Temi olimpici: il doping
Doping è l'uso di sostanze o metodi potenzialmente pericolosi per la salute e capaci di migliorare in modo artificiale la prestazione sportiva. È un comportamento contrario all'etica medica, al fair-play e costituisce una violazione delle leggi sportive.
L'impiego di sostanze eccitanti fa parte della società da secoli. Gli indiani di Perù e Bolivia ricorrevano alle foglie di coca, i tarahumara del Messico al peyote, in Sud America era diffuso il maté, in Colombia lo yoco, in Uruguay il guarana, in Africa settentrionale la mandragora, in quella orientale il kat, in Cina si usavano le radici di ginseng e, già 5000 anni fa, il ma huang, cioè l'efedra. Non c'era traccia di doping, invece, nella Grecia antica, dove si cercava di migliorare la prestazione con la dietetica. Secondo Ippocrate di Cos gli atleti dovevano mangiare carne diversa a seconda della specialità: i saltatori carne di capra, i pugili e i lanciatori carne di toro, i grandi lottatori carne grassa di maiale.
Il primo doping, empirico, ma basato su cocktail micidiali, comparve nell'Ottocento e investì corse ippiche, gare di fondo e ciclismo. Ciclisti e fondisti usavano digitale, strophantus, noce vomica, canfora, etere, caffeina. L'era delle anfetamine incominciò ai Giochi di Berlino 1936 con la benzedrina. In concomitanza con lo sviluppo dell'industria farmaceutica, l'arsenale dei farmaci dopanti si allargò enormemente. A somministrarli era il massaggiatore, come nel caso di Biagio Cavanna per Fausto Coppi. Solo dopo la Seconda guerra mondiale si affermò la figura del medico di squadra, anche se per la tutela sanitaria delle attività sportive il CONI aveva approvato già il 24 febbraio 1930 lo statuto della Federazione italiana dei medici sportivi.
In linea di massima, si può dire che le sostanze dopanti più usate negli anni Cinquanta furono gli stimolanti, negli anni Sessanta-Settanta gli steroidi anabolizzanti e il cortisone, negli anni Ottanta l'ormone della crescita (oltre alla pratica dell'emotrasfusione), negli anni Novanta dilagò l'uso dell'eritropoietina (EPO). Sul finire del 20° secolo la medicalizzazione dello sport ha raggiunto livelli aberranti, con gli atleti spesso trasformati in 'laboratori chimici ambulanti'. A titolo esemplificativo, si può citare una tragedia, quanto mai illuminante che ha avuto luogo in Germania. Il 10 aprile 1987, nella clinica universitaria di Magonza, morì l'eptathleta Brigitte Drexel; i genitori la definirono subito Opfer der Pharmaindustrie, "vittima dell'industria farmaceutica", mentre per i medici la causa di morte fu shock anafilattico. La crisi fatale sopravvenne dopo un'iniezione di 5 g di metamizol. Dall'inizio del 1986 l'atleta assumeva lo Stromba, cioè lo stanozolol, uno steroide anabolizzante, ma l'autopsia le trovò in corpo tracce di 102 farmaci differenti.
Solo nella seconda metà del Novecento, sulla spinta dell'eco suscitata dalla morte del ciclista danese Knut Enemark Jensen, provocata da alte dosi di stimolanti alle Olimpiadi di Roma 1960, ebbe inizio la lotta al doping (la Federazione internazionale di atletica già nel 1928 aveva vietato l'uso degli stimolanti, ma senza procedere ad accertamenti e indagini).
Al giorno d'oggi tale lotta è sostenuta da una vasta attività a livello internazionale e nazionale. L'art. 5 della Carta europea dello sport per tutti, approvata a Bruxelles il 20 marzo 1975 dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, recita: "Devono essere adottate misure per salvaguardare lo sport e gli sportivi da ogni sfruttamento a fini politici, commerciali e finanziari, e da pratiche avvilenti e abusive come l'uso delle droghe". L'Italia il 16 novembre 1989 ha aderito alla Convenzione di Strasburgo, che ha visto gli Stati membri del Consiglio d'Europa "preoccupati dall'impiego sempre più diffuso di prodotti e di metodi di doping tra gli sportivi nell'ambiente dello sport e dalle conseguenze per la salute di coloro che li praticano e per il futuro dello sport". Il 10 novembre 1999 è stata costituita la WADA (World anti-doping agency), un organismo mondiale di lotta al doping che unisce dirigenti del Movimento Olimpico e autorità pubbliche. Il 5 marzo 2003 i governi hanno approvato a Copenaghen il codice unico antidoping, che prevede regole e sanzioni uguali per tutti. Una svolta storica che testimonia come il doping sia un problema sociale di dimensioni planetarie; con essa, di fatto, il meccanismo di controllo si sposta al di fuori del mondo dello sport.
In Italia il primo intervento antidoping fu la l. 26 ottobre 1971, nr. 1099, riguardante la "Tutela sanitaria delle attività sportive"; la l. 13 dicembre 1989, nr. 401, servì a contrastare la truffa sportiva collegata al concorso pronostici e alle scommesse; l'intervento mirato contro il doping si è avuto con la l. 14 dicembre 2000, nr. 376, sulla "Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping", che prevede per chi assume sostanze dopanti o adotta pratiche illecite condanne fino a 3 anni.
Il CIO affrontò per la prima volta il problema del doping nella sessione di Varsavia dell'8-11 giugno 1937. In quella occasione lord David Burghley, medaglia d'oro dei 400 m ostacoli ai Giochi di Amsterdam nel 1928, parlò dell'uso, della diffusione dei farmaci e degli effetti del doping. Ma solo nel 1961 il Comitato olimpico creò una Commissione medica, presieduta da sir Arthur Porritt, medico della famiglia reale inglese. Nella sessione di Madrid, nel 1965, il principe Alexandre de Merode presentò un rapporto intitolato Il problema del doping ai Giochi Olimpici.
I controlli cominciarono nel 1968 ai Giochi invernali di Grenoble. Il 7 febbraio di quell'anno Franco Nones, vincitore della 30 km, la gara d'apertura, fu il primo olimpionico a subire il controllo antidoping: risultò negativo. Dopo di lui, però, alle Olimpiadi del periodo 1968-2002, 71 atleti furono trovati positivi, tra cui nove olimpionici. Un solo italiano, il martellista Giampaolo Urlando, cadde nella rete. Furono restituite 30 medaglie olimpiche: 25 di dopati, alle quali si aggiunsero quelle degli incolpevoli Bjorn Ferm e Hans Jacobson, compagni a Città del Messico 1968 di Hans-Gunnar Liljenvall, positivo, nel team svedese di pentathlon moderno, e quelle dei tre ciclisti olandesi Fedor den Hertog, Hennie Kuipere, Cees Priem, compagni a Monaco 1972 di Aad van den Hoek, positivo alla coramina nella cronosquadre.
Il doping, come accennato, non è un fenomeno recente. Le corse ippiche legate alle scommesse ne furono il campo di sperimentazione: risalgono al 1836, in Gran Bretagna, i primi casi noti di cavalli drogati. Poi toccò agli uomini: i pistards delle Sei giorni e i campioni delle 'corse pedestri' usavano caffeina, etere, alcool, digitale e strophantus, noce vomica, eroina, stricnina. Il primo atleta morto per doping viene considerato il ciclista gallese Arthur Linton. Nel 1896 aveva vinto la Bordeaux-Parigi, 592 km, superando una crisi tremenda. Poche settimane dopo morì, a 24 anni. Si parlò di febbre tifoide, ma molti dubbi si concentrarono su Choppy Warbuton, il suo allenatore, famoso per i micidiali cocktail che dava ai suoi atleti. L'anno successivo Warbuton fu squalificato per uso di droghe su Jimmy Michael, che poi morì a 27 anni.
