Tecnologie fotovoltaiche
Il Sole irradia ogni anno sulla Terra una quantità di energia pari a circa 10.000 volte il consumo mondiale di energia primaria, e rappresenta dunque una fonte di energia candidata per un ruolo estremamente importante nel futuro. Oltre al grande potenziale energetico, la fonte solare è rinnovabile per definizione e ha un impatto ambientale molto ridotto. Tuttavia il suo sfruttamento è estremamente limitato, a causa di problemi tecnologici, di costo e di volumi producibili con le tecnologie attuali. Nonostante i notevoli sviluppi degli ultimi anni, innescati da sistemi di incentivazione promossi in alcuni paesi e da programmi di ricerca, l’energia solare nel suo complesso attualmente rappresenta meno dell’1‰ del consumo mondiale di energia primaria.
L’elettricità solare ha molti altri aspetti positivi: la modularità, la silenziosità, la possibilità di installare gli impianti sugli edifici e quindi di utilizzarla direttamente sul luogo di produzione. Tuttavia è una fonte di energia costosa, intermittente e a bassa densità. Inoltre l’efficienza di conversione della radiazione solare in energia elettrica è piuttosto modesta, circa il 15% per le celle solari industriali di oggi, il che implica la necessità di coprire grandi superfici. Il mercato fotovoltaico, grazie soprattutto a incentivi governativi volti a favorire l’uso di fonti rinnovabili a basso impatto ambientale, è in forte crescita a partire dalla fine degli anni Novanta. Tuttavia, perché il fotovoltaico possa diventare una fonte di energia significativa a livello mondiale, sono necessari un notevole progresso tecnologico e una forte riduzione del costo. Attualmente, infatti, l’elettricità fotovoltaica in un sito con una buona insolazione costa circa 5 volte quella proveniente da fonti convenzionali. Le attività in corso nel mondo, in termini di ricerca e sviluppo, sono volte a questi obiettivi.
Con i termini fotovoltaico, energia fotovoltaica o elettricità solare si intende la conversione diretta di energia luminosa in energia elettrica. Il fenomeno fu scoperto sia nell’ambito di sperimentazioni in discipline diverse sia in circostanze fortuite tra la fine del XIX e l’inizio del XX sec., nonostante le premesse erano precedenti. Nel 1839, infatti, il fisico francese Edmond Bécquerel, durante l’analisi di alcune sostanze adatte per essere utilizzate come emulsioni fotografiche, notò che si sviluppavano deboli correnti elettriche in alcune soluzioni elettrolitiche illuminate.
L’effetto fotovoltaico è il risultato di due fasi distinte: la prima è la conversione della radiazione elettromagnetica in energia chimica in particolari materiali; la seconda è la trasformazione di tale energia chimica in energia elettrica a opera di opportuni dispositivi detti celle solari. Le celle solari sono realizzate con materiali che diventano conduttori in seguito all’assorbimento dell’energia dei fotoni che costituiscono la radiazione luminosa. Le celle permettono agli elettroni fotogenerati di fluire selettivamente verso contatti metallici di polarità opposta dando così luogo a una corrente, che può essere raccolta in un circuito esterno. Le singole celle solari vengono collegate tra loro elettricamente per formare dei moduli, che vengono sigillati per resistere nell’ambiente esterno per almeno vent’anni. I moduli possono essere utilizzati singolarmente, o connessi elettricamente in campi fotovoltaici. I sistemi fotovoltaici sono di vari tipi: ad accumulo mediante parchi di batterie, direttamente collegati alla rete elettrica o per uso su piccole utenze.
Le prime celle solari funzionanti vennero realizzate con un solido, il selenio, da William G. Adams, professore presso il King’s College di Londra, e dal suo studente Richard E. Day nel 1876. La spiegazione del fenomeno tuttavia avvenne solo in seguito agli studi di Max Planck (1901) e di Albert Einstein (1905), che permisero l’interpretazione quantistica dell’effetto fotoelettrico.
Perché si realizzassero i primi dispositivi fotovoltaici con efficienza di conversione significativa, si dovette comunque attendere il 1954, quando i ricercatori dei Bell Laboratories (Stati Uniti), alcuni anni dopo l’invenzione del transistor, realizzarono la prima cella solare al silicio, dotata di un’efficienza del 6%. La prima commercializzazione delle celle Bell, realizzate su piccola scala industriale, trovò grandissimi ostacoli a causa dei costi proibitivi. Le applicazioni principali fino agli anni Settanta furono i sistemi di alimentazione elettrica per satelliti spaziali. I costi delle celle solari scesero notevolmente grazie allo sviluppo tecnologico, rimanendo tuttavia improponibili per applicazioni diverse da quelle spaziali o militari. Le prime celle solari Bell da 1 watt costavano circa 380 $; le celle usate per lo Skylab A costavano circa 100 $, ossia comunque 200 volte il costo dell’elettricità convenzionale dell’epoca.
L’utilizzazione di energia fotovoltaica per applicazioni terrestri fu legata allo sviluppo, all’inizio degli anni Settanta, di tecnologie con specifiche meno stringenti di quelle necessarie per le celle spaziali, che permisero di abbassare i costi intorno ai 10÷20 $/watt. Il costo dell’energia prodotta con i moduli fotovoltaici era ancora circa 40 volte il costo dell’elettricità convenzionale, perciò le prime produzioni per uso terrestre furono dedicate essenzialmente ad applicazioni in siti remoti o non facilmente raggiungibili dalla rete elettrica. Crebbe così un mercato tecnico, dedicato all’elettrificazione di piattaforme petrolifere, all’alimentazione di sistemi anticorrosione per i pozzi petroliferi e per le condutture, all’alimentazione di sistemi di comunicazione o di segnalazioni marine, all’elettrificazione di villaggi rurali in paesi in via di sviluppo. Questo primo mercato terrestre favorì il sorgere di iniziative industriali in varie parti del mondo, anche se in molti casi l’introduzione della tecnologia fotovoltaica fu dovuta più agli sforzi di singoli motivati o a situazioni ambientali particolari che a iniziative commerciali organizzate. Inoltre le produzioni in serie erano piuttosto rudimentali e le aziende produttrici molto piccole. Curiosamente, l’industria petrolifera fu tra i primi finanziatori dell’applicazione terrestre delle tecnologie fotovoltaiche, pur essendo spesso accusata di rallentarne lo sviluppo.
