teologia
Dal lat. theologia, gr. ϑεολογία, comp. di ϑεός «dio» e λόγος «discorso». In senso largo, ogni dottrina relativa a Dio, o agli dei, o più genericamente alla religione. In senso stretto, con riferimento alla religione cristiana, la riflessione intorno al dato rivelato.
La parola ϑεολογία appare con certezza per la prima volta in Platone (Repubblica, II, 379 a). Essa però non fu impiegata allora per designare la dottrina di Dio propria del filosofo. I τύποι περὶ ϑεολογίας di cui parla Platone sono i criteri secondo i quali le «disquisizioni sugli dei» possono essere ammesse, così come devono esserlo per l’educazione e per l’integrazione nello Stato. La ϑεολογία, in questo contesto, rinvia dunque ai differenti miti, all’interno dei quali Platone si propone di operare una cernita. È in funzione dello stesso uso che Aristotele chiama ϑεολόγοι o ϑεολογήσαντες i poeti, autori di racconti mitici, quali Esiodo e Omero, e che egli oppone ai «fisici» della Ionia (Metafisica, I, 3, 983 b 29; III, 4, 1000 a 9) i quali spiegano le cose attraverso la loro natura nel senso dei loro componenti fisici. Peraltro, nella stessa opera (VI, 1, 1026 a 19; XI, 7, 1064 b 3), Aristotele assimila la t. (o scienza teologica, o anche filosofia teologica: ϑεολογικὴ ἐπιστήμη, ϑεολογικὴ φιλοσοφία) a ciò che egli chiama la «filosofia prima», che studia l’essere in tutta la sua generalità. Questa «filosofia teologica» è posta al vertice della filosofia «teorica», al di sopra della fisica e della matematica. Così l’antichità greco-latina con la parola t. evocava anzitutto i racconti mitologici che riguardavano gli dei, rimanendo entro la sfera della religione prima che in quella della filosofia, anche se con Aristotele la t. comincia a essere collocata nell’ambito della riflessione razionale. D’altro canto il termine qualificativo di «teologo» si estende dai poeti ai funzionari del culto (come a Delfi), compreso anche il culto dell’imperatore; nel qual caso il termine non implica l’idea di una attività razionale. Gli stoici furono i primi a parlare di t. per designare un’attività che, pur interessandosi degli dei, rimaneva di natura razionale. È presso di loro, infatti, che troviamo la distinzione fra tre generi di t.: la t. «mitica» dei poeti, la t. «politica» dei funzionari dello Stato, e la t. «fisica» dei filosofi. Quest’ultima cerca di interpretare il significato degli dei della mitologia e del culto dello Stato, mostrando come questi dei in realtà non sono altro che personificazioni di forze della natura. Un rinnovato impiego del termine si ritrova nel neoplatonismo, specialmente in Proclo. La filosofia non cerca più tanto di assimilare, trasformandole, le realtà religiose, quanto piuttosto di trasformare sé stessa in religione mistico-intellettuale e il termine t., da questo punto di vista, rispondeva in modo particolare a questo orientamento di pensiero. Già precedentemente, tuttavia, il termine t. si era offerto a coloro che volevano rendere conto di un nuovo tipo di religione: il cristianesimo.
