TEODERICO
– Figlio del capo goto Teodemiro e di Erelieva, nacque in un anno verosimilmente compreso fra il 451 e il 455 in Pannonia.
Il padre divideva con i fratelli Valamiro e Videmiro il comando dei Goti orientali, stanziati tra i fiumi Sava e Drava come foederati dell’Impero romano, in successione di Ermanarico, il capostipite del lignaggio degli Amali.
Sulla prima infanzia di Teoderico non vi è pressoché alcuna notizia. Verso i sette o otto anni d’età egli fu inviato a Costantinopoli presso l’imperatore romano d’Oriente Leone I il Trace come ostaggio, quale garanzia, secondo una prassi abituale, del patto di alleanza appena rinnovata tra l’impero e i Goti, dopo i saccheggi da loro compiuti nell’Illirico. A Costantinopoli il giovane goto rimase per un decennio; qui, a quanto se ne può ricavare dalle scarse testimonianze in merito (Ennodio, Giovanni Malala, Teofane), egli ricevette una qualche educazione, tesa a renderlo partecipe dei valori della civiltà romana e quindi a legarlo più saldamente all’Impero.
Questi cenni, che lasciano intravedere in modo plausibile un Teoderico dotato di un’almeno minima istruzione, contrastano con l’immagine di illetterato divulgata invece da molte fonti occidentali, tra cui l’Anonimo Valesiano, che preferiscono ritrarlo secondo il cliché del capo barbaro incolto, seppur saggio per natura ed esperienza.
L’atteggiamento verso la cultura del Teoderico adulto appare ambivalente. Se da un lato sconsigliò per i figli dei Goti un’istruzione di tipo romano, ricordando che le uniche abilità utili da acquisire erano quelle militari e che gli esercizi fisici erano da preferire ai libri, da un altro garantì il funzionamento delle scuole nel suo regno assicurando il pagamento dello stipendio ai professori di diritto, di grammatica e di retorica e dimostrò un personale interesse almeno per le discipline dalle applicazioni concrete, come l’architettura, l’aritmetica, la meccanica, l’agrimensura e la medicina.
Tra il 469 e il 471 Teoderico fece ritorno tra i suoi, mentre il padre Teodemiro assumeva il comando di tutti i Goti dopo la morte del fratello Valamiro nella guerra contro gli Sciri. In questo periodo l’imperatore Leone scelse Teodemiro quale suo principale alleato tra i Goti, mentre in precedenza aveva prediletto piuttosto un altro capo, Teoderico di Triario, concorrente degli Amali. Malgrado il nuovo favore imperiale, Teodemiro e suo figlio agirono in quegli anni con notevole spregiudicatezza: Teoderico guidò in prima persona una spedizione contro i Sarmati occupandone il territorio con la città principale di Singidunum (l’odierna Belgrado), ma si rifiutò di renderla ai Romani, tenendola invece in sua potestà. Poco più tardi Teodemiro marciò attraverso la penisola balcanica lungo il corso della Morava fino a Tessalonica, inducendo l’Impero ad avviare un negoziato e a concedergli di stanziarsi in Macedonia.