Il funzionamento delle celle solari è legato alla complessa interazione fra luce e materia, e coinvolge la natura e le caratteristiche della luce, la fisica dei materiali e la realizzazione di dispositivi elettronici.
Il Sole emette luce in un ampio intervallo di lunghezze d’onda, di cui l’occhio umano percepisce solo una frazione.
La relazione di Einstein
[1] formula
dove h = 6,626 10−34 J∙s è la costante di Planck, c = 2,998 108 m/s è la velocità della luce nel vuoto e λ è la lunghezza d’onda della luce, mette in relazione la natura corpuscolare e quella ondulatoria di quest’ultima. In particolare, mostra che l’energia dei fotoni è inversamente proporzionale alla loro lunghezza d’onda.
La radiazione solare vale circa 1360 W/m2 al limite dell’atmosfera terrestre. A parte piccole variazioni dovute all’orbita ellittica della Terra intorno al Sole, tale valore è costante. Sulla superficie terrestre, invece, la radiazione subisce alterazioni dovute alle condizioni atmosferiche, alla latitudine e alle stagioni, oltre a risentire dell’intermittenza giorno-notte.
La densità di potenza della radiazione solare sulla superficie terrestre è minore di quella al limite dell’atmosfera anche per gli assorbimenti dovuti alle molecole e al pulviscolo atmosferico e per l’esistenza di un 10% circa di componente dovuta alla diffusione della luce da parte delle molecole dell’atmosfera. La massima radiazione solare diretta al suolo, in assenza di nubi, vale circa 950 W/m2, cui va aggiunta la componente diffusa. In generale, per poter confrontare tra loro le prestazioni di moduli e sistemi fotovoltaici, ci si riferisce a un valore di irraggiamento convenzionale per lo spettro del Sole sulla superficie terrestre, mentre per dimensionare correttamente le installazioni reali ci si riferisce ai dati climatici locali, se disponibili. La densità di potenza convenzionale (detta comunemente un sole) è definita pari a 1000 W/m2 a un angolo di circa 48°, corrispondente a una Air Mass 1,5. L’Air Mass è la misura della quantità di atmosfera attraversata dalla radiazione. La luce concentrata, tipica di alcune applicazioni, viene spesso indicata relativamente al sole standard (per es., 2 soli, 100 soli).
I materiali in grado di assorbire una radiazione elettromagnetica aumentando la loro conducibilità elettrica sono diversi e hanno caratteristiche anche molto differenti tra loro. Tra i semiconduttori inorganici il silicio è di gran lunga il più utilizzato, analogamente a quanto accade per le tecnologie elettroniche; tra gli altri citiamo il germanio, alcuni composti formati da elementi del III e del V Gruppo (GaAs, InP) o del II e del VI (CdTe, CdS) della tavola periodica degli elementi, e anche composti a tre o più elementi (InGaN, GaInP). Tra i materiali utilizzabili per le celle elettrolitiche vi è il biossido di titanio (TiO2) con alcuni additivi coloranti, mentre per le celle organiche vengono usate nanostrutture quali il fullerene (C60) o i polimeri coniugati. Altri materiali, tra cui le nanostrutture di silicio, sono allo studio. Nei paragrafi che seguono descriveremo il funzionamento delle celle solari facendo riferimento alla tecnologia più diffusa, ossia quella basata sul silicio.
Proprietà dei semiconduttori: il caso del silicio. - Elemento del IV Gruppo, il silicio ha 4 elettroni di valenza che, nella forma cristallina ideale, formano altrettanti legami covalenti con altri atomi di silicio, ovvero legami in cui ogni atomo mette in comune i propri elettroni con i primi vicini, raggiungendo così la configurazione elettronica stabile (ottetto). Il silicio non esiste in forma pura in natura, pur essendo il secondo elemento più abbondante sulla Terra dopo l’ossigeno. Si trova invece sotto forma di vari minerali, come la silice (biossido di silicio), e per trasformarlo in cristalli della purezza desiderata occorre effettuare particolari lavorazioni, cui accenneremo più avanti.
In un semiconduttore quale il silicio, nello stato legato e allo zero assoluto, non vi sono, per quanto detto in precedenza, elettroni disponibili per la conduzione elettrica e il solido si comporta come isolante. A temperature diverse dallo zero assoluto, invece, l’agitazione termica permette ad alcuni elettroni sufficientemente energetici di liberarsi, anche se il loro numero è molto piccolo. Tale numero può crescere notevolmente se il materiale viene illuminato con una radiazione luminosa sufficientemente energetica, come, per esempio, una parte di quella del Sole. Non tutta la radiazione può però essere utilizzata, in quanto una sua porzione, nella zona dell’infrarosso, non ha energia sufficiente per liberare gli elettroni di valenza. Per contro, la parte di spettro a elevata energia tende a interagire con gli strati elettronici più interni degli atomi, senza dare contributi alla conduzione elettrica. L’energia di legame degli elettroni del silicio è circa 1,12 eV, che corrisponde a una lunghezza d’onda di 1100 nm, nel vicino infrarosso.
Il fenomeno, e molte altre proprietà dei materiali in genere, si può spiegare in maniera più completa utilizzando la teoria delle bande nei solidi, derivata dalla formulazione quantistica della struttura dell’atomo. Infatti, mentre in un atomo singolo esiste un insieme di livelli energetici discreti occupabili dagli elettroni, quando molti atomi vengono avvicinati per formare un solido i livelli si fondono per dare luogo a bande di livelli energetici ammessi, separate da zone vuote (nel caso di solidi ideali) (fig. 2). L’ampiezza delle zone con livelli non ammessi è detta band gap e (considerando che gli elettroni occupano prima gli stati a minore energia) corrisponde alla minima energia necessaria per portare un elettrone che si trova in una banda interamente occupata – e quindi privo di possibilità di movimento (banda di valenza, BV) – in una banda non occupata (banda di conduzione, BC). Questa rappresentazione è equivalente al passaggio di uno degli elettroni più esterni degli atomi di silicio dallo stato covalente legato a uno libero all’interno del solido.