La parola t. non figura affatto nel Nuovo Testamento, nonostante l’esistenza di numerosi altri vocaboli formati con il radicale ϑεο-. Se i primi autori cristiani non fecero ricorso a questo termine, ciò fu dovuto all’uso troppo caratterizzato in ambito pagano. In genere, gli apologeti sviluppano più volentieri l’idea del cristianesimo come «vera filosofia», mentre i Padri alessandrini sono ancora portati a parlare di t. nel senso stesso degli autori pagani. Per Clemente i «vecchi teologi» sono infatti Orfeo, Omero, Esiodo ed altri «saggi», anche se lo stesso Clemente fa risalire il meglio dell’ispirazione di questi «vecchi teologi» ai profeti dell’Antico Testamento. Oltre a ciò egli riconosce ai filosofi uno sforzo razionale teso a formulare la «vera filosofia», sforzo che, secondo lui, implicherebbe una partecipazione, non certo alla «mitologia di Dioniso», ma alla «t. del Logos eterno» (Stromata, I, 13). Viene così aperta una strada per una nuova accezione del termine. Chi contribuirà ancor più a questa evoluzione semantica è Origene. Egli, pur continuando a parlare dei «vecchi teologi greci», riduce il valore tipico del termine (forse sotto l’influsso del medio-platonismo) ricorrendo alla parola t. anche per indicare l’opera religiosa dei Persiani e degli Egiziani. Nel contempo egli comincia a usare il termine t. anche per designare la vera dottrina di Dio, mentre il verbo ϑεολογεῖν, che nel paganesimo poteva significare «proclamare» o «celebrare» la divinità (in partic. il divino imperatore), viene ripreso da lui soprattutto nel senso di confessare il Cristo come Salvatore e come Dio. Il nuovo significato cristiano diventa familiare con Eusebio di Cesarea. Non sono più considerati «teologi» gli antichi poeti o gli autori dei racconti mitologici, ma i profeti dell’Antico Testamento, e così pure Paolo, e soprattutto Giovanni (in partic. per il prologo del suo Vangelo, consacrato al Logos di Dio). Da questo momento il termine t. indica la vera dottrina di Dio, quale è formulata, proclamata e celebrata dalla Chiesa. Il termine t., ormai decisamente inserito nel mondo cristiano, viene ora impiegato senza reticenza da tutti i Padri greci, i quali tenderanno a dotarlo di un contenuto sempre più determinato rispetto all’oggetto della fede cristiana, definita anch’essa con sempre maggior precisione. In Atanasio troviamo un impiego costante della parola t. nel senso di «dottrina della Trinità», mentre Gregorio di Nazianzo dà il nome di «teologi» ai grandi difensori dell’ortodossia trinitaria. Così pure, è in questo momento che si opera la distinzione, rimasta classica nella Chiesa d’Oriente, tra la «t.» che verte sulla realtà intima di Dio e l’«economia» che si riferisce all’opera di rivelazione e di salvezza realizzata dal Logos incarnato. Infine, all’inizio del 6° sec., Dionigi l’Areopagita dà ancora un nuovo sviluppo al concetto di teologia. Egli continua a designare con la parola ϑεολογία la Sacra Scrittura, e con la parola ϑεολόγος gli autori ispirati, ma introduce anche delle distinzioni, rimaste classiche, che caratterizzano differenti modi d’affrontare il problema di Dio e di parlarne: secondo lui, infatti, si ha una t. «segreta e mistica», o anche «simbolica», che unisce a Dio, e un’altra «aperta e più manifesta», «filosofica e dimostrativa» (Lettera IX). Di rilievo inoltre è l’idea di «t. negativa», che insiste sul carattere inesprimibile del mistero divino, nozione questa che sarà ripresa costantemente nel corso dei secoli. Nel mondo latino fino a Mario Vittorino e ad Agostino la parola t. resterà per lungo tempo o del tutto ignorata o recepita solo nel significato che essa aveva nel paganesimo. Il concetto di t. quale si è imposto pressoché universalmente nel corso dei secoli, cioè di teoria sistematica di Dio e della realtà della fede, risale al Medioevo latino, all’inizio della scolastica. È ad Abelardo che bisogna far risalire il concetto di t. come formulazione sistematica della dottrina cristiana. Nello stesso periodo Gilberto Porretano inserisce, all’interno dello schema aristotelico delle scienze, la t. come dottrina cristiana di Dio, distinguendone le vie proprie («rationes») da quelle derivanti da considerazioni («naturalium ratio»). Più tardi, nel 13° sec., alla t. verrà attribuito non solo lo status di scienza, ma all’interno di un sistema culturale armoniosamente concepito, le verrà riconosciuta la preminenza con il ruolo di «regina». Il termine t. non detiene, tuttavia, l’esclusiva per designare la scienza della fede cristiana; al suo fianco, infatti, continuano a circolare le antiche espressioni quali «doctrina christiana», «sacra scriptura», «sacra pagina», «sacra eruditio», «sacra doctrina».
