prima fila di poltrone, e aventi il centro o i centri non in corrispondenza del punto centrale del boccascena, che dovrebbe invece rappresentare il punto di convergenza di tutti i raggi visuali.
Per i palchi vengono pure seguite soluzioni dello stesso genere che stabiliscono la posizione dei tramezzi di separazione, prendendo, come centri dei raggi visuali, punti del palcoscenico che alle volte sono fortemente spostati rispetto alla zona centrale di esso.
Per quanto si riferisce alla realizzazione delle buone condizioni acustiche, rimandiamo i lettori alle voci acustica; rumore e alla bibliografia.
Aggiungiamo soltanto che lo studio di queste condizioni ha influito fortemente sulla forma e sull'architettura delle sale stesse, fino a rendere queste ultime quasi un prodotto della scienza e facendo perdere ad esse quell'ampia concezione spaziale, quel carattere di grandiosità e ricchezza, tipico di questi ambienti.
Profili speciali di pareti e di coperture, non basate su concetti architettonici, espressione di nudità e secchezza, rivestimenti di materiali aventi speciali qualità acustiche ma di aspetto ben più misero dei ricchi materiali impiegati nella decorazione tradizionale di questi grandi ambienti, sono i caratteri distintivi delle sale del tempo nostro che ci conducono ormai verso schemi sempre più definiti e sempre più lontani dai vecchi e nei quali la tecnica con le sue imperiose esigenze si sovrappone all'arte.
Riproduciamo nelle figg. 19, 30, 31 e 32 alcuni di questi tipi recenti.
Riguardo al problema della capacità della sala, si è già detto come la sua soluzione sia purtroppo contenuta entro i limiti insuperabili delle difficoltà costruttive e della necessità di assicurare buone condizioni acustiche e di visibilità, limiti che sono tanto più gravosi in quanto si tende oggi, per l'alto costo degli spettacoli e per rendere il teatro accessibile a grandi adunate di spettatori, e soprattutto al popolo, ad ampliare al massimo la capienza delle sale e vivo si presenta il problema del teatro di massa. Nei teatri costruiti nel secolo scorso e anche in quelli moderni, le dimensioni della sala e il numero dei posti sono relativamente limitati, come si può desumere dalla tabella a pag. 360.
Capienza massima raggiunta nelle sale da spettacolo moderne è quella del Radio City Music Hall a Nuova York (Centro Rockefeller) con 6200 posti a sedere (fig. 32) e nella quale si è raggiunta altresì la distanza massima di m. 55 dal palcoscenico al posto più distante, ove si eccettuino le grandi sale di assemblee e di adunate, quali il nuovo palazzo della Germania a Berlino e quello degli sport e dei congressi ad Amburgo, capaci rispettivamente di 20.000 e 30.000 posti, costruite però per scopi molto diversi e nelle quali le esigenze di visibilità sono meno imperiose e l'udibilità è assicurata mediante altoparlanti, cosa impossibile, almeno ora, a realizzare in un teatro, per evidenti esigenze artistiche (fig. 33).
I citati regolamenti stabiliscono in Italia speciali norme per lo studio delle sale. Fra queste ricordiamo quelle relative alle dimensioni minime dei posti, alla distanza tra due file di questi, alle corsie di disimpegno e alle altre norme dettate da ragioni di ordine e di sicurezza.
Accenneremo infine alla specialissima importanza che hanno in una sala gl'impianti di riscaldamento e oggi, quelli di condizionamento dell'aria, quelli d'illuminazione e infine quelli di sicurezza contro gli incendî.
Mentre per i primi rimandiamo alle voci riscaldamento; illuminazione, ci riserviamo per i secondi qualche breve cenno in seguito.
Palcoscenico. - Abbiamo detto che nella parte del teatro designata con questo nome, comprendiamo nel linguaggio architettonico tutto il complesso gruppo di ambienti già sommariamente elencati e che occupano, dei tre gruppi nei quali abbiamo distinto gli ambienti del teatro, lo spazio maggiore e la cui disposizione è fra tutti la più complessa.
La zona più importante è senza dubbio il palcoscenico propriamente detto (fig. 34), di forma normalmente rettangolare e di dimensioni variabili a seconda del tipo e dell'importanza del teatro; le sue proporzioni, prendendo come unità di misura la larghezza del boccascena, debbono essere generalmente: profondità da una volta e mezza a due; larghezza non minore di due; altezza, circa due volte e mezza. Adiacente ad esso vi è il retropalco, spazio più o meno ampio che può eventualmente fondersi col palcoscenico quando esigenze di particolari spettacoli lo richiedano; infine il sottopalco (fig. 35), spazio talvolta diviso in due o tre piani, nel quale si dispone una parte dell'attrezzatura scenica. Nella zona superiore, il palcoscenico comprende i ballatoi (fig. 36) e la graticciata (fig. 37) che ne forma quasi il soffitto e che servono al servizio del palcoscenico e alla manovra degli scenarî. Il palcoscenico si prolunga infine verso la sala con il proscenio, per dar modo agli attori di emettere la loro voce nella sala stessa, al fine di migliorarne l'udibilità da ogni ordine di posti.
L'insieme di tutte queste parti deve permettere non solo il perfetto svolgimento dello spettacolo, ma anche il montaggio, la manovra e il cambiamento degli scenarî e di tutto l'arredamento scenico, in modo rapido e ordinato, specialmente negl'intervalli fra un atto e l'altro, sia pure con l'aiuto di macchinarî diversi (argani, cassette, pulegge, ecc.; v. anche scenotecnica).
Completano infine questo gruppo i locali dei quali si è già dato un elenco; il loro numero è grande e la disposizione molto complessa, essendo per questi ambienti sempre più insufficiente lo spazio e le esigenze sempre maggiori.
Difficile poter dare di queste parti degli schemi precisi, anche perché la loro disposizione e ampiezza dipende dalle circostanze contingenti e dalle possibilità che si hanno caso per caso, all'atto della costruzione dell'edificio. Fra i più importanti per la loro ampiezza sono le sale per le prove dei cori e del ballo, le quali dovrebbero riprodurre per dimensioni e forma quelle del palcoscenico e, per i cori, possedere anche buone qualità acustiche. Gli spogliatoi per le comparse, distinti per i due sessi e dimensionati sulla base di mq. 1,50-2 per individuo; quelli per i cori e per il corpo di ballo, separati come i precedenti e dimensionati però con maggiore larghezza (circa 3 mq. a persona). Il laboratorio per gli scenografi e il magazzino delle scene che spesso, dato il grande spazio che essi occupano, vengono costruiti separati dal teatro (Teatro Reale dell'Opera di Roma; fig. 44).
Anche i ridotti per gli attori, i coristi, l'orchestra, ecc., hanno importanza e sviluppo, come pure i camerini degli attori principali, e infine i magazzini e tutti i più importanti ambienti che abbiamo precedentemente elencato, non ultimi fra questi le scale e le uscite ordinarie e di sicurezza e tutte le disposizioni distributive dei disimpegni e degli ambienti atte ad assicurare a tutto il personale di scena la rapida e facile uscita in caso di allarme. Lo studio dispositivo di tutti gli ambienti e i servizî accessorî del palcoscenico di un grande teatro è di una complicazione tale che non è possibile darne un' idea esatta senza entrare nei più minuti particolari di questo organismo così complesso.
Condizioni di sicurezza nei teatri. - Date le proporzioni terrificanti che può assumere il panico degli spettatori in caso di allarme, specialmente d'incendio, e le catastrofiche conseguenze che ne possono derivare, grande cura deve essere posta dall'architetto non solo nel rispettare scrupolosamente tutte le norme stabilite nei citati regolamenti per la costruzione e l'esercizio dei teatri, ma soprattutto nello studiare e adottare tutti quegli accorgimenti atti a garantire la vita e la sicurezza degli spettatori e del personale di scena. Le norme generali più comuni che si seguono, tendono per lo più a un triplice scopo: prevenire e combattere l'incendio; rendere possibile la rapida uscita di tutte le persone; isolare l'incendio nella parte del teatro in cui esso si manifesta.
Per quanto riflette il primo scopo, sono di grande importanza tutti gli accorgimenti costruttivi atti ad escludere quanto più è possibile l'impiego del legname e di materiali combustibili. Nelle parti in cui l'impiego del legname non può essere in alcun modo escluso, il legname stesso dovrà essere preventivamente sottoposto a trattamenti che lo rendano incombustibile. Le parti metalliche delle strutture portanti devono essere rivestite e protette dall'azione del fuoco.
Le condutture elettriche devono avere un alto grado d'isolamento ed essere frazionate in più circuiti che non abbiano una portata superiore ai 30 ampere; qualunque materiale combustibile, sia per l'isolamento delle linee elettriche sia per la fabbricazione degli accessorî, dovrà parimenti essere escluso.
Naturalmente anche gli apparecchi di produzione del calore per l'impianto di riscaldamento devono essere oggetto di speciali cure, e situati in ambienti completamente isolati da tutti gli altri del teatro.
Completano questo primo gruppo di previdenze gl'impianti idraulici e i serbatoi per l'alimentazione delle lance da incendio ed eventualmente quelli per allagare istantaneamente dall'alto la zona del palcoscenico; la dotazione di estintori, gli apparecchi automatici di segnalazione.
Relativamente al secondo gruppo di precauzioni, intese a ottenere il rapidissimo sfollamento del teatro, abbiamo già parlato delle norme per la costruzione e distribuzione delle scale normali e di sicurezza. Le porte di uscita hanno pure speciale importanza e la loro larghezza deve essere calcolata secondo la regola del Daviond già accennata parlando delle scale. I citati regolamenti per la vigilanza sui teatri stabiliscono, ad esempio, che la larghezza delle porte deve essere compresa tra m. 1,20 e m. 2,50, poiché una porta troppo larga può essere più nociva che utile. La luce complessiva di tutte le porte deve essere calcolata in base a 1 metro per ogni 100 spettatori. Ogni porta deve naturalmente aprirsi verso l'esterno, per semplice spinta.
Deve essere escluso ogni altro tipo di serramento, comprese le porte girevoli su perno centrale.
Le finestre, non devono avere una luce inferiore ai 60 cm. né debbono essere chiuse con inferriate.
Il teatro deve avere infine un impianto d'illuminazione sussidiario o di sicurezza del tutto indipendente, anche come alimentazione, da quello ordinario.
In alcuni teatri, come nel Fiammingo di Bruxelles (fig. 45), è stata tentata un'originale disposizione delle uscite di sicurezza. Queste si aprono su ballatoi esterni, situati all'altezza di ciascun piano e disposti tutto intorno all'edificio; da questi, per mezzo di numerose scale completamente esterne, si può raggiungere il livello stradale. Tale disposizione, che permette in teoria l'immediato sfollamento del teatro, non evita però pericoli gravissimi, facilmente intuibili, tanto vero che nelle costruzioni successive non è stata più attuata.
Il terzo gruppo di previdenze, che ha lo scopo di localizzare e isolare l'incendio, si realizza quasi interamente nella zona del palcoscenico, essendo quella maggiormente esposta al pericolo. Un primo provvedimento, prescritto del resto anche dalle norme regolamentari, consiste nel circondare con un muro continuo dello spessore non inferiore a 45 cm. tutto il palcoscenico.
Tale muro deve avere inizio dal pavimento del sottopalco e prolungarsi oltre il tetto a formare una parete tagliafuoco fra la sala e il palcoscenico. Il numero e l'ampiezza delle porte che possono attraversare tale muro, deve essere limitato allo stretto necessario; tali aperture devono potersi chiudere con infissi incombustibili. A completare l'isolamento del palcoscenico, la bocca d'opera è chiusa cun un sipario di sicurezza costruito con materiale incombustibile (quasi sempre con ossatura in acciaio e rivestimento d'amianto sulle due facce). Caratteristico quello del Teatro Nazionale del Messico (arch. Boari) costituito da un murosipario di cemento armato, spessore 32 cm. e pesante circa 21.000 kg.
Questi siparî di sicurezza che hanno l'evidente scopo di impedire il propagarsi delle fiamme e del fumo nella sala, offrono una garanzia limitata, perché, data la loro ampia superficie e il loro spessore necessariamente esiguo, non sempre resistono per lungo tempo all'azione del fuoco e soprattutto alla violenta pressione dei prodotti della combustione che si sviluppano durante l'incendio.
È appunto per lasciare libero sfogo a questi gas che si dispongono nelle coperture del palcoscenico dei lucernarî molto ampî (di superficie non minore del 5% di quella della scena) apribili anche automaticamente.
V. tavv. LXXV-LXXVIII.
Bibl.: D. Donghi, Manuale dell'architetto, II, i; L. Cloquet, Traité d'architecture, IV, Parigi 1922; B. Moretti, Teatro, Milano 1936; A. Gosset, Traité de la construction des théâtres, Parigi 1886; A. Garnier, Le théâtre, ivi 1871; A. Cavos, Studi sui teatri lirici, Palermo 1866; R. W. Sexton, American theatres of today, New York 1930; F. Wilms, Lichtspieltheaterbauten, Berlino 1928; R. Poulain, Salles de spectacles et d'auditions (ed. V. Freal, Parigi); J. Desnos, Théâtres et cinémas, ivi; G. Herkt, Das Tonfilmtheater, Berlino 1931; L. Simonson, Basic Theater Planning, in The Architectural Forum, settembre 1932; P. Zucker e G. O. Stindt, Lichtspielhäuser und Tonfilmtheater, Berlino 1931; C. Marchesi Cappai, L'acustica nell'architettura, Milano 1935; P. E. Sabine, Acoustics and Architecture, New York 1932; F. Salvi, Superficie di platea dei teatri e delle sale di riunione. Equazione della curva del profilo longitudinale, in L'Ingegnere, 1934, n. 4; E. Tedeschi, Cinematografi, in Architettura, 1936, n. 1; Regolamento per i locali di pubblico spettacolo nella provincia di Roma, Roma 1936; Regolamento per la vigilanza sui teatri ed altri luoghi di pubblico spettacolo della provincia di Milano, Milano 1932.