In realtà le bande energetiche hanno andamenti più complessi, legati alla struttura tridimensionale dei cristalli, alla temperatura e alle proprietà di simmetria dei reticoli cristallini e del tipo dei legami tra gli atomi.
La forma e la natura del band gap hanno una notevole importanza sulle proprietà dei semiconduttori, particolarmente per quanto riguarda l’interazione con la radiazione elettromagnetica.
Il modello a bande permette di spiegare con relativa semplicità il meccanismo di funzionamento delle celle solari. Quando un elettrone viene portato in banda di conduzione in seguito all’assorbimento di un fotone sufficientemente energetico, lascia in banda di valenza una mancanza di elettrone, chiamata lacuna, dotata convenzionalmente di una carica uguale a quella dell’elettrone, ma di segno opposto (fig. 3).
La conduzione elettrica nei semiconduttori come il silicio si può spiegare come un flusso di corrente di elettroni in direzione opposta a quello delle lacune. Il silicio puro, però, anche in presenza di una radiazione luminosa e a temperatura diversa dallo zero assoluto ha una bassa densità di portatori liberi. Per questo motivo, si ricorre comunemente all’aggiunta di quantità controllate di alcuni elementi, cioè al drogaggio del semiconduttore, per migliorarne le proprietà di trasporto elettrico. Gli elementi solitamente utilizzati per il silicio di uso fotovoltaico sono il fosforo pentavalente e il boro trivalente. Essi vengono inseriti in quantità utili per aumentare il numero di portatori, senza alterare significativamente le proprietà optoelettroniche del silicio. L’azione del fosforo consiste nel dare la disponibilità di un elettrone libero aggiuntivo rispetto alla simmetria tetravalente del silicio, dotandolo in tal modo di un eccesso di cariche negative. Nel caso del boro, invece, si forma una lacuna aggiuntiva, cosicché il materiale si trova ad avere un eccesso di cariche positive. Si dice convenzionalmente che il silicio drogato con boro è di tipo p (positivo) mentre il silicio drogato con fosforo è di tipo n (negativo) anche se, naturalmente, per la legge della neutralità della carica totale, i materiali non sono carichi elettricamente: con questi termini ci si riferisce solo al segno degli atomi droganti prevalenti, che, a temperatura ambiente, si assumono tutti ionizzati.
Utilizzando le tecniche di drogaggio, si riesce ad aumentare anche di 10.000 volte la densità degli elettroni (o delle lacune) dal livello di 1012 per cm3 del silicio intrinseco, a 1016 per cm3 nel caso tipico del boro, il più utilizzato nella fabbricazione di cristalli per uso fotovoltaico.
Dal punto di vista dello schema a bande, le specie droganti hanno l’effetto di introdurre dei livelli energetici in prossimità dei bordi delle bande (BV nel caso di boro e BC nel caso di fosforo), rendendo disponibile una maggiore quantità di livelli energetici. Quando il semiconduttore drogato viene illuminato, si crea una coppia di portatori in eccesso, un elettrone e una lacuna. Uno di tali portatori sarà maggioritario, e l’altro minoritario, a seconda della caratteristica del materiale. Nel caso del silicio, per esempio di tipo p, che ha un eccesso di lacune, il portatore minoritario sarà un elettrone. Poiché la densità di portatori fotogenerati è comunque piccola rispetto a quella degli atomi droganti, i portatori minoritari rivestono, per molti aspetti del funzionamento delle celle solari, un ruolo più importante di quelli maggioritari (in questo caso lacune). Quando la densità di drogaggio è prossima a quella degli atomi di silicio (5∙1022 atomi/cm3), il semiconduttore si dice degenere, e la descrizione del materiale in termini di bande è più complessa.
Proprietà ottiche. - La capacità dei semiconduttori di assorbire la radiazione non è costante su tutto lo spettro elettromagnetico e non è uniforme attraverso un dato spessore di materiale. Ogni materiale, infatti, è caratterizzato da un coefficiente di assorbimento α che è funzione della lunghezza d’onda. Inoltre, ogni materiale possiede un coefficiente di riflessione. Trattando la luce incidente come un raggio, in accordo con i principi dell’ottica geometrica, a seguito dell’interazione con il materiale la radiazione verrà in parte trasmessa, in parte riflessa e in parte assorbita, e le tre componenti sono differenti a seconda della lunghezza d’onda. Dunque, non tutta la luce incidente può essere assorbita dal materiale, e non tutta la luce assorbita partecipa in uguale misura alla creazione di portatori: l’intensità della radiazione (I) diminuisce attraversando il materiale, secondo la legge
[2] I = I0e−αx
dove I0 è l’intensità della radiazione che incide sul materiale, x la distanza percorsa e α il coefficiente di assorbimento. A causa della dipendenza del coefficiente di assorbimento dalla lunghezza d’onda, la radiazione più energetica viene assorbita negli strati più superficiali della cella solare, mentre quella meno energetica viene assorbita più in profondità. Ne segue che esistono valori di spessore ottimali per ciascun tipo di semiconduttore, in base alle proprietà ottiche del materiale. Nel caso del silicio essi vanno da pochi μm a circa 300 μm.