Se per t. si intende la riflessione sulla parola di Dio, tale riflessione è già negli scritti del Nuovo Testamento. Il primo scrittore cristiano, Paolo, intenta un processo alla «saggezza dei saggi» e all’«intelligenza degli intelligenti», opponendo a questa pseudosaggezza la «saggezza di Dio», che si esprime nella «follia» del messaggio della Croce (I Corinzi, 1, 1 - 2, 9): la verità cristiana non si risolve affatto nelle speculazioni o nei calcoli della ragione. Lo stesso Paolo spiega però che «dalla creazione del mondo» le opere di Dio rendono visibili all’intelligenza i loro attributi divini («potenza eterna e divinità») sicché gli uomini «sono senza scusa poiché, conoscendo Dio, essi non l’hanno né glorificato, né ringraziato come Dio» perdendosi «nei loro vani ragionamenti» (Romani, 1, 20-21). Senza entrare nella discussione, incessantemente ripresa, di sapere se questo testo permette di fondare una «t. naturale», edificata cioè soltanto partendo dall’esperienza e dai lumi della ragione, possiamo scorgervi il riconoscimento di una concordanza di principio tra un sano tentativo religioso e un giusto esercizio dell’intelligenza. Parimenti, Paolo esorta i cristiani al vero culto «a Dio gradito» e cioè a un «culto secondo il Logos»: (ἡ λογικὴ λατρεία; Romani, 12, 1). Parimenti tutti gli scrittori neotestamentari, nella misura in cui sviluppano una certa intelligenza della fede, qualunque sia il genere letterario in cui essi si esprimono (vangelo, lettere, apocalissi) formulano, in un certo senso, una teologia. A fianco di Paolo è Giovanni che, tradizionalmente, si ritiene debba meritare in modo eminente la qualifica di teologo, per la dottrina condensata nel prologo del suo vangelo. La dottrina del Logos ivi esposta impone anzitutto di sottrarre la nuova fede al lume dell’intelligenza. Fin dall’inizio dell’opera giovannea, infatti, ϑεός vien messo in intrinseca relazione con il λόγος; ma è pur vero che questa relazione non basta, da sé sola, a farci uscir fuori della mitologia. Specialmente nella gnosi, infatti, è possibile trovare speculazioni che attribuiscono al Logos un ruolo d’intermediario tra Dio e il mondo, o una funzione salvatrice. In tal senso parecchi critici hanno ritenuto di trovare in queste speculazioni una delle sorgenti dell’opera giovannea. Ma la singolarità di quest’ultima consiste nell’affermare che il Logos, che «era presso Dio», che «era Dio», attraverso il quale «tutto ha avuto l’esistenza» (Giovanni, 1, 1-3), s’è «fatto carne» ed «ha abitato in mezzo agli uomini», al punto che alcuni hanno potuto «contemplare la sua gloria» (Giovanni, 1, 14). La sua manifestazione, che risale a un’iniziativa proveniente «da un altro luogo», dal «Padre» (Giovanni, 8, 42; 7, 28-29; 17, 8), ha qualcosa di paradossale, perfino di «urtante» (6, 61). Essa non dispensa affatto dalla fede, anzi la richiama (6, 61), anche se, a sua volta, la fede non si concepisce senza «conoscenza», Giovanni non si stanca di associare i due verbi πιστευέιεν e γιγνώσκειν (17, 8; 10, 38; I Giovanni, 4, 16).