Nel 474 Teodemiro morì e Teoderico, all’incirca ventenne, restò unico capo dei Goti, allora stabiliti attorno a Novae nella Mesia inferiore (l’odierna Sistov, in Bulgaria). Da quel momento e almeno fino al 488 si aprì una fase di convulse iniziative politiche e militari, presentate dalle fonti in maniera disomogenea e con valutazioni contrastanti, che sembrano nel loro complesso ispirate a due urgenze principali del giovane capo: quella di affermare il primato dei suoi Goti tra tutte le gentes presenti nello scacchiere orientale e, al contempo, quella di consolidare la posizione di vertice del lignaggio degli Amali in seno alla stessa gens Gothorum. Teoderico si schierò subito al fianco del nuovo imperatore d’Oriente Zenone in occasione della guerra mossagli dall’usurpatore Basilisco, cognato del defunto Leone, sostenuto tra gli altri da Teoderico di Triario. Dopo il successo di Zenone, Teoderico fu ricompensato con i titoli di patricius e di magister militum praesentalis, la più elevata carica militare, in aggiunta al soldo e ai doni in precedenza riconosciuti al suo omonimo figlio di Triario. Poco dopo, l’Amalo prese il controllo della Tracia settentrionale e saccheggiò la Macedonia, minacciando Tessalonica. Nelle trattative subito apertesi, il goto chiese uno sbocco sull’Adriatico, fino a spingersi in Epiro, presso Epidamno (l’odierna Durazzo), e ad allearsi con il capo barbaro Sidimondo, pretendendo la Dalmazia e rifiutando qualsiasi altra offerta. Zenone reagì con una campagna militare contro i Goti in Epiro, condotta dal generale Sabiniano, durante la quale per poco non persero la vita il fratello di Teoderico, Teodimondo, e la loro madre Erelieva. Ma ben presto l’imperatore fu distratto dalla necessità di fronteggiare una nuova rivolta interna, promossa dal pretendente al trono Marciano, e Teoderico ne approfittò per razziare la Macedonia e la Tessaglia, saccheggiando la città di Larissa, mentre la morte di Teoderico di Triario lo lasciava senza più alcun contendente tra i Goti. Nel 483 Zenone, per giungere alla pace, gli concesse la Dacia Ripense e la Mesia inferiore e gli rinnovò i titoli di console e di magister militum praesentalis, incaricandolo di combattere per suo conto i ribelli Illo e Leonzio. Ma quando, nel 486 o 487, il princeps lo richiamò mentre era in corso l’offensiva contro Illo, Teoderico, che era giunto con le sue truppe nei pressi di Costantinopoli, si rivoltò contro l’autorità imperiale, dimostrando ancora una volta di essere disposto a ogni espediente pur di strappare sempre nuove concessioni e lucrare vantaggi personali, secondo una prassi comune ai diversi capi barbari del tempo nei confronti di un Impero romano ormai indebolito.
Le tensioni si composero quando l’imprevedibile evolvere degli eventi determinò un’improvvisa convergenza d’interessi tra il goto e Costantinopoli. Zenone aveva invano cercato di frenare in quegli anni l’espansione di Odoacre, l’ufficiale barbaro che dal 476, deposto il legittimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo, deteneva di fatto il potere sull’Italia e che aveva progressivamente esteso la propria egemonia anche su Norico, Rezia, Dalmazia e Sicilia. Ora, affannato dalle urgenze contingenti, Zenone progettò di inviare in Italia Teoderico per trarne un doppio profitto: sbarazzarsi di Odoacre e allontanare dalle regioni orientali il pericolo dei Goti, deviandoli verso una terra più lontana. La spedizione dei Goti fu regolata sulla base di un foedus che consentiva loro, una volta battuto Odoacre, di stanziarsi nella penisola italiana, affidando a Teoderico l’amministrazione della prefettura d’Italia, che includeva, oltre alla diocesi d’Italia, anche l’Illirico e l’Africa, al momento occupata dai Vandali. Per l’Amalo l’offerta di Zenone rappresentava un’opportunità irripetibile di condurre la propria gens a una grande conquista, stabilendosi nella terra che era stata la culla dell’Impero e che era ancora una delle più ricche del mondo romano; in questo modo il suo potere personale sarebbe stato legittimato sia dal fatto di potersi proporre agli occhi dei suoi nelle vesti del capo vittorioso capace di condurli a un traguardo senza precedenti, sia dalla delega ottenuta dal princeps romano in forza di un preciso mandato. Nell’autunno del 488 Teoderico mosse da Novae alla testa di un esercito in cui al nucleo principale di Goti si erano uniti contingenti di altre stirpi del bacino