Alle Olimpiadi furono i maratoneti i primi a far uso di sostanze pericolose. Nella maratona dei Giochi di St. Louis 1904, disputata in condizioni infernali, lo statunitense Thomas Hicks cadde in crisi a 10 km dall'arrivo. Il suo allenatore gli iniettò a più riprese solfato di stricnina e gli fece bere del cognac. Hicks vinse con sei minuti di vantaggio. Fu ancora la stricnina a fare di Dorando Pietri un eroe ai Giochi di Londra del 1908. Erano le cinque della sera del 24 luglio quando Pietri entrò per primo nello stadio di White City. Doveva percorrere solo 385 yards in senso antiorario, ma sbagliò verso. Fu fermato e, nel voltarsi, cadde la prima volta. Cadde per cinque volte. A soccorrerlo, sulla pista, c'era un giudice di gara straordinario, sir Arthur Conan Doyle, l'inventore di Sherlock Holmes: si ricordò di essere chirurgo prima che romanziere e insieme allo speaker Jack Andrews aiutò Pietri, che fu perciò squalificato. Oltre il traguardo Pietri svenne e il medico dello stadio J.M. Bulger gli praticò tecniche di rianimazione.
Il primo a morire per doping alle Olimpiadi fu il già citato ciclista danese Jensen, 23 anni. Alle 9.32 del 25 agosto 1960 si lanciò con tre compagni nella crono a squadre dei Giochi di Roma: 100 km sotto il sole di agosto. La squadra danese era quarta e lottava per il podio, quando al terzo e ultimo giro Jensen crollò a Casalpalocco. Due ore dopo morì in ospedale per collasso cardiaco. L'autopsia però rilevò la presenza di uno stimolante, il ronicol. Rino Negri scrisse nel suo libro Doping (1988) che i medici poterono stabilire che Jensen aveva fatto uso di una dose di stimolanti che sarebbe servita a "far scalpitare un cavallo. E l'effetto che si era prodotto poteva essere paragonato a quello di un motore che esplode".
Il testosterone fu sintetizzato nel 1935. Negli anni Quaranta cominciò il dibattito sugli effetti degli ormoni sulla prestazione sportiva. A partire dagli anni Cinquanta il testosterone e poi i suoi principali derivati, gli steroidi anabolizzanti androgenici, cominciarono a essere usati dagli atleti per incrementare la massa muscolare e intensificare gli allenamenti. I sovietici furono i primi a sfruttarli ai Giochi di Helsinki 1952. Gli statunitensi si adeguarono.
In mancanza di controlli, l'uso intensivo e generalizzato degli steroidi anabolizzanti negli anni Sessanta è provato dalle autodenunce. Il lanciatore di martello Harold Connolly, olimpionico nel 1956, dichiarò davanti a una commissione d'inchiesta che prima di Tokyo 1964 nel suo ambiente un numero sempre maggiore di atleti aveva assunto steroidi anabolizzanti e che "si aveva l'impressione di partire da una posizione di svantaggio se non si saliva sul treno della medicina sportiva". Il mezzofondista Josef Odlozil, argento nei 1500 m a Tokyo, denunciò che negli anni Sessanta i cecoslovacchi erano trattati con steroidi anabolizzanti e di averne egli stesso assunto. Il lottatore Per Svensson, argento a Tokyo e campione del mondo, rivelò che la sua ascesa era legata agli ormoni. Lo stesso fece il discobolo Ricky Bruch che indicò il dianabol come causa dei suoi problemi a legamenti e tendini. Si autoaccusò anche la medaglia d'oro del sollevamento pesi Kaarlo Olavi Kangasniemi, paraplegico per un incidente che ritenne legato a un'overdose d'anabolizzanti. L'americano Jay Silvester, primo a superare i 70 m nel disco, a Monaco 1972 studiò i suoi rivali di sette nazioni e concluse che "due terzi avevano usato steroidi in allenamento". Roger Bannister, primo a scendere sotto i 4 minuti nel miglio, generalizzò: "i due terzi del lottatori e dei sollevatori di pesi dei Giochi di Monaco, come un certo numero di lanciatori, hanno ammesso di aver assunto steroidi anabolizzanti". La sovietica Irina Rodnina, vincitrice di tre ori olimpici, rivelò che nel pattinaggio i sovietici avevano iniziato a fare uso di steroidi anabolizzanti a partire dal 1970.
I ciclisti olandesi della cronosquadre di Città del Messico, nel 1968, furono sorpresi con steroidi anabolizzanti, però non furono sanzionati nonostante le ammissioni del massaggiatore. Il CIO vietò queste sostanze solo nel maggio 1974, nel congresso di Innsbruck.
All'inizio degli anni Ottanta il medico Daniele Faraggiana nel centro CONI di Tirrenia trattò con steroidi anabolizzanti lanciatori e sollevatori di peso azzurri, tra cui gli olimpionici di Los Angeles 1984 Alessandro Andrei e Norberto Oberburger. D'accordo con il responsabile dei lanci della FIDAL (Federazione italiana di atletica leggera) Renato Carnevali e con il direttore tecnico Enzo Rossi, Faraggiana somministrava methandrostenolone soprattutto, ma anche nerabol, dianabol, oxanor, winstrol, andriol, testoviron. Per alleggerire la responsabilità della Federazione, faceva firmare agli atleti dichiarazioni liberatorie, in cui ciascuno affermava di voler intraprendere, secondo la propria "personale responsabilità e volontà", una terapia farmacologica con steroidi anabolizzanti; annotava scrupolosamente le posologie, i dosaggi, i periodi di disintossicazione; costruiva le curve di scomparsa degli anabolizzanti; mandava gli atleti per le analisi - per es. assetto endocrinologico, ferritinemia, sali biliari - al laboratorio CNR dell'Ospedale di Pisa diretto da Marco Ferdeghini. Un doping scientifico, di cui sono rimaste tracce nei casi di positività del martellista Urlando (1984) e dei discoboli Luciano Zerbini (1993) e Marco Martino (1998).
La magistratura, invece, fece luce sul doping nel sollevamento pesi. L'11 ottobre 1989 la Procura della Repubblica di Savona emise ordini di comparizione per Claudio Polletti, direttore tecnico azzurro dei pesi, Wojcech Dousa, allenatore, oltre al già citato Faraggiana. Furono accusati dai loro stessi atleti, Pietro Puiia e Massimo Binelli. Vennero smascherate le terapie a base di steroidi anabolizzanti, rivelando i danni che avevano procurato agli atleti, oltre alle tecniche per frodare l'antidoping. Prima dei Giochi di Los Angeles tre pesisti su cinque risultarono positivi a un'analisi preventiva e non` furono fatti gareggiare. Ma il 30 ottobre 1988 ai Campionati italiani di Verona, tre atleti vennero trovati positivi; tra loro il campione olimpico Oberburger. Aveva assunto tre steroidi anabolizzanti: methandienone, stanozolol, nandrolone. Nel 1991 altri sei pesisti vennero trovati positivi.