Fin dal 2° sec. gli apologeti, in partic. Giustino, cercano di gettare un ponte tra il cristianesimo ricevuto dalla predicazione apostolica e il pensiero pagano. Se uno dei modi era quello di mostrare come il meglio di questo pensiero fosse stato ispirato dalla Bibbia, tale tentativo conduceva necessariamente gli apologeti a integrare nella loro formulazione della fede alcune categorie mutuate da un sistema rappresentativo e concettuale che, di fatto, le era estraneo. Uno sforzo più profondo di penetrazione e di utilizzazione della cultura dell’ambiente fu compiuto dalla scuola di Alessandria. Clemente per primo sviluppa l’idea di una propedeutica, resa certa dalla filosofia, per arrivare a una più perfetta conoscenza delle verità di fede. «La filosofia greca» egli scrive «purifica l’anima in qualche modo e la prepara a ricevere la fede, sulla quale la verità edifica la gnosi» (Stromata, VII, 20). Per Clemente la gnosi è una fede purificata ed arricchita dalla elaborazione intellettuale. Essa corrisponde molto bene a quanto, con diversa terminologia, verrà considerato come opera della t.: «La fede è in qualche modo una gnosi elementare ed abbreviata delle cose necessarie. La gnosi è una dimostrazione ferma e stabile di ciò che si è ricevuto attraverso la fede; essa si edifica sulla fede, attraverso l’insegnamento del Signore» (Stromata, VII, 57). Non si tratta certo per Clemente di operare un’unione superficiale tra verità di fede e verità di ragione, ma piuttosto di lavorare a un assorbimento del lume dell’intelligenza entro la fede, per operare una penetrazione più perfetta di ciò che questa fede propone. Una simile prospettiva viene portata avanti e approfondita da Origene (➔) al quale si deve quella che potrebbe definirsi la prima grande opera di t. sistematica, il De principiis, dove numerosi dati essenziali della fede cristiana si intrecciano a una serie di speculazioni ispirate dalla filosofia nella quale Origene era stato formato. L’audacia della sua impresa lo rese sospetto; anche se per lungo tempo fu tacciato d’eresia e restò fonte di discordia all’interno della Chiesa, Origene svolse un ruolo determinante nello sviluppo del pensiero cristiano e della teologia. Nel mondo latino, chi segna in età patristica il punto di partenza di una elaborazione «teologica» delle realtà della fede è Agostino, anch’egli apportatore di un’influenza indelebile sulla t. posteriore, e in primo luogo su quella del grande periodo medievale. Agostino ha insistito su quello che resterà il principio dell’attività teologica, determinandone la modalità essenziale: il porre a reciproco servizio e controllo l’intelligenza e la fede. Questo principio e questo modo di regolare l’esercizio della t. si trovano emblematicamente condensati nelle parole di un suo sermone: «intellige ut credas, crede ut intelligas» (Sermone 43, c. 7, n. 9). Il modo in cui Agostino pose in opera questa dialettica della fede e dell’intelligenza – che rimase esemplare per lungo tempo – si trova applicato in maniera del tutto particolare in due sue opere: il De Trinitate e il De doctrina christiana, vera e propria introduzione alla Bibbia. Nel De Trinitate, dopo aver stabilito i dati della fede riguardanti le tre persone divine, partendo dalle affermazioni della Scrittura e della tradizione, l’autore cerca più direttamente l’intelligenza di questi dati e allora utilizza tutte le immagini e le analogie che al riguardo gli possono essere fornite dal mondo della esperienza umana. Nel De doctrina christiana Agostino si fa difensore degli studi profani, i quali devono contribuire all’edificazione della saggezza cristiana, e in partic. alla comprensione della Scrittura. A questo disegno devono concorrere non soltanto la conoscenza delle lingue sacre (cioè quelle utilizzate nella Scrittura e nelle sue traduzioni, l’ebraico, il greco e il latino) e quella degli esseri, ma anche l’arte della dialettica, la retorica, la scienza dei numeri, la storia e il diritto.