danubiano, soprattutto Rugi e Gepidi, per un totale stimabile tra i 20.000 e i 30.000 guerrieri; con i non combattenti al seguito (donne, bambini, vecchi, schiavi) si doveva arrivare forse a una massa tra i 150.000 e i 200.000 individui. I Goti entrarono dal confine nordorientale, attraverso il passo della Silva Piri, e si accamparono subito sull’Isonzo, dove ebbero un primo scontro, fortunato, con le truppe di Odoacre. Quindi, mossero su Verona, città nella quale i nemici si erano asserragliati incrementando le già ragguardevoli fortificazioni cittadine con lo scavo di un nuovo fossato protettivo. In una battaglia lungo le rive dell’Adige, nel settembre del 489, Teoderico riportò un netto successo, replicato nell’agosto del 490 sull’Adda. A quel punto Odoacre riparò a Ravenna, dove resistette per quasi altri tre anni. Il Senato romano, che fino ad allora aveva accettato la presenza di Odoacre, passò dalla parte del capo goto, offrendosi quale mediatore fra costui, il clero cristiano della penisola e il nuovo imperatore Anastasio I, succeduto nel 491 a Zenone. Nel marzo del 493 Teoderico convinse Odoacre ad arrendersi, con la promessa di risparmiargli la vita; invece, dieci giorni dopo la resa lo assassinò insieme ai suoi familiari e a tutto il suo seguito. L’Amalo venne subito acclamato rex dall’esercito che aveva guidato alla vittoria, dando inizio a un governo sull’Italia che sarebbe durato trentatré anni. Giuridicamente, in seguito a questi eventi, veniva riconosciuta la sua autorità sull’Italia, la Sicilia, la Rezia, il Norico, la Pannonia Savia e la Dalmazia; in seguito, tra il 505 e il 508, essa si estese all’intera Pannonia e alla Provenza.
La natura del potere esercitato nella penisola da Teoderico restò sempre di incerta definizione costituzionale, come era forse inevitabile in un frangente eccezionale e inedito, in cui equilibri di fatto del tutto nuovi non potevano che essere interpretati e rappresentati secondo gli schemi concettuali, simbolici e formulari della tradizione romano-imperiale, al prezzo di ineludibili approssimazioni e ambiguità. Per governare, oltre ai Goti immigrati, una popolazione romana di circa quattro milioni di individui Teoderico aveva bisogno della legittimazione imperiale, per cui richiese a Costantinopoli la vestis regia che ottenne nel 498. Al di là dei titoli, il suo regno, autonomo di fatto, riconobbe almeno sul piano formale la propria subordinazione alla potestà dell’imperatore romano, cui si riconosceva una superiorità quantomeno onorifica, e del quale, allo stesso tempo, l’Amalo si proclamava emulo, così come si dichiarava il continuatore, nell’amministrazione dell’Italia, dell’azione politica degli scomparsi imperatori d’Occidente. L’ostentata imitatio imperii e la sottolineatura dell’esistenza di un rapporto speciale fra il re dei Goti e il princeps romano erano funzionali anche all’affermazione della propria preminenza su tutti gli altri monarchi barbari dell’Occidente. La definizione territoriale, e non più solo etnica, del suo potere, esteso su Goti e Romani insieme, si espresse anche nell’adozione della titolatura ufficiale d’imitazione romana di Flavius Theodericus rex, anziché di rex Gothorum, e nell’ostentata assunzione di comportamenti propri del modello imperiale, opportunamente amplificati da collaboratori romani del nuovo regime, quali Cassiodoro e il vescovo di Pavia Ennodio. In questo senso vanno interpretate le ripetute testimonianze circa uno speciale zelo di Teoderico per la cura dell’edilizia urbana e per il restauro dei monumenti dell’epoca classica, o per l’efficienza del servizio del cursus publicus e della difesa dei confini tramite le clausurae alpine; oppure anche la preoccupazione per l’allestimento di giochi circensi durante un soggiorno a Roma nell’anno 500.
Nell’organizzazione amministrativa del regno, Teoderico scelse di mantenere in vita le strutture burocratiche tardoimperiali, che conservarono le proprie prerogative e competenze abituali, affiancando a esse un organigramma goto che si riservò in via esclusiva le funzioni militari, in modo coerente rispetto allo status di esercito di foederati. Tale assetto si tradusse sul piano istituzionale, ma anche su quello sociale, nella giustapposizione sul medesimo territorio di due gruppi (con quello romano assai più numeroso) mantenuti distinti per funzioni e compiti, ma anche su base etnica e culturale, con ostacoli posti alla reciproca fusione.