Nonostante la dura lotta contro il doping condotta dalla IAAF, il fenomeno ha intaccato il settore dei lanci. I lanciatori di peso olimpionici, da Montreal fino a Sydney, per es., sono stati trattati con steroidi anabolizzanti: Udo Beyer, Vladimir Kiselyov, Alessandro Andrei, Ulf Timmermann, Mike Stulce, Randy Barnes. Quest'ultimo fu trovato positivo solo 49 giorni dopo il suo record del mondo, 23,12 m. Poi nel 1998 fu squalificato a vita. Stessa sorte subì il discobolo Raimondas Ubartas nel 2002.
Fra le sostanze dopanti più usate a cavallo del millennio figura il nandrolone. I casi più clamorosi di positività riguardarono il quattrocentista Butch Reynolds (1990) e lo sprinter Linford Christie (1999), il mezzofondista e fondista Dieter Baumann, che pure si dichiarava fiero oppositore del doping (1999), la primatista del mondo del martello Mihaela Melinte e il lanciatore del peso Cottrel J. Hunter (2000), il lottatore Alexander Leipold (2000), il mezzofondista Andrea Longo (2001), oltre a un gran numero di calciatori famosi.
Il siepista finlandese Mikko Ala Leppilampi rivelò di essere stato sottoposto a emotrasfusione prima dei Giochi di Monaco 1972. In Finlandia l'emotrasfusione era pratica diffusa fra i fondisti. Le quattro medaglie d'oro olimpiche di Lasse Viren, unite all'assenza di risultati tra Monaco e Montreal, furono presto al centro di illazioni e sospetti. La replica di Viren fu fantasiosa: disse che traeva forza da un regime a base di 'latte di renna'. Ma un altro fondista finlandese, Kaarlo Maaninka, rivelò di essere ricorso alle trasfusioni per le due medaglie di Mosca 1980. I successi di un'intera generazione - Juha Vaatainen, Viren, Pekka Vasala e Maaninka - furono messi in discussione.
Poi anche lo sciatore di fondo Aki Karvonen confessò che le sue medaglie del 1984 erano legate alle trasfusioni che faceva nell'ospedale militare Tikka di Helsinki. I finlandesi non erano i soli. Il sovietico Alexandre Antipov rivelò che gli allenatori gli avevano imposto una trasfusione sanguigna prima dei Giochi di Mosca. Già nel febbraio 1976 il CIO aveva giudicato l'emotrasfusione "sleale e ad alto rischio". De Merode, presidente della Commissione medica, condannò tali pratiche, in quanto ricerca artificiale antisportiva, contraria all'etica olimpica e pericolosa per la salute dell'atleta.
Grazie all'emotrasfusione i ciclisti USA stupirono ai Giochi di Los Angeles 1984. L'allenatore Eddie Borysewicz la propose a meno di una settimana dai Giochi. In un piccolo albergo di Dominguez Hill, presso il velodromo olimpico, si sottomisero alla pratica, effettuata dal dottor Hermann Falsetti, Steve Hegg e Leonard Harvey Nitz (oro e bronzo nell'inseguimento), Pat McDonough e Brent Emery (argento nell'inseguimento a squadre), Rebecca Twigg (argento su strada), oltre a John Breckman, Danny Van Haute e Mark Whitehead. Ad alcuni fu iniettato il sangue altrui, di parenti o di estranei. In questo modo contrassero virus i due corridori Mark Whitehead e Danny Van Haute.
Visto quanto era accaduto a Los Angeles, la Commissione medica del CIO decise nel 1985 di vietare l'emotrasfusione e chiese al presidente del CIO di sostenere le ricerche per un test sicuro per riconoscere le pratiche di dosaggio del sangue.
Durante gli stessi Giochi di Los Angeles Francesco Conconi, medico e personaggio di spicco nel mondo dello sport, usò un metodo più 'sicuro', l'autoemotrasfusione, inventata dallo svedese Bjorn Ekblom nel 1971. Reiniettava a fondisti, pentathleti, ciclisti e nuotatori il sangue che aveva loro prelevato quattro settimane prima. Mentre Alberto Cova, Daniele Masala e il quartetto della cronosquadre vinsero l'oro olimpico, il flop dei nuotatori costò il posto al commissario tecnico Bubi Dennerlein.
Conconi aveva cominciato a sperimentare l'emotrasfusione sugli atleti nel 1979 all'Università di Ferrara. Ma non trascurò steroidi anabolizzanti, testosterone e, poi, eritropoietina, avendo subito successo. I suoi pupilli - Cova, Maurilio De Zolt, Francesco Moser, Maurizio Damilano, Masala, Andrei - furono protagonisti di grandi vittorie. La pratica dell'emotrasfusione divenne, alla vigilia delle Olimpiadi di Los Angeles, una condizione imprescindibile per poter essere competitivi. Conconi diventò il riferimento dello sport di élite, preso come referente anche dalle strutture istituzionali, CONI e Federazioni di atletica, sci, ciclismo, pentathlon moderno, nuoto, canoa. Ricevette oltre tre miliardi di lire di finanziamenti e gli furono affidati molteplici incarichi, talvolta in contrasto l'uno con l'altro: fu dirigente, medico e controllore, presidente del CONI di Ferrara dal 1979, membro delle Commissioni medica del CIO, del CONI e dell'UCI (Unione ciclistica internazionale), rettore dell'Università di Ferrara.
Prometteva 1,2″ di vantaggio ogni 100 m ai nuotatori, in atletica valutò in 3-5″ sui 1500 m, 15-20″ sui 5000 m, 30-40″ sui 10.000 m il miglioramento legato all'emotrasfusione. Alterò, in seno alle squadre nazionali, i valori. Il caso di Stefano Mei, eliminato dai 5000 m per i Giochi di Los Angeles da tre fondisti siciliani emotrasfusi, è in tal senso illuminante. Il 29 ottobre 1998, però, i NAS sequestrarono alcuni file nel suo Centro di studi biomedici applicati allo sport dell'Università di Ferrara, che mostravano variazioni di ematocrito preoccupanti. Tre ciclisti - Guido Bontempi, Claudio Chiappucci e Piotr Ugrumov - avevano un valore superiore al 60%. I fondisti che avevano vinto 8 delle 9 medaglie di Lillehammer risultarono anomali: 55,5% Manuela Di Centa, 56,5% Silvio Fauner, 54,2% De Zolt, 53,7% Giorgio Vanzetta, 57%,5 Marco Albarello. Tra i ciclisti presentavano valori a rischio Marco Pantani 58,0%, Ivan Gotti 57,0%, Bjarne Riis 56,3%, Maurizio Fondriest 54,6 %, Stephen Roche 54,2%, Eugeni Berzin 53,9%, Gianni Bugno 52%. Paradossalmente, mentre nel suo centro si somministrava l'eritropoietina, Conconi aveva ricevuto dal CIO l'incarico di mettere a punto il test per l'individuazione di tale sostanza. La sentenza del processo che ne seguì, depositata il 16 febbraio 2004, assolse per prescrizione del reato Conconi e i suoi collaboratori Giovanni Grazzi e Ilario Casoni, ma denunciò che avevano "per alcuni anni e con assoluta continuità fiancheggiato gli atleti elencati nella loro assunzione di eritropoietina, sostenendoli e di fatto incoraggiandoli nell'assunzione stessa con la loro tranquillizzante e garante rete di controlli dello stato di salute, di esami, di analisi, di test tesi a valutare e ottimizzare gli esiti dell'assunzione in vista dei risultati sportivi": un doping scientifico. Il magistrato provò che Casoni alterava i valori dell'ematocrito nelle cartelle dei fondisti, che passava al medico federale Claudio Locatelli, "per nascondere i valori più alti, sintomatici di un trattamento con EPO" e che Grazzi nel 1993 somministrava direttamente EPO a Chiappucci, Roche, Guido Bontempi, Rolf Sorensen e Mario Chiesa. Ferrara era dunque una centrale del doping.