Tra il periodo patristico che abbiamo ricordato e quello delle grandi sintesi basso-medievali, il cammino teologico offre episodi di limitata fecondità, ma tuttavia essenziali a comprendere la forma che la t. ebbe ad assumere nell’epoca della sua maturità. L’aspetto che viene più nettamente, e quasi esclusivamente, in luce tra il 6° e il 12° sec. è l’aspetto di conservazione, nel quale domina la preoccupazione della fedeltà ai dati ricevuti dalla tradizione. L’eredità ricevuta dal passato è anzitutto la Sacra Scrittura, e la cultura consiste essenzialmente nel conoscerla e nel commentarla, seguendo da presso i commenti fatti dai Padri. Le spiegazioni che ne vengono date vertono quindi, più che sul contesto storico, sull’aspetto grammaticale e simbolico, e consistono soprattutto nella spiegazione dei significati allegorici dei testi. Anche queste spiegazioni cercano il più spesso possibile di riprendere quelle già date dai Padri, il cui pensiero per altro era oggetto di trattazioni da parte di compilatori e raccolto in «florilegi» o «catene» di citazioni. Si pone qui come fondamentale il concetto di «auctoritas». Un testo è un’«auctoritas», cioè esso si impone come principio del discorso teologico, in forza del valore privilegiato riconosciuto all’autore di esso dalla Chiesa e dalla tradizione. La riflessione teologica si sviluppa come «commento» o «lettura» di testi (anzitutto la Bibbia, quindi i Padri); il lavoro dei commentatori consiste soprattutto nell’armonizzare le differenti «auctoritates» della Scrittura e dei Padri. Le discipline profane, le arti liberali, non sono tuttavia disprezzate (la fedeltà ai Padri richiede al contrario che se ne faccia uso), ma più che mai viene sottolineato il loro carattere subordinato. Il loro scopo è quello di aiutare l’intelligenza degli oggetti di fede, in partic. dei dati biblici. Una notevole ripresa della riflessione teologica si ritrova già nel 9° sec., sotto l’impulso di Alcuino, nelle scuole della rinascita carolingia. Tali scuole non sono soltanto scuole di t., ma in esse le arti liberali sono insegnate in quanto corpo autonomo, nel duplice raggruppamento del «trivium» (grammatica, dialettica, retorica) e del «quadrivium» (aritmetica, geometria, musica, astronomia). La Scrittura viene pur sempre considerata come fondamento di ogni verità, ma per poter meglio scoprire questa verità, l’arte che più di ogni altra viene impiegata è la grammatica, in quanto consente di restare aderenti, interpretandole, alle parole stesse del testo sacro. In ogni caso queste scuole ove s’insegnano le arti liberali sono, in tutto e per tutto, ecclesiastiche; esse sorgono e operano accanto alle abbazie o ai vescovati. Coloro che vi insegnano sono uomini di Chiesa, per i quali non si pone neppure il problema di introdurre elementi dottrinali capaci di scuotere l’istituzione, il cui sapere costituito corrisponde alle finalità e ai voleri della gerarchia. Un solo autore di questo periodo merita più d’ogni altro d’essere ricordato per aver dato testimonianza di un pensiero veramente originale: Scoto Eriugena (➔). La sua opera costituisce un vigoroso monumento di riflessione teologica in quanto assume e introduce nell’Occidente latino le strutture del pensiero dello pseudo-Dionigi, e incide profondamente nella formazione soprattutto della t. negativa. Nell’11° sec. cominciano a delinearsi i grandi conflitti, allorché la «dialettica» entra, in maniera decisa, nelle trattazioni concernenti la fede. Il primo celebre conflitto fu quello che oppose Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia riguardo la dottrina eucaristica. Berengario pensava che la ragione, creazione di Dio e onore dell’uomo, avesse un ruolo eminente nella ricerca teologica. Di qui nasceva il fondamentale problema se il risultato di questa ricerca non mettesse capo a uno svuotamento del mistero, all’abbassamento delle verità, affidate all’autorità, al livello delle cose mondane sulle quali l’uomo regna sovrano. Tali questioni, poste allora, non cessarono di ritornare lungo tutta la storia della teologia. Esse costituiscono in qualche modo l’aporia che incessantemente la costringe a definire di nuovo e a giustificare le proprie vie. Un conflitto di ancor più vasta portata oppose, sempre intorno al ruolo della dialettica nel trattare la realtà di fede, due grandi figure dell’inizio del 12° sec.: Abelardo e Bernardo di Chiaravalle. Abelardo sostiene che la fede non può reggersi soltanto su parole o formule; essa comporta l’«intelligenza» di quanto afferma, e anzitutto la chiarezza