Per esempio, in ambito giuridico ai Romani si applicava il diritto imperiale, mentre i Goti si regolavano secondo le proprie consuetudini tribali (bilagines) e, con riguardo alla religione, un importante fattore di definizione e consapevolezza identitaria, di fronte alla confessione cattolica dei Romani i Goti serbavano la propria fede ariana, cioè la speciale interpretazione della natura di Cristo condannata come eretica dal concilio di Nicea del 325 e diffusa soprattutto tra le stirpi barbare.
Al vertice del regno, il monarca era attorniato tanto da funzionari romani, tra i quali spiccava Cassiodoro, estensore delle missive regie poi raccolte nelle Epistolae Theodericianae variae (a cura di Th. Mommsen, 1894), quanto da una ‘casa’ di ascendenza tribale composta da ufficiali goti, i cosiddetti maiores domus regiae. Anche nelle diverse province accanto ai vecchi governatori civili romani agivano comites goti, con mansioni militari e giudiziarie; mentre il collegamento fra il centro e le realtà periferiche era assicurato sia da comitiaci romani sia da saiones barbari. Binario pure il sistema giurisdizionale con iudices romani e comites goti, ciascuno dei quali competente sulle cause che coinvolgevano propri connazionali, mentre le liti tra Romani e Goti venivano sottoposte al comes coadiuvato da un romano esperto nel proprio diritto.
L’insediamento dei Goti in Italia avvenne secondo il consolidato criterio dell’hospitalitas, cioè dell’acquartieramento militare concesso dall’impero ai foederati barbari, che venivano ricompensati per il servizio prestato con la tertia. La distribuzione dei Goti, esigui per numero, nella penisola non fu omogenea, ma si concentrò soprattutto nelle regioni settentrionali e centrali, a presidio dei confini alpini e delle principali vie di collegamento, limitandosi a pochi capisaldi urbani nel meridione. Teoderico elesse come proprie residenze principali le città di Ticinum-Pavia e di Ravenna (dove resta il mausoleo che porta il suo nome), entrambe protette dalle aree paludose che le circondavano e al centro di importanti reticoli viari, terrestri e fluviali o marittimi.
In queste città non resta oggi traccia archeologica certa dei palazzi in cui Teoderico risiedette. A Ravenna, sua dimora principale, si ipotizza che il palazzo del monarca amalo possa esser stato lo stesso già impiegato dagli imperatori romani d’Occidente Onorio e Valentiniano, di cui pure è ignota la precisa ubicazione; non lontano da esso sorgevano anche la cappella palatina, la cattedrale e il battistero degli ariani, la cosiddetta basilica Gothorum e la Moneta Aurea, cioè la zecca. Il palazzo, ovunque si trovasse, venne comunque smantellato per ordine di Carlo Magno, che ne fece smontare e trasferire alla sua reggia di Aquisgrana i materiali più preziosi, come i mosaici e i marmi. Per Pavia, si sa che i re longobardi (i quali a loro volta la adottarono come propria sede principale, anche per ricercare una continuità con la precedente esperienza teodericiana), svilupparono il proprio palazzo a partire da quello di epoca gota, accanto al quale c’erano una porta detta palacense e una chiesa intitolata a S. Romano. Il palazzo venne abbattuto nell’XI secolo e anche la porta palacense è scomparsa, mentre la chiesa di S. Romano fu demolita in età contemporanea; proprio il ricordo dell’ubicazione di quest’ultima permette di ricostruire sulla pianta della città almeno la dislocazione dell’antico palazzo dei re goti e longobardi. Di ulteriori edifici di residenza, almeno temporanea, fatti erigere da Teoderico si è a conoscenza attraverso le fonti scritte, come per un palazzo realizzato a Monza e ricordato da Paolo Diacono, che anche sulla scorta di questa antica presenza giustificava la decisione della regina longobarda Teodolinda di edificare nella città brianzola una propria costruzione.