La sprinter statunitense Diane Williams prima dei Giochi di Los Angeles 1984 fece ricorso all'ormone della crescita (hGH), sostanza molto usata nel football americano e che figurava nell'arsenale di Ben Johnson e in quello dei velocisti dell'Est. L'hGH favorisce l'aumento della massa muscolare e non è identificabile ai controlli. Deluso dall'esito dei Giochi del 1984, lo volle provare anche Pietro Mennea, ossessionato dall'idea di scoprire i segreti degli avversari: si recò dunque dal dottor Robert Kerr a Los Angeles e se lo fece prescrivere.
Si parlò di GH anche a proposito del decesso prematuro di Florence Griffith, che ai Trials del 1988 e ai successivi Giochi di Seul aveva portato a livelli ritenuti impossibili i record della velocità. Poi si ritirò, quando ebbero inizio i controlli a sorpresa. Il 21 settembre 1998, a 38 anni, morì nel sonno nella sua casa di Mission Viejo. Secondo l'autopsia la morte fu dovuta a "soffocamento conseguenza di un attacco epilettico".
Il GH fu trovato nella valigia della nuotatrice cinese Yuan Yuan ai Mondiali 1998, nelle stanze dei corridori nel blitz compiuto al Giro d'Italia nel 2001 e in molti altri casi del ciclismo. Alla vigilia dei Giochi di Sydney 2000 fu al centro di un caso che riguardò gli azzurri: 27 atleti risultarono con GH 'attivato', 5 con GH 'iperattivato': valori anomali che produssero, invece di un approfondimento, lo scioglimento della Commissione scientifica.
Uno studio segreto dell'Istituto di cultura fisica di Mosca del luglio 1972, Steroidi anabolizzanti e prestazioni sportive, offrì la prova del doping di Stato. Rivelò come il doping fosse imposto senza il consenso degli atleti in molti sport e sottolineò i gravi problemi di dipendenza legati agli anabolizzanti. Tra gli effetti si riscontrò anche un incremento dell'aggressività: il bulgaro Angel Genchev, campione olimpico di sollevamento pesi a Seul 1988, squalificato per uso di furosemide due giorni dopo la premiazione, finì in carcere per violenza carnale, uno dei cento casi di questo tipo segnalati.
La nazione più coinvolta nel doping di Stato fu la Germania Est, che a partire dal 1968 diede inizio a un programma statale di somministrazione di prodotti dopanti, poi proseguito fino alla riunificazione (1989). Il piano era finanziato e controllato dal governo (Erich Honecker), coordinato dalla Federazione tedesca di ginnastica (Manfred Ewald) e dall'Istituto di ricerca sulla cultura e lo sport di Lipsia, e si basava sugli ormoni anabolizzanti, chiamati unterstuetzende Mitteln, "mezzi di sostegno". Per evitare verdetti di positività, prima delle grandi manifestazioni internazionali, Olimpiadi e Mondiali, venivano effettuati controlli pre-gara, che si svolgevano nel laboratorio di Kreischa, accreditato dal CIO. Così, nel periodo 1968-89 arrivarono 192 vittorie olimpiche e 519 medaglie: 30 nel 1968, 80 nel 1972, 109 nel 1976, 149 nel 1980, 24 nel 1984, 127 nel 1988. In 22 anni di doping ai Giochi Olimpici la Germania Est non registrò nemmeno un caso di positività. Al di fuori delle Olimpiadi solo due atleti, la lanciatrice di peso Ilona Slupianek (1977) e l'inseguitore Norbert Duerpisch (1978), risultarono positivi.
Il 'modello Germania Est' destava ammirazione nel mondo: una piccola nazione, così formidabile, così avanti nella scienza sportiva! In realtà era all'avanguardia solo l'organizzazione del doping senza alcuno scrupolo. Il programma coinvolgeva centinaia di dirigenti, medici, allenatori e molte migliaia di atleti. Per anni l'omertà fu totale, eppure c'erano segnali allarmanti: a Monaco 1972 parteciparono nuotatrici con la barba e la voce da basso.
La legge del silenzio fu rotta il 26 febbraio 1977 da Brigitte Berendonk, ex-discobola, docente dell'università di Heidelberg, con un'intervista al quotidiano Süddeutsche Zeitung. La Berendonk, spalleggiata dal marito, il biologo molecolare Werner Franke, denunciò il doping di Stato. Parecchi anni dopo un allenatore, Michael Regner, e tre atleti fuggiti all'Ovest - le nuotatrici Renate Vogel, primatista mondiale di rana, e Kristiane Knacke, prima donna a scendere sotto il minuto sui 100 m delfino, e l'olimpionico del salto con gli sci Georg Aschenbach - confermarono la gravità del fenomeno. Aschenbach, che era medico, dopo la sua fuga all'Ovest nel 1988, descrisse puntualmente prodotti e posologie: si autoaccusò dichiarando di aver assunto nandrolone, e fece i nomi di molti campioni.
Dopo la caduta del Muro (1989) le menzogne furono del tutto smascherate. La campionessa Heike Drechsler, in un ultimo tentativo di coprire lo scandalo, accusò di mendacia Brigitte Berendonk, che aveva descritto il suo doping indicando le dosi giornaliere, ma fu condannata per spergiuro dal tribunale di Heidelberg.
Nel 1990 Werner Franke trovò a Bad-Saarow, all'Accademia militare dell'esercito, zona top secret, i documenti della pianificazione del doping. La verità emerse. I più grandi campioni della Germania Est - Udo Beyer, Ulf Timmermann, Heike Drechsler, Ruth Fuchs, Marita Koch, Baerbel Woeckel, Marlies Goehr, Renate Stecher, Ilona Slupianek, Petra Felke nell'atletica, Petra Schneider, Kornelia Ender e Kristin Otto nel nuoto, bobbisti e sciatori, ginnasti e ciclisti, fino a Katarina Witt nel pattinaggio artistico e Karin Kania-Enke in quello di velocità - erano stati allevati con steroidi anabolizzanti. Il prodotto base era stato l'Oral-Turinabol. Nemmeno uno dei campioni della Germania Est si salvò. Emerse anche che si erano messi a punto sistemi per 'pulire' gli atleti prima delle grandi gare con prodotti mascheranti. L'asso della pallamano Wolfgang Boehme rivelò che il doping era 'di rigore' già prima di Monaco 1972, e Aschenbach parlò delle lesioni causate dall'uso eccessivo dell'elettrostimolazione. Il sollevatore di pesi Gerhard Bonk, campione d'Europa e medaglia olimpica, era stato costantemente alimentato con steroidi anabolizzanti malgrado fosse così malato da non poter più lavorare. Alcuni sollevatori di pesi si erano dovuti sottoporre all'ablazione chirurgica dei seni: il rigonfiamento e la femminilizzazione dei loro petti avevano raggiunto uno stato precanceroso. Erano state dopate anche giovanissime nuotatrici di 12-13 anni.
