Tempo
Nel periodo della nascita del cinema venne messa in crisi, in seguito alle scoperte della fisica moderna e della riflessione filosofica, la nozione classica di tempo come progressione lineare, dal passato verso il futuro, di istanti qualitativamente omogenei. Tra i numerosi epistemologi e filosofi che si occuparono di tale questione, fu Henri Bergson a opporre al "tempo spazializzato" della scienza il suo concetto di durée, durata come esperienza interiore, "tempo vissuto" che possiede il carattere irriducibile della imprevedibilità. Il cinema sembrò rappresentare in modo efficace questa inedita esperienza del t., che fu posta quindi al centro delle riflessioni teoriche sulla nuova arte; ciò accadde soprattutto a partire dal riconoscimento del predominio della narratività come elemento prioritario del cinema, dopo la fase originaria, d'altronde molto breve, in cui l'obiettivo prevalente era la proiezione di vedute, di immagini in movimento o la creazione di trucchi cinematografici. Dal punto di vista della pratica, con i progressi della tecnica, e soprattutto con la scoperta del montaggio, nacquero dunque tutti quei procedimenti narrativi volti alla manipolazione della dimensione temporale (flashback, flashforward, ellissi, montaggio 'frequentativo') al fine di raccontare una storia. Da una prospettiva teorica, in generale si sono occupate del 'passare del tempo' nel film come possibilità offerta allo spettatore di 'seguire un racconto' la narratologia cinematografica, elaborata intorno al concetto di successione temporale, e le teorie del montaggio (v. estetica del cinema). Le prime indagini teoriche sul cinema miravano soprattutto a inquadrarlo nella tradizionale discussione sul sistema delle arti; Ricciotto Canudo, riprendendo la distinzione lessinghiana, lo descrisse come sintesi dei ritmi spaziali attinenti alle arti figurative e dei ritmi del t. propri della poesia e della musica (La naissance d'un sixième art, in "Les entretiens idéalistes", 1911). Anche Vachel Lindsay in The art of the moving picture (1915), primo testo teorico in lingua inglese sul cinema, inizia la sua analisi con un paragone tra questo e gli altri generi artistici, caratterizzando il film come architettura, pittura e scultura in movimento; Lindsay si occupa anche dei tratti distintivi della nuova arte, individuando come sua specificità proprio la facoltà di modificare il t. e lo spazio consueti. Un contributo straordinario per il periodo in cui fu elaborato è quello di Hugo Münsterberg, che nel 1916 in The photoplay. A psychological study (trad. it. Film. Il cinema muto nel 1916, 1980) mise in atto un approccio psicologico, che ha il suo cardine nel riconoscimento dell'affinità tra il procedimento cinematografico e quello mentale e immaginativo. Lo studioso dedicò un'ampia indagine ai mezzi linguistici del cinema, in particolare al flashback (da lui denominato cut-back), nel quale si può individuare l'atto psichico del ricordo che nel film viene però proiettato in immagine. Un'attenzione mirata alla specificità del t. cinematografico si ebbe invece già nel corso degli anni Venti, all'interno del dibattito sul formalismo: i teorici russi riconobbero nella nuova arte la creazione di una dimensione spazio-temporale del tutto peculiare, che si rivela forma e significato del film. Partendo dalla considerazione che nell'opera cinematografica si realizza per la prima volta la possibilità di un'arte figurativa dispiegata nel t., Boris M. Ejchenbaum in Problemy kino-stilistiki (in Poetica kino, 1927; trad. it. I problemi dello stile cinematografico, in I formalisti russi nel cinema, a cura di G. Kraski, 1971, pp. 11-52) caratterizzò quest'ultimo come prodotto del testo filmico, piuttosto che come contenitore 'riempito' dagli eventi narrati. In quegli stessi anni anche Béla Balázs si pronunciò sulla natura del t. filmico, definendolo "tema e materia della creazione artistica" (Der Film, 1945; trad. it. 2002, p. 120), in quanto anima dell'azione ed esperienza profonda dello spettatore. Balázs marca quindi la differenza