Abstract
Il telelavoro, figura che combina la delocalizzazione geografica con l’utilizzo di tecnologie informatiche, presenta fonti giuridiche piuttosto diversificate per il settore pubblico e per quello privato. Sulla scorta di esse, viene ricostruita la nozione giuridica e vengono affrontati i temi più problematici relativi alla fattispecie, in particolare quello della sua incerta qualificazione giuridica. Sono, poi, messe in luce le particolarità relative ai diritti e agli obblighi delle parti del rapporto, a partire dalla questione della volontarietà della scelta di tale modalità lavorativa da parte del dipendente, per proseguire con temi di grande delicatezza, quali in particolare la tutela della riservatezza e quella della salute. Si segnalano, infine, le criticità in campo sindacale, derivanti dalla naturale frammentazione di questo tipo di lavoro.
Il fenomeno del telelavoro non sembra essere decollato come alcuni auspicavano, e molto distanti appaiono gli scenari apologetici dove questa modalità di lavoro ad “impatto zero” sull’ambiente, nonché strumento di inclusione sociale per fasce deboli, avrebbe consentito a soggetti sempre più autodeterminati di riappropriarsi degli spazi e dei tempi rubati dalla società industriale, destinandoli ai rapporti sociali e all’“ozio”.
Il quadro normativo in materia è piuttosto diversificato tra il settore privato e quello pubblico. Nel primo, si è partiti con progetti pilota, talvolta trasfusi in accordi aziendali; si sono poi conclusi degli accordi nazionali (i primi da parte di Intersind e Confcommercio); nel 2004 si è stipulato un accordo interconfederale (A.I.), attuativo di un accordo quadro europeo del 2002. Nel settore pubblico, la “Bassanini ter” ha previsto la possibilità di servirsi di «lavoro a distanza» (art. 4, l. 16.6.1998, n. 191); il regolamento di attuazione è stato approvato con d.P.R. 8.3.1999, n. 70 (d.P.R.), seguito l’anno dopo da un accordo quadro (A.Q.). L’apparato normativo predisposto per il settore pubblico, per la sua organicità, costituisce un punto di riferimento fondamentale, anche perché l’approvazione di una legge generale non è nell’agenda del legislatore (generiche «misure di incentivazione» del telelavoro sono promesse dall’art. 22, co. 5, l. 12.11.2011, n. 183).
Il sistema complessivo è quasi tutto pensato solo per il presente. Destinatari sono i lavoratori già in servizio presso l’azienda o l’amministrazione, e le fonti si preoccupano della trasformazione della “modalità spaziale” della loro prestazione. Solo l’A.I. prevede che il telelavoro possa «essere inserito nella descrizione iniziale delle prestazioni del lavoratore ovvero scaturire da un successivo impegno» (art. 2).
La prima definizione giuridica ufficiale di telelavoro è quella dell’art. 2 d.P.R., pur relativa al solo settore pubblico: una nozione che non confonde “lavoro a distanza” e “telelavoro” – tra cui intercorre invece un rapporto di genere a specie, nel senso che nel secondo il requisito della delocalizzazione della prestazione si aggiunge a quello dell’utilizzo di tecnologie informatiche – ed è elasticamente adattabile ai mutamenti che si susseguono in realtà connotate da un elevato grado di innovazione. Per il d.P.R. è telelavoro la prestazione del dipendente che svolge la sua attività al di fuori della propria sede di lavoro, ma in più utilizza in modo «prevalente» (cioè apprezzabile in maniera non meramente accessoria) una tecnologia dell’informazione e della comunicazione, che renda possibile il collegamento col datore di lavoro. Sulla stessa linea si colloca la successiva definizione dell’A.I. (art. 2: «Il telelavoro (…) si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa»).