Dopo la caduta del Muro alcuni responsabili furono messi sotto processo. Ewald, al vertice della Federazione di ginnastica, fu condannato a 22 mesi di carcere insieme a dirigenti, medici e allenatori. Ma le ferite erano indelebili. Bambini nati deformi, mutilazioni permanenti, ossa divenute fragilissime, danni irreparabili al fegato, come nel caso eclatante di Detlef Gerstenberg, un gigante di 186 cm per 113 kg, morto a 35 anni per necrosi al fegato, vittima del turinabol. La magistratura dovette registrare oltre mille casi di richieste di risarcimento danni per doping. La cosa più sorprendente, però, fu la facilità di riconversione di alcuni protagonisti di questo scandalo. Il medico Bernd Pansold, per es., condannato dal tribunale di Berlino per aver somministrato steroidi anabolizzanti ai ragazzi delle Kinder und Jugendspartakiaden e testosterone alle minorenni olimpioniche Petra Thuemer, Hannelore Anke e Petra Priemer, in Austria divenne il mentore di Hermann Maier, numero uno dello sci. Anche l'Italia riciclò alcuni 'illustri esperti' della Germania Est assumendoli nei quadri tecnici.
In quel ventennio molti campioni dello sport furono costretti a fare le spie della Stasi (Staastssichereitsdienst), il servizio segreto del regime: tra gli altri, gli olimpionici Lutz Dombrowski (lungo), Waldemar Cierpinski (maratona), Dieter Krause (canoa), Klaus Koeste (equitazione), Jutta van Almsick, madre del campionessa del mondo Franziska, e, con il nome in codice di Juergen Wendt, dal 1971 al 1989, anche il dottor Pansold. Dovevano spiare i compagni di allenamento. Il discobolo Wolfgang Schmidt, argento olimpico, amico di atleti dell'Ovest, nel 1982 fu imprigionato per 15 mesi "per comportamento antisociale" e poté riprendere l'attività solo sei anni dopo, quando emigrò in Occidente. L'occhio della Stasi era dovunque, arrivò perfino a cronometrare i rapporti sessuali di Katarina Witt.
Negli altri paesi dell'Est il doping era ugualmente presente, ma peggio organizzato. Così gli steroidi anabolizzanti portarono Vladimir Kiseliev, oro nel peso a Mosca, in pericolo di vita. È lunghissima la lista dei campioni sovietici deceduti in giovane età. Tra gli olimpionici figurano Alexander Belov (27 anni), l'hockeysta Viktor Blimov (23 anni) sette mesi dopo l'oro di Grenoble, poi due vincitori di Roma 1960, Awtandil Koridze (31 anni), oro nella lotta greco-romana pesi leggeri alle Terme di Caracalla, e il sollevatore di pesi Alexander Kurinov (39 anni), che vinse con il record del mondo nei pesi medi; vi furono poi lo sciatore Fedor Terentjev (38 anni) che aveva lanciato la staffetta sovietica verso la vittoria ai Giochi di Cortina 1956, il pentathleta Albert Mokeyev (33 anni), bronzo individuale e oro di squadra nel pentathlon a Tokyo, il ciclista Gennadi Komnatow (30 anni), oro nella cronosquadre di Monaco, Juri Lagutin (29 anni), olimpionico della pallamano a Montreal. I metodi erano gli stessi della Germania Est. Anche al polacco Jerzy Pawlowski, campione olimpico della sciabola, fu chiesto nel 1981 di fare la spia e, quando si rifiutò, fu accusato di essere una spia e condannato a 25 anni di prigione. Tra i condannati per traffico di anabolizzanti figurano molti olimpionici, come Karl-Heinz Radschinsky oppure Alexandre Kurlovitch.
I bulgari divennero famosi con i sollevatori di pesi e, con il loro doping maldestro, per i casi di positività. Invece nella ginnastica prevalsero Romania e URSS. Il primo caso di positività nella ginnastica artistica ai Giochi Olimpici riguardò Andrea Raducan, romena, vincitrice del concorso generale a Sydney 2000, tradita dalla pseudoefedrina. Non si è fatta però ancora piena luce su una prassi tragica. Romeni e sovietici collezionarono medaglie con le ginnaste bambine, il cui normale sviluppo fu frenato con farmaci e diete crudeli. Robert Klein, responsabile medico ai Mondiali di Strasburgo, denunciò l'uso da parte di medici e allenatori dell'Europa orientale di "un farmaco presumibilmente attivo sulla ghiandola pituitaria, capace di frenare la pubertà delle ginnaste". Klein aveva notato, esaminando le foto delle ginnaste, un regresso costante del seno nell'arco di quattro anni. Un caso limite è rappresentato dalla sovietica Olga Karaseva, campionessa olimpica della ginnastica a Città del Messico nel 1968, che rivelò di essere stata costretta a concepire un figlio e ad abortire per salire sul podio: se si fosse rifiutata, sarebbe stata esclusa dalla squadra olimpica. Nei primi tre mesi di gestazione, infatti, la femmina accresce il volume cardiaco e il numero dei globuli rossi. L'aumento dell'emoglobina e della capacità di trasporto d'ossigeno comporta un miglioramento teorico della prestazione. Questo metodo aberrante era stato usato ai Giochi di Melbourne 1956: 10 delle 26 medaglie sovietiche erano incinte, poi abortirono. A volte furono costrette a unirsi all'allenatore. Una vicenda disumana, un insulto alla dignità della persona.
La Cina rientrò ai Giochi nel 1984 e la sua affermazione come potenza sportiva di prima grandezza presentò accelerazioni anomale. Il primo caso fu quello di Ye Qiaobo. Nel 1988, poco prima dei Giochi Olimpici invernali di Calgary (1988), la pattinatrice, insieme a una compagna, fu trovata positiva agli steroidi anabolizzanti. Quattro anni dopo Ye Qiaobo - medaglia d'argento sui 500 m - dopo essere scesa dal podio olimpico rivisitò il passato. Raccontò che il medico della squadra nel 1987 dava alle ragazze farmaci senza nome, per cui era aumentata di 14 chili. Non aveva mai saputo che si trattava di steroidi anabolizzanti, finché non fu trovata positiva e squalificata per 15 mesi.
Nel nuoto le cinesi conquistarono la prima fila in maniera prepotente: dalle 4 medaglie a Seul 1988 (nessuna d'oro), in sei anni passarono alle 12 vittorie su 16 gare ai Mondiali di Roma 1994. In quell'occasione allenatori di 18 paesi firmarono un documento contro il doping in cui si diceva: "La più grande tragedia in questa situazione è la mancanza di rispetto per gli atleti che rispettano le regole. Il gioco scorretto nel quale sono obbligati a partecipare, prima o poi li costringerà a imbrogliare per vincere o ad abbandonare la rincorsa dei loro sogni". Poche settimane dopo, ai Giochi Asiatici di Hiroshima, 11 cinesi risultarono positivi, tra cui nuotatrici campionesse del mondo: Lu Bin (cinque medaglie a Roma, tre d'oro), Yang Aihua e Zhou Guanbin. Erano state precedute in gennaio da Zhong Weiyue (steroidi), primatista del mondo nei 100 m delfino. A Hiroshima risultarono positivi anche quattro nuotatori cinesi: Hu Bin, Xiong Guoming, Zhang Bin e Fu Yong. Per tutti i nuotatori la sostanza incriminata era il deidrotestosterone. Era la prova che si trattava di doping di squadra, ma non bastò. Nel 1998, ai Mondiali di nuoto di Perth, a un controllo in aeroporto, nella valigia della ranista Yuan Yuan fu, come si è detto, trovato l'ormone della crescita.