Vita teatrale.
Antichità. - Le origini del teatro si confondono con quelle della tragedia e della commedia: v. quindi commedia; tragedia. L'ordinamento di regolari spettacoli teatrali nel mondo classico è una delle glorie di Atene e risale al periodo del suo maggiore splendore. Lo spettacolo teatrale antico differisce dal moderno poiché ad esso erano riservate solo le ore del giorno e lo spettacolo aveva carattere di una celebrazione religiosa, rara e solenne, che si connetteva al culto di Dioniso. Quattro erano le feste ateniesi ordinate in onore di Dioniso: le Dionisie dei campi, le Lenee, le Antesterie e le grandi Dionisie; tranne che nelle Antesterie (nel mese di Antesterione "febbraio-marzo"), nelle altre tre la parte più solenne e più caratteristica della festa era lo spettacolo teatrale.
Le grandi Dionisie (Διονύσια τὰ μεγάλα) o Dionisie della città (Διονύσια τὰ κατ' ἄστυ), erano celebrate con maggior magnificenza delle altre feste: cadevano nel mese di Elafebolione (marzo-aprile), nel periodo, in cui, cessata la stagione delle tempeste invernali, il mondo degli affari aveva ripreso la sua attività, e un pubblico vario di forestieri affollava Atene e accorreva ad assistere alle sacre cerimonie in onore di Dioniso e agli spettacoli. Come in altre feste, vi avevano luogo cori, gare e processioni, ma il maggiore interesse era dato dalla rappresentazione della tragedia. Per un periodo di tempo non ben precisabile (prima metà del secolo V) i concorsi drammatici nei quali venivano rappresentate e giudicate le tragedie nuove avevano luogo solamente nelle grandi Dionisie.
Le Lenee (da ληνός "torchio", onde l'epiteto di Ληναῖος dato a Dioniso) avevano luogo nel mese di Gamelione (gennaio-febbraio), corrispondente al mese Ληναιών del calendario ionico, nel cuore dell'inverno; mancava a queste feste la caratteristica nota che la presenza dei forestieri portava nelle grandi Dionisie; erano perciò più modeste, essendo meno numeroso e vario il pubblico. Venivano anch'esse celebrate con processioni e cori, in particolare con ditirambi e con licenziosi canti pubblici. Nel periodo in cui la tragedia era rappresentata solo nelle grandi Dionisie, nelle Lenee si davano esclusivamente commedie; ma dalla metà del sec. V si rappresentavano nell'una e nell'altra festa tanto tragedie quanto commedie, la mattina presto le tragedie la sera la commedia (contro l'opposta opinione sta un passo di Aristofane, Uccelli, vv. 786-89).
Le Dionisie dei campi (Λιονύσια τὰ κατ' ἀγρούς) erano celebrate in inverno (mese di Posidone "dicembre-gennaio") nei singoli demi; le feste avevano carattere rusticano; e vi si rappresentavano solo drammi già presentati ad Atene e noti al pubblico cittadino. Alla loro organizzazione presiedeva il demarco. Verso la metà del sec. IV, esauritasi la generazione dei grandi tragici e commediografi, si cominciarono a rappresentare tragedie e commedie non nuove.
Nonostante il contenuto profano e, per quel che riguarda le commedie, burlesco del dramma greco, lo spettacolo teatrale ebbe carattere religioso, facendo parte del culto tributato a una divinità potente. I coreghi portavano in capo, sino dal giorno in cui avevano assunto il loro ufficio, una corona, simbolo di autorità sacrale. I giovani scelti come coreuti erano esenti dal servizio militare, e il giorno dell'esecuzione erano anch'essi cinti di corona. Il carattere religioso dello spettacolo spiega la liberalità con cui vi venivano ammessi i forestieri, non solo come pubblico, ma anche come concorrenti ai concorsi drammatici. Si ha infatti notizia di autori di tragedie i quali, senza godere in Atene il diritto di cittadinanza, vi poterono rappresentare le loro tragedie. Ciò era conforme al principio della comunanza religiosa che univa tutti i Greci. Per la stessa ragione era in massima consentito l'intervento in teatro delle donne, nonostante il rigore quasi claustrale che era imposto alla donna attica; non tale però da escluderla dalle manifestazioni sacrali. Del carattere sacrale inerente al teatro si deve tener conto anche per poter giudicare i provvedimenti che assicuravano ai più poveri la possibilità di assistere alle rappresentazioni.
Le rappresentazioni sceniche erano precedute da funzioni sacre.
Non essendo il diletto l'unico scopo del teatro greco, è naturale che il poeta drammatico avesse la coscienza di esercitare sul popolo un'alta missione educativa, non solo nella commedia antica attica, che, per essere un genere essenzialmente politico, ha nella propria natura l'essere un mezzo di propaganda, ma anche nella tragedia. Gli autori, infatti, cercavano di far penetrare nel pubblico attraverso il teatro quei principî di politica, di religione e di etica da cui la polis traeva la sua sanità morale. Il convincimento della superiorità del Greco sul barbaro, dell'intangibilità di alcune norme superiori del diritto, della reverenza dovuta alle istituzioni patrie, nello stato e nella famiglia, ispira tanta parte della tragedia greca, che il considerarla solo come opera d'arte volta a fini esclusivamente estetici, fuori delle esigenze spirituali dell'età storica in cui fiorì, ne diminuisce l'importanza e la nobiltà, e in parte la rende incomprensibile. Naturalmente il poeta tragico ha le sue vedute personali e se ne fa banditore entro i limiti imposti dal "fren dell'arte", che agisce su tutti, se pure non su tutti in ugual misura.
Nel primo periodo di sviluppo della tragedia greca il poeta non è solo quello che oggi si direbbe "l'autore"; non si limita a scrivere i versi e ad adattarvi la musica; ma è l'anima e il creatore di tutta l'azione scenica, compresa la parte coreografica (gli σχήματα del coro), sia nel periodo preparatorio, nel quale è il principale organizzatore dello spettacolo, sia nell'esecuzione a cui egli stesso coopera come attore. Per questo suo ufficio egli riceve anche uno stipendio dallo stato. È noto che Eschilo introdusse l'uso delle maschere, Sofocle aggiunse un terzo attore ai due tradizionali dei drammi precedenti. A Sofocle è attribuito anche un libro di tecnica teatrale (Περὶ σκηνῆς). Avvenne però, che quanto più si complicava l'apparato e l'esecuzione scenica, la necessità di una specializzazione delle competenze tecniche consigliasse di distribuire fra varie persone gli uffici che in un primo tempo erano sostenuti tutti dal poeta. Come nelle origini del dramma l'ufficio del primo attore si staccò da quello del capocoro; così nel successivo perfezionamento del genere l'attore cessò di coincidere con l'autore. Dei tre grandi tragici attici solo Eschilo partecipò alla recitazione delle sue tragedie, Sofocle eccezionalmente, Euripide mai; tutti, però, diressero la messinscena dei loro drammi. Si sa invece che Aristofane non istruì i cori delle sue commedie; inoltre rileviamo da testi letterarî ed epigrafici del sec. IV che l'ufficio del maestro dei cori (χοροδιδάσκαλος) in tale età è diverso da quello del poeta. Le parti che il poeta non si sentiva più di assumere nell'allestimento del dramma, erano affidate a un artista di mestiere.
Concorsi drammatici. - Sinché durò l'uso di rappresentare nelle grandi Dionisie e nelle Lenee solo drammi nuovi, le rappresentazioni ebbero anche il carattere di concorsi drammatici, che si chiudevano con l'assegnazione di un premio al poeta i cui drammi fossero maggiormente piaciuti; un premio veniva assegnato anche al miglior corego e al miglior protagonista.
La procedura di questi concorsi drammatici era collegata con l'ordinamento generale delle feste dionisiache. L'ufficio di organizzarle in ogni particolare spettava per le grandi Dionisie all'arconte per le Lenee al basileus. Ahe spese e all'esecuzione dello spettacolo provvedevano in parte direttamente lo stato, in parte singoli cittadini (i coreghi), in parte l'appaltatore del teatro, ϑεατρώνης; i carichi erano distribuiti nel modo che diremo.
L'arconte era assistito da dieci curatori (ἐτεμεληταί) che prima venivano eletti dall'assemblea e più tardi sorteggiati da ciascuna delle dieci tribù clisteniche. Spettava all'arconte di ammettere al concorso i tre migliori fra i varî poeti che avessero presentato i loro drammi.
Per essere ammessi al concorso per la tragedia bisognava presentare una tetralogia, cioè tre tragedie (trilogia) e un dramma satiresco; per la commedia, una sola commedia. Nei primi concorsi tragici le tre tragedie svolgevano tre momenti successivi di un argomento unico, secondo l'esempio che c'è rimasto nella trilogia di Eschilo composta dall'Agamennone, le Coefore, le Eumedidi (v. eschilo), ma in seguito ciò non fu più necessario. In luogo del dramma satiresco poteva esser presentata una tragedia a lieto fine come l'Alcesti di Euripide. Non sempre il poeta presentava il dramma in nome proprio; si sa, per es., che Aristofane fece presentare da altri la maggior parte delle sue commedie, da Callistrato (Acarnesi, Uccelli, Lisistrata), da Silonide (Vespe, Rane), dal figlio Araros (Pluto). Le tragedie postume erano presentate da una persona della famiglia. In tutti questi casi si trattava di una pura formalità, essendo noto al pubblico il nome del vero autore, anche se ufficialmente appariva un altro.
Il poeta, il giorno della rappresentazione, veniva presentato al pubblico insieme con gli attori; la presentazione (προαγών) avveniva nel teatro destinato alle audizioni musicali ('Ωιδεῖον).
Chiedere l'ammissione al concorso si diceva χορὸν αἰτεῖν "domandare la concessione di un coro"; il rifiuto del coro da parte dell'arconte (χορὸν μὴ διδόναι) significava eliminazione dal concorso. Come avvenisse questa prima eliminatoria, di cui è evidente l'importanza, le nostre fonti non dicono; ma non è da credere che un simile giudizio fosse rimesso ai criterî personali dell'arconte, il quale, giunto al potere per la designazione della sorte, era normalmente un uomo di scarsa cultura e sensibilità letteraria. E certo che egli, consigliato dai suoi paredri (v.), avrà sentito il parere dei competenti. Ai poeti prescelti l'arconte assegnava gli attori e un corego.
Degli attori, il principale (πρωταγωνιστής) veniva assegnato per sorteggio (uso che presto scomparve), gli altri erano scelti dagli autori. Gli attori e gli stessi poeti erano pagati dallo stato. Il corego, se non voleva o non riusciva a sottrarsi alla coregia, assumeva l'obbligo di preparare il coro per la rappresentazione, cioè di stipendiare un maestro, che lo stato assegnava per sorteggio, e un suonatore di flauto, di mettere insieme i componenti il coro, per il quale ufficio disponeva di poteri coercitivi, di mantenerli, istruirli, e fornirli del vestiario adatto all'azione scenica.
Per tal modo le spese venivano divise fra lo stato e il cittadino che aveva assunto la coregia (v.). Questo era un carico molto oneroso che portava la spesa di alcune migliaia di dracme; il designato poteva esimersene adducendo ragionevoli motivi di esonero (σκήψεις), quali l'insufficienza del patrimonio, l'aver già sostenuto un simile onere, ovvero l'esonero (ἀτέλεια) concesso per decreto come segno di benemerenza. Chi era designato come corego poteva anche proporre a un contribuente più ricco di assumersi la coregia o scambiare il patrimonio (antidosi); in caso di dissenso, aveva luogo un giudizio (διαδικασία).
Sulla formazione della giuria che giudicava il concorso drammatico e sul modo con cui essa assolveva il suo compito abbiamo scarse notizie.
Ai vincitori era consegnato come premio un tripode; ad essi soli spettava il diritto di portar la corona anche nel giorno seguente alla rappresentazione (ἐπινίκια). I tripodi vinti erano abitualmente offerti a Dioniso ed esposti in pubblico in una via che perciò era chiamata la "via dei tripodi".
L'esecuzione dello spettacolo. - Per l'esecuzione era anzitutto necessario che il teatro fosse in condizione di funzionare perfettamente per quel che riguarda sia l'ordine e la comodità degli spettatori, sia l'efficenza dei mezzi tecnici. Questo uscio era assunto dall'appaltatore, il quale per il rimborso delle spese aveva diritto di riscuotere un biglietto d'ingresso. Non vi erano entrate gratuite, ma i cittadini poveri avevano diritto al rimborso da parte dello stato del prezzo del biglietto che era di due oboli (onde l'espressione ἐκ δυοῖν ὀβολοῖν ϑεωρεῖν). I fondi necessarî alla restituzione erano tolti da una cassa detta il teorico (ϑεωρικόν) forse istituita da Pericle. Questa era formata dalle somme che sopravanzavano alla gestione annuale dei fondi destinati alla guerra. In ogni demo era tenuto un registro (πίναξ ϑεωρικός) sulla scorta del quale coloro che lo desideravano ottenevano il rimborso.
La rappresentazione scenica, come si è detto, era preceduta da un rito. Prima che si iniziasse lo spettacolo, il sacerdote di Dioniso e i magistrati prendevano posto nei luoghi loro destinati nelle prime file, dove venivano accompagnati con molta solennità gli attori e i corenti sfilavano davanti al pubblico; quindi lo spettacolo aveva inizio.