Il lavoro può svolgersi in qualsiasi luogo, collocato fuori dalla sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile. È possibile, quindi, il telelavoro “a casa” (non sempre “a domicilio”, come si vedrà), la forma che più colpisce l’immaginario collettivo, portato subito a pensare all’impiegato che, invece di andare in ufficio, lavora a casa propria; il telelavoro mobile, più mitologicamente “argonautico”, svolto ora in un luogo ora in un altro, anche su una panchina del parco; il centro di telelavoro, con più soggetti che operano in collegamento con un’azienda o un’amministrazione; il sistema distribuito, dove piccole unità disseminate sul territorio svolgono fasi lavorative comunicando telematicamente tra di loro; il centro satellite, col quale un’azienda colloca una certa fase della sua attività in un luogo distinto dalla sede principale. Questa pare la modalità più gradita alle amministrazioni pubbliche, interessate ad utilizzare il telelavoro come strumento di snellimento degli uffici e frenate dai costi che comporterebbe invece la predisposizione e il mantenimento di singole postazioni domiciliari; mentre, al contrario, spesso le aziende private hanno preferito decentrare a casa dei dipendenti.
L’affidamento di telelavoro va distinto rispetto alla classica assegnazione di un dipendente (che svolge mansioni “tecnologiche”) ad una sede staccata. La delocalizzazione, infatti, non deve essere apprezzabile in termini “organizzativi”: il posto di telelavoro non costituisce altro che una propaggine dell’ufficio, a prescindere dal luogo in cui è collocato, e quindi non dà vita tecnicamente ad una unità produttiva autonoma; il telelavoratore continua ad appartenere all’unità produttiva “originaria”.
D’altra parte, il telelavoro non costituisce una modalità rigida di svolgimento della prestazione. È possibile il telelavoro “in alternanza”, in cui la prestazione è svolta parte fuori e parte all’interno della sede di lavoro. Per il dirigente pubblico e per il manager privato, anzi, tale modalità può costituire la regola, poiché la natura delle sue funzioni tipiche richiede anche una presenza fisica in sede. Per tutti gli altri lavoratori, comunque, la scelta di questo modello sottintende un approccio più morbido al telelavoro, che concili i vantaggi del lavoro esterno e di quello interno.
Al di fuori di questa ipotesi, l’eventualità che il datore sia tenuto a conservare il posto di lavoro originario, materialmente inteso, contraddirebbe il perseguimento degli obiettivi di flessibilità organizzativa, alla base della scelta di ricorrere al telelavoro. Del tema si occupa la normativa sul settore pubblico, prevedendo che il dipendente possa chiedere la «reintegrazione» nella sede di lavoro originaria, ed elaborando un meccanismo volto ad assicurare che il ritorno in amministrazione avvenga con ponderatezza e senza pregiudizio per la riuscita del progetto di telelavoro (art. 4, co. 3, d.P.R.). Al rischio di non trovare più la scrivania al suo posto potrebbe ovviarsi pensando ad alternative correttamente praticabili, quale ad esempio l’assegnazione ad una mansione equivalente.
Un’altra modalità “leggera” per evitare distacchi traumatici è il rientro periodico presso la sede di lavoro, previsto da molti accordi collettivi. Si tratta di una tipologia ancora meno impegnativa per il datore, che non deve conservare materialmente il posto di lavoro. Il rientro periodico è naturalmente molto più episodico rispetto al telelavoro “parziale”, trattandosi piuttosto di un ritorno limitato nel tempo per prendere istruzioni, incontrare i colleghi, e via dicendo. Non a caso, l’art. 3, co. 10, d.lgs. 9.4.2008, n. 81, obbliga il datore a «prevenire l’isolamento» del telelavoratore, tra l’altro, «permettendogli di incontrarsi con i colleghi».