La Cina conquistò il vertice anche in atletica, sulle lunghe distanze. Nel 1993 le fondiste allenate da Ma Junren sconvolsero il mondo. Prima dominarono ai Mondiali di Stoccarda 1993, poi a Pechino Wang Junxia polverizzò, abbassandolo di 42″, il record del mondo dei 10.000 m, di 15″ quello dei 3000 m, mentre Qu Yunxia abbatté il vecchio record di Tatiana Kazankina sui 1500 m di 2″. Ma Junren spiegò che le sue allieve bevevano 'sangue di tartaruga', e tuttavia quei record furono circondati da sospetti. Gli sbalzi di rendimento erano vistosi. Nel 1997 le mezzofondiste cinesi tornarono a dominare, poi si eclissarono di nuovo.
Anche nel sollevamento pesi le cinesi hanno registrato parecchi casi di positività. E, alla vigilia dei Giochi di Sydney 2000, 27 atleti, bocciati ai precontrolli in patria, sono stati lasciati a casa.
Ma l'Ovest non è stato un paradiso intatto. Il 13 agosto 1971 agli Europei di Helsinki Marcello Fiasconaro fu battuto nei 400 m dal britannico David Jenkins, un atleta elegante, diplomato in chimica all'università di Edimburgo, un gentleman. Ma il 28 aprile 1987 Jenkins fu arrestato nella sua casa di Carlsbad, vicino a San Diego in California e con lui finirono in prigione 35 complici. Era al centro del mercato nero di steroidi anabolizzanti, il cervello dell'organizzazione. Con il nome di Ed Wilson prendeva contatto con fabbricanti di steroidi in Messico, sotto la copertura di una ditta, la United Pharmaceuticals, con sede nell'Hotel Fiesta a Tijuana, passava i prodotti a San Isidro, dove i corrieri messicani li portavano a San Diego da dove venivano smistati nel mercato californiano per l'utilizzo nel football americano, nel sollevamento pesi, nell'hockey su ghiaccio, nel culturismo e nell'atletica: un giro di affari da 70 milioni di dollari. Jenkins fu condannato a sette anni di carcere, cinque di prova e 75.000 dollari di ammenda per frode fiscale, introduzione, detenzione e ricettazione di steroidi anabolizzanti proibiti alla vendita libera.
In quel traffico fu coinvolta l'olandese Ria Stalman, poi olimpionica del disco a Los Angeles 1984. Qualche mese prima fu arrestata alla frontiera presso San Diego con 800 compresse di winstrol. Su quella frontiera, colto in flagrante per la seconda volta, fu arrestato e condannato a quattro anni e mezzo di carcere Richard Anthony Fitton, allenatore dei pesisti britannici a Los Angeles, autore di un libro di successo, How to beat the tests ("Come battere i controlli anti-doping").
Jenkins era nel quartetto che vinse la 4 x 400 m ai Giochi del Commonwealth 1978. Uno dei frazionisti, Drew McMaster, nel 1995 confessò di aver fatto uso di steroidi anabolizzanti (Stromba). Gli erano stati prescritti da Jimmy Ledingham, medico della squadra maschile britannica nel periodo 1979-87, con il consenso del direttore tecnico Frank Dick, che poi allenò Boris Becker (tennis), Gerhard Berger (F1) e Katarina Witt (pattinaggio). Gli altri due di quel quartetto erano Cameron Sharp e Allan Wells, campione olimpico dei 100 m a Mosca nel 1980.
Il doping di fatto appartiene alla cultura dei grandi sport professionistici americani: football americano, hockey su ghiaccio, baseball. Per quanto riguarda questo sport Mark McGuire, 193 cm per 113 kg, muscoli di acciaio, che aveva ottenuto il record di 70 fuoricampo, nel 1998 raccontò di aver assunto androstenedione, uno steroide anabolizzante di cui anzi fu icona pubblicitaria. Ken Caminiti, miglior giocatore del 1996, rivelò di aver fatto uso smodato di steroidi, così come la metà dei giocatori. Gli steroidi anabolizzanti erano permessi e, addirittura, raccomandati nella Major League.
Per molti anni gli Stati Uniti hanno avuto sul doping un atteggiamento reticente. Però hanno dovuto affrontare casi clamorosi come quello di Butch Reynolds, primatista del mondo dei 400 m, trovato positivo al nandrolone il 12 agosto 1990, oppure la tragedia di Florence Griffith. Perfino John McEnroe, uno dei grandi campioni del tennis, dichiarò di aver assunto per sei anni steroidi anabolizzanti usati per dopare i cavalli. Molti atleti hanno preso steroidi come fossero vitamine, come hanno dimostrato le squalifiche a vita di Randy Barnes e Tony Dees (1998), i casi di Jud Logan, Mike Stulce, Jim Doehring via via fino a C.J. Hunter, marito di Marion Jones, al centro di uno scandalo a Sydney 2000.
Il capo del controllo anti-doping USA, Wade Exum, ha accusato il Comitato olimpico statunitense (USOC, United States olympic committee) di coprire il doping e ha dichiarato che molti atleti positivi avevano vinto medaglie ad Atlanta 1996. Ha denunciato che perfino Carl Lewis era risultato positivo per efedrina, per tre volte, prima di Seul. La casistica riguarda 19 medaglie olimpiche negli anni 1988-2000. Robert Voy, capo della Commissione medica del CIO, ha confermato la copertura del doping da parte dell'USOC. Dopo quella denuncia, è esploso il caso del THG (tetrahydrogestrinone), nuova sostanza correlata agli steroidi anabolizzanti comparsa nel 2003. Sotto inchiesta è finito il BALCO (Bay area laboratory co-operative) di Victor Conte a San Francisco, insieme all'allenatore d'atletica Remi Korchemny e a Greg Anderson, allenatore del campione di baseball Barry Bonds. Conte forniva agli atleti steroidi anabolizzanti, THG, EPO e modafinil. Sono risultati positivi al THG il britannico Dwain Chambers, campione e primatista d'Europa dei 100 m, che si allenava in California, i martellisti Melissa Price e John McEwen, Regina Jacobs, prima donna a correre i 1500 m in meno di 4 minuti, e il lanciatore di peso Kevin Toth. Per reagire allo scandalo la Federazione di atletica degli USA ha deciso la squalifica a vita per i positivi agli steroidi. Contro la pratica e lo scandalo del doping il 22 gennaio 2004 è intervenuto perfino il presidente George Bush.