Il concorso di pubblico era sempre grandissimo; Platone calcola a 30.000 gli spettatori di un teatro normale; la cifra è un po' esagerata; i calcoli che il Doerpfeld ha condotto sui teatri antichi consigliano a ridurla a 17.000, che è sempre una cifra molto notevole, data la scarsità di popolazione delle città antiche. Lo spettacolo durava gran parte della giornata, e, non essendo facile lasciare il proprio posto e ritornare, ciascuno portava con sé la colazione nel teatro, se il corego voleva farsi molto onore, ordinava anche un servizio di rinfreschi (focacce e vino) per gli spettatori. Il pubblico, di cui potevano far parte forestieri, donne e ragazzi (con le prudenti limitazioni che il genere della rappresentazione avrà consigliato alla gelosa riservatezza familiare degli Ateniesi), era vario e irrequieto: per approvare si applaudiva (κροτεῖν); per disapprovare si batteva il tallone in terra (πτερνοκοτεῖν), si fischiava (συρίττειν) o si facevano con la bocca versi di spregio ancor più grossolano (κλώζειν); il pubblico si abbandonava a manifestazioni chiassose anche a sfogo di simpatie o antipatie cittadine e nazionali. Si deve ritenere che i giudici incaricati di decidere il concorso drammatico tenessero conto anche del successo di pubblico ottenuto dal dramma.
All'inizio della rappresentazione un araldo proclamava il nome del poeta autore del dramma. Il coro faceva la sua comparsa uscendo, diviso in due semicori, da due aperture che si aprivano su due lati dell'orchestra ed erano dette parodoi (πάροδοι). Si noti che parodos in greco significa tre cose: le aperture dalle quali entra ed esce il coro; l'entrata del coro (che a volte si ha al principio della tragedia, a volte dopo che uno o più attori ne hanno già recitato un atto); il canto che il coro canta all'entrata, ed era anticamente preceduto da un sistema di versi anapestici. Sul modo col quale era combinata l'azione degli attori e del coro, e anche sul punto preciso del teatro nel quale avveniva la recitazione vi è incertezza grande nei dati d'informazione e dissenso fra gli archeologi (v. sopra: La questione della scena greca).
Terminate le rappresentazioni delle opere concorrenti, i giudici scrivevano su di una tavoletta la loro preferenza; il poeta vincitore era premiato. Del concorso veniva redatto un verbale (διδασκαλία) che veniva conservato nell'archivio pubblico della città. Secondo l'uso greco di portare a conoscenza di tutti i più importanti documenti cittadini, anche queste didascalie verso la metà del sec. IV furono redatte in forma riassuntiva e incise in epigrafi.
Svolgimento esterno del teatro greco. - Le rappresentazioni drammatiche, in origine connesse nel modo che abbiamo veduto col culto di Dioniso, vennero gradatamente acquistando un'autonomia che ne favorì lo svolgimento in senso profano e, al tempo stesso, accentuò nelle opere drammatiche, tragedie e commedie, il carattere letterario. Molti elementi contribuirono a questa evoluzione del teatro antico: anzitutto l'esaurimento del genio drammatico attico, che nella tragedia aveva dato nel sec. V i suoi autori migliori, fioriti nel giro di poco meno che due generazioni e scomparsi senza lasciar degni continuatori, e il diffondersi del teatro oltre i confini dell'Attica. Accanto alla produzione nuova o in luogo di essa si cominciò a portare sulle scene drammi noti e celebri; per questi, se anche venivano assegnati dei premî, il premio era dato all'attore per la sua buona interpretazione.
L'uso di agoni drammatici si era esteso in tutto il mondo greco: in Sicilia (Dionisio il Vecchio fu anche scrittore di tragedie), in Macedonia (Euripide e Agatone furono chiamati alla corte del re Archelao), in Tessaglia (ai tempi di Alessandro di Fere). Demostene parla di un attore drammatico, Aristodemo, che andava in giro da una città a un'altra ad esercitare la sua arte. Se il diffondersi del culto di Dioniso aiutò per tutto il sec. IV il moltiplicarsi dei centri di spettacoli teatrali e la costruzione materiale di teatri, si verificò un fenomeno, in certo modo inverso, che ebbe importanza decisiva nella storia dell'autonomia teatrale; le recite drammatiche non furono più necessariamente legate al culto dionisiaco. E questo avvenne per due vie: da un lato lo spettacolo scenico fu introdotto nel rito di divinità diverse da Dioniso (nelle Pizie di Delfi, nelle Musee di Tespie, nei giuochi in onore di Zeus Sotere ad Acrefia, ecc.); dall'altro, e ciò avvenne propriamente nell'età ellenistica, a ordinare spettacoli teatrali fu occasione un avvenimento politico, come nozze regali, vittorie e altri eventi fausti. Ora, se anche in tali occasioni lo spettacolo aveva pur sempre un lato sacrale, essendo azione propiziatoria o di rendimento di grazie agli dei, l'elemento rituale era ridotto al minimo, rispetto a ciò che il teatro aveva di mondano, di profano e di letterario. Un tentativo di restituire agli spettacoli teatrali l'antica forma di concorsi drammatici, stimolo a produzione nuova, fu fatto in Egitto da Tolomeo Filadelfo; si ebbe sotto di lui un'improvvisa ed effimera fioritura di poeti drammatici, detti dagli eruditi più tardi "i poeti della Pleiade", dei quali è generalmente più nota l'indicazione collettiva che il nome dei singoli (Sositeo, Sosifane, Filisco, Licofrone di Calcide, Alessandro Etolo, ecc.). È impossibile dai frammenti insignificantissimi che ci rimangono giudicare del valore di questa produzione drammatica.
Teatro Romano. - L'uso ellenistico di celebrare un avvenimento importante con l'edizione scenica di drammi celebri, adottato da Roma, diede inizio anche nel mondo romano a consuetudine di recite regolari. Si considera come una data fondamentale della letteratura romana l'anno 240 a. C., nel quale Livio Adronico presentò sulle scene, tradotte in latino, una tragedia e una commedia greca. Da allora i Romani ebbero il loro teatro regolare. Dell'importanza che nello svolgimento della letteratura romana ebbe la poesia drammatica è detto altrove. Nell'ordinamento esterno il teatro si collega alla celebrazione dei ludi. Tuttavia, se anche occasione a rappresentazioni sceniche erano feste religiose, il teatro romano non aveva più quel carattere di celebrazione sacrale che abbiamo rilevato nel teatro attico. L'assistervi non era, come per gli Ateniesi e i Greci del sec. IV, il partecipare a un rito. L'età ellenistica, si è visto, aveva accentuato il carattere profano del teatro; e profano fu essenzialmente il teatro di Roma. Questo carattere dà ragione della scarsa considerazione sociale in cui erano tenuti autori ed attori. Scrivere per il teatro, o, per lo meno, assumere ufficialmente la veste di autore drammatico, non pareva conveniente a uomini di alto ceto. La professione dell'attore teatrale era una di quelle che traeva con sé, in chi l'esercitasse, la minima capitis deminutio, come tutti i mestieri umili e degradanti; lo stesso nome etrusco histrio, col quale i Romani indicavano gli attori, ebbe sin d'allora senso di spregio. Di solito attori e autori erano schiavi o liberti. Insindacato era il giudizio di preferenza che il magistrato, incaricato di organizzare lo spettacolo, dava fra autori e compagnie concorrenti.
I fondi (lucar) per i ludi erano offerti dall'erario, che li versava al magistrato incaricato dell'esecuzione: e si trattò di somme sempre maggiori. Per acquistarsi il favore del popolo molti magistrati spendevano anche del loro: la legge dovette intervenire per stabilire un limite alle somme che il magistrato poteva spendere in proprio.
Dei ludi facevano parte i ludi scaenici; talvolta si riassumeva in essi tutta la celebrazione della festa. Di ludi scaenici abbiamo una menzione per l'anno 364 a. C.; ma si tratta di un pantomimo eseguito da artisti etruschi; la prima recita regolare si ebbe come abbiamo detto nel 240 a. C. Da allora in poi le rappresentazioni teatrali divennero usuali nei ludi, insieme con gli spettacoli già prima in voga: corse coi carri, corse di cavalli, gare di lotta, caccia alla volpe, ecc.; particolare importanza avevano i ludi scaenici nei ludi Apollinares (istituiti nel 212 a. C.) e nei ludi Megalenses (204 a. C.). Anche i ludi funebres erano usualmente celebrati con recite.
La costruzione di edifici atti agli spettacoli scenici è posteriore all'istituzione di recite regolari: queste dapprima vennero eseguite nel circo, o, più tardi, in teatri provvisorî destinati a esser demoliti dopo la recita; il primo teatro di pietra fu costruito da Pompeo nel 55 a. C. (v. sopra). Il teatro di Marcello, che era il più grande di tutti, conteneva oltre 20.000 spettatori.
Il pubblico era ammesso gratuitamente nei posti comuni; ma vi erano posti riservati e posti di onore. Il diritto di occupare un posto riservato poteva essere ceduto anche a pagamento. Quest'uso suggerì anche la speculazione privata di ordinare dei ludi (con spettacoli di gladiatori) facendo pagare un alto prezzo per i posti riservati. Forestieri e schiavi non erano ammessi agli spettacoli; però questo divieto era osservato con grande larghezza.
La compagnia era pagata dal magistrato o dal privato che organizzava i giuochi; questi versava il denaro all'amministratore della compagnia (dominus gregis, o actor) che compensava gli attori e l'autore. Il denaro doveva essere restituito se la rappresentazione aveva esito infelice.
Non vi era in Roma un ordinamento regolare di concorsi drammatici, almeno sino alla metà del sec. II a. C. Per l'età posteriore troviamo qualche menzione di gare teatrali nelle quali il vincitore riportava una palma; ma non sono notizie precise; ed è certo che quelle gare non ebbero l'importanza dei concorsi drammatici di Atene. Vivissima fu sempre, invece, l'emulazione fra compagnie e fra autori rivali, ciascuno dei quali aveva i suoi partigiani (fautores), che lo sostenevano in teatro con un trasporto che talvolta degenerava. Contribuivano a turbare il giudizio del pubblico e il buon ordine del teatro le operae, gente pagata per applaudire.
Nell'età di Plauto si rappresentava solo una tragedia o una commedia al giorno; in seguito ne vennero recitate più d'una, il che consentì l'istituzione di quelle gare drammatiche a cui abbiamo alluso.
Tragedie e commedie erano divise in atti secondo criterî che variavano coi tempi. Durante gl'intermezzi nelle commedie il tibicen (suonatore di tibia) eseguiva un pezzo musicale; nelle tragedie vi era un canto corale, che, a differenza della tragedia greca, non aveva alcun legame col dramma rappresentato.
Bibl.: Per il teatro attico, greco ed ellenistico: A. Boeckh, L'economia pubblica degli Ateniesi (tradotta dalla terza edizione tedesca, Berlino 1886; la prima è del 1817), vol. I della Biblioteca economica di V. Pareto, p. 275 e passim; O. Benndorf, Beiträge zur Kenntniss d. attische Theaters, in Zeitschrift für die österr. Gymn., XXVI (1875), p. 579 segg.; H. Sauppe, De collegio artificum scaenicorum Atticorum, Gottinga 1876 (= Ausgew. Schr., p. 705 segg.); A. Müller, Lehrbuch der griechischen Bühnenaltertümer, Friburgo in B. 1886 (fa parte del Lehrbuch der griech. Antiquitäten del Hermann), opera ridotta dall'autore in Das attische Bühnenwesen, Gütersloh 1902; A. Mommsen, Feste der Stadt Athen, Lipsia 1898; O. Navarre, in Daremberg e Saglio,Dictionn. des ant. gr. et rom., s. v. Theatrum; Schömann-Lipsius, Griechische Altertümer, Berlino 1902, II, p. 519 segg.; J. H. Lipsius, Das attische Recht u. Rechtsverfahren, Lipsia 1905-15, pp. 57 seg., 61 seg., 589 segg. e passim.
Per il teatro romano: Oltre al citato articolo del Navarre, L. Friedländer, in Mommsen e Marquardt nel Manuel des antiquités romaines (trad. francese di Humbert), Parigi 1890, XIII, p. 304 segg.; id., Darstellung aus der Sittengeschichte Roms, 10a ed., Lipsia 1922, II, p. 112 segg.
Medioevo. - Vita teatrale, organizzazione teatrale, son parole che nel Medioevo non hanno senso, o non hanno il senso assunto da esse nell'età moderna. Il grande teatro medievale (v. attori, messinscena) fu il teatro religioso; ma questo, per lunghi secoli, non ebbe vita autonoma, fu un'appendice del culto cattolico, un'attività pia del clero e dei fedeli. Finché rimase nell'interno delle chiese, come fatto non artistico ma strettamente connesso al rito, consistendo in brevi dialoghi in latino recitati da chierici o sacerdoti con una sorta di messinscena simbolica, estremamente sommaria (drammi liturgici), non si può nemmeno parlare di teatro, ma solo di un principio di spettacolo aggiunto al culto; benché avidamente seguito dalla folla dei fedeli, cui tutti gli altri spettacoli drammatici erano stati, in teoria o di fatto, vietati. Più tardi, siccome il latino era da troppo tempo divenuto incomprensibile al popolo, s'introducono nel testo di questi dialoghi parole in volgare (drammi misti). Infine tutto il dialogo, sviluppandosi fino alle proporzioni e alla complessità d'un dramma integro e autonomo, esce dalla chiesa, si avanza sotto il portico, s'inoltra nel sagrato, chiede ospitalità alla canonica o al convento; soprattutto si effonde all'aperto, in piazza; o anche giunge in recinti e ambienti che sono o diventano normalmente sede di spettacoli. Gli attori (tutti uomini, salvo il caso dei conventi femminili dove son tutte donne e recitano solo davanti a donne) non sono più ministri del culto, ma giovinetti, o studenti, o artigiani che, riuniti in compagnie occasionali oppure appartenenti a confraternite e sodalizî stabilmente costituiti, recitano per scopo pio, e di regola non sono pagati. Gli ecclesiastici vi partecipano eccezionalmente: in qualche paese, solo per sostenere la parte di Gesù, di che un semplice laico sembrerebbe indegno.