Il telelavoro, proprio per la sua natura, ben può espandersi oltre i confini nazionali: è il telelavoro offshore, che per intuibili motivi interessa più il settore privato; per le imprese, al vantaggio di poter sfruttare, grazie ai fusi orari, manodopera sempre disponibile, si aggiunge quello di un abbassamento dei costi direttamente proporzionale alla mancanza di protezione per i lavoratori stranieri coinvolti. I contorni giuridici di questa globalizzazione, che rischia di schiacciare ogni garanzia di tutela dei lavoratori in ragione esclusiva delle esigenze di profitto delle imprese, stanno presentandosi solo di recente all’attenzione degli interpreti, che devono operare un delicato adeguamento dei principi del diritto internazionale privato. Secondo la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (artt. 3 e 6), va prima verificato se le parti hanno concordato la legge da applicare, altrimenti si fa ricorso alla legge dello Stato in cui il lavoratore opera abitualmente o, infine, alla legge del paese in cui ha sede l’impresa che lo ha assunto. Ma il luogo di abituale prestazione può essere sia quello dove è situata la postazione del telelavoratore sia quello dove si trova il terminale datoriale, visto che la prestazione può dirsi conclusa nel momento in cui i dati pervengono all’azienda.
Evidentemente, i problemi relativi alla qualificazione giuridica del rapporto di telelavoro si pongono solo nel momento in cui l’azienda o l’amministrazione decidano di ricorrere al telelavoro con soggetti fino a quel momento estranei ad essa. Qui, naturalmente, entrano in gioco le regole ordinarie, derivanti da una collaudatissima interpretazione giurisprudenziale. Il giurista del lavoro deve assicurarsi della genuinità di un possibile massiccio ricorso alle collaborazioni autonome, verificando che l’operazione non nasconda intenti, anche non scopertamente, fraudolenti. Nel far questo può incontrare degli intoppi: ovviamente, il datore di lavoro, interessato a liberarsi dei costi di un dipendente subordinato e a rivolgersi al libero mercato; talvolta il telelavoratore stesso, poiché spesso gli “esterni” vengono indotti, anche inconsciamente, a vedersi come produttori indipendenti, anche quando più evidenti sono i tratti che li legano ad un committente; le norme e la loro interpretazione – sedimentata intorno alla fattispecie del lavoro industriale –, che potrebbe inibire ogni operazione garantista.
Infatti, applicando i canoni usuali di qualificazione della prestazione, questa potrà oscillare tra la subordinazione, l’autonomia o il rapporto tra imprese in modo quasi libero, solo per la presenza più o meno occasionale di elementi pensati per il lavoro industriale. Quindi, seguendo alla lettera i criteri tradizionali, la presenza di una vera e propria auto-organizzazione di attrezzature e mezzi e/o di altri soggetti dipendenti farebbe ricadere la prestazione fuori dall’ambito di tutela del diritto del lavoro, essendosi in presenza di un rapporto con un imprenditore ovvero con un lavoratore autonomo (a seconda della prevalenza o meno dell’organizzazione rispetto al lavoro personale). L’indagine sulla genuinità del rapporto incontra il grosso ostacolo della valutazione dell’elemento “organizzazione”: un telelavoratore senza dipendenti e saldamente legato al ciclo produttivo di un’azienda committente, che, per potersi collocare competitivamente sul mercato, si veda costretto a munirsi di attrezzature di sua proprietà, rischia fortemente di essere qualificato lavoratore autonomo (o addirittura imprenditore, nel caso in cui l’apporto di tali attrezzature sia valutato assolutamente prevalente rispetto all’apporto del lavoro personale: il che, nel caso di strumenti sofisticati come quelli informatici, potrebbe anche non risultare inimmaginabile). Non a caso i contratti collettivi per il settore privato, e il d.P.R. e l’A.Q. per il settore pubblico, si affrettano a ribadire che la postazione di telelavoro resta di proprietà del datore di lavoro e viene concessa in comodato al telelavoratore: segno che il requisito della non titolarità delle attrezzature lavorative è visto, appunto, come criterio fondamentale di subordinazione della prestazione; altrimenti, sarebbe facilissimo occultare rapporti di sostanziale sottoposizione ad un’azienda-madre, semplicemente rivolgendosi a soggetti che già dispongono di una propria attrezzatura informatica. Più empiricamente elastico è l’A.I., per il quale «di regola» il datore di lavoro deve fornire e installare le attrezzature, «salvo che il telelavoratore non faccia uso di strumenti propri» (art. 6). Si tratta, in questo caso, di un significativo allargamento delle maglie relative all’applicabilità delle tutele, se non addirittura della nozione stessa di subordinazione.