Il 30 agosto 1987 lo stadio Olimpico di Roma assistette a una storica sfida sui 100 m. Il giamaicano, naturalizzato canadese, Ben Johnson batté Carl Lewis, che con 9,93″ aveva uguagliato il primato del mondo. Johnson corse in un incredibile 9,83″. Il vento era regolare: + 0,95 m/sec. I controlli antidoping risultarono negativi. Johnson ebbe la medaglia d'oro. Il suo record del mondo fu omologato. Si parlò della 'più grande gara di tutti i tempi'. La corsa del 29 settembre 1988 ai Giochi Olimpici di Seul fu ancora più grande. Johnson sconfisse di nuovo Carl Lewis: 9,79″ contro 9,92″. Stabilì un nuovo primato del mondo. Il vento era ancora una volta regolare: + 1,1 m/sec. Nel cuore della notte coreana, però, arrivò una notizia folgorante: Ben Johnson era risultato positivo allo stanozolol, uno steroide anabolizzante. Il suo allenatore Charlie Francis parlò subito di sabotaggio. Il governo canadese aprì un'inchiesta, diretta dal giudice Charles Dubin dell'Ontario Supreme Court. Davanti ai giudici Francis e il dottor George Astaphan cedettero, rivelando che Johnson prendeva steroidi anabolizzanti dal 1981 - dianabol, stanozolol, furazabol - oltre a testosterone, a diuretici e all'ormone della crescita, estratto dai cadaveri. Tutto il gruppo di atleti a loro affidato ricorreva a sostanze dopanti.
Il 12 giugno 1989 Ben Johnson rese confessione completa davanti al giudice e venne squalificato per due anni. Gli fu tolto anche il record di Roma. Riprese a correre nel 1991, ma il 17 gennaio 1993, durante un meeting a Montreal, risultò di nuovo positivo, al testosterone. Fu bandito a vita. Lewis ricevette la medaglia d'oro di Seul, il britannico Linford Christie, 9,97″, primato d'Europa, ebbe l'argento. Era risultato positivo anche lui alla pseudoefedrina, ma non fu squalificato perché le tracce erano minime. Quattro anni dopo vinse i 100 m ai Giochi di Barcellona. Poi, oltre dieci anni dopo Seul, il 13 febbraio 1999, in un meeting indoor, a Dortmund, risultò positivo al nandrolone.
Un caso che fece scalpore riguardò Katrin Krabbe, campionessa del mondo dei 100 e 200 m ai Mondiali di Tokyo del 1991 e grande favorita per l'Olimpiade di Barcellona. Il 24 gennaio 1992 al campo di Stellenbosch, in Sudafrica, fu sottoposta a un controllo a sorpresa insieme a Grit Breuer e Silke Moeller, che si allenavano sotto la guida di Thomas Springstein. L'8 febbraio i campioni delle tre atlete vennero controllati: contenevano la stessa urina, con tracce di clorochina (antimalarico) e gravistat (anticoncezionale prodotto in Germania Est). Nel luglio precedente il medico Manfred Donike, dopo aver eseguito dei controlli a Zinnowitz, aveva riscontrato che due campioni di urina di Krabbe e Breuer erano identici. La manipolazione era evidente e vi era l'aggravante della recidiva. Forte di queste prove la Federazione tedesca il 10 febbraio squalificò per 4 anni Krabbe e le compagne. Ma, il 5 aprile, in appello, a Darmstadt, il provvedimento fu annullato per vizio di forma nella procedura di controllo. Il 22 luglio 1992, a poche settimane dai Giochi, Krabbe fu sottoposta a un nuovo controllo a sorpresa a Zinnowitz, insieme a Breuer e Manuela Derr: risultò positiva al clenbuterolo, un prodotto con proprietà anabolizzanti, che aveva assunto sotto forma di spiropent, un antiasmatico.
L'irlandese Michelle Smith era stata la regina del nuoto ad Atlanta 1996 con tre medaglie d'oro in gare individuali. Controllata con un test a sorpresa il 10 gennaio 1998, le sue due provette risultarono contenere entrambe una concentrazione di whisky "assolutamente non compatibile in alcun modo col consumo di un essere umano". Riconosciuta colpevole di manipolazione delle provette, fu squalificata per 4 anni. Suo marito, il discobolo olandese Erik De Bruin, era stato squalificato per 4 anni per steroidi anabolizzanti.
Di un'altra storia di doping fuori dal comune fu protagonista l'ostacolista russa Ljudmila Narozhilenko. Caduta in semifinale all'ultimo ostacolo a Seul 1988, in seguito era diventata campionessa e primatista del mondo, ma a Barcellona 1992 fu messa fuori gioco da un infortunio. Nel 1993 in un meeting indoor a Liévin fu trovata positiva agli steroidi anabolizzanti. Squalificata per quattro anni, a 29 anni, sembrava aver chiuso la sua stagione. Invece il tribunale di Mosca la scagionò dopo la deposizione dell'ex-marito Nikolay, che dichiarò al giudice di aver aggiunto di nascosto la sostanza proibita al flacone di proteine: sconvolto dalla gelosia perché la moglie si era legata sentimentalmente al suo manager, lo svedese Johan Enqvist, aveva messo in atto una vendetta mediante il doping. Narozhilenko così fu riabilitata dalla IAAF nel dicembre 1995. Si risposò, assunse cittadinanza svedese e ad Atlanta 1996 divenne la prima atleta svedese a conquistare l'oro olimpico. Abbandonata l'atletica, il 25 novembre 2000 annunciò il suo ritorno in un'altra disciplina: il bob. Ma il 4 dicembre 2001, a due mesi dalle Olimpiadi invernali di Salt Lake City (2002), risultò positiva agli steroidi anabolizzanti, come otto anni prima.
Il caso dell'olimpionica della mountain bike Paola Pezzo, positiva al nandrolone a un controllo effettuato il 6 settembre 1997 ad Annecy, fu archiviato il 21 gennaio successivo dalla Commissione antidoping del CONI "non essendoci certezza della responsabilità dell'atleta".
Il fondo venne a trovarsi nell'occhio del ciclone sul finire del secolo. Ljubov Egorova, ai Mondiali del 1997, fu trovata positiva al bromantan e quella vicenda fu seguita da due casi clamorosi. Mika Myllyla, sei medaglie olimpiche, in Finlandia era un eroe. Aveva dominato la 30 km ai Giochi Olimpici di Nagano (1998) con il più largo vantaggio della storia. Ma, nei Mondiali del 2001, proprio a Lahti, la culla del fondo finlandese, fu trovato positivo. Insieme a lui, altri cinque finlandesi: Harri Kirvesniemi, Jari Isometsa, Janne Immonen, Milla Jauho e Virpi Kuitunen. Avevano assunto l'HES, un potenziatore di plasma usato nelle terapie d'emergenza, utile per coprire l'uso di eritropoietina. I sei furono squalificati per due anni e coperti di vergogna dalla nazione, che si sentì ferita.
La lezione di Lahti era stata clamorosa, ma ai Giochi Olimpici di Salt Lake City si scoprì che era stata inutile. Il 24 febbraio 2002, ultimo giorno di gare dei Giochi, esplose un grande scandalo: il tedesco Johan Muehlegg, che gareggiava per la Spagna, e le russe Larissa Lazutina e Olga Danilova risultarono positive per NESP o darbopoietina, una sostanza correlata all'EPO. Quel giorno Lazutina aveva vinto l'oro della 30 km davanti alle due azzurre Gabriella Paruzzi e Stefania Belmondo. Il giorno prima Muehlegg aveva vinto la 50 km, la sua terza medaglia d'oro: il 9 febbraio si era imposto nella 30 km a tecnica libera, il 14 nell'inseguimento. Danilova si era aggiudicata la combinata. Il caso fu al centro dell'attenzione della Duma, il Parlamento russo, e del presidente Putin. Il 18 dicembre 2003 il Tribunale di arbitrato sportivo di Losanna decise che i tre avrebbero dovuto restituire tutte le medaglie conquistate in quei Giochi: in totale sette, di cui cinque d'oro. Il podio di sei gare olimpiche fu sconvolto.