tra il t. oggettivo della durata dell'evento narrato, il t. vissuto e quello reale della rappresentazione, sottolineando inoltre come nel cinema la sfera temporale realizzi un connubio inscindibile con quella spaziale, che ne diviene metafora (per es., al fine di indicare una grande distanza temporale tra due inquadrature occorre inserire una scena ambientata in un luogo molto lontano). La differenza tra t. filmico e t. reale risulta decisiva anche nella riflessione di Rudolph Arnheim, condotta all'interno di una più ampia considerazione dei rapporti tra percezione e intelletto nell'esperienza artistica. In Film als Kunst (1932; trad. it. 1962) il t. e lo spazio cinematografici vengono analizzati nella loro assenza di continuità, che li caratterizza rispetto a quanto accade nella vita reale. La discontinuità del t. nel film, grazie al montaggio, riesce tuttavia a produrre nello spettatore una "illusione parziale", che fa percepire gli oggetti e i personaggi come reali e immaginari insieme, rendendo possibile l'arte cinematografica. All'esperienza dello spettatore, alla ricezione artistica, si rifà anche Carlo Ludovico Ragghianti in Cinematografo rigoroso e Cinematografo e teatro (1933, poi in Arti della visione, 1975). Richiamandosi al pensiero di A. von Hildebrand, ma anche alle tesi bergsoniane, egli rifiuta infatti la distinzione tra arti spaziali e temporali sulla base dell'analisi del t. vissuto nella contemplazione del film: anche le arti figurative, di cui il cinema fa parte, richiedono infatti una visione che si dispiega temporalmente. Ragghianti approda così alla nozione di "tempo ideale", che non ha a che fare con la narrazione, ma è piuttosto il t. necessario alla visione di un'opera, un film o un quadro.
A porre al centro della sua riflessione, avviata negli anni Venti, la capacità dell'esperienza cinematografica di sovvertire la razionalità del pensiero tradizionale fu il regista Jean Epstein. In Intelligence d'une machine (1946; trad. it. in L'essenza del cinema, 2002, pp. 78-128) ‒ opera che allude fin dal titolo alle facoltà straordinarie del cinematografo, in grado di esplorare la realtà sconvolgendone la consueta gerarchia proprio in virtù della possibilità di variazioni temporali ‒ Epstein sottolinea l'espressività del ralenti e dell'accelerazione, che presentano il mondo con un volto nuovo, rispettivamente mortificando o vivificando la spiritualità dell'immagine. Palesando l'intercambiabilità tra discontinuo e continuo (grazie all'illusione di mobilità data dalla proiezione di istanti immobili, ripresi tuttavia da una realtà che è in sé un flusso costante), così come la variabilità di velocità e lentezza, il cinema svela la relatività del t. e infine il suo assoluto "irrealismo". Nel 1928, in La chute de la maison Usher, Epstein aveva messo in pratica le sue teorie rendendo particolarmente inquietante, drammatica e decadente l'atmosfera del film grazie a un lieve, quasi impercettibile rallentamento della ripresa. Nella seconda metà del Novecento, in seguito alla definitiva legittimazione del cinema come arte, anche la speculazione acquisì una sua autonomia, dedicandosi a questioni ontologiche e avvalendosi dei contributi delle altre discipline. Un approccio all'essenza del cinema è la teoria di André Bazin, che in Que'st-ce que le cinéma? (1958-1962; trad. it. parziale 1973), riferendosi a Bergson, definisce il film "immagine della durata", riproduzione del reale nel suo divenire perpetuo e nella sua insopprimibile novità. Nel saggio su Le mystère Picasso (1956; Il mistero Picasso) di Henri-Georges Clouzot, definito "un film bergsoniano", Bazin riconosce nel cinema la modalità più adeguata di rappresentazione del t. inteso come fluire ininterrotto, fluire che è anche il procedere misterioso della creazione artistica. Nel dopoguerra, nell'ambito della filmologia, il t. divenne tema centrale soprattutto per quegli autori che adottarono una prospettiva psicologica, studiando per es. il funzionamento della memoria spettatoriale o la percezione del t. filmico nel bambino.