A rigore, sono possibili altre due qualificazioni. Infatti, all’interno del lavoro autonomo, e ricorrendone tutti i presupposti di legge, potrebbe ravvisarsi un telelavoro “a progetto”: la teleprestazione spesso si concretizza nella realizzazione di uno o più progetti specifici determinati dal committente, anche se un’eventuale connessione stabile con il terminale del committente potrebbe rivelare l’esercizio di un vero e proprio potere direttivo e di controllo e non una mera attività di coordinamento.
Altra possibile qualificazione è quella di telelavoro “a domicilio”, con una precisazione, non meramente terminologica: il telelavoro che si svolge a casa del dipendente non è, per ciò stesso, qualificabile “lavoro a domicilio” in senso tecnico. Può esserlo solo laddove ricorrano i presupposti di cui alla l. 18.12.1973, n. 877. Di conseguenza, il telelavoratore a domicilio deve svolgere la sua attività in un «locale» di sua pertinenza: non può perciò essere un “argonauta” né lavorare in un centro satellite di pertinenza del datore di lavoro. Egli può poi detenere mezzi, attrezzature e strumenti lavorativi (di non preponderante entità), cosa che il d.P.R. (art. 5, co. 2-3), l’A.Q. (art. 5, co. 2; art. 6, co. 3) e i contratti collettivi privatistici – ma non l’A.I. – inibiscono invece al telelavoratore subordinato “ordinario”. Può altresì servirsi dell’aiuto accessorio dei suoi familiari, circostanza che il rigido personalismo del lavoro subordinato non ammetterebbe. Poi, riguardo alle direttive, nel lavoro subordinato il datore avrebbe la facoltà di scegliere e sostituire discrezionalmente e in qualsiasi momento il software applicativo cui deve uniformarsi il lavoratore, mentre nel lavoro a domicilio risulterebbe sufficiente la sua imposizione una volta per tutte all’inizio del rapporto o, comunque, senza facoltà di una sua modificazione unilaterale in corso d’opera. Infatti, tradizionalmente nel lavoro a domicilio manca un controllo datoriale continuo e diretto che non sia meramente iniziale (appunto, le direttive) e successivo (verifica della rispondenza del “prodotto” alle istruzioni). A voler interpretare rigidamente questa preclusione, la categoria del lavoro a domicilio verrebbe in luce, allora, nelle sole ipotesi di telelavoro off line, in cui il lavoratore effettua la prestazione in base a direttive preventive ma senza collegamento telematico con l’azienda (anche nella sua variante one way line, caratterizzata da un unico flusso di dati dalla postazione di telelavoro verso l’azienda, senza alcun collegamento in senso opposto).
Quanto al momento genetico della prestazione di telelavoro, va segnalato come l’amministrazione pubblica che vi intenda ricorrere deve necessariamente operare secondo una procedura burocratica piuttosto complessa, imperniata sul «progetto di telelavoro», che deve avere un contenuto minimo indispensabile, abbastanza analitico (art. 3 d.P.R.): una rigidità che costituisce senz’altro uno dei motivi dello scarso ricorso al telelavoro nel settore pubblico.