delle nozioni e dei loro rapporti. Parte insomma, anzitutto, da quella che noi oggi chiameremmo un’analisi del linguaggio, e questo è uno degli aspetti nei quali appare la «modernità» di Abelardo. L’analisi che egli instaura delle nozioni e degli enunciati lo conduce a riprendere in termini nuovi il confronto fra le «autorità» che costituiscono la materia dell’opera teologica: di qui il suo Sic et Non, primo momento di un cammino che porterà alle seguenti trattazioni sotto forma di «quaestiones» e con cui viene compiuto un passo decisivo, che opera il distacco da ogni asservimento ai testi. Abelardo cerca di dare una spiegazione e una presentazione sistematica dei misteri della fede nel tentativo di trovare delle ragioni di verosimiglianza e di convenienza ai dati della fede, come pure delle analogie, ricercate nella realtà dell’esperienza umana, con lo scopo di togliere ai misteri la loro opacità e permettere loro di illuminare realmente l’intelligenza del credente. Ciò nondimeno Abelardo dovette affrontare degli attacchi appassionati, in partic. da parte di Bernardo. Il monaco di Chiaravalle è testimone di una spiritualità basata sul ritiro dal mondo e perfino su un certo disprezzo di esso. Arti liberali e lavoro della ragione sono accomunati, per lui, nel medesimo rifiuto delle cose umane, a meno che non siano immediatamente ordinati alla «edificazione» propria o degli altri. Di fronte alle realtà divine l’atteggiamento che più conviene è l’ammirazione della preghiera e l’adorazione, non certo la curiosa investigazione. Il voler introdurre preoccupazioni di carattere «scientifico» all’interno della fede è cosa sospetta.
Uno degli autori cristiani che con maggiore impegno abbiano tentato l’avventura del pensiero razionale pur restando saldamente attaccati non soltanto alla fede, ma alla convinzione della superiorità, perfino della sufficienza, del sapere che essa arreca è senza dubbio Anselmo. Sulla linea di Agostino, egli ritiene che sia la stessa fede, una fede compenetrata dall’amore del suo oggetto, a postulare la ricerca della propria «ratio». Ed è quello che egli esprime in alcune celebri frasi del Proslogion: «Non tento, Domine, penetrare altitudinem tuam ... Sed desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam, quam credit et amat cor meum. Neque enim quaero intelligere ut credam; sed credo ut intelligam». Per arrivare a questa intelligenza, lo spirito deve utilizzare tutte le risorse di cui dispone, specialmente le analogie ricavate dal mondo creato, ma anche i procedimenti della dialettica. Lo scopo da perseguire attraverso tali operazioni resta quello religioso: avvicinare lo spirito a ciò a cui è soprannaturalmente destinato, farlo accedere a uno stato che resta intermedio tra la pura fede e la visione beatifica. La posizione di Anselmo non si distinguerebbe tuttavia da quella di tutti i grandi pensatori cristiani che lo avevano preceduto, da quella di un Origene o di un Agostino, se si fosse attestata su una generica preoccupazione di intelligenza della fede, al suo stesso interno, ricorrendo in partic. alle analogie. Egli invece propone un tipo di ragionamento che deve approdare a una «necessità». È questo il caso, in modo particolare, della famosa «prova ontologica» dell’esistenza di Dio, sviluppata nel Proslogion. Allo stesso modo egli parla di «rationes necessariae» dei misteri dell’incarnazione e della trinità. Il suo pensiero è stato oggetto di divergenti interpretazioni. Alcuni vi hanno visto l’espressione di un razionalismo difficilmente conciliabile con la trascendenza dei misteri della fede, mentre altri hanno sostenuto che Anselmo non volle mai uscir fuori dalle prospettive teologiche, ma operò sempre all’interno di queste, per svelare in qualche modo la logica interna di ciò di cui parla la fede. Uno sforzo analogo a quello di Anselmo viene perseguito poco tempo dopo dai vittorini (Ugo e Riccardo di San Vittore), come pure da Pietro Lombardo. Questi ultimi riprendono, a loro modo, il progetto di Abelardo, ma inserendolo in un contesto più immediatamente religioso ed ecclesiastico. Pietro Lombardo offre con i suoi quattro libri di Sentenze il manuale dell’insegnamento teologico su cui i teologi posteriori edificheranno la loro opera. Parallelamente a queste prime elaborazioni sistematiche, nella seconda metà del 12° sec. la riflessione si va orientando su questioni di metodo. Si comincia a porre il problema del carattere «scientifico» della t. e del suo fondamento: diverrà questo un problema centrale nella riflessione teologica del sec. 13°.