Generazione-ricombinazione. - Il tasso di generazione è legato alla capacità del materiale di assorbire efficacemente la luce incidente, cioè alla capacità di creare una coppia elettrone-lacuna per ogni fotone incidente. Tale proprietà si misura mediante la risposta spettrale (SR), data dal rapporto fra la corrente generata e la potenza incidente, e pari a
[3] formula
dove QE è l’efficienza quantica, ossia il rapporto tra fotoni incidenti e coppie di portatori generate, λ la lunghezza d’onda e q, h e c rispettivamente la carica dell’elettrone, la costante di Planck e la velocità della luce. In particolare, per il caso delle celle solari al silicio QE assume la forma riportata nella fig. 4, dove si nota che la cella solare non è in grado di utilizzare tutta la radiazione. I fotoni con energia inferiore al gap non vengono assorbiti, perciò al disotto della soglia energetica QE è nullo. Inoltre, la cella non assorbe con la stessa efficacia tutti i fotoni con E > EG: quelli più energetici creano coppie di portatori presso la superficie, dove si ha forte ricombinazione per la presenza di livelli energetici nella banda proibita dovuti alla discontinuità materiale-aria; quelli più prossimi alla soglia della banda proibita vengono assorbiti a una distanza considerevole dalla superficie illuminata, e se la qualità del materiale non è sufficiente, i portatori tornano all’equilibrio prima di essere utilizzati. Ciò è vero anche se l’energia dei fotoni è più elevata di quella del gap, perché l’eccesso di energia si perde sotto forma di calore. Anche l’assorbimento dovuto a portatori che si trovano già nella banda di conduzione non ha effetto sui meccanismi di trasporto dell’energia elettrica delle celle, e rappresenta di fatto un ostacolo alla generazione fotovoltaica. Inoltre, la quantità totale di fotoni assorbiti dipende dall’entità della radiazione riflessa dalla superficie, e dunque persa. L’integrale di QE sulle lunghezze d’onda è legato alla corrente di corto circuito.
Nel caso di dispositivi elettrochimici o basati su materiali polimerici, l’assorbimento della radiazione luminosa crea coppie elettrone-lacuna in uno stato eccitato (eccitoni oppure orbitali molecolari eccitati), che tendono e ritornare molto velocemente allo stato iniziale a causa dell’elevata attrazione elettrostatica (i tempi di ricombinazione sono dell’ordine di 10−12 s). In questo caso, la possibilità di generare una fotocorrente è legata alla capacità di separare gli elettroni dalle lacune molto velocemente, attraverso soluzioni redox o per mezzo di materiali carichi che accettino le cariche fotogenerate convogliandole in un circuito elettrico.
I portatori fotogenerati tendono a ricombinarsi, e il ritorno all’equilibrio è più rapido, se nel materiale esistono difetti che catturano i portatori. La presenza di tali difetti, causati da altre specie atomiche, da distorsioni nel reticolo cristallino o da effetti superficiali, è inevitabile, ed è dunque evidente che la capacità di sfruttare al meglio i portatori fotogenerati dipende dalle proprietà e dalla qualità del materiale.
Dispositivi. - Perché si generi elettricità è necessario realizzare un dispositivo che permetta la separazione effettiva delle polarità, lo stabilirsi di una caduta di potenziale e la raccolta della corrente elettrica in un circuito esterno. Il requisito fondamentale per la generazione di energia elettrica è la presenza di un’asimmetria elettronica nella struttura del materiale.
Il dispositivo elettronico più diffuso per la realizzazione delle celle solari è il diodo a giunzione p-n, che soddisfa il requisito di asimmetria. Nel diodo, infatti, i portatori fotogenerati vengono separati in flussi di cariche positive e negative e convogliati mediante contatti metallici sopra un carico esterno, dove può essere estratta l’energia generata. In assenza di un meccanismo di separazione e indirizzo dei flussi di carica non si produrrebbe alcuna corrente elettrica, e in assenza di un carico (condizione di circuito aperto o di corto circuito) non vi può essere generazione di potenza dato che non si ha caduta di potenziale.
Nel caso del silicio il diodo è formato dalla giunzione di parti drogate in maniera differente. Per spiegare il funzionamento del diodo, immaginiamo di avvicinare due parti di silicio, l’una drogata p e l’altra drogata n. Sul lato n avremo un eccesso di elettroni, sul lato p un eccesso di lacune. Quando i due semiconduttori vengono in contatto, si stabilisce istantaneamente un flusso di portatori per riequilibrare i gradienti di concentrazione, che lascia scoperto, all’interfaccia tra i due diversi materiali, un doppio strato elettrico formato da uno strato di nuclei positivi (P+) e negativi (B−). Tale doppio strato, detto anche regione di svuotamento, crea un campo elettrico che si oppone alla carica che lo ha generato (fig. 5) si noti che nella figura sono riportati i portatori minoritari in ciascuna regione, cioè elettroni nella zona p e lacune nella zona n). In assenza di uno stimolo esterno non vi è passaggio di corrente. In termini di struttura a bande, in una giunzione p-n il doppio strato forma uno scalino energetico che impedisce il passaggio di cariche, fatta eccezione per le poche che riescono a oltrepassarlo per agitazione termica. Lontano dalla regione di giunzione, le bande rimangono imperturbate (piatte).
Se sopraggiunge un impulso luminoso di energia superiore a quella di band gap, si creano – come detto in precedenza – coppie elettrone-lacuna in entrambi i lati del dispositivo. Le cariche minoritarie fotogenerate in prossimità della giunzione lasciano scoperti ioni che neutralizzano in parte la carica del doppio strato, diminuendone l’altezza. Questo meccanismo è chiamato ‘iniezione dei portatori minoritari’: i portatori fotogenerati sul lato dello scalino energetico possono più agevolmente superarlo, con l’effetto di mettere il diodo in conduzione diretta. La giunzione, invece, non è evidentemente una barriera per gli elettroni in banda di conduzione e per le lacune in banda di valenza sulla sommità dello scalino.