Il quesito circa la necessità del consenso del dipendente per la sua adibizione al telelavoro è risolto in modo opposto dalla fonte legislativa e da quelle contrattuali: mentre, infatti, il d.P.R. tace sul punto, gli accordi collettivi, sia nel privato che nel pubblico (in particolare, l’art. 2 A.I.), garantiscono esplicitamente che il telelavoro non possa essere adottato senza l’assenso del lavoratore interessato. Questa diversità di impostazione sta sostanzialmente a significare che in favore della volontarietà del telelavoro non sussistono ragioni di stretto diritto, ma piuttosto motivi di opportunità. Se, quindi, le fonti contrattuali hanno considerato il carattere sperimentale del telelavoro e si sono preoccupate di assicurarne un decollo morbido – che non può certo avvenire contro la volontà dei dipendenti –, non pare viceversa che l’ordinamento imponga la necessità del consenso del lavoratore, se non in riferimento alle ipotesi di telelavoro domiciliare, dove evidentemente non si può invadere la sfera privata del dipendente senza il suo consenso.
L’art. 2103 c.c. riconosce al datore di lavoro il potere di trasferire unilateralmente il lavoratore da una unità produttiva ad un’altra della stessa impresa purché sussistano «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive», che senza dubbio possono risiedere in una strategia di ricorso al telelavoro. Ma una tale conclusione non è necessaria, perché presuppone l’assimilazione della postazione di telelavoro ad un’autonoma unità produttiva, il che – come s’è detto – non è, costituendo essa un mero prolungamento dell’ufficio. Perciò, se il consenso non è richiesto per il trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra, a maggior ragione non dovrebbe essere richiesto per quel trasferimento atecnico costituito dal telelavoro, che assume invece la veste di una diversa collocazione nell’ambito della stessa unità produttiva.
Solo se il telelavoratore avesse un vero e proprio diritto a chiedere di tornare alla modalità di lavoro “normale”, si porterebbe un argomento a favore della tesi della necessità del consenso. E le fonti non paiono consentire questa conclusione, accennando semplicemente alla “possibilità” di tale ritorno (il d.P.R.) o rinviando ad un accordo tra le parti (l’A.I.).
Il d.P.R. (art. 5, co. 5) vieta esplicitamente l’utilizzo per fini personali della postazione di telelavoro. Nulla, invece, dicono al riguardo i contratti collettivi, che sembrano lasciare ad accordi individuali la fissazione di eventuali limitazioni nell’uso delle apparecchiature (soprattutto se si pensa che per l’A.I. esse possono anche essere di proprietà del lavoratore). Del resto, le modalità di svolgimento del lavoro elettronico rendono molto labili i confini tra area personale e area lavorativa.
Il tema, comunque, va raccordato a quello del controllo sulla prestazione da parte del datore di lavoro. In realtà, se si applicasse l’art. 4 st. lav., nel nostro ordinamento il telelavoro sarebbe vietato: potere di controllo ed eterodirezione sono incorporati nello strumento informatico, e quindi vietare il controllo a distanza significherebbe privare il telelavoratore degli strumenti necessari per la sua attività. A volte, sono i contratti collettivi ad escludere l’applicabilità dell’art. 4 al telelavoro, sfruttando la disposizione sui controlli “preterintenzionali” contenuta nel co. 2. Il problema potrebbe riemergere nel caso in cui non sia applicabile alcun contratto collettivo, a maggior ragione dopo che l’art. 114, d.lgs. 30.6.2003, n. 196, ha espressamente previsto che il divieto dell’art. 4 vale anche per il telelavoro.
Evidentemente, l’azienda, esercitando il potere di controllo, potrebbe venire a conoscenza di dati personali del telelavoratore. In tali situazioni, questi è tutelato nella sua riservatezza dalle generiche disposizioni del d.P.R. (art. 6) e dell’A.Q. (art. 5) e, più in generale, dall’art. 8 st. lav. e dalla normativa sulla privacy, da qualche anno sviluppata, anche in sede giurisprudenziale, in relazione agli strumenti informatici. Specificamente, l’art. 115, d.lgs. n. 196/2003 pone a carico del datore il rispetto della personalità e della libertà morale del telelavoratore.
L’utilizzo di mezzi telematici può far sorgere il rischio che l’attività del telelavoratore infranga la riservatezza di informazioni relative a terzi: l’A.Q., quindi, autorizza il datore a prendere tutte le misure necessarie in proposito (art. 4).