Un altro centro urbano prediletto dal re goto fu Verona, dove egli aveva riportato la prima vittoria su Odoacre e che perciò era stata da lui adottata come simbolo di fortuna e successo. L’associazione di Teoderico alla città veneta fu così intensa che nella vasta tradizione leggendaria e letteraria sviluppatasi dopo la sua morte egli venne in genere indicato come Diderik von Bern, cioè «Teoderico di Verona».
La politica estera di Teoderico fu volta, in Occidente, a tessere con i diversi regni dell’area una fitta trama di relazioni di cui egli potesse costituire il perno centrale, dovendo soprattutto controbilanciare l’emergere della potenza dei Franchi di Clodoveo.
A tale scopo egli utilizzò anche una ben mirata politica matrimoniale, dando in moglie ai vari re occidentali proprie parenti per creare stabili vincoli di sangue: la sorella Amalafreda sposò il re dei Vandali Transamondo, mentre la figlia Teodogoto si unì al monarca dei Visigoti Alarico II. Al contempo, lo stesso Teoderico prese come propria consorte Audefleda, sorella (o figlia, secondo un’altra tradizione) di Clodoveo. L’Amalo doveva aver avuto in precedenza una concubina (o una prima moglie, per l’Anonimo Valesiano), di cui resta ignoto il nome, dalla quale aveva avuto la ricordata Teodogoto. Per contenere i Franchi, in quegli anni dilagati dalle loro originarie sedi nella Belgica secunda fino a occupare tutta la Gallia, Teoderico, oltre all’accordo conseguente alle nozze con Audefleda e all’alleanza con i Visigoti di Alarico II, si legò pure ai Burgundi, concedendo l’altra sua figlia Ostrogota a Sigismondo, il figlio del re Gundobado, e ai Turingi, dando in sposa al loro monarca Ermanfredo una propria nipote, di nome Amalaberga.
Tale strategia non impedì però ai Franchi di completare la conquista della Gallia travolgendo i Visigoti nella battaglia di Vouillé (507), dove cadde Alarico II; in seguito a questo evento l’Amalo, oltre ad assicurarsi la Provenza quale area cuscinetto tra il suo dominio e il regno franco, dovette esercitare il governo di fatto dei territori visigoti nella penisola iberica, assumendo la tutela del nipote Amalarico. Il progressivo guastarsi del rapporto con i Vandali e i Burgundi, e la difficoltà nel contenere i Franchi, specie dopo l’espulsione dei Visigoti dalla Gallia, dimostrano come il disegno teodericiano di alimentare un vasto sistema di alleanze tra le diverse gentes occidentali cui imporre la propria egemonia sia alla lunga sostanzialmente fallito. Nel 522 Teoderico fu costretto ad accettare l’annessione al dominio franco anche del regno dei Burgundi, accontentandosi in cambio della cessione a suo vantaggio di una piccola porzione di territorio tra la Durance e il Drôme. Poco dopo, il nuovo re dei Vandali Ilderico ruppe a sua volta i patti con i Goti prendendo prigioniera la vedova del predecessore Transamondo, Amalafreda, e massacrandone il seguito personale. Teoderico avviò allora la costruzione di una flotta per rispondere con la guerra all’affronto della cattura della sorella, ma il progetto restò incompiuto per la sua morte.
In Italia, la cooperazione con il ceto dirigente romano nell’azione politico-amministrativa rese inevitabile anche uno stretto rapporto con il Papato e con il clero cattolico. Il monarca, ariano come tutti i Goti, fu in più occasioni chiamato a intervenire in questioni anche di notevole importanza che concernevano i cattolici, perché ciò costituiva un preciso dovere derivante dalla sua responsabilità di governo dei sudditi romani.