In condizioni ideali, quando i meccanismi di generazione e ricombinazione non dipendono dalle correnti fotogenerate, vale il principio di sovrapposizione, per cui la corrente della cella è data dalla somma della corrente del diodo più la corrente fotogenerata, che ha segno negativo. La sovrapposizione menzionata in precedenza ha l’effetto (fig. 6) di traslare la curva caratteristica del diodo in modo che occupi un’area del IV quadrante del piano tensione-corrente I-V, ovvero di dare al dispositivo una caratteristica di generatore di potenza (in quanto la potenza assorbita è negativa). La curva caratteristica tensione-corrente del diodo illuminato assume la forma
[4] formula
dove IL è la corrente fotogenerata, I0 è detta corrente di saturazione inversa o di buio, q=1,602∙10−19 C è la carica dell’elettrone, k=1,38 ∙10−23 J/K la costante di Boltzmann e n un fattore di merito o idealità che vale 1 nel caso di un diodo ideale ed è maggiore di 1 in presenza di difetti.
Dalla curva caratteristica descritta in precedenza si estraggono i parametri elettrici significativi di una cella solare, ovvero la corrente di corto circuito Isc, generata dalla cella a tensione nulla, la tensione a circuito aperto Voc, che corrisponde alla massima compensazione possibile della barriera elettrostatica da parte delle cariche fotogenerate (corrispondente alla condizione di bande piatte), il punto di massima potenza Pmax e il fattore di riempimento FF della curva caratteristica. Valgono le definizioni seguenti (E, efficienza):
[5] E = Pmax/Pincidente
FF = Pmax/IscVoc
Il significato di tali parametri è spiegato nella fig. 7 dove la curva caratteristica sotto illuminazione per una cella solare è riportata convenzionalmente ribaltata nel I quadrante, cambiando di segno alla corrente. La corrente di corto circuito è direttamente proporzionale all’area della cella, per cui in genere, nel confrontare celle di area diversa, si usa la densità di corrente Jsc. Essa, inoltre, dipende direttamente dal numero e dal tipo di fotoni incidenti, cioè dall’intensità della radiazione e dal suo spettro, dalle proprietà ottiche del materiale e, infine, dipende fortemente dalle proprietà di ricombinazione, ovvero dal grado di purezza e perfezione della superficie del materiale e del suo bulk.
La cella solare ideale descritta dall’equazione caratteristica del paragrafo precedente non è praticamente realizzabile. In particolare, il dispositivo risente degli effetti di resistenze parassite, e quindi lo si può descrivere più correttamente schematizzando la cella con il circuito della fig. 8. In questo caso la curva tensione-corrente è descritta dall’espressione seguente:
[6] formula
dove RS e RSH sono rispettivamente la resistenza serie e la resistenza parallelo, e n è un numero maggiore di 1. La resistenza serie dipende dalla geometria del dispositivo, dalla conducibilità del materiale attivo, della giunzione e delle parti metalliche, e dalla qualità dei contatti semiconduttore-metallo. La resistenza parallelo dà luogo a correnti di perdita ed è legata a effetti di conduzione sui bordi esterni o alla cattiva qualità della giunzione o del materiale in prossimità della giunzione.
L’efficienza di una cella solare non può essere pari al 100%. Da considerazioni termodinamiche, si ricava che il limite massimo per l’efficienza di una cella solare di materiale e caratteristiche non specificate è 86,4% in condizioni di massima concentrazione, cioè concentrando l’intero flusso di radiazione solare in un punto. Una generalizzazione del modello originale di William Shockley e Hans Queisser del 1961 permette di descrivere celle solari più complesse (fermo restando il limite teorico ultimo), quale per esempio un dispositivo formato da n giunzioni ciascuna delle quali assorbe e converte una parte dello spettro incidente. Altri tipi di dispositivi sono stati proposti per raggiungere i limiti teorici, tutti descrivibili con l’approccio generalizzato. Si tratta di dispositivi ove ha luogo la generazione di coppie multiple elettrone-lacuna per ogni fotone assorbito, o tali da utilizzare elettroni in stati lontani dai bordi delle bande, o in grado di convertire fotoni più energetici in più fotoni meno energetici, o ancora contenenti livelli all’interno della banda proibita in grado di contribuire alla generazione delle coppie.
Per un dispositivo a singola giunzione al silicio il limite teorico raggiungibile con illuminazione di un sole è un’efficienza di circa 30%, considerando il materiale come ideale. Il 30% circa della radiazione solare incidente è persa, in quanto non sufficientemente energetica, e circa il 30% viene persa come calore perché troppo energetica. Il restante 10% circa viene perso per meccanismi di ricombinazione.
Tuttavia, nella pratica l’efficienza delle celle solari realmente ottenibile è più bassa per varie ragioni: il materiale non è ideale, vi sono altri meccanismi di ricombinazione, i contatti metallici non sono ideali, si verificano perdite ottiche, perdite per conduzione laterale, effetti di superficie. La migliore cella di laboratorio realizzata finora su silicio monocristallino ha un’efficienza del 24,7% contro un valore di poco superiore al 20% per la cella al silicio multicristallino, mentre i migliori dispositivi commerciali hanno valori di efficienza anche superiori al 20%. I valori medi di efficienza delle celle commerciali più diffuse sono invece ancora inferiori (14÷16%). Si ritiene comunque che il limite praticamente ottenibile per le celle solari al silicio sia intorno al 26%.
Attualmente i dispositivi che mostrano l’efficienza più elevata sono quelli realizzati con più giunzioni in se-rie di materiali differenti. In particolare il dispositivo GaInP/GaAs/Ge raggiunge circa il 40% di efficienza sotto luce concentrata. I valori più alti ottenuti sono su superficie molto piccola, in genere intorno a 1 cm2.
Il silicio utilizzato come materiale attivo per la realizzazione di celle solari è in generale in forma di sottili fette (o wafer), con spessore intorno a 300 μm e superficie di 100÷400 cm2. Poiché il costo dei wafer di silicio rappresenta circa il 50% del costo di un modulo fotovoltaico, l’utilizzo efficiente della materia prima è essenziale per il progresso della tecnologia. I wafer vengono realizzati tagliando lingotti di silicio puro in forma cristallina, prodotti con tecnologie derivate da quelle largamente utilizzate nell’industria elettronica. Il materiale di partenza, detto silicio feedstock, viene realizzato a valle di una complessa catena di purificazioni successive a partire da sabbie. Attualmente il consumo annuo è intorno alle 25.000 tonnellate, in crescita continua.