Queste rappresentazioni sacre non sono spettacoli quotidiani, né abituali; si fanno in ricorrenze solenni, per culto, per pompa, talvolta anche per voto, ma gratuitamente, senza fine di lucro. Sia che mettano in scena il più gran dramma umano e divino, Vita, Morte e Risurrezione di Gesù, sia che attingano a episodî dell'Antico e del Nuovo Testamento, sia che drammatizzino vite e leggende di santi, sia infine che si compiacciano negli astratti simboli didascalici e allegorie edificanti delle "moralità" e simili, il popolo peccatore ma cristiano ritrova in esse molta parte di sé, della sua morale più alta, delle sue aspirazioni più pure e delle sue consolazioni e speranze più accarezzate. Per circa un millennio, esse suscitano la passione (nemmeno oggi spenta, dovunque sia superstite, o si riprenda, l'uso medievale, persino col mezzo del cinema) della folla di tutta Europa: in Italia, dove specie fra i secoli XII e XVII il dramma sacro fiorisce in ogni regione, e in Umbria dà il singolare fenomeno della lauda e a Firenze agl'inizî del Rinascimento produce più raffinati frutti letterarî; in Francia, dove dai miracoli di Nostra Signora si giunge alle vaste proporzioni di quei misteri ciclici che, svolgendo un'immensa copia di eventi in molte decine di migliaia di versi, si rappresentano su grandi palcoscenici, naturali o artificiali, impiegando molte giornate, durante le quali il pubblico sospende, per assistervi, ogni altra occupazione; in Spagna, dove il teatro religioso si evolve dalle forme più rozze fino ai capolavori dei massimi poeti, e crea tra l'altro il tipico genere dell'auto sacramental, rappresentato in piazza su carri durante le soste della processione eucaristica il giorno del Corpus Domini; in Germania, dove si hanno rappresentazioni di tutti i tipi, ossia da quella allegorica, ridotta ai minimi termini per le soste processionali, a quella colossale che mette in scena la storia dell'umanità dalla Creazione al Giudizio (Kimzelsau; Luzern); in Inghilterra, dove alcuni di cotesti spettacoli si dànno addirittura nei cimiteri.
S'è accennato che il compiacimento delle folle le quali v'assistono non è solo di natura religiosa. Esse vi cercano anche la soddisfazione del loro desiderio di veder riprodotta, e dilettosamente interpretata, la loro propria, quotidiana umanità, anche in senso comico e satirico. E gl'improvvisati artisti, rozzi o meno rozzi, rispondono alla richiesta, con le note più o meno realistiche, scherzose, e magari buffonesche, che si fanno sempre più frequenti e più vive negli angoli del dramma sacro, talvolta scivolando nell'indecenza, più spesso nella satira dei signori, dei potenti, del clero e (specie in quei paesi che poi passeranno alla Riforma luterana o anglicana) dello stesso papa. Donde la sospettosa vigilanza delle autorità, civili e specie ecclesiastiche, le quali intervengono a frenare gli abusi; e finalmente tra i secoli XVI e XVII, infierendo le lotte religiose, finiranno per essere coi loro divieti la causa principale della morte o del letargo di questi spettacoli.
Intanto la vena comica, satirica e buffonesca, si rifugia altrove: e cioè nello spettacolo profano. Il grosso spirito plebeo, grottesco, carnale, libertino, di mimi, buffoni, istrioni e giullari che, di regola isolati, durante tutto il Medioevo hanno dove più dove meno resistito alle persecuzioni e scomuniche ufficiali, ha sempre continuato a divertire la folla; la quale, potendo, accorre contenta ai loro spettacoli. Al termine del Medioevo, questo spirito s'è anche infiltrato nel teatro ufficiale per la sola porta che gli fosse aperta, quella del dramma sacro o edificante; per es., della "moralità". In Francia la potentissima corporazione degli scrivani detta della Basoche, avendo assunto per compito la recita dei drammi religiosi, vi introduce, e poi senz'altro snstituisce ad essi, soties e farces che, contro il dichiarato fine morale, sboccano nella satira politica e nella beffa sconcia, con gioia del pubblico grosso. Qualcosa di simile succede, suppergiù nello stesso tempo, in Germania; dove il primo e più ingenuo teatro comico troverà le sue fonti anche in fenomeni derivanti da un diverso costume sociale: "feste di carnevale", dove artigiani e studenti camuffati recitano satire e seherzi pagliacceschi; la pratica dei "maestri cantori". Per la nascita del teatro comico inglese gli storici dànno importanza ai pageants e ai masks, ecc.
Il contegno delle autorità ecclesiastiche verso questa fioritura di grassa comicità, fondata come sempre sulla licenza e peggio, fu naturalmente ostile, e spesso feroce; quello dell'autorità civile fu incerto e anche contraddittorio, in quanto talora, e specie al tempo delle lotte pro e contro la Riforma, gli stesso principi e sovrani (soprattutto in Francia e in Inghilterra) parvero servirsi di questo teatro come mezzo di propaganda, e di beffa agli avversarî.
Rinascimento ed età barocca. - Col Rinascimento italiano s'afferma, sia contro il teatro più o meno ingenuamente religioso sia contro quello goffamente buffonesco, il teatro erudito. Nato dallo studio dei classici greci e latini - che tra la fine del sec. XV e il principio del XVI, a Roma, Firenze e altrove furono riportati su scene improvvisate, davanti a un pubblico raffinato, talvolta addirittura nel testo, ma assai più spesso tradotti - il teatro del Rinascimento foggia le sue tre forme tipiche: il dramma pastorale, creazione italiana che fra i secoli XVI e XVII invade molti paesi europei; la commedia umanistica, che trasmette all'Europa l'eredità comica dei Greci e dei Latini; e, assai più frigida e meno imitata, la tragedia, ricalcata su Euripide e specie su Seneca. Il teatro diviene, allora, divertimento di signori e di principi, di cardinali e addirittura di papi (Leone X); insomma, senza escludere il gran pubblico, è per eccellenza fenomeno di corte. Dapprima i suoi interpreti sono gentiluomini, accademici, studenti; eccezionale è un caso come quello del cardinale Ippolito d'Este, che fa recitare a Roma dai suoi domestici, cuochi e stallieri, una commedia del Molza e del Tolomei, del resto con tale affflusso di pubblico che si deve trattenerlo con le guardie. A ogni modo si tratta sempre di attori "dilettanti"; e gli spettacoli del genere sono promossi non da impresarî, ma da mecenati o da enti culturali, come accademie e simili.
Ma già nella prima metà del sec. XVI s'è rivelato il fenomeno nuovo, l'apparizione degli attori professionali, detti perciò comici "dell'arte". Da molti storici si è parlato di costoro come di genialissimi ma rozzi improvvisatori, emersi dalla farsa plebea; in realtà, essi o almeno i più famosi, quelli cioè che già nella seconda metà del secolo avevano avuto enorme successo in quasi tutti i paesi d'Europa (v. commedia dell'arte), erano metodicamente esperti nell'arte loro (in cui dovevano avere gran parte le doti mimiche, acrobatiche, coreografiche, musicali, ecc., dato che recitavano davanti a spettatori la massima parte dei quali non ne intendeva la lingua). Interpreti acclamati di opere regolari (Aminta e Pastor Fido furono per la prima volta recitati da loro), essi conseguirono però la massima fama, come si sa, nella cosiddetta commedia improvvisa, dove i personaggi erano stilizzati in altrettanti tipi fissi, o maschere. Ma queste non erano se non la trasformazione dei caratteri della commedia classica; alla quale erano di regola attinti anche i loro "scenarî", o intrecci. Si aggiunga che i più famosi comici dell'arte erano quasi tutti colti e letterati (al punto che recentemente il Pirandello, in uno scritto polemico, ha voluto addirittura considerarli come autori che facevano anche gli attori); e si comprenderà come e perchè, pur non avendo creato opere di poesia in quanto rinunciarono a scrivere, essi adempirono tuttavia al compito di trasmettere dall'Italia a tutta l'Europa, oltre i principî dell'arte dell'attore moderno, le formule e i modi dell'eterna sostanza comica ereditata dalle letterature classiche (Roma, Magna Grecia, Grecia).
Interessante è poi la commedia dell'arte anche come documento sociale e morale, in quanto la sua abituale sconcezza, che sollazzava principi, re e regine, può dare un'idea del costume dell'alta società nei secoli XVI, XVII e XVIII. Questo, e la vita nomade e irregolare dei comici - fra cui non mancarono gli scapestrati e i delinquenti, mentre per la prima volta, dopo la millenaria parentesi medievale, riapparvero in scena le donne - provocò contro la professione dell'attore i rigori della Chiesa, con censure e scomuniche la cui applicazione variò di paese in paese, ma che più o meno durarono sino e oltre la fine del sec. XVIII. Gli attori, sia italiani sia quelli che sul loro esempio si erano educati negli altri paesi, si difesero riparandosi dietro lo scopo morale o religioso o benefico (in Spagna, ottennero la protezione della Chiesa col dare una parte degl'introiti ai poveri e ai malati), e ricorrendo alla protezione dei sovrani.
Questi dal canto loro, sia cattolici sia (ma più di rado) protestanti, accordarono spesso (non sempre; ci furono periodi di severità, e anche di persecuzione) la loro protezione al teatro. Ma, in cambio, ne regolarono la vita e l'organizzazione con leggi e privilegi che, concessi a qualche compagnia, si tradussero in ferree restrizioni per le altre, e spesso in un vero e praprio regime di monopolio: altrove (v. attori) si è esposto come i re di Francia e d'Inghilterra abbiano disciplinato questa materia delle licenze per recitare concesse a un dato numero di teatri e di compagnie e non più, e delle sovvenzioni ad essi accordate.
Intanto, nel nuovo tipo di teatro a palchetti che gli architetti italiani hanno creato dopo la nascita di un nuovo spettacolo genuinamente italiano, il melodramma, si rispecchia lo spirito d'una società gerarchica e fastosa, che anche a teatro vuole la separazione delle classi: i principi e gli ottimati ai posti d'onore, i gaudenti nei palchi dove si fa conversazione, si amoreggia, e all'occorrenza si mangia e si beve, e infine gli umili (quando ci sono) negli infimi posti. La sala illuminata (malgrado le raccomandazioni in contrario di qualche scenografo) non meno sfarzosamente del palcoscenico, e popolata, specie nelle grandi rappresentazioni liriche e coreografiche, da un pubblico in costumi fulgidissimi, è già uno spettacolo essa stessa. Sovente le stampe dell'epoca, fatte per documentare lo splendore d'una messinscena, si dànno cura di riprodurre anche il teatro e gli spettatori.
Più lentamente tutto ciò si diffonde negli altri paesi, dove ancora in parte del sec. XVII il teatro rimase spesso affidato ad artisti girovaghi e avventurieri, se non lestofanti e ladri: chi voglia farsi un'idea di ciò che fossero, per es., gli artisti spagnoli, via via accampati nelle piazze e nei cortili dove recitavano davanti a folle di spettatori che lanciavano frutta e sassi, legga il Viaje entratenido del De Rojas; o, per i francesi, il Roman comique di Scarron; o le descrizioni del pubblico incredibilmente eterogeneo che frequentava gli spettacoli drammatici dell'età elisabettiana. Con un pubblico di tal genere furono alle prese Lope de Vega e Calderón, Shakespeare e Molière. Ed è solo fra il Sei e il Settecento che, sotto l'impulso italiano, ai corales di Madrid, ai teatri di tipo popolare come il Globe shakespeariano, e a quelli misti come l'Hôtel de Bourgogne di Parigi dove il pubblico grosso stava in piedi nel parterre e i signori nella galleria o addirittura in poltrona sul proscenio, si sostituiscono via via i nuovi e belli teatri all'italiana. Ciò, s'intende, non impedisce la insistente sopravvivenza degli spettacoli plebei, più o meno irregolari; a Parigi i théâtres de la Foire, e in tutte le metropoli, e in provincia, guitti e saltimbanchi, sempre cari al popolino e spesso anche alla piccola borghesia, continuano come possono il loro mestiere.
D'altra parte, in periodo di Controriforma, quando più si acuisce la guerra che alcune chiese protestanti e, anche per reazione, la cattolica, fanno al teatro (comprese le degenerate rappresentazioni religiose: contro le recite del famoso mistero del Vieux Testament in Francia, riboccante di indecenze, dové intervenire il parlamento), si delinea il fenomeno del teatro edificante che si rifugia nei collegi. La tradizione si può far risalire a Rosvita (v.); ma le sue origini prossime sono italiane (le laudi del Savonarola nel chiostro di San Marco, l'oratorio di San Filippo a Roma). Essa è coltivata specialmente dai gesuiti e, sul loro esempio, dagli altri ordini religiosi che si dedicano all'insegnamento, maschile e femminile. Eccezionalmente, produce anche opere di gran classe, come l'Esther e l'Athalie, scritte da Racine per le educande di Saint-Cyr. Ma in genere i trionfi del teatro gesuitico riguardano soprattutto la messinscena, che specie in Francia, e più ancora in Germania e in Austria, raggiunge grandi splendori.
La moda dei teatrini di corte, o addirittura di salotto, si diffonde pure nell'alta società del Settecento. E si può dire che solo a questo tipo appartiene, dalla metà del sec. XVII a tutto il XVIII, il nascente teatro russo; dove Pietro il Grande accoglie però anche il pubblico estraneo, e a cui Caterina II dà nuovo impulso.