Una riflessione prettamente filosofica sul cinema e la temporalità cinematografica è quella compiuta nei primi anni Sessanta da Albert Laffay (Logique du cinéma, 1964), il quale vede nel film l'unione di due elementi: il reale, che esiste nella dimensione del presente, della presentificazione, e il racconto, una coscienza narrante e organizzatrice, che 'si declina' sempre al passato. Il cinema, che viene caratterizzato come linguaggio, possiede la suggestione del t. fittizio nel quale resistono però delle parti di t. reale, inerente al mondo fotografato. Il film è opera d'arte e al contempo oggetto linguistico anche secondo Jean Mitry, che nel suo imponente lavoro Esthétique et psychologie du cinéma (1963-1965) mira a dimostrare come il linguaggio filmico crei un mondo differente e indipendente dalla realtà, cui pure rimanda costantemente. Il tema del t. trova spazio dunque all'interno della considerazione dell'arte cinematografica nella sua autonomia e distinzione: lo spettatore esperisce un t. estraneo al reale, che può rivelarsi diverso pur risultando da due inquadrature della stessa durata oggettiva (a una maggiore staticità della ripresa corrisponde, per es., l'impressione di una durata più lunga). Nello stesso periodo Andreij A. Tarkovskij (Zapečatlënnoe vremja, 1967, poi pubblicato nell'omonima raccolta del 1986; trad. it. Scolpire il tempo, 1988) svolse una considerazione originale sul t. inteso come materia naturale del cinema, che ha come suo fine prioritario quello di registrarlo, ponendosi al di sopra di tutti gli altri generi artistici. Anche l'esperienza spettatoriale si configura quindi come ricerca del t., che proustianamente segna in modo indelebile ogni oggetto, reale o filmato. Da questa visione teorica deriva nella pratica il rifiuto da parte del regista del montaggio come strumento di costruzione ritmica, così come l'aspirazione ad assecondare il trascorrere del t. attraverso un uso 'riflessivo' del piano-sequenza (emblematico in tal senso il ritmo dilatato con cui Tarkovskij scelse di narrare la vita del monaco pittore protagonista del capolavoro Andrej Rublëv, premiato al Festival di Cannes del 1969).
Nell'ambito della semiologia, Christian Metz (Essais sur la signification au cinéma, 1968; trad. it. Semiologia del cinema, 1972) distingue tra un t. del significato, cioè della storia raccontata, e un t. del significante, cioè del film, della rappresentazione. Il racconto nasce quando il significante, ossia un 'mezzo' che nel cinema è costitutivamente temporale, rappresenta un significato altrettanto temporale, avendo per oggetto una successione di eventi: il t. del racconto non corrisponde dunque al t. della cosa raccontata. Questa stessa distinzione viene ripresa nell'indagine di Seymour B. Chatman, che all'interno del dibattito narratologico individua la specificità dell'organizzazione narrativa nella conversione del t. della storia, cioè dell'evento narrato, nel t. del di-scorso, del film (Story and discourse, 1978; trad. it. 1981; Coming to terms, 1990). Ancora da una prospettiva semiologica, Gianfranco Bettetini (1979) si è occupato approfonditamente della questione, studiando le modalità tecniche e pratiche con cui il t. nei linguaggi audiovisivi viene rappresentato e articolato attraverso il materiale significante, ossia l'enunciazione. Il cinema infatti si caratterizza in primo luogo come un "apparato produttore di tempo" (p. 24), un t. che non è meramente simbolico, ma 'concreto', 'definito', 'attualizzato' e come tale imposto allo spettatore. Questa ipotesi di ricerca viene verificata dallo studioso analizzando tre film: Sunset boulevard (1950; Viale del tramonto) di Billy Wilder, esempio di una complessa articolazione temporale e del contrasto presente-passato; Dial M for murder (1954; Il delitto perfetto) di Alfred Hitchcock, nel quale il t. è decisivo per l'organizzazione contenutistica; On the town (1949; Un giorno a