I lingotti di silicio possono essere in forma di monocristalli, realizzati accrescendo il materiale su un germe cristallino iniziale tirato lentamente da un recipiente in quarzo (crogiolo) contenente silicio puro fuso, a una temperatura superiore ai 1400 °C. Il metodo cui si è accennato viene comunemente detto Czochralski, dal nome dell’inventore (fig. 9). Il materiale così realizzato ha una buona perfezione cristallografica e una buona purezza, con contenuto di specie metalliche inferiore alla parte per miliardo, e di ossigeno e carbonio dell’ordine delle centinaia di parti per milione.
Il secondo metodo, attualmente più diffuso del primo per la realizzazione di wafer di silicio, consiste nel fondere e solidificare con un profilo termico controllato il silicio contenuto in grandi crogioli di quarzo a base quadrata. Il metodo, detto di solidificazione direzionale, si basa sull’estrazione controllata del calore del silicio fuso dal fondo del crogiolo, mantenendo il più possibile il calore delle pareti e della sommità (fig. 10). Questo metodo è stato sviluppato specificamente per il settore fotovoltaico grazie alla relativa semplicità del processo e alla capacità di soddisfare economie di scala. Il materiale si produce in forma multicristallina, con lunghi grani perpendicolari al fronte di solidificazione. Non vi è in questo caso necessità di germi cristallini e i lingotti possono essere anche molto grandi (tipicamente 250÷300 kg, con dimensioni 70×70×25 cm ca.). Si tratta di un materiale di qualità leggermente inferiore a quello Czochralski, adeguata comunque alle specifiche richieste per la realizzazione di celle solari con efficienza di 14÷16% in produzioni industriali e fino al 20% su dispositivi di laboratorio.
I lingotti, siano essi in forma mono o multicristallina, vengono poi lavorati meccanicamente per essere trasformati in sottili wafer. Tali processi, detti di squadratura e taglio, vengono eseguiti con lame diamantate o fili di acciaio in una sospensione abrasiva.
La produzione delle celle solari commerciali si basa in buona parte sulla tecnologia serigrafica, di basso costo ed elevata produttività, per stampare i contatti metallici con degli inchiostri a base di argento e di alluminio. La cella solare commerciale è un diodo a omogiunzione, realizzato affacciando zone dello stesso wafer di silicio dotate di carica diversa (fig. 11). Si parte da un wafer contenente boro (dell’ordine della parte per milione) che fornisce l’eccesso di cariche libere positive. La carica negativa, ceduta generalmente da atomi di fosforo, viene inserita con un processo termico di drogaggio ad alta temperatura (ca. 900 °C), che avviene per diffusione in una zona molto sottile prossima alla superficie illuminata. Il fosforo disperso nel silicio occupa uno strato inferiore al micron al disotto della superficie del wafer, spesso circa 300 m. Altri trattamenti includono la preparazione superficiale per via chimica finalizzata a rimuovere dai wafer eventuali impurezze, a riparare i danni dovuti al processo di taglio e a ridurre la quantità di radiazione riflessa.
Prima di poter realizzare i contatti metallici, si deposita sulla superficie esposta alla radiazione un sottile strato dielettrico per ridurre ancora le perdite per riflessione. Le linee industriali moderne utilizzano sistemi di deposizione chimica in plasma di nitruro di silicio. Gli elevati volumi in gioco (ca. 2500 MW prodotti nel 2006, contro i 10 MW del 1985) hanno attirato l’industria dei macchinari e dei materiali creando finalmente degli standard. Il progresso ulteriore è sicuramente legato a miglioramenti incrementali, ma non per questo meno significativi, quali le automazioni per il maneggiamento di wafer che avranno spessori sempre più ridotti (dai 270÷330 μm del 2005 a poco più di 200 μm del 2007) o i trattamenti chimici e termici finalizzati a migliorare le qualità delle superfici e del bulk delle fette di silicio.
Alcuni esempi di celle ad alta efficienza con potenzialità industriali a vari gradi di maturazione esistono già. Le celle a contatti sepolti, per esempio, inventate all’Università del New South Wales, Sydney, negli anni Ottanta del XX sec., sono prodotte dall’inizio degli anni Novanta anche a livello industriale. La differenza sostanziale di questo tipo di celle rispetto a quelle serigrafiche sta proprio nella tecnica di metallizzazione, che viene effettuata scavando nei wafer, mediante un laser, dei sottili e profondi scassi, i quali poi vengono riempiti di metallo a partire da soluzioni chimiche. L’efficienza di queste celle su silicio monocristallino commerciale è pari a circa il 17% medio in produzione, con punte superiori al 18%. Ad alta efficienza è anche la cella HIT (Heterojunction with intrinsic thin layer), inventata e prodotta dalla Sanyo in Giappone. Qui, la regione frontale drogata viene realizzata con silicio amorfo: si tratta cioè di una eterogiunzione tra materiali di caratteristiche elettroniche diverse. L’efficienza massima dimostrata in laboratorio è superiore al 21% e la produzione si attesta intorno a un 17% medio. Altro dispositivo ad alta efficienza attualmente compatibile con produzioni industriali è il dispositivo realizzato da SunPower (Stati Uniti), evolvendo su larga area e larga scala una cella sviluppata negli anni Ottanta presso la Stanford University. La cella SunPower ha i contatti metallici molto piccoli, entrambi sul retro; in tal modo l’ombreggiatura è praticamente nulla e le perdite per ricombinazione sono molto limitate. L’efficienza delle celle Sunpower su larga area è intorno al 20%.