Come si vede, a veri e proprî spettacoli d'arte la folla è tuttavia ammessa solo in parte, e nelle massime città: l'autentica arte drammatica è, salvo rari periodi, inaccessibile alla maggioranza della popolazione. Le battaglie letterarie di un Corneille e d'un Racine, le lotte di più vasta portata sostenute da un Molière, o, in Italia, quelle di un Goldoni, che pure sono seguite anche da un certo pubblico borghese nelle città dove si svolgono, interessano sopra tutto un'élite; le gazzette le descrivono e le commentano, ma il cerchio degli spettatori è sempre ristretto.
Quanto agli attori, il contegno della società a loro riguardo è incerto e contraddittorio. Sospetti all'autorità civile, e respinti, come si è detto, dalla Chiesa, che almeno in certi paesi li considera viventi in peccato e non li ammette ai sacramenti neanche in punto di morte se non rinnegano l'arte loro, spesso però sono idolatrati dal pubblico, e divengono familiari agli stessi sovrani. Per citare solo gli esempî più noti, si ricorderanno i re di Francia, che proteggono e ammettono alla loro intimità alcuni famosi comici italiani dell'arte, e particolarmente Luigi XIV, regalmente benevolo verso l'attore-autore Molière; sebbene l'Accademia creata dal cardinale di Richelieu rifiuti d'ammettere nel suo seno appunto perché esercita un mestiere "infame", l'autore de L'Avare, e alla sua morte pressoché improvvisa il parroco stenti a concedergli i funerali religiosi, che hanno luogo solo per l'intervento, sollecitato dalla corte, dell'arcivescovo di Parigi, e in forma pressoché clandestina, senza nessuna pompa.
Incidenti analoghi si verificano, del resto, anche in morte d'altri attori, e specialmente attrici, celebri. Difatti, se taluna di queste è celebrata per le sue virtù non solo d'artista ma di donna - come nel 1604 Isabella Andreini, cantata dal Tasso, dal Marino, dal Chiabrera, e da altri poeti italiani e francesi - la più parte menano vita dissoluta, e il loro nome si mescola agli scandali del tempo: dalla Duparc, l'amica di Racine, morta in circostanze tragiche, per le quali caddero sospetti fin sull'insigne poeta, alla Lecouvreur, la cui esistenza avventurosa e morte pietosa han poi dato origine, come si sa, a racconti e melodrammi romanticheggianti. Ma accade pure che l'arte giunga a redimere qualche grande attore, almeno agli occhi della società intellettuale, dai pudori o dai pregiudizî del secolo. Nel sec. XVIII, Garrick diverrà l'idolo del più eletto mondo britannico, al punto che non si esiterà a seppellirlo nell'abbazia di Westminster, accanto a Shakespeare (che pure era stato attore di mestiere); onore poi concesso a un altro autore-attore, Sheridan, malgrado gli stravizî che avevano inquinato la sua esistenza e addirittura, si dice, causato la sua morte.
Rivoluzione francese e romanticismo. - Chi riporta il gran pubblico a teatro, anche con l'idea di tornare agli esempî delle democrazie classiche, è la rivoluzione francese. Essa vuol fare il teatro non più per le élites, ma per il popolo; proclama di voler trasformarlo, da scuola di corruzione a uso delle classi gaudenti e corrotte, a scuola di virtù. I teatri di Parigi diventano, allora, una specie di succursale dei comitati rivoluzionarî; quel che vi si rappresenta, è di gusto assai discutibile; gli autori, incerti fra gl'ideali delle decantate virtù greco-romane (che li riportano alla tragedia classicista e alla sua morale), e le proclamate libertà nuove (talché si provano in una quantità di lavori di propaganda, fra i quali non uno è rimasto nella storia dell'arte), invitano gli spettatori alla discussione, alla disputa, al tumulto; gli spettacoli sì svolgono tra roventi entusiasmi, e incidenti clamorosi. Al tempo del consolato e poi dell'impero, Napoleone - amico personale del grandissimo Talma, che dopo la sua caduta lo ripagò con notevole ingratitudine - si fa protettore del teatro, promovendone l'incremento, e disciplinandone l'attività pratica, con leggi insieme amorose e severe. L'ultima è, come si sa, quella per la riforma della Comédie-Française, a tutt'oggi il più antico teatro d'Europa, che vanta le sue origini dalla troupe di Molière sussidiata dalla cassetta privata di Luigi XIV, e che Napoleone riorganizza col famoso "decreto di Mosca", firmato nel momento più critico della sua vita, dalla reggia degli zar da lui occupata.
Sennonché il rinnovamento del teatro, non solo francese ma europeo, si deve al Romanticismo. Per esso il dramma vuol diventare l'agitatore dei grandi problemi proposti dagli spiriti più vigili all'anima delle folle. Da esso moverà il teatro dell'Ottocento, la cui caratteristica essenziale sarà appunto il suo profondo desiderio di creare una nuova morale, e di esercitare una profonda influenza sociale.
I primi bandi e squilli in questo senso erano partiti dalla seconda metà del sec. XVIII, in Italia grazie all'Alfieri, in Francia grazie al Diderot, e soprattutto in Germania grazie al Lessing, e al movimento intitolatosi dal famoso dramma del Klinger, Sturm und Drang: le speranze in una nuova e libera umanità, la vita giustificata in sé, l'ansia d'una perpetua ricerca proposta non più come mezzo ma come fine, il culto dell'io, della sensibilità e della passionalità, il ripudio delle vecchie regole così etiche come estetiche, il ritorno al senso della natura e dell'infinito, l'adorazione per Shakespeare campione di tutte le virtù, l'attesa d'una grande arte nuova e d'un grande teatro tedesco e universale che ne sia la suprema espressione, sono via via i sogni del Herder, del cenacolo degli Schlegel, e dello stesso Goethe che, particolarmente riguardo al teatro, ne fa oggetto del suo Wilhelm Meister, e consacra gran parte della vita all'attività non solo di drammaturgo ma anche di direttore di teatro, istruttore d'attori e regista. L'influenza del teatro nella Germania di quell'epoca è, effettivamente, immensa. Schiller è salutato non solo poeta drammatico, ma maestro di vita; dopo il trionfo dei suoi Masnadieri, giovani della buona società abbandonano il tetto familiare per farsi banditi.
In Francia il teatro romantico, specie per opera di colui che ne vien ritenuto il profeta, Victor Hugo, non tanto s'effonde nei fremiti della fede tra melanconica e vagamente religiosa dei romantici tedeschi, quanto si fa accusatore del passato monarchico e cattolico, e propagandista d'un ottimismo laico, demagogico e umanitario. Certo non entrano in queste formule il breve teatro del Vigny, ch'è intimamente aristocratico, né quello più dovizioso del Musset, che però dopo un infelice esordio scenico rimane per lunghi decennî estraneo alla ribalta e confinato nel libro. Ma, dalla prima dell'Hernani in poi, le grandi battaglie teatrali, con polemiche e zuffe fra gli spettatori, si combattono intorno ai drammi di Hugo (sebbene il poeta non abbia certo dato in essi i frutti migliori del suo ingegno). Né vogliono esser battaglie soltanto estetiche; ma concretare in qualche modo un aspetto della lotta fra tradizione e rivoluzione, reazione e libertà. Caratteri più bonarî ebbe il romanticismo inglese, fatta eccezione per gli atteggiamenti fra satanici e immoralisti del Byron, il cui teatro del resto fu un fenomeno soprattutto letterario.
In Italia il teatro romantico - che diede i suoi massimi fiori nei due capolavori essenzialmente mancati, ma ricchi di particolari stupendi, d'Alessandro Manzoni - presto dai cauti accenti religiosi, di carità e giustizia cristiana, passò a quelli nazionali. Le sale degli spettacoli italiani ospitarono, travestiti e compressi, gl'inni alle idee del Risorgimento; successo in gran parte politico fu quello della Francesca del Pellico; interamente politico quello delle tragedie del Niccolini; patrioti gli autori, gli attori, le attrici, tanto che alla più grande fra essi, la Ristori, il Cavour si rivolgeva come ad "ambasciatrice d'Italia".
Il teatro dell'Ottocento. - E gli entusiasmi quarantotteschi troveranno sfogo nel melodramma; gli applausi a una ballerina nasconderanno un'affermazione di partito, le parole d'un coro assumeranno (donde i comici rigori della censura) significati politici; "Viva V.E.R.D.I." vorrà dire "Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia".
Non è detto tuttavia che il tono di tutto il teatro dell'Ottocento sia stato sempre lo stesso; al contrario. La rivoluzione francese, promettendo l'eguaglianza a tutti i cittadini, in realtà l'aveva data al "terzo stato", ossia aveva creato la nuova società borghese. E come la costituzione politica di quasi tutti gli stati del continente europeo aveva finito col modellarsi, più o meno, su quella della Francia borghese, così il teatro drammatico che la Francia esportò nell'Ottocento sulle scene di tutto il mondo - a quel modo che l'Italia fornì invece il melodramma - ebbe caratteri essenzialmente borghesi. Sparito, col progressivo affievolirsi della ventata romantica, ogni spirito religioso nel dramma, il teatro di Francia, e dei molti che ne seguirono le orme in tutta Europa, fu un teatro soprattutto borghese: con Scribe, con Labiche, più tardi anche con Sardou, mirò soprattutto a dilettare e intrattenere la digestione del pubblico borghese; con Augier, fece l'apologia degli ideali del nuovo mondo laico e borghese; con Dumas figlio, ne fece la critica, ma dal punto di vista d'un brillante moralista laico. Sulle stesse orme marciò il teatro italiano, specie col rozzo Giacometti e col galantuomo Ferrari; e, più ingenuamente, il teatro borghese d'Inghilterra, dove di rado, e con scarso successo, tentarono di reagire in senso lirico alcuni poeti. A un livello altrettanto, se non più modesto, si mantenne in quel secolo il teatro spagnolo; né in Germania fu compresa dal gran pubblico contemporaneo l'opera del suo massimo drammaturgo, Hebbel, il quale accanto ai suoi drammi ancora romanticamente fantasiosi come Giuditta, I Nibelungi, Agnese Bernauer, creò il primo dramma moderno di apparenze veristiche, ma di intimo contenuto tragico, in Maria Maddalena.
Il nuovo grido del rinnovamento fu levato da uno scandinavo, Enrico Ibsen; che, dopo la poesia di Brand e di Peer Gynt, affrontò la prosa dei suoi tredici drammi borghesi, in cui il suo idealismo anarchico proclamò con veemenza l'incompatibilità fra individuo e società, fra l'uomo che vuol darsi da sé la sua legge nuova e la regola tradizionale che non gli appare se non impaccio, soffocazione, ipocrisia e peso morto. L'importanza di questa nuova, e più profonda, rivoluzione morale, estetica e anche tecnica, non fu intesa subito in tutti i paesi.
In Francia, un Becque, e più ancora il miglior teatro che lo seguì, si attennero per un pezzo ai dettami del naturalismo fotografico, ostentatamente obiettivo, in realtà amaro, disperato, corrosivo; in Italia col verismo - salvo il Verga, che creò alcune brevi opere sceniche dense di intima tragicità, e non scevre neanche d'echi religiosi - il Giacosa nella seconda maniera, il Praga, il Rovetta, il Bertolazzi e i loro epigoni, s'indugiarono più o meno nella stessa via; per non parlare della Russia, dove alle tragedie e alle satire che, rispettivamente, Puškin e Gogol′ avevano dato al primo Ottocento, aveva tenuto dietro la vivace pittura dei costumi fatta da Ostrovskij, in commedie anch'esse di forme borghesi, ma dove talvolta (L'uragano) affiorava uno spirito religioso.
L'opera di Ibsen fa la sua conquista lentamente, ma profondamente; anche grazie ai commenti, delucidazioni e polemiche, d'un nuovo collaboratore che la stampa quotidiana, diffondendosi nei regimi liberali, pone a disposizione dell'arte drammatica: la critica teatrale. Questa occupa nei giornali uno spazio sempre crescente; i critici teatrali divengono, in certi casi, maestri ammirati, e seguiti da un loro pubblico pronto a giurare in verba magistri. È in questo clima che la grandezza di Ibsen viene riconosciuta; a un certo momento, non c'è più paese d'Europa che non risenta dell'arte sua: si ricordino lo Strindberg in Norvegia, il Hauptmann e anche il Sudermann in Germania, il De Curel in Francia, il Bracco e il Butti e più tardi lo stesso D'Annunzio in Italia, l'Araquistain e lo stesso Unamuno in Spagna, perfino in Inghilterra il Pinero e altri nelle lor cose migliori, e infine l'esordiente Shaw di Candida. La tradizione, la regola, la legge, furono messe in stato d'accusa; non mai un teatro era stato così intimamente rivoluzionario; la borghesia intellettuale che andava ad applaudirlo, applaudiva al crollo di tutte le ragioni della sua stessa esistenza. E la crociata che, tra la fine del sec. XIX e i primi anni del XX, fu bandita contro il naturalismo e il verismo, per un ritorno al senso del mistero (Maeterlinck, o all'estetismo (Wilde), o all'avventura eroica (D'Annunzio), o alla satira brillante (Shaw), ecc., ebbe caratteri, oltre che estetici, morali. Se la guerra mondiale, abbattendosi contro l'armatura ancora ottocentesca della società borghese, la trovò corrosa e marcia, il teatro europeo v'aveva avuto la sua parte. Come aveva avuto la sua parte nell'affermazione di molte nazioni minori ingrandite, o rese indipendenti, dal trattato di Versailles e dagli eventi che ne dipesero: in Polonia, in Romania, in Grecia, in Irlanda, ecc., i cosiddetti "teatri nazionali", erano stati i pionieri della riscossa politica; e pionieri della rivoluzione comunista erano stati quelli russi; e annunciatore, se non del sionismo, d'una nuova coscienza ebraica, erano stati quei teatri ebraici che pure s'erano andati creando tra la fine dell'Ottocento e il principio del Novecento, per la prima volta esprimendosi da un popolo il quale, in decine di secoli, non aveva mai avuto teatro.