Il Duecento, che detiene quasi il monopolio delle grandi summae teologiche, costituisce in una certa linea di ricerca e per una certa concezione della t. un punto d’arrivo. In questa fase della ‘cristianità’ la fede permea tutta la vita sociale ma nel contempo viene a introdursi nel mondo culturale il sistema «razionale» di Aristotele. Non sono più soltanto le opere logiche dello Stagirita, raggruppate sotto la denominazione di Organon, quelle che nutrono il pensiero dei dottori, ma anche la sua metafisica, la sua fisica, la sua psicologia e la sua etica. Queste opere, tradotte a più riprese tra il 12° e il 13° sec., che già influenzano Guglielmo d’Auxerre (➔) e Filippo il Cancelliere, avranno un peso determinante soprattutto sull’opera di Alberto Magno (➔) e su quella di Tommaso d’Aquino (➔). Il nuovo studio di Aristotele comporta due conseguenze: anzitutto, l’ingresso nel pensiero cristiano di un contenuto teorico e culturale di provenienza estranea e, in secondo luogo, una differenziazione ben più chiaramente marcata tra l’ordine della conoscenza razionale, filosofica, da una parte, e la conoscenza della fede, propriamente teologica, dall’altra. In partic. la ricezione non soltanto di aspetti formali della filosofia di Aristotele, ma anche dei suoi contenuti, introduce strutture e punti di riferimento nuovi: esemplare l’importanza che da allora verrà a ricoprire il concetto di natura.
In Tommaso, la ragione che opera nelle t. è una ragione che conosce la natura delle cose, e che va lasciata libera di adempiere pienamente al suo ufficio. I suoi primi scritti, d’altra parte, sono d’ordine propriamente filosofico (De ente, De principii naturae). Anche se egli intende, come tutti i suoi contemporanei, il ruolo della filosofia come «ancella» della t., questa «ancella» assicurerà tanto meglio il suo servizio se prima sarà stata affrancata. L’opera a cui, anzitutto, si dedica Tommaso è comunque un’opera teologica e che teologica intende essere. Essa mira alla conoscenza del Dio della rivelazione, per la realizzazione del destino soprannaturale dell’uomo, anche se Tommaso intende conferire a questa opera lo statuto di una vera «scienza». Questo carattere dipenderà dal rigore con cui opererà la ragione, in partic. facendo comprendere «le verità meno conosciute, partendo da quelle che si conoscono». La t., così come la concepisce Tommaso, è fondata – come ogni altra scienza – su delle prime verità, su dei «principi». Questi sono, all’accorrenza, gli «articoli» di fede enunciati nel Credo della Chiesa, e fondamentalmente quello del Dio trinitario e quello dell’incarnazione redentrice. Il proprio della scienza teologica è mostrare come ogni cosa si chiarisca quando ne venga illuminato il rapporto con il mistero di Dio, nel suo essere intimo e nella sua libera decisione di salvezza. La t. tende a far vedere tutte le cose così come le vede Dio. Essa si presenta come un duplicato umano della scienza di Dio. In tal senso è una «scienza subalterna», cioè una scienza che deriva tutti i suoi principi da un’altra scienza, in questo caso dalla scienza di Dio (condivisa dai beati), i cui principi sono proposti nella rivelazione e raggiunti appunto attraverso la fede. I principi di questa nuova t. possono ridursi a due proposizioni fondamentali: la grazia non sopprime la natura, ma la perfeziona; esiste un rapporto di «analogia» tra quello che possiamo sapere e dire di Dio e quello che egli è