In alternativa sono allo studio, e anche in produzione per piccoli volumi, varie tecnologie che utilizzano spessori molto ridotti di materiale attivo (qualche micron, contro i ca. 300 dei wafer di silicio), partendo per esempio da gas. Tra queste citiamo il silicio amorfo (nato già nella seconda metà degli anni Settanta), i composti calcogenuri (CIS, Copper indium diselenide) e il tellururo di cadmio (CdTe). In generale le tecnologie di film sottile hanno un’efficienza inferiore a quella delle celle su wafer di silicio (6÷10%, anche se in laboratorio i film della famiglia CIS hanno raggiunto ca. il 19%), e risentono ancora di irrisolti problemi di stabilità. Gli auspicati bassi costi di produzione non si sono ancora realizzati a causa della complessità dei processi e, non ultimo, degli elevati costi di investimento. È tuttavia chiaro che, in linea di principio, dal punto di vista industriale i film sottili presentano delle indubbie attrattive: non occorre realizzare lingotti da tagliare, la realizzazione di celle e moduli è contemporanea, l’elemento discreto (per es., una lastra di vetro) è molto più grande e manovrabile. Per questo le attività di ricerca e sviluppo puntano su variazioni dei processi che permettano di aumentare l’efficienza o abbassare i costi. Tra le innovazioni proposte citiamo i dispositivi misti silicio amorfo/silicio microcristallino (detti anche tandem di silicio amorfo) o di silicio microcristallino realizzato ricristallizzando strati di silicio amorfo depositati su vetro.
Un’altra categoria di celle è quella nata per applicazioni spaziali o per la concentrazione. Sono dispositi-vi estremamente complessi che utilizzano materiali diversi dal silicio (per es., GaAs o GaAlAs, o le già citate GaInP/GaAs/Ge) in molti strati sovrapposti per poter catturare selettivamente la luce, come avviene in parte nelle tandem di silicio amorfo. L’efficienza di queste strutture costosissime può raggiungere anche il 40% a forte concentrazione. L’elevato costo, oltre che dalla complessità, è causato dalle tecniche di realizzazione, che utilizzano sistemi di deposizione a ultra alto vuoto e bassa produttività.
Per dispositivi quali le già citate tandem, si può dimostrare che una struttura con infinite celle può raggiungere il limite di efficienza imposto dalla termodinamica, cioè circa l’86%. Nella pratica ciò sarà molto difficile perché il limite presuppone materiali ideali. Un altro concetto di notevole interesse è quello dei convertitori fotonici, strati di particolari materiali depositati davanti o dietro le celle, che riescono a ridurre (o aumentare) la lunghezza d’onda dei fotoni incidenti senza perdita di energia. Anche queste strutture sono teoricamente in grado di raggiungere il limite termodinamico. L’altra grande area di interesse per il futuro è legata allo sviluppo di celle a base polimerica o organica. Le celle a base polimerica si basano sulla creazione di portatori elettrici da parte della luce, che vengono convogliati in tempi rapidissimi (dell’ordine dei picosecondi) su ricettori selettivi per il tipo di carica, e poi trasportati verso i circuiti di collezione elettrica. La forte attrattiva di questo tipo di celle è naturalmente il potenziale basso costo e l’estrema semplicità di realizzazione, caratteristiche di grande interesse sia per la comunità scientifica sia per il pubblico. Tuttavia, in entrambi i casi l’efficienza di conversione è piuttosto bassa (〈5%) per le celle.
La quasi totalità dei moduli disponibili commercialmente per applicazioni terrestri è realizzata con celle solari al silicio mono o multicristallino. Poiché per questo tipo di celle la tensione al punto di lavoro è intorno a 0,5 V e la corrente generata dalle celle tipicamente 30 mA/cm2, normalmente si usano connessioni in serie mediante saldatura di bandelle di rame stagnato (fig. 12). In tal modo si ottengono moduli con tensioni di uscita in grado, tipicamente, di caricare una batteria di accumulatori piombo/acido a sei elementi (12 V nominali). L’area delle singole celle varia tra 50 cm2 e 225 cm2, il che implica la possibilità di lavorare con correnti anche molto elevate, dell’ordine di qualche ampere. Per la formazione dei moduli è importante utilizzare celle di caratteristiche elettriche simili, al fine di limitare le perdite dette di accoppiamento: per celle connesse in serie domina il dispositivo a corrente minore, per celle in parallelo quello a tensione minore.
Le stringhe di celle interconnesse elettricamente vengono inglobate in materiali impermeabili che ne permettono il funzionamento per diversi anni in condizioni ambientali anche estreme. In particolare il modulo deve poter resistere per almeno venti anni ad agenti atmosferici come polvere, sale, sabbia, vento, neve, umidità e grandine, oltre a dover mantenere le caratteristiche elettriche dopo prolungate esposizioni ai raggi ultravioletti. La tecnica più diffusa è quella di inglobare le celle in un polimero trasparente (etilvinilacetato, EVA), proteggendo il fronte con un vetro temperato, e il retro con un altro vetro o un foglio plastico, generalmente a più strati per garantire l’impermeabilità. Il processo con cui viene realizzata questa struttura è nella maggior parte dei casi una laminazione a caldo.
Infine, il modulo viene dotato di una struttura di supporto, generalmente una cornice di alluminio, che ne permette il montaggio su una struttura adatta a resistere al vento, e di una scatola di terminazione dei contatti per permettere la connessione dei moduli tra loro per formare stringhe. La scatola deve consentire la connessione e garantire impermeabilità e indeformabilità lungo l’arco di vita del modulo. Inoltre all’interno della scatole vengono montati in genere dei diodi di bypass, che proteggono il modulo in caso di malfunzionamento di una delle celle o stringhe, per esempio a causa di ombreggiamento parziale.