Si deve poi rammentare che il carattere di fasto e di trattenimento mondano è rimasto, come lasciato in eredità dai secoli precedenti, al teatro lirico: è anche a un tal carattere che Napoleone probabilmente aveva alluso dicendo: "La Comédie-Française è l'orgoglio della Francia, mentre l'Opéra non è che la sua vanità". Il lusso degli abbigliamenti di spettatori e spettatrici, l'etichetta e le parate delle serate "di gala" e simili, rimangono una consuetudine pressoché esclusiva del teatro di musica. Quello di prosa invece assume, nelle sue sale, aspetti sempre più democratici e talvolta addirittura dimessi: chi vi decide dei successi dell'arte nuova è sovente un'intellettualità rappresentata da piccoli borghesi, più disposti a considerarlo come una palestra, una cattedra, un pulpito, che non un ritrovo elegante e galante.
Ma è proprio nell'organizzazione del teatro di prosa che l'Ottocento vede compiutamente attuata, in tutti i paesi d'Europa con le sole eccezioni della Spagna e dell'Italia, una riforma già iniziata nei secoli precedenti: la creazione, almeno nelle città principali, di teatri stabili che sostituiscono le antiche compagnie nomadi (v. compagnia). A ciò si deve l'adozione di nuovi criterî nell'interpretazione scenica, secondo quei dettami della regia moderna, di cui Goethe era stato un antesignano (v. messinscena), ma che si affermò soprattutto nel teatro di corte d'un piccolo sovrano tedesco, il duca di Meiningen. Notiamo inoltre che a questa "stabilità" del teatro ha corrisposto - secondo una nota profezia di Shakespeare (Amleto, atto 3°) - anche una maggior dignità riconosciuta all'attore; il quale, non essendo più lo zingaro e il girovago d'una volta, ha riassunto, nel mondo moderno, la considerazione d'artista che gli compete. Trattato alla pari e onorato dalla società, insignito di decorazioni cavalleresche dallo stato, l'attore moderno è stato riaccolto anche dalla Chiesa: fioriscono oggi in molti paesi (America, Francia, Italia) associazioni o comitati di attori cattolici, come d'altre chiese, per attività religiose, che nessuno più si sogna di trovare incompatibili con la loro professione.
Alla fine del secolo XIX, va poi notato un fenomeno nuovo: gran parte dei movimenti per il rinnovamento della scena, e anche del dramma, hanno origine da piccoli teatri, detti "d'avanguardia", "d'eccezione", ecc.: ricordiamo il Théâtre libre d'Antoine a Parigi (1867), la Freie Bühne di Berlino (1889), l'Independent Theatre (1891) di Londra, l'Œuvre (1893) di Parigi, l'Irish Literary Theatre (1899) poi divenuto l'Abbey di Dublino, il Teatro d'arte di Mosca (1899), il Curt Theatre di Londra (1904), il Vieux Colombier (1913) di Parigi; poi ancora il Guild Theatre di New York e i molti teatrini sparsi in tutta l'America, e i teatri di Meyerhold e di Tairov a Mosca, i teatri del "Cartel" (Dullin, Jouvet, Baty, Pitoeff) a Parigi, e gl'innumerevoli teatrini pullulati in tutti i paesi (compresi, specie nel dopoguerra, Milano e Roma, dove possono ricordarsi quello degli Indipendenti, e l'Odescalchi diretto da Pirandello). Frequentati almeno sul principio come veri e proprî cenacoli da gruppi di amatori e di "iniziati", alcuni fra questi teatri hanno avuto la sorte di rivelare correnti importanti, o autori famosi, come De Curel, Hauptmann, Čechov, O'Neill, ecc. E molti hanno recato il loro apporto all'arte della messinscena moderna, e delle infinite forme ch'essa ha assunto ai nostri giorni.
Dopoguerra. - La corsa al piacere che caratterizzò in quasi tutti i paesi d'Europa i primi anni del dopoguerra, favorita anche dall'inflazione della moneta, diede grande incremento agli spettacoli teatrali, in quegli anni affollatissimi (sebbene il nuovo spettacolo tipico del tempo fosse ormai il cinematografo). I principî della "libertà" socialdemocratica che per quel breve periodo si vollero applicare più o meno dappertutto (con l'eccezione, unica o quasi, della Russia bolscevica), favorirono l'apparizione d'un teatro beffardo, o convulso, o cinico, o nichilista, talvolta ossessionato dai problemi sessuali, quasi sempre espressione dello sfacelo spirituale che si respirò allora in Europa. Anzi in qualche paese, dove si era già avuto un mutamento di regime, si uscì dal campo del mero dibattito d'idee e critica di costumi, per arrivare alla vera e propria propaganda sovversiva. In Germania, sotto l'incubo della sconfitta e della dura miseria, autori e registi (Piscator) si fecero atroci propagatori d'uno spirito deleterio: i suoi effetti erano moltiplicati dalla mirabile organizzazione tedesca per cui agli operai e in genere al popolo erano resi accessibili non solo gli spettacoli dei teatri propriamente popolari, come il grande Volkstheater di Berlino, ma spesso anche quelli dei teatri normali.
Il sopravvenire della crisi economica mondiale, e una rapida stanchezza del pubblico deluso dall'insistenza su stravaganze, o follie, o problemi che nei casi migliori potevano interessare un ristretto numero d'intellettuali, lo distolsero ben presto da un siffatto teatro. Da allora cominciò, o ricominciò con più generale allarme, quella deplorata "crisi del teatro", che nell'ultimo decennio è stata oggetto di infinite dispute, polemiche, progetti, libri e congressi. Si sono denunciati come causa del rincrudito fenomeno il cinema e lo sport; si sono invocati aiuti dallo stato; soprattutto si è accusato il cerebralismo degli autori, che non parlano più alle folle, cui il teatro sarebbe per definizione destinato. E anche per questo si è partiti in guerra contro i piccoli teatri, ai quali può riconoscersi un compito utile solo se sussidiario, ossia di laboratorî sperimentali; ma sempre in funzione del vero teatro ch'è quello grande, e non mai come fine a sé stessi.
A questa reazione taluno ha tentato di far assumere forme iperboliche anche in Italia: dove, prendendo alla lettera una frase di Mussolini "bisogna fare il teatro di masse, il teatro per ventimila persone", si vollero promuovere spettacoli all'aperto nei quali agivano immense masse d'attori, e presentare progetti per la costruzione di teatri che dovrebbero esattamente contenere ventimila persone. In realtà l'appello, rivolto dal duce agli autori italiani per esortarli a tornare agli eterni "sentimenti" delle folle, era di natura spirituale; teatro di masse è quello che, comunque, si rivolga all'anima di una folla. Per il quale fine - senza escludere la possibilità che possa un giorno crearsi un tipo di spettacolo drammatico accessibile a venti o a cinquanta o a centomila persone adunate tutte insieme - basta invitare mille spettatori alla volta, per venti o cinquanta o cento e più repliche; l'essenziale è parlare al loro spirito, suscitare il loro consenso, ottenere la loro comunione.
Similmente si è parlato, in Italia, del cosiddetto teatro di propaganda, anche sull'esempio di quello che dal 1918 si è effettuato nell'U. R. S. S. Ma in verità non pare che i risultati, ormai quasi ventennali, dell'esperimento russo, siano incoraggianti, diciamo nel campo della "produzione": non si conosce ancora una grande opera d'arte scritta secondo le prescrizioni emanate in materia, come è noto, dai commissariati bolscevichi. Ciò per cui il teatro della Russia comunista ottiene la generale ammirazione, è l'arte dei suoi attori e registi (ereditata, come si sa, dalle grandi scuole dell'anteguerra, massima quella moscovita di Stanislavskij e Dančenko). E oggi sono infatti i registi russi, che in molti casi, rifacendo ex novo, per ridurle al voluto significato politico, le opere messe in scena, ne divengono gli effettivi autori. Comunque sia, la Russia bolscevica si vanta d'avere, per la prima, riportato al teatro immense folle di operai, a cui la parallela frequenza del cinema non impedisce affatto quella degli spettacoli drammatici. L'Ottocento francese si era illuso anch'esso, come abbiamo visto, di introdurre il popolo a teatro: in realtà vi aveva introdotto il "terzo stato". In Russia invece si è veramente attuato, per la prima volta dopo il Medioevo cristiano, il proposito espresso da Maksim Gor′kij con la formula: "Il Settecento fece il teatro per i nobili, l'Ottocento per i borghesi; noi vogliamo farlo per il popolo".
Ma l'idea di un teatro "di propaganda" in siffatto senso non ha incontrato favore negli altri paesi: salvo la Germania nazista, dove però a tutt'oggi si è applicato in forme più moderate. I generali appelli perché il teatro ritorni alle folle, alle masse, al popolo, hanno nel resto d'Europa avuto accento sociale, nazionale, religioso, ma rimanendo, appunto, appelli e inviti, senza carattere di costrizione. Un organismo internazionale è sorto, originariamente all'ombra della Società delle nazioni, la Société universelle du théâtre, che dal 1927 in poi ha indetto congressi in importanti città d'Europa (Parigi, Barcellona, Amburgo, Zurigo, Roma, Mosca, Vienna, ecc.), promovendo scambî d'idee (i quali però sul terreno pratico non hanno finora dato molti frutti), e talvolta interessanti festival internazionali. Altri festival musicali e drammatici vanno suscitando l'interesse del pubblico internazionale, da quindici anni a questa parte, un po' dappertutto, con spettacoli al chiuso e più spesso all'aperto; vi si interpretano opere classiche, vi si fanno esumazioni e riduzioni di sacre rappresentazioni medievali, vi si dànno saggi di spettacoli moderni. Si scelgono per sedi teatri antichi, o anche ruderi classici (come a Orange, ad Atene, a Siracusa), piazze monumentali (Salisburgo, Firenze) o caratteristiche (Venezia), giardini e chiostri (Firenze), ecc. Iniziative private, o sovvenzionate da enti pubblici e dallo stato, tentano di riportare al gusto del teatro perfino il popolo dei villaggi e delle campagne: come in Francia gli attori cristiani che si intitolano Comédiens routiers, in Spagna La Barraca degli studenti universitarî condotti dal poeta García Lorca, in Italia i Carri di Tespi a cura dell'Opera Nazionale Dopolavoro, uno lirico e tre drammatici, che montati su automobili durante i mesi estivi dànno rappresentazioni a bassissimo prezzo in tutte le regioni d'Italia.
Di un tono assai diverso, e cioè costituiti soprattutto a scopo di studio, sono i piccoli teatri universitarî che vivono presso molti atenei, specialmente nell'America Settentrionale, dove parecchi svolgono una fiorente attività.
Il teatro di musica. - Particolare considerazione merita il teatro di musica, il teatro cioè in cui si rappresentano esclusivamente opere di musica (v. opera). La musica, come si è visto, appare mescolata alla recitazione nell'antica sacra rappresentazione e in tutte le forme che da questa derivano. L'Orfeo di Angelo Poliziano, rappresentato a Mantova nel 1471, è scritto infatti, nella prima stesura, in forma di sacra rappresentazione e pieno di canti scenici. Ma, sorto il teatro di imitazione classica ai primi del Cinquecento, la musica prende posto tra un atto e l'altro, a vivificare i cosiddetti intermezzi, tanto nelle forme tragiche, quanto in quelle comiche o pastorali.
Ma a parte questi spettacoli in cui la musica, di stile polifonico, si alterna - tra un atto e l'altro dello spettacolo - alla recitazione, particolare riguardo merita, come s'è detto, l'opera in musica: forma nuova di rappresentazione scenica creata dai Fiorentini con l'intenzione di risuscitare la tragedia greca che allora si credeva fosse interamente cantata.
Il primo esempio di opera in musica propriamente detta, l'Euridice di Iacopo Peri, fu dato a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1600, in occasione delle nozze di Maria de' Medici; rappresentazione di cui Michelangelo Buonarroti il Giovane ci ha lasciato una minuziosa e precisa descrizione. Fra gl'invitati che assistevano alla memorabile rappresentazione era fra gli altri il duca di Mantova, che vagheggiò l'idea di portare il nuovo genere di spettacolo nella sua città; e il primo dei melodrammi rappresentati (il 24 febbraio 1607) a Mantova in una sala dell'appartamento fu l'Orfeo di Claudio Monteverdi. Questi compose inoltre l'Arianna, che fu rappresentata nel nuovo teatro costruito dall'architetto Vianini nel castello, nel quale teatro, sebbene fosse capace di seimila e più persone, non poterono entrare tutti i forestieri che erano accorsi, come narra il Follino.
L'Euridice del Peri fu quindi rappresentata a Bologna nel 1616 al teatro eretto nel Palazzo del Podestà. Né va dimenticato fra i primi saggi del nuovo genere l'Eumelio di Agostino Agazzari rappresentato a Roma nel Collegio Germanico.
Il nuovo genere, come s'è visto, aveva un carattere nettamente aristocratico, e i teatri in cui era rappresentato erano teatri di corte e privati, in cui s'interveniva per invito. Il primo teatro pubblico fu aperto a Venezia nel 1637 nella contrada di S. Cassiano, da cui trae il nome. L'importo del biglietto d'ingresso era fissato a quattro lire venete, e l'opera di inaugurazione fu l'Andromeda di Francesco Manelli da Tivoli. Nel seguente anno si aprivano intanto sempre a Venezia altri due teatri, quello di S. Giovanni e Paolo e quello di S. Moisè, il quale ultimo si apriva con la famosa Arianna di Claudio Monteverdi. Nel teatro di S. Cassiano si rappresentavano intanto le opere di Francesco Cavalli, allievo del Monteverdi. Nel teatro di S. Giovanni e Paolo dall'apertura a tutto il 1699 si rappresentarono ben 99 opere, fra cui nel 1642 l'Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi. Intanto altri teatri si aprivano a Venezia fra cui quelli di S. Salvatore, di S. Angelo, di S. Samuele e di S. Giovanni Grisostomo. In tutto, Venezia ebbe nel suo centro ben 18 teatri, in 16 dei quali si rappresentavano melodrammi; spesso avveniva che fossero aperti contemporaneamente ben 7 teatri. A dare un'idea dell'importanza del teatro di musica a Venezia basterà ricordare che i melodrammi rappresentati a Venezia fino a tutto il 1700 furono ben 356.