I primi contatti documentati ebbero luogo nel 494, durante il pontificato di Gelasio I, il quale in alcune lettere si preoccupò soprattutto di esortare il nuovo regnante barbaro a farsi degno erede degli imperatori romani cristiani Costantino e Teodosio, mantenendo impregiudicati i diritti della Chiesa e applicando le leggi imperiali a tutela delle istituzioni ecclesiastiche. Un coinvolgimento più diretto e incisivo di Teoderico nella vita della Chiesa cattolica si registrò in occasione del cosiddetto scisma laurenziano, il conflitto che alla morte del papa Anastasio II nel 498 oppose i due pontefici contemporaneamente eletti per la sua successione, Simmaco e Lorenzo. Interpellato perché intervenisse a dirimere la controversia, Teoderico sembra aver rimesso la decisione alle istituzioni ecclesiastiche, con piena correttezza istituzionale, anche se tale resoconto, fissato nel Liber pontificalis, è frutto dei sostenitori di Simmaco, che fu allora riconosciuto legittimo pontefice. Il frammento, pure conservato, che presenta la versione dei partigiani di Lorenzo accusa invece il re goto di essersi fatto corrompere dai loro avversari. Nell’anno 500 l’Amalo si recò di persona a Roma, ricevendo l’omaggio del papa e del Senato e andando in pellegrinaggio alla tomba di Pietro; nell’occasione egli fece anche celebrare giochi nel circo, alla stregua di un imperatore. L’anno successivo la controversia si riaccese quando i laurenziani accusarono Simmaco di immoralità e Teoderico fu indotto a convocare il papa a Ravenna per discolparsi. Al rifiuto di Simmaco di comparire, il re inviò a Roma, giudicata sede vacante, Pietro vescovo di Altino in veste di visitator. Nel 502 fu convocato un concilio per risolvere il contenzioso e nelle lettere inviate ai padri sinodali Teoderico precisò di aver sino ad allora agito solo per assicurare la pax e l’unitas della chiesa, ma ben consapevole che non spettava a lui decidere nel merito: con una simile autorappresentazione egli intendeva mostrarsi degno della condotta degli imperatori cristiani, addirittura più di Zenone, inviso a Roma per aver usurpato prerogative ecclesiastiche con la pubblicazione nel 482 dell’Henotikon sulla questione monofisita. Pronunciatosi infine il concilio a favore di Simmaco, Teoderico garantì il pieno reintegro di costui nelle sue chiese e nelle sue proprietà. Anche con il successore Ormisda il goto sembra aver mantenuto un proficuo rapporto di collaborazione nel tentativo di sanare il cosiddetto scisma acaciano, tramite ripetute legazioni a Costantinopoli.
L’equilibrio politico che si era mantenuto per la maggior parte della durata del regno di Teoderico, all’interno e nei rapporti internazionali, s’incrinò a partire dal 520, per il concorrere di molteplici fattori: al fondo vi era senza dubbio il nodo irrisolto della mancata fusione tra Goti e Romani, con il perpetuarsi di una struttura sociale e politica bipartita in cui l’obbligata collaborazione si accompagnava alla perdurante estraneità, e diffidenza, tra i due gruppi. L’iniziale cooperazione tra l’aristocrazia gota e quella romana si era presto tradotta in una concorrenza che vedeva il ceto senatorio sempre più incalzato dall’élite gota sia nell’esercizio del potere sia nella competizione economica, a mano a mano che i barbari incrementavano la propria ricchezza trasformandosi a loro volta in un ceto di grandi proprietari fondiari. La possibilità, almeno teorica, che alla lunga le due aristocrazie potessero comunque integrarsi, come avvenne in altri casi, da quello dei Franchi ai Visigoti di Spagna, fu in ogni caso annullata da un repentino e imprevedibile mutare del quadro politico generale, in seguito alla ripresa d’interesse da parte degli imperatori per un controllo diretto delle province occidentali, favorito anche dalla disponibilità di risorse finanziarie e militari liberate dalla lunga tregua con il tradizionale nemico persiano. Tale nuovo orientamento di Costantinopoli permise ai ceti dirigenti romani, laici ed ecclesiastici, dell’Italia di rimettere in discussione la necessità della presenza gota nella penisola, intravedendo l’alternativa di un pieno reintegro del potere imperiale nella stessa.