Esistono degli standard di certificazione, sviluppati nel corso degli anni da istituti accreditati in base a estese prove sperimentali e a vari standard esistenti per la durabilità dei dispositivi. I moduli sono sottoposti a protocolli di test accelerati di invecchiamento che simulano condizioni di esposizione prolungate estreme ma non inverosimili. Lo standard europeo di riferimento per i moduli terrestri piani basati su celle al silicio è l’EN/IEC 61215, in Italia CEI 82-8, che prevede tra l’altro cicli termici nelle seguenti condizioni: elevata umidità, esposizione a dosi elevate di radiazione UV, impatto con biglie di ghiaccio sparate da appositi cannoncini. Per i moduli che superano questi severi test sarebbe ragionevole aspettarsi una vita stabile di 20÷25 anni. Il condizionale è d’obbligo perché la quantità di dati sperimentali relativi a moduli con quest’età non è molto elevata, ancorché i dati disponibili siano confortanti. Occorre comunque considerare che nell’arco degli ultimi vent’anni la tecnologia dei materiali si è molto evoluta, per cui alcuni dei problemi riscontrati in passato sono molto attenuati.
La scelta dei materiali diversi dal materiale attivo è fondamentale per garantire la durata nel tempo delle caratteristiche del modulo, ed è inoltre una delle voci di costo più onerose, dopo il wafer. Il vetro frontale, per esempio, deve avere elevate prestazioni ottiche quali elevata trasmittanza e bassa riflettanza, che si ottengono grazie a un basso contenuto in ferro, una testurizzazione chimica o meccanica per permettere l’intrappolamento della luce, e deve essere infine temperato e poter resistere alla grandine e agli urti. Lo strato di plastica posteriore, generalmente polivinile fluorurato (Tedlar®), possiede degli strati barriera di poliestere e/o alluminio per aumentare la sua impermeabilità all’ossigeno. L’EVA contiene additivi che ritardano l’ingiallimento dovuto ai raggi UV. Anche le condizioni operative del processo di laminazione hanno un notevole effetto sull’affidabilità dei moduli.
I moduli fotovoltaici possono essere utilizzati singolarmente o connessi in vario modo per soddisfare i requisiti delle utenze da elettrificare (sistemi). Si distinguono principalmente in sistemi ad accumulo (o stand alone), che caricano delle batterie, e sistemi connessi alla rete elettrica primaria (grid connected), che cedono alla rete l’elettricità nell’ora del picco di produzione, cioè di giorno. La natura modulare dei componenti fotovoltaici permette la realizzazione di sistemi da pochi watt (calcolatrici, orologi, giocattoli) a qualche megawatt, come nel caso delle grandi centrali dimostrative dell’inizio degli anni Novanta, di cui l’esempio più grande è l’impianto italiano di Serre (Sa) da 3 MW, e di quelle più recenti in Giappone e Germania, spesso installate su tetti di edifici (come il sistema del palazzo dei congressi di Monaco da 1 MW). Il mercato grid connected, legato agli incentivi governativi, è quello in più rapida crescita, mentre i sistemi stand alone hanno utilizzazioni più dedicate quali le telecomunicazioni o l’elettrificazione di siti remoti, di segnaletica stradale o marina, di dispositivi su camper o barche, di sistemi di pompaggio dell’acqua e di villaggi nei paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda i sistemi connessi a rete, le problematiche maggiori riguardano aspetti tecnici e normativi legati ai dispositivi di interfaccia tra il sistema fotovoltaico e la rete elettrica, sia in termini di efficienza che di sicurezza. In tali sistemi inoltre è necessario utilizzare dei convertitori da corrente continua a corrente alternata. Nel caso dei sistemi ad accumulo si può utilizzare l’elettricità così come generata, cioè in continua, o utilizzare convertitori a corrente alternata. Nel caso dei sistemi ad accumulo, i problemi sono per lo più legati alla durata e al costo delle batterie, che incide sul costo dell’impianto iniziale e sulla manutenzione. Per entrambi i tipi di configurazione, ogni elemento del circuito ha una propria resa (connessioni, dispositivi elettronici, moduli ecc.); inoltre nel dimensionamento dei sistemi fotovoltaici occorre tenere conto del sito, dell’esposizione e delle necessità di alimentazione. Tenuto conto di tutto questo, si utilizzano opportuni coefficienti di sicurezza per il calcolo dell’energia totale attesa dall’impianto. Nonostante l’elevato costo, in alcune applicazioni il fotovoltaico è già competitivo: questo è in generale vero per le applicazioni stand alone, specialmente in siti remoti. Il costo dell’elettricità prodotta dai sistemi fotovoltaici connessi a rete, che varia tra 0,25 e 0,6 euro/kWh in funzione della quantità di radiazione incidente (cioè del sito) ed è sceso del 4÷5%/annuo negli ultimi vent’anni, deve invece competere con il costo inferiore dell’elettricità convenzionale, considerando che presumibilmente gli incentivi tenderanno a ridursi. Le previsioni degli analisti del settore indicano che il raggiungimento della piena competitività con le fonti convenzionali è possibile nel lungo termine, ma a fronte di un aumento di efficienza dei dispositivi e di forti riduzioni nei costi dei materiali.
Menzione a parte meritano i sistemi basati sulla concentrazione della luce solare su celle molto efficienti di piccola area (quali per esempio le triple giunzioni GaInP/GaAs/Ge), fino a circa 1 cm2. I sistemi a concentrazione hanno lo scopo di sfruttare al meglio la capacità di celle sofisticate e piccole di generare elettricità, delegando a sistemi di lenti la copertura superficiale. In questo modo ci si attende di poter aumentare l’efficienza delle celle e del sistema, e di ridurne i costi per effetto delle piccole quantità di semiconduttore utilizzato e dell’impiego di altri materiali quali lenti e strutture plastiche o metalliche di basso costo. I sistemi a concentrazione, data la geometria complessa delle lenti, sono necessariamente a inseguimento del Sole, per puntare sempre la superficie esposta perpendicolarmente alla radiazione. Inoltre, poiché la componente diffusa non contribuisce alla generazione di elettricità, le applicazioni sono favorite nelle località in cui essa è minima. Tali sistemi sono più complessi e sofisticati di quelli statici basati sui moduli piani, richiedono anche una certa quantità di energia per movimentare l’apparato di inseguimento. Non sono disponibili produzioni in grande serie, ma vi sono diverse iniziative di ricerca e sviluppo in corso, per sviluppare prodotti stabili e con prospettive di industrializzazione.
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