I teatri pubblici in Venezia furono costruiti e mantenuti da privati cittadini appartenenti al patriziato i quali erano proprietarî dei palchi, che qualche volta fittavano ma più spesso cedevano gratuitamente a persone amiche o a personaggi importanti. Gli spettacoli, che nei primi tempi cominciavano nella stagione invernale, ebbero regolarmente principio nell'ottobre, per riprendere, dopo una sospensione dal 15 al 25 dicembre, nella sera di S. Stefano, divenuta più tardi tradizionale per l'apertura di tutti i teatri. Illuminava la sala, prima che cominciasse la rappresentazione, una lampada che si spegneva appena calava il sipario. Restavano accesi soltanto i due doppieri di legno con lume ad olio collocati a lato del proscenio. Chi voleva tenere sotto gli occhi il libretto del dramma, bisognava che si provvedesse di un cerino, il quale si vendeva alla porta del teatro. I biglietti d'ingresso, che dapprincipio erano a 4 lire, furono poi ribassati a un quarto di ducato. Finalmente bisogna aggiungere che a Venezia oltre tutti i teatri citati esistevano varî teatrini di marionette, nei quali si eseguivano intere opere di musica cantate da eccellenti virtuosi.
Se a Venezia presto si ebbero dei teatri pubblici, a Roma questi tardarono a comparire. Il primo teatro di opera fu quello dei Barberini, inaugurato nel carnevale del 1634 con il S. Alessio di Stefano Landi. E l'autore del libretto era monsignore Giulio Rospigliosi che fu poi papa Clemente IX. In questo teatro si rappresentarono particolarmente opere di carattere religioso. Dal 1639 al 1653 il Teatro Barberini restò chiuso, ma rappresentazioni avevano luogo nondimeno nel palazzo dell'ambasciata di Francia per iniziativa dell'abate Mazarino. Verso il 1730 fu costruito un teatro a Tor di Nona, il quale aveva il palcoscenico, verso il Tevere, che si poteva aprire in modo da accrescere la prospettiva e ingrandire l'illusione con la deliziosa e naturale veduta del fiume. Nel 1679 si inaugurava il nuovo teatro Capranica.
I primi spettacoli teatrali a Napoli furono dati nel salone del Palazzo reale, ma nel 1653 gli spettacoli musicali passarono nel teatro di S. Bartolomeo da poco rifatto. Nel 1681 un incendio distruggeva questo teatro e le rappresentazioni furono riprese nel teatro del Palazzo reale; ma dopo due anni il teatro di S. Bartolomeo era ricostruito per iniziativa del duca Medinaceli, che volle ridurlo "in forma più cospicua e magnifica in conformità di altri teatri di altre città".
Tornando infine a Firenze, dove era sorto il melodramma, dobbiamo ricòrdare che verso la metà del 1600 si ricostituì un'accademia degl'Immobili che da un palazzo di Via del Cocomero, in cui ridussero a teatro un vasto stanzone, passarono in Via della Pergola, dove trasformarono un tiratoio dell'Arte della lana in uno dei più bei teatri d'Italia, di cui fu architetto Ferdinando Tracca. Questo teatro si aprì nel 1657 con la Tancia, drama civile rusticale, su libretto di G. Andrea Moniglia e musica di Iacopo Melani. Dalla capitale toscana intanto molto spesso gli spettacoli venivano trasportati nelle vicine città, come Pisa, Lucca, Siena e Pistoia. A Torino infine nel 1668 si costruì il Teatro regio.
L'opera di solito era composta per una data compagnia di virtuosi già scritturati, e di solito non veniva eseguita che da coloro che l'avevano eseguita in origine, i quali ne assumevano, per così dire, diritto di proprietà. Così tutte le opere serie più famose del Settecento erano indissolubilmente connesse con qualche grande cantante (l'Artaserse di J. A. Hasse col Farinelli, l'Orfeo di C. Gluck col Guadagni, ecc.) e questi la cantava dovunque. Le opere cadevano presto fuori di moda e, fatto il giro dei principali teatri, sparivano dal repertorio per essere sostituite da altre.
Intanto accanto all'opera seria appariva l'opera buffa, sorta a Napoli dagl'intermezzi, ossia da rappresentazioni di carattere leggiero e comico che si alternavano agli atti delle opere serie. Così la Serva padrona di G. Battista Pergolesi, rappresentata il 28 agosto 1733 al teatro di S. Bartolomeo, costituiva i due intermezzi del Prigioniero superbo dello stesso Pergolesi.
In seguito gl'intermezzi si resero indipendenti dall'opera seria e così costituirono l'opera buffa propriamente detta. In alcuni teatri come in quello della Pace, che si aprì nel 1704, non si rappresentarono che opere buffe in dialetto napoletano; così in quello dei Fiorentini furono rappresentate numerose opere buffe di Leonardo Vinci e di Leonardo Leo. Intanto nel quartiere di Montecalvario era sorto un teatro che si chiamò Teatro nuovo. Finalmente re Carlo III il 4 novembre 1737 inaugurò il famoso teatro di San Carlo con l'Achille in Sciro di P. Metastasio musicato da Domenico Sarro.
La vita musicale del teatro romano ai primi del Settecento fu limitata ai teatri privati. E fra questi è da ricordare il teatro domestico della regina Maria Casimira di Polonia a Palazzo Zuccari sulla Trinità dei Monti, nel quale furono rappresentate numerose opere di Domenico Scarlatti.
A Venezia nel 1792 si inaugurava un nuovo e grande teatro, che ebbe nome di Fenice con i Giuochi di Agrigento di Giovanni Paisiello. Intanto a Milano si andava sviluppando la vita teatrale. Nei primi anni del sec. XVIII gli spettacoli si davano alla Canobbiana e al Regio Ducal Teatro, che poi venne distrutto dal fuoco. Si pensò allora a costruirne uno nuovo e grandioso, e l'incarico fu affidato all'architetto Piermarini che lo costruì sull'area della soppressa chiesa e collegiata della Scala, da cui derivò il nome che oggi conserva. Esso fu inaugurato il 3 agosto 1778 con l'Europa riconosciuta di Antonio Salieri. A Bologna nella prima metà del Settecento i principali teatri erano privati, ma una società di nobili bolognesi pensò di costruirne uno nuovo e grandioso che fu aperto al pubblico la sera del 14 maggio 1773 col Trionfo di Clelia di Cristoforo Gluck e prese nome di Teatro comunale. A Genova il più antico teatro è il piccolo teatro delle Vigne, ma importanza maggiore ebbe il teatro di S. Agostino; questi teatri divennero però entrambi secondarî quando fu costruito dal re Carlo Felice il teatro che da lui prende il nome.
A Palermo i teatri più importanti del Settecento erano quelli di S. Cecilia e di S. Caterina, il primo dei quali fu dedicato all'opera seria e l'altro all'opera buffa. Nel 1809 il teatro S. Caterina divenne il Reale Carolino, che nel 1860 ebbe nome teatro Bellini. A Vicenza il teatro delle Grazie fu ricostruito nel 1711. A Verona ebbe grande importanza il Teatro filarmonico costruito nel 1716 da F. Bibiena e rifatto dopo un incendio nel 1760.
Alla fine del Seicento risalgono i teatri di Treviso, di Udine, di Rovigo. Ma non è possibile accennare neppure superficialmente a tutti i teatri più importanti d'Italia, ciascuno dei quali ha una storia spesso interessante. Basterà dire che il numero dei teatri d'Italia al principio del Novecento, da un conto fatto dal Grabinski-Broglio, avrebbe raggiunto il numero di 1517.
Se il teatro di musica ha grande importanza nella vita italiana, l'ha altresi in tutti i paesi d'Europa in cui dall'Italia l'opera fu diffusa. Particolarmente in Francia, dove un fiorentino, G. B. Lulli, nel 1682 inaugura l'Académie royale de musique, che fu poi l'Opéra. In Germania l'opera italiana dominò nei varî teatri di corte, a Monaco a Dresda e a Berlino. E non minore diffusione ebbe in Austria, a Vienna, dove visse poeta cesareo il più grande librettista del Settecento: Pietro Metastasio. In Inghilterra si fondò un'accademia reale di musica, e fu famoso il teatro di Haymarket, che fu gestito da G. F. Händel. In Russia l'opera italiana fu importata con ritardo e si diffuse sotto Caterina II. In Spagna, sotto Filippo V, il marchese Scotti Piacentini fu nominato protettore dell'opera italiana e in Portogallo la regina Maria Anna d'Austria, da Vienna portò a corte il gusto delle rappresentazioni teatrali italiane.
Come si vede il teatro di musica dalla metà del Seicento ai primi del Novecento ha nella vita italiana e in quella europea un'enorme importanza non solo estetica, ma sociale e mondana. Perché non solo i principi e l'aristocrazia, ma tutto il popolo ebbero una grande passione per gli spettacoli d'opera e si può dire che non ci sia stata città per quanto piccola che non abbia avuto un teatro.
L'organizzazione e i costumi teatrali hanno subito mutamenti nel corso dei secoli, ma sono rimasti in fondo immutati. Come ai primordî dell'opera così fino ai primi del Novecento il teatro d'opera è stato gestito da una società di nobili facoltosi i quali erano comproprietarî del teatro, nel senso che ciascuno disponeva di un palco di privata proprietà. I cantanti celebri che nel Settecento dominavano tirannicamente i musicisti e che erano gl'idoli del pubblico hanno vista limitata la loro onnipotenza, ma il cantante è rimasto elemento essenziale nel teatro di musica sino a tutto l'Ottocento. Sui costumi teatrali esiste una famosa satira di Benedetto Marcello intitolata Il teatro alla moda. La satira è una caricatura spietata. Ma sotto i tratti alterati è ancora riconoscibile l'aspetto del teatro di musica quale è rimasto in fondo sino alla fine dell'Ottocento.
Circa il funzionamento, occorre osservare che una volta l'impresario era tutto. Non solo scritturava il maestro, il poeta e i cantanti ma diventava proprietario assoluto dell'opera: parole e musica. Più tardi sorsero gli editori che acquistavano la proprietà dagli autori e noleggiavano le opere alle imprese. E sorsero quindi le cosiddette agenzie teatrali che si assumevano il compito di scritturare gli artisti.
I teatri, se di proprietà dei comuni, venivano ceduti a un'impresa che s'impegnava a eseguire un dato numero di recite con determinate opere e determinati cantanti percependo per questo un sussidio in misura variabile, come è detto appresso.
Il teatro e lo stato nei paesi moderni. - Nel nostro secolo tutti gli stati, fatta eccezione sino a oggi per l'Inghilterra e per qualche paese minore come l'Olanda e il Portogallo, intervengono nella vita del teatro non solo con la legislazione, ma anche con sussidî a teatri che abbiano scopi culturali o sociali (si dànno qui le cifre dell'anno 1934).
Sarebbe difficile fare un quadro esatto dell'azione che in questo campo svolge la Germania, dove non solo nelle grandi ma anche nelle piccole città tutti i teatri di qualche importanza trovano aiuti da parte dei municipî, se non dello stato. In Francia lo stato sovvenziona l'Opéra con un sussidio annuo di 8.400.000 franchi; l'Opéra-Comique con 3.300.000 franchi; la Comédie-Française con 1.640.000 franchi; l'Odéon con 600.000 franchi; ai quali sussidî si aggiungono da parte del municipio di Parigi le sovvenzioni di 600.000 franchi annui all'Opéra, 400.000 all'Opéra-Comique; 300.000 alla Comédie-Française, e 200.000 all'Odéon. Tipica è l'organizzazione amministrativa della Comédie, sostanzialmente rimasta, come ai tempi di Molière, una compagnia sociale, dove i principali attori (sociétaires) si dividono i guadagni secondo speciali carature, mentre gli altri (pensionnaires) ricevono uno stipendio; ma tutti sono controllati e guidati dal cosiddetto administrateur général, nominato dallo stato, e che in realtà funziona anche come direttore artistico.
In Polonia esiste oggi un istituto sovvenzionato dallo stato, da cui dipendono i cinque massimi teatri della capitale, ma anche i teatri principali delle città minori ricevono sussidî da enti pubblici. In Cecoslovacchia lo stato sovvenziona il teatro nazionale di Praga (che dipende direttamente dal Ministero dell'educazione) e varî teatri provinciali; molti altri teatri, nelle città principali, sono sovvenzionati dai municipî. Nella Iugoslavia i cosiddetti teatri centrali (Belgrado, Zagabria, Lubiana) sono veri e proprî istituti di stato, con direttore e artisti trattati come funzionarî statali; essi costano rispettivamente 6, 4 e 2 milioni di dinari, oltre alle sovvenzioni dei rispettivi municipî. Altri cinque teatri nelle città cosiddette "residenziali", e tre nelle città "provinciali", hanno invece il carattere di teatri sovvenzionati; solo i loro direttori sono impiegati dello stato, gli artisti sono scritturati volta per volta, le loro sovvenzioni variano dai 600.000 ai 300.000 dinari. A ciò s'aggiunge l'imposta di un dinaro che il cinematografo paga, su ogni biglietto che vende, a favore dei teatri drammatici. La Iugoslavia mantiene inoltre due scuole d'arte drammatica, e conferisce premî annui di 10.000 dinari ciascuno ai migliori drammi dell'annata.