La circostanza che fece precipitare una crisi latente fu la persecuzione avviata da Giustino, in carica dal 518, contro gli ariani delle province orientali dell’Impero, nell’ambito di uno sforzo complessivo d’imposizione dell’uniformità religiosa che colpì anche altre minoranze e che rispondeva al bisogno di ripristinare, dopo una lunga stagione di controversie dottrinali circa la definizione della natura di Cristo, la pace e l’unità della Chiesa dalle quali era ritenuta dipendere la stessa prosperità dell’Impero. Alle azioni contro gli ariani in Oriente Teoderico reagì con analoghi provvedimenti contro i cattolici in Italia, confiscando o distruggendo molte chiese, allo scopo soprattutto di ricompattare attorno a sé la componente gota del regno. Il riavvicinamento in atto tra il ceto senatorio e Costantinopoli indusse a ritenere fallita la cooperazione con l’aristocrazia romana, che divenne allora il bersaglio di un’aperta aggressione.
Molti Romani eminenti, che già avevano collaborato con Teoderico, furono arrestati o uccisi, come nei casi eclatanti del filosofo Severino Boezio, console e magister officiorum, e di suo suocero Simmaco, capo del Senato, accusati di tradimento e condannati alla pena capitale, o anche del prefetto di Roma Eusebio, torturato a morte dopo essere stato attirato con l’inganno a Pavia. Boezio fu incriminato per aver preso le difese del Senato e di Albino, colpiti da imputazioni infondate. Il filosofo aveva pubblicamente accusato di calunnia un tale Cipriano, reo di aver asserito il falso nel sostenere che il patrizio Albino aveva indirizzato a Costantinopoli alcune lettere critiche dell’operato di Teoderico. Cipriano aveva però prodotto testimoni mendaci per smentire Boezio e confermare le imputazioni contro Albino, e il re, prestandogli fede, aveva subito fatto incarcerare e sottoporre a giudizio Boezio e Albino, fino alla loro condanna alla pena capitale, nel 524. Poco tempo dopo la medesima sorte occorse a Simmaco, nel timore che intendesse vendicare in qualche modo il genero.
Teoderico spinse anche il papa Giovanni I a recarsi a Costantinopoli (nel 525) per perorare la causa degli ariani. Questa missione, che forse dimostrava come il Papato fosse rimasto in quel momento l’unico canale di comunicazione tra il regno goto e l’Impero, dopo la defezione del Senato, fu invece interpretata a posteriori come un gesto di estrema umiliazione dell’istituzione pontificia, costretta a farsi avvocato degli eretici. Il Liber pontificalis, che esprime una durissima condanna dell’agire di Teoderico in questo frangente, insiste nel contrapporre gli onori tributati a Costantinopoli a Giovanni da parte dell’imperatore Giustino, paragonati alla deferenza di Costantino I per papa Silvestro, alla ferocia con cui l’Amalo si scagliò contro l’anziano pontefice al suo ritorno in Italia, minacciando di ucciderlo insieme a tutti i senatori che lo avevano accompagnato nel viaggio. In ogni caso, non avendo ottenuto le garanzie che Teoderico pretendeva (l’imperatore si era impegnato a cessare le persecuzioni antiariane, ma non a concedere agli eretici, che nel frattempo erano stati costretti ad abiurare, di poter tornare alla vecchia confessione), Giovanni venne incarcerato con l’accusa di tradimento e sottoposto a vessazioni che lo portarono presto alla morte.
Di lì a pochi mesi, il 30 agosto 526, Teoderico spirò a sua volta a Ravenna, poco più che settantenne, lasciando come erede il nipote Atalarico, ancora bambino, per il quale assunse la reggenza la madre Amalasunta, figlia di Teoderico e di Audefleda e vedova di Eutarico.