realmente. Senza dubbio, la natura è già tutta presente, in definitiva, nella volontà creatrice di Dio. Senza dubbio, tutto il discorso teologico trova la sua chiave di volta nel mistero trinitario e in quello dell’amore salvifico di Dio rivelato in Cristo. Senza dubbio, quello che noi attribuiamo a Dio attraverso le nostre categorie umane non resta «analogicamente» vero se non affermiamo allo stesso tempo il modo singolare, «eminente», secondo cui tale verità si realizza in lui, e che supera assolutamente il nostro intelletto. Nonostante tutto ciò il riconoscimento della positività della natura e il ruolo determinante della ragione naturale entro l’argomentazione teologica attirerà su Tommaso (che sarà poi e per lungo tempo riconosciuto come il teologo per eccellenza dell’ortodossia cattolico-romana) il sospetto e l’accusa di razionalismo e di naturalismo da parte di alcune autorità ecclesiastiche e universitarie del suo tempo.
In opposizione al deciso aristotelismo di Tommaso, tutta una serie di teologi, soprattutto francescani, resterà sulla linea di un’ispirazione puramente agostiniana. Il più importante di questi fu Bonaventura, la cui opera mantiene per questo aspetto un fondamentale interesse. Il principio agostiniano dell’«illuminazione» dello spirito da parte della grazia di Dio viene da Bonaventura sviluppato in maniera sistematica: non si può avere conoscenza delle realtà create se non partendo dalla sorgente divina da cui esse procedono; esse sono allora afferrate nel loro valore simbolico, in cui consiste la loro verità. Per il carattere più «spirituale», per il riferimento più diretto e deliberatamente mantenuto alla fede come esperienza di vita, la linea agostiniana, rappresentata nel 13° sec. da Bonaventura, permetterà sviluppi molteplici e nuovi frutti, più di quanto non lo farà la linea tomista con le sue solide strutture logico-ontologiche e con il suo orientamento largamente intellettualista. Con il suo orientamento più antropologico che cosmologico, nel quale il mondo è anzitutto considerato per l’uso che l’uomo ne fa, e l’uomo stesso nella sua relazione con Dio, la t. bonaventuriana reca in sé, almeno sotto certi aspetti, maggiori affinità che non la t. tomista con una moderna visione teologica.
Se la corrente agostiniana era, in certo senso, apportatrice d’avvenire, lo sviluppo che si produsse assunse anzitutto l’aspetto di una crisi. Fin dall’inizio del 14° sec. il solido edificio sistematico di Tommaso comincia a subire incrinature, che intaccano sia il contenuto sia l’idea stessa di teologia. Esse sono poste in evidenza già nell’opera di Duns Scoto (verso il 1266-1308), colui che verrà chiamato il Doctor subtilis ma che conserva un profondo legame sia con la tradizione francescana, sia con l’ambiente oxoniense nel quale si era formato e dove fioriva lo studio della matematica e delle scienze. Senza ignorarlo e senza volerlo rigettare in blocco, Duns Scoto sottopone a una critica acuta tutto intero il sistema aristotelico-tomista. Attraverso un esame critico del funzionamento della ragione, egli contesta a quest’ultima una parte importante dei poteri riconosciutigli dal tomismo, in partic. riguardo le realtà di fede. Pur senza rompere ogni legame tra filosofia e t. (questa infatti può e deve beneficiare dei servigi della ragione all’interno dei suoi procedimenti), egli tende a stabilire tra esse una ben più netta indipendenza; quanto più la filosofia diventa