Un altro principio apparentemente ovvio è quello della rigorosa individualità ed infungibilità della prestazione. Il d.P.R. lo dà per implicito, col conseguente divieto a mettere in comune (con altri colleghi, con familiari) la postazione di telelavoro. Il principio della personalità della prestazione si raccorda al tema dell’identificazione del dipendente. Tra tutti i sistemi disponibili (password, badge personali, firma digitale, e così via), il datore di lavoro potrà predisporre quello più idoneo ad assicurare che la prestazione sia resa effettivamente dal proprio telelavoratore, naturalmente facendo salve le esigenze di riservatezza (Riservatezza e rapporto di lavoro) (che impedirebbero forse l’uso di una webcam) e di segretezza delle comunicazioni (specie nel settore pubblico).
Le particolarità connesse ad un sistema tecnologico informatizzato fanno, però, sì che esso si presti a fungere, oltre che da strumento di lavoro, anche da canale di comunicazione “sociale”. E tale diritto del telelavoratore è esplicitamente garantito sia nel settore pubblico che in quello privato.
Quanto ad un altro tipico potere datoriale, quello disciplinare, evidentemente la disposizione dell’art. 7, co. 1, st. lav., che richiede come presupposto imprescindibile l’«affissione» del codice disciplinare, necessita di un adattamento “informatico”. Vanno poi adeguate al telelavoro le condotte sanzionabili, con codici disciplinari ad hoc (ad esempio, non ha senso il divieto di fumo per il telelavoro “a casa”, né il mancato rispetto dell’orario di lavoro, se non siano pattuite specifiche fasce di presenza).
L’orario è un elemento sicuramente verificabile nel telelavoro, per le caratteristiche stesse di uno strumento lavorativo che registra dati relativi alla quantità - oltre che alla qualità - della prestazione. Ma, proprio in ragione della flessibilità di tale modalità lavorativa, di rispetto di un orario di lavoro si potrà parlare solo in relazione a specifiche esigenze del datore che giustificano la fissazione di periodi di reperibilità (se, ad esempio, il telelavoratore deve fornire determinati servizi al pubblico o alla clientela); altrimenti la distribuzione del tempo di lavoro nel corso della giornata sarà assolutamente discrezionale. Lo conferma l’art. 17, co. 5, lett. d), d.lgs. 8.4.2003, n. 66, che dispone l’inapplicabilità al telelavoro di buona parte della disciplina ordinaria sull’orario di lavoro.
Di conseguenza, anche la modalità di corresponsione della retribuzione potrebbe essere basata su parametri di produttività e tempi massimi di consegna dei risultati. Finora, comunque, al telelavoratore è semplicemente riconosciuta la stessa retribuzione a tempo del suo collega “interno”. L’A.I., poi, garantisce al telelavoratore gli stessi diritti «previsti per un lavoratore comparabile che svolge attività nei locali dell’impresa» (art. 3); il d.P.R. aggiunge «in ogni caso», quindi senza eccezioni: ciò dovrebbe impedire eventuali prassi volte a retribuire di meno i telelavoratori, sulla supposizione dei minori costi da loro affrontati per raggiungere la sede di lavoro.
Il telelavoratore, quindi, deve essere posto su un binario assolutamente parallelo rispetto al collega rimasto in sede. L’assegnazione al telelavoro non deve, poi, essere vista come una situazione potenzialmente in grado di pregiudicare aspettative di carriera e di progressione economica del dipendente, che non vanno perciò legate alla sua presenza nella sede di lavoro. Le fonti normative, infatti, affermano che il telelavoratore deve beneficiare di pari opportunità di carriera e di partecipazione a iniziative formative rispetto ai lavoratori “interni” (art. 4, co. 2, A.Q.; art. 9 A.I.).