Meno di dieci anni dopo scoppiò la guerra con l’Impero, retto da Giustiniano, che durò quasi un ventennio e si chiuse con il crollo del regno dei Goti in Italia che Teoderico aveva fondato. A breve distanza dal tramonto dei Goti, la memoria del re Teoderico venne fissata in un giudizio di biasimo, destinato ad avere una lunga eco nella cultura ecclesiastica e in gran parte della letteratura, della cronachistica e delle leggende dei secoli successivi, dal ritratto offertone da papa Gregorio Magno nei suoi Dialogi. In un passo di quest’opera, di larga fortuna nel Medioevo, il pontefice attribuì a un santo eremita vissuto a Lipari la visione prodigiosa di Teoderico, vestito di stracci, scalzo e con le mani legate, mentre veniva gettato dalle sue vittime Simmaco e Giovanni I nel cratere di un vulcano simbolo della bocca dell’Inferno, per bruciare nel fuoco eterno dei dannati. Tale affresco, oltre a sintetizzare la condanna da parte romana e cattolica dell’Amalo quale eretico persecutore e assassino, avviò anche la sua trasformazione in una figura demoniaca, che ebbe da allora in poi un’ampia diffusione. Molte tra le fonti più prossime all’epoca in cui Teoderico visse in realtà modularono la valutazione sul suo operato, distinguendo un primo, lungo, tratto del suo regno in cui egli dimostrò benevolenza verso i Romani e governò con correttezza istituzionale da un finale in cui, invece, egli improvvisamente si fece nemico e agì con arbitrio e crudeltà, in una maniera tanto repentina da far pensare a un suo impazzimento o a una manifestazione di possessione diabolica. È notevole che un sostanziale apprezzamento della complessiva esperienza teodericiana si trovi in Procopio, che partecipò alla guerra contro i Goti nelle fila imperiali, al quale si deve un’altra immagine molto nota, per la quale il re goto avrebbe visto nella testa di un pesce servitogli a tavola il volto di Simmaco, con un’espressione di rimprovero e minaccia, che gli avrebbe suscitato non solo terrore, ma anche sincero pentimento per il delitto commesso. Nei secoli del Medioevo, tendenzialmente, giudizi più articolati su Teoderico si riscontrano nelle opere prodotte in ambito non italico, pur con differenze anche notevoli e diverse eccezioni, mentre nella tradizione letteraria e cronachistica della penisola, e nella cultura ecclesiastica anche extraitalica, s’impose il modello tutto negativo introdotto da Gregorio Magno.
Accanto alle varie testimonianze scritte proliferò pure una vivace tradizione orale in forma di canzoni, di cui Jordanes fa cenno già per il VI secolo, forse diffusa Oltralpe da Goti transfughi sopravvissuti alla catastrofe della guerra perduta e in seguito alimentata e diffusa da cantori soprattutto nell’area linguistica germanica, fino alle regioni scandinave. In questo contesto la figura storica di Teoderico l’Amalo venne trasfigurata in quella mitica e letteraria dell’eroe Dietrich von Bern, impegnato in mirabolanti imprese accanto ad altri eroi germanici quali Sigfrido, e come tale venne assunta, magari quale personaggio secondario, in numerosi poemi e saghe di vasta circolazione, dalla Thidrekssaga norrena all’Hildebrandslied e al Niebelungenlied. La rappresentazione del Teoderico grande monarca e valente condottiero ‘germanico’ così prodottasi fu recuperata pure dalla cultura soprattutto tedesca dell’Otto e del Novecento, dopo che il personaggio era scivolato un po’ in secondo piano per quasi tutta l’età moderna, sulla scia della complessiva esaltazione romantica del Medioevo e dello specifico alimentarsi del nazionalismo tedesco.
Anche nelle rielaborazioni letterarie medievali non scomparvero del tutto le connotazioni infernali evocate per primo da Gregorio Magno, se è vero che Teoderico fu raffigurato talora come spettro e divenne anche uno dei condottieri del mito ancestrale della caccia selvaggia e dell’esercito dei morti. A Verona, città in cui la sua memoria si è sempre mantenuta viva, si conserva una scultura, databile al XII secolo, sulla facciata della chiesa di San Zeno che, nel mostrare re Teoderico impegnato a cacciare a cavallo un cervo, intento in realtà a trascinarlo alla porta dell’Inferno dove il diavolo lo attende, pare operare una felice sintesi iconografica tra la tradizione nordica della caccia selvaggia e quella gregoriana della condanna dell’Amalo alla dannazione eterna.
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