New York), commedia musicale di Stanley Donen in cui, pur essendo la forma narrativa poco più che un pretesto, il t. viene tematizzato esplicitamente attraverso scritte in sovrimpressione.Il t. come categoria filosofica è invece al centro del pensiero di Gilles Deleuze, il quale indica il carattere essenziale del cinema moderno nella sua capacità di mostrare "il tempo in persona" (1985; trad. it. 1989, p. 97). Se nel cinema classico, caratterizzato dall'immagine-movimento, il t. compare indirettamente attraverso l'operazione del montaggio, con la modernità, a partire dalla rottura degli schemi narrativi tradizionali (irrevocabilmente compiuta dal Neorealismo e dalla Nouvelle vague), esso si rivela nel film in modo immediato, nelle sue operazioni fondamentali del presente che passa e del passato che si conserva: la memoria è infatti per Deleuze una virtualità altrettanto reale dell'attuale, poiché è passato che paradossalmente coesiste con il presente realizzando con esso un continuo e reciproco contatto. La coesistenza di presente e passato, di attuale e virtuale (o, bergsonianamente, di materia e memoria) viene presentata da Deleuze nella figura del 'cristallo', immagine dello scambio ininterrotto e dell'indiscernibilità tra le due dimensioni. Tra i numerosi film citati, esempio perfetto della rappresentazione del passato è quello che il filosofo considera il primo film della modernità, Citizen Kane (1941; Quarto potere) di Orson Welles: a illustrare intere regioni del passato sono i testimoni interrogati dopo la morte del protagonista in merito all'ultima misteriosa parola da lui pronunciata, 'Rosebud'. I momenti evocati dalla moglie e dagli amici di Kane non sono annunciati dal procedimento convenzionale del flashback, ma presentati con un vero e proprio 'salto' indietro nel t. grazie alla nuova concezione wellesiana della profondità di campo: il regista infatti introduce nelle inquadrature una prospettiva diagonale che permette la comunicazione tra primo piano e sfondo, manifestando così l'interazione tra le varie regioni di tempo. Non solo il passato, ma anche il presente è protagonista di L'année dernière a Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad) diretto da Alain Resnais con la sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet. La vicenda è quella di un confronto tra le memorie irriducibilmente differenti di un uomo e di una donna, che si fronteggiano evocando due passati diversi e incommensurabili; è infatti soltanto l'uomo a ricordare ciò che è accaduto 'l'anno scorso a Marienbad' e dei suoi ricordi vuole persuadere la donna, che vive nel passaggio tra due diversi presenti, a tratti dubbiosa, a tratti convinta della versione che le viene proposta. Nei film della fine del 20° sec. e degli inizi del 21° la prospettiva cronologica tradizionale appare ormai spesso ribaltata e distorta, per lo più proprio al fine di rendere l'elemento temporale autentico protagonista dell'opera. Tra i numerosi esempi da citare, uno dei più significativi (e dei più imitati) è la struttura temporale non più lineare, ma 'illusoriamente circolare' che caratterizza il film Pulp fiction (1994) diretto da Quentin Tarantino, nel quale l'unità logico-narrativa viene definitivamente infranta attraverso l'uso di ellissi, dissolvenze, ralenti e soprattutto grazie a una sceneggiatura che dilata i tempi 'vuoti' del discorso contraendo quelli dell'azione, che confonde, sovrappone, ripete gli eventi piuttosto che concatenarli.
Sul concetto di tempo, oltre ai testi citati nella trattazione, v. in partic.: G. Bettetini, Tempo del senso: la logica temporale dei testi audiovisivi, Milano 1979; G. Deleuze, L'image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989); G. Carluccio, Cinema e racconto. Lo spazio e il tempo, Torino 1988; Il tempo, in "Filmcritica" 1994, 450, pp. 500-51; S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze 1995, 2003⁵, pp. 139-65.