Si può anche risultare positivi per errore, come mostrano i casi di DeMont e Kulakova. Il nuotatore Rick DeMont, allergico al grano e al pelo, soffriva d'asma e prendeva medicamenti dall'età di 4 anni. Quando, a 16 anni, entrò nella squadra olimpica di Monaco 1972, ascoltò distratto la raccomandazione dei medici della squadra di non assumere alcun farmaco proibito nelle 48 ore prima delle competizioni. La notte della finale si svegliò all'una ansimando, prese una tavoletta di Marax, alle otto ne ingoiò un'altra. La prescrizione era di assumere una tavoletta ogni sei ore. Ne prese un'altra prima della finale, in programma alle 18.40. Poi gareggiò e vinse la più appassionante finale olimpica dei 400 m stile libero della storia del nuoto, battendo l'australiano Brad Cooper per un centesimo di secondo. Due giorni dopo si qualificò per la finale dei 1500 m di cui era primatista del mondo. Ma il mattino seguente scoppiò il caso. Era risultato positivo all'efedrina. I dirigenti che entrarono nella sua stanza trovarono sul suo comodino, in bella evidenza, il Marax, prova della sua buona fede, ma DeMont fu squalificato ed escluso dalla finale dei 1500 m, e dovette restituire la medaglia d'oro. Quattro anni dopo, prima di Montreal, i medici della squadra USA di nuoto sottoposero i 51 membri a un'analisi accurata dei farmaci assunti: 16 di loro, inconsapevolmente, avevano usato farmaci proibiti.
La sovietica Galina Kulakova, tre volte campionessa olimpica, finì terza ai Giochi di Innsbruck 1976 nella prova dei 5 km di fondo, ma risultò positiva per efedrina. Aveva assunto un medicamento per il raffreddore. Le fu ritirata la medaglia, però, a differenza di DeMont, poté partecipare alle altre gare di quei Giochi e rivinse l'oro.
I tiratori svizzeri, nel 1936, usavano il Sédormid, un ansiolitico, e il Luminal, un barbiturico, per trovare la calma. Durante la gara olimpica di Monaco 1972 14 pentathleti, prima della gara di tiro, avevano assunto Valium e Librium, prodotti proibiti per la Federazione internazionale di pentathlon moderno, però accettati dal CIO. Per questo non ci furono squalifiche.
Prima della guerra i nuotatori giapponesi destarono sensazione ai Giochi di Los Angeles 1932 praticando l'ossigenoterapia. A Montreal 1976, invece, i velocisti tedeschi Manfred Steinbach, studente in medicina, e Peter Nocke si pomparono aria nell'intestino, per migliorare il galleggiamento.
Tra chi fa il doping e chi lo combatte c'è una continua rincorsa. Si sono presto sviluppate tecniche per evitare la positività. Così ai Giochi di Montreal 1976, quando si cercarono per la prima volta gli steroidi anabolizzanti, i sovietici già usavano efficaci mascheranti per cancellarne le tracce.
A Mosca 1980 non ci furono casi positivi e il principe de Merode incautamente affermò che quelli erano "i Giochi più puliti della storia". Fu smentito dalle denunce del doping della Germania Est, ma anche dai rilievi scientifici di Arnold Beckett che dichiarò: "Molti atleti hanno smesso di prendere steroidi qualche mese prima dei Giochi e sono passati al testosterone, che non figura tra i prodotti proibiti perché non ancora rilevabile". Manfred Donike analizzando i prelievi trovò 40 casi di positività al testosterone e 89 casi probabili su 564 controlli, e subito il testosterone fu proibito.
Quando, a Seul 1988, i controllori smascherarono due olimpionici bulgari, Mitko Grablev e Angel Genchev, trovando il furosemide, un diuretico, tutta la squadra bulgara di sollevamento peso lasciò i Giochi. Quattro aspiranti all'oro tornarono a casa senza gareggiare, come avevano fatto gli azzurri a Los Angeles.
I controlli devono essere 'intelligenti', perché si possono cercare spiragli nelle maglie dei regolamenti. Quando nel 1997 l'UCI stabilì il limite di 50% per l'ematocrito, nella valigia dei corridori apparve un nuovo apparecchio, la centrifuga, che consentiva a ciascuno di misurare l'ematocrito, che veniva poi innalzato con l'eritropoietina restando tuttavia a valori al di sotto della soglia proibita (il corridore con 41% naturale lo portava a 48-49%). Un'operazione fatta in clandestinità, visto che l'uso dell'EPO era vietato.
I Comitati olimpici dell'Est usavano i precontrolli per nascondere il doping di Stato. Abbiamo già detto che i campioni della Germania orientale prima di partecipare ai Giochi venivano testati a Kreischa. I sovietici, al largo di Seul, nel 1988, avevano un laboratorio segreto su di una nave e quindi atleti dopati risultavano negativi. Lo stesso Ben Johnson risultò negativo a 19 controlli nel periodo 1986-88, nonostante il ricorso agli steroidi anabolizzanti.
Anche i Comitati olimpici dell'Ovest facevano controllare gli atleti nel periodo precedente i Giochi. Per es. le sciatrici francesi Perrine Pelen e Fabienne Serrat, il 29 gennaio 1984, prima dei Giochi Olimpici di Sarajevo, risultarono positive alla codeina. L'esame dei campioni fu fatto a Clichy. Una settimana dopo risultarono negative. Poiché non si trattava di controllo antidoping della Federazione internazionale di sci, ma di "un esame nel quadro della sorveglianza medica", fu loro consentito di gareggiare. "Hanno preso uno sciroppo contro la tosse", assicurò Maurice Vrillac, presidente della Commissione medica francese. A volte, invece gli atleti venivano fermati, come il pilota austriaco di bob Gerhard Rainer che, trovato positivo agli steroidi anabolizzanti, non partecipò a Lillehammer.
C'erano poi altri metodi per frodare i controlli. Donike ha dichiarato: "In Germania Est si utilizzava un processo consistente, per le donne, di introdurre nella vagina una pera riempita di urina esogena. Era il metodo principale per salvarsi dai controlli degli steroidi anabolizzanti". E per gli uomini? Lo stratagemma era lo stesso solo che la pera era nascosta nell'ano e c'era un tubicino che usciva all'altezza dei genitali. Willy Voet, mostrando anche le foto del suo armamentario, rivelò di aver usato questo stratagemma per tre anni "in assoluta tranquillità".
Anche la difformità dei regolamenti ha molto frenato la battaglia al doping. A questo si è aggiunto lo scandalo della diversità, anche cospicua, delle condanne per casi identici, con una variazione da qualche mese a più anni di sospensione. Ulteriore problema è la contaminazione degli integratori alimentari: nel 2000 una ricerca condotta da un medico di Stoccarda ne ha trovati 16 su 138 con tracce di steroidi anabolizzanti.
Ci sono da discutere infine la serietà dei controlli e il ruolo reale dei controllori. A posteriori, la presenza nella Commissione medica del CIO di Conconi e di Claus Clausnitzer, direttore del laboratorio di Kreischa, pienamente responsabile del doping degli atleti della Germania Est, appare deplorevole. La battaglia al doping ha bisogno di cooperazione internazionale, di leggi e sanzioni uniformi, e, soprattutto, di uomini limpidi e coraggiosi, capaci di difendere il fair play e chi lo pratica.