La salute del telelavoratore è tutelata anche ai sensi dell’art. 3, co. 10, d.lgs. n. 81/2008. Più precisamente, il datore di lavoro deve utilizzare misure appropriate per ovviare ai rischi per la vista e «ai problemi legati alla postura ed all’affaticamento fisico e mentale» connessi all’utilizzo dei videoterminali; delle «condizioni ergonomiche e di igiene ambientale» della postazione di telelavoro si dovrà tener conto ai fini della valutazione dei rischi. A ciò si aggiunge l’obbligo di fissare interruzioni e pause, il dovere di sorveglianza sanitaria calibrato su tali rischi, nonché la conformità delle attrezzature agli standard di legge. Inoltre, il datore, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti possono accedere alla postazione di telelavoro per verificare l’osservanza della normativa in materia di salute e sicurezza (nel caso di telelavoro “a casa” occorre un preavviso e il consenso del dipendente). Infine, anche per i telelavoratori è previsto il diritto di informazione e formazione in tema di sicurezza, e la possibilità di chiedere ispezioni della propria postazione di lavoro.
La naturale frammentazione della fattispecie potrebbe rendere difficile la partecipazione dei telelavoratori alle attività sindacali, anche se proprio le risorse della “rete” potrebbero promuovere nuovi tipi di aggregazione elettronica.
La rappresentanza nelle aziende (Rappresentanze sindacali aziendali) con un consistente numero di telelavoratori potrebbe avvenire assicurando loro delle “quote”, utilizzando gli spazi che le normative negoziali dedicano alla promozione della “rappresentanza di genere”: oltre a riferirsi a lavoratori “diversi” per questioni personali (sesso, razza, lingua, nazionalità), tale espressione potrebbe riguardare anche situazioni di “diversità” tecnico-professionale.
Tutto il tema dei diritti sindacali necessita, poi, di una riscrittura “telematica”, rendendo possibili in via elettronica referendum, affissioni, riunioni, assemblee, contrattazione, e così via: un vero e proprio “tele-statuto” dei lavoratori.
Ai telelavoratori va garantito il diritto di sciopero, anche per via telematica: dalla proclamazione all’adesione dei singoli telelavoratori fino all’astensione dalla prestazione, che si concretizza nello spegnimento del terminale o in altre attività: alcune esperienze di “sciopero tecnologico” hanno visto, ad esempio, intasare il server del datore oppure tenere costantemente occupato il numero telefonico informativo del servizio. Gli scioperi articolati (a singhiozzo, a scacchiera), proprio per la struttura a rete che il telelavoro presuppone, potrebbero rivelarsi quanto mai efficaci e facili da realizzare. In questo caso, il danno alla produttività (e, quindi, l’illegittimità dello sciopero) potrebbe anche identificarsi con le alterazioni eventualmente provocate al sistema informatico del datore, dovute ad esempio all’indebita immissione di dati o all’infezione da virus, che potrebbe impedire al sistema di riprendere a funzionare correttamente al termine dello sciopero.
Ma il ruolo più incisivo per il sindacato resta quello di intervenire nelle scelte riguardanti la delocalizzazione dell’attività, con l’obiettivo di governare i processi decisionali che conducono al telelavoro. Gli strumenti sono quanto mai tradizionali, la partecipazione e la contrattazione. Due modelli piuttosto in crisi di questi tempi.
Art. 4 l. 20.5.1970, n. 300; l. 18.12.1973, n. 877; art. 4 l. 16.6.1998, n. 191; d.P.R. 8.3.1999, n. 70; art. 17, co. 5, lett. d), d.lgs. 8.4.2003, n. 66; art. 114-115, d.lgs. 30.6.2003, n. 196; art. 3, co. 10, d.lgs. 9.4.2008, n. 81; art. 22, co. 5, l. 12.11.2011, n. 183; accordo quadro sul telelavoro nelle pubbliche amministrazioni del 23.3.2000; accordo quadro europeo sul telelavoro del 16.7.2002; accordo interconfederale sul telelavoro del 9.6.2004.
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