In Austria lo stato spende per i teatri sovvenzionati 4.300.000 scellini l'anno, di cui due terzi vanno all'Opera di Vienna, e un terzo è ripartito fra i due teatri viennesi di prosa, il Burgtheater e il Teatro accademico. L'Ungheria dà una sovvenzione annua di 570.000 pengö all'anno al Teatro nazionale, che è una grande istituzione con un direttore, cinque registi, 61 attori e 283 impiegati. In Svezia per sovvenzionare i teatri si fa ogni anno una lotteria di stato, i cui introiti sono in massima parte destinati ai teatri d'opera di Stoccolma e di Göteborg, somme minori al Teatro Reale drammatico di Stoccolma, a quello di Göteborg, a quello di Helsingburg, all'Organizzazione popolare delle recite all'aperto, e alla Compagnia cooperativa "La Scena". In Romania i teatri sovvenzionati sono sei, con una sovvenzione annuale complessiva di 70 milioni di lei, dei quali 22 vanno all'Opera di Bucarest, 20 al Teatro drammatico della stessa città, il resto ad altri quattro teatri. In Bulgaria lo stato sovvenziona un teatro lirico, un teatro drammatico, e mantiene una scuola d'arte drammatica. In Grecia il Teatro nazionale d'Atene, fondato nel 1930 e retto da un comitato di sei membri scelti dal Ministero dell'educazione nazionale, vive d'una sovvenzione di 5 milioni annui di dracme, di cui 4 milioni provengono da una tassa sulle corse dei cavalli, e 1 milione da una tassa dell'1 per cento su tutti gli altri spettacoli. Negli Stati Uuniti d'America, dove finora lo stato si era sempre disinteressato del teatro, nell'anno 1936, per un'iniziativa personale del presidente Roosevelt, esso è intervenuto a favore dell'arte lirica e drammatica, gravissimamente colpita dalla crisi economica; le cifre ufficiali delle sovvenzioni distribuite da quello stato non si conoscono, ma sembra che ammontino, solo nel primo anno, a varî milioni di dollari. Quanto alla Russia, è nota l'enorme importanza che il regime sovietico ha dato al teatro, facendone, come sopra si è detto, un'istituzione popolarissima e fiorentissima. Le cifre che lo stato spende a questo fine non si conoscono con precisione: nel 1934, si parlava di 150 milioni di rubli annui. I teatri russi, che naturalmente in una società comunista sono tutti proprietà dello stato, erano in quell'anno ufficialmente 560, di cui 60 nella sola Mosca; senza comprendere nella cifra i teatri liberi, esistenti presso circoli e club di varî generi, in numero totale di circa 4700, dove si recita in quaranta lingue diverse. Si noveravano nello stesso anno in Russia 1500 registi, 20.500 artisti lirici e drammatici, 5000 altri addetti ai teatri, e 168 scuole d'arte teatrale, con 26.000 allievi, in maggioranza provenienti dalla classe operaia. Infine anche la Spagna (dove come in Italia si perpetua il regime delle eompagnie nomadi) aveva sovvenzionato una compagnia nazionale del teatro spagnolo e, per qualche anno, la "Barraca" degli studenti universitarî ricordata sopra.
Quanto all'Italia, dove durante l'Ottocento lo stato liberale era intervenuto solo per eccezione, e in casi rarissimi, nelle sorti del teatro, limitandosi i varî municipî a sussidiare le "stagioni" dei teatri lirici, il regime fascista ha iniziato un'attività di controllo, di protezione e di sovvenzione, mediante più istituti giuridici, amministrativi e politici. ll primo di questi è stato la corporazione dello spettacolo, costituita nel 1930, e ora presieduta personalmente dal capo del governo. Essa disciplina nel suo seno le due grandi federazioni che adunano tutti i sindacati in cui è stata professionalmente ordinata la vita teatrale, quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori: ossia da un lato gl'industriali del teatro (impresarî lirici, impresarî drammatici, capocomici, editori teatrali, proprietarî e gestori di cinema, ecc.) e dall'altro gli artisti e lavoratori (attori, cantanti, orchestrali, macchinisti, ecc.) col compito di conciliare gl'interessi delle singole categorie nel superiore interesse dell'industria e dell'arte. I principali risultati finora ottenuti sono stati: l'abolizione del mediatorato privato, la creazione dell'Ufficio di collocamento, la disciplina dei contratti di lavoro e di quelli per la gestione dei teatri, la sistemazione della Cassa nazionale di previdenza per gli artisti vecchi o invalidi, l'istituzione d'un comitato di lettura per i nuovi lavori inviati da qualunque cittadino, ecc. Nel 1935 il regime ha creato nel Ministero della stampa e propaganda, accanto a una Direzione generale del cinematografo, un Ispettorato del teatro, che nel 1936 è stato elevato anch'esso al rango di Direzione generale. Questa è divenuta l'organo esecutivo dello stato per tutta la sua attività relativa agli spettaeoli drammatici e lirici, e alla radio. Alcuni dei teatri lirici italiani vivono in regime speciale; il Teatro alla Scala di Milano ha un milione annuo di sussidio statale, poi il provento di una tassa su tutti gli spettacoli che si dànno nella provincia, la quale gli assicura varî milioni l'anno; il Teatro reale dell'Opera è gestito direttamente dal governatorato di Roma, con una spesa annua che si aggira sui 5-6 milioni; il teatro Vittorio Emanuele di Firenze gode anch'esso, oltre a una sovvenzione governativa, del provento di una tassa sugli spettacoli che si dànno nella città. Sovvenzioni municipali e statali sono poi date alla R. Accademia di S. Cecilia di Roma specialmente per la sua attività concertistica, e a tutti i teatri lirici grandi e piccoli, da quelli delle città maggiori come il San Carlo di Napoli, il Carlo Felice di Genova, La Fenice di Venezia, ecc., a quelli dei piccoli centri. Un fondo annuo di oltre due milioni di lire, proveniente da una minima sopratassa pagata dagli utenti della radio, è distribuito dal ministero, parte in sussidî alle iniziative musicali, e parte alle compagnie drammatiche. Ma il grande problema, tuttora allo studio, è quello della costituzione di teatri drammatici stabili in più città d'Italia, cominciando naturalmente dalle maggiori; problema di cui si è discusso moltissimo, e del quale ormai si annuncia prossima la soluzione. Lo stato sovvenziona inoltre festival periodici, come quelli di Venezia e di Firenze, spettacoli straordinarî, e rappresentazioni di tragedie e commedie classiche (v. sopra). Dal Partito fascista dipendono direttamente le migliaia di filodrammatiche, disciplinate dall'Opera nazionale dopolavoro, e i carri di Tespi, di cui sopra si è detto. Infine, l'insegnamento artistico è curato dal Ministero dell'educazione nazionale, che mantiene sei conservatorî governativi di musica in Roma, Milano, Firenze, Napoli, Palermo, Parma e Torino; ne sussidia varî in altre città; e dal 1935 ha creato in Roma una R. Accademia di arte drammatica per la formazione di attori e registi del teatro di prosa.
Bibl.: V. le bibliografie già indicate alle voci attori; commedia dell'arte; compagnia; filodrammatici; messinscena. A cui si può aggiungere, in generale: J. Gregor, Weltgeschichte des Theaters, Zurigo 1933, e Saint-Marc Giradin, Cours de littérature dramatique, Parigi 1886. E su questioni particolari: Ch. J. Sissons, Le goût public et le théâtre élisabethain, Digione 1922; P. Melese, Le théâtre et le public à Paris sous Louis XIV, Parigi 1923; Urbain et Levesque, L'Église et le Théâtre, Grasset 1930; V. Gofflot, Le Théâtre au collège, du moyen âge à nos jours, Parigi 1907; E. Boysse, Le Théâtre des Jésuites, ivi; H. Welschinger, Le Théâtre de la Révolution française, ivi 1880; Storia del teatro italiano (conferenze di 10 autori, con introduzione di L. Pirandello), a cura di S. D'Amico, Milano 1936; A. Cahuet, La liberté du Théâtre en France et à l'étranger, Parigi 1902; G. Baty, Théâtre nouveau, ivi (s. a.); E. Lo Gatto, Il teatro russo, Milano 1937; S. D'Amico, La crisi del teatro, Roma 1931; id., Invito al teatro, Brescia 1935; R. Accademia d'Italia, Atti del 4° Convegno Volta: Il teatro drammatico, Roma 1935.
La censura teatrale.
La storia della censura teatrale si confonde, in tutti i paesi, con quella del teatro. È infatti impensabile che un fenomeno di carattere pubblico, quale è per eccellenza il teatro, non sia vigilato da presso, controllato, disciplinato dallo stato. L'esempio, che si adduce talvolta dai nemici della censura, della più libera fra le città del mondo antico, Atene, la quale lasciò ai suoi poeti tragici e comici libertà piena, non contraddice alla consuetudine generale, ma la conferma; sia perché, quando i poeti osarono troppo, reagì il sentimento morale e religioso di un certo pubblico che se ne sentì offeso (specie con Euripide; e del resto anche il religioso Eschilo fu accusato d'empietà); sia perché l'estrema licenza della commedia attica antica, culminante in Aristofane che beffava atrocemente sulla scena non solo i maggiori personaggi del suo tempo ma altresì istituti ed eventi, provocò la reazione dell'autorità, la quale finì col proibire le critiche alla vita contemporanea. Donde i noti caratteri della commedia attica nuova (fine della satira personale, soppressione della parabasi, ecc.).
A Roma il primo episodio che conosciamo della vita teatrale è relativo alla censura: l'esilio del poeta Nevio, voluto dai Metelli ch'egli aveva offeso sulla scena. E a questo intervento della censura si sogliono pure attribuire i più tipici caratteri della commedia latina: il fatto ch'essa sia attinta non da quella aristofanesca, ma da quella menandrea; il fatto che per lungo tempo abbia mantenuto, almeno formalmente, nomi ed ambienti greci, appunto per evitare l'accusa di satira ai costumi romani, che la censura non avrebbe permesso. Una maggiore libertà, consentì poi, come è noto, che accanto alla fabula palliata si sviluppasse anche quella togata. E libertà di spettacoli sempre maggiore si ebbe col corrompersi dei costumi (vedi l'episodio di Catone il Censore alle feste florali). Ma se, durante l'impero, la licenza morale fu sempre più grande, in quanto venne tollerata, o addirittura voluta, da certi imperatori, non fu così della libertà politica; anzi le repressioni di mimi e di poeti che si eranti resi colpevoli di irriverenza in questo campo, e specie del crimine di lesa maestà, furono feroci e sanguinose.
Severissima fu la civiltà cristiana, specie ai suoi inizî, conto gli abusi del teatro (v. sopra): concilî e governi fulminarono scomuniche e proibizioni. Alla rilassatezza del Rinascimento tennero dietro le reazioni della Riforma protestante e della Controriforma cattolica. Una vera e propria censura organizzata si ha in Francia nel sec. XVIII (editto reale del novembre 1706). Sono note le vicende che accompagnarono la prima rappresentazione delle Nozze di Figaro di Beaumarchais; d'altronde non in tutto dissimili da quelle che, un secolo prima, avevano reso difficile la rappresentazione del Tartuffe di Molière.
La rivoluzione francese, proclamando la nuova libertà del teatro, abolisce la censura drammatica (17 gennaio 1791). Ma poi s'avvede che la libertà in questo campo è impossibile; e al decreto della comune in data 12 gennaio 1793, che proibisce la rappresentazione dell'Ami des lois di Laya, segue il decreto 2 agosto dello stesso anno che, autorizzando la rappresentazione dei lavori repubblicani, vieta quella dei lavori reazionarî; e infine quello del 14 marzo 1794, che ristabilisce puramente e semplicemente la censura. Il consolato e l'impero la resero sempre più rigorosa.
Sarebbe impossibile seguire materialmente le vicende che l'istituto della censura ha avuto in tutti gli altri paesi. Affidata al lord ciambellano in Inghilterra, alla corte, alla polizia e al clero in Russia, a funzionarî politici nell'Impero austriaco, ad ecclesiastici negli Stati della Chiesa, i suoi fasti - specie in quel periodo del sec. XIX in cui sovente il teatro tentò di collaborare alle lotte per la libertà e l'indipendenza dei popoli - sono stati sovente oggetto di storia indignata, o semplicemente ironica.
Dopo la guerra mondiale, le nazioni che hanno creduto di ricuperare la "libertà" politica hanno cominciato con l'allentare, o addirittura abolire del tutto, la censura preventiva degli spettacoli, con la conseguenza ch'essi si sono effusi nella più sfrenata licenza: tipici il sessualismo e il sovversivismo di molto teatro germanico, sino all'avvento del nazionalsocialismo al potere. Il contrario invece è naturalmente avvenuto nei paesi in cui si è instaurato, o rafforzato, un regime d'autorità.
In Italia la censura teatrale esisteva prima del 1860 in tutti gli stati. La censura pontificia, l'austriaca, la modenese o estense, la napoletana e la toscana, soprattutto per motivi religiosi o politici, colpivano spesso il repertorio teatrale col più bislacco rigore. L'Italia unificata ha mantenuto la censura preventiva disponendo (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con r. decr. 18 giugno 1931, n. 599) il divieto degli spettacoli che possono turbare l'ordine pubblico e sono contrarî alla morale e al buon costume. La legge è integrata dal relativo regolamento (testo unico 21 gennaio 1929, n. 62) il quale estende il divieto alle rappresentazioni che facciano l'apologia di un vizio o di un delitto, eccitino l'odio tra le classi sociali, siano contrarie al sentimento nazionale o religioso, offendano il sovrano, il sommo pontefice, il capo del governo, o le istituzioni dello stato, il prestigio delle autorità, ecc.
Il compito della censura, affidato per lungo tempo ai prefetti, venne poi per unità di indirizzo accentrato al Ministero dell'interno, donde è passato al Ministero per la stampa e propaganda, Direzione generale del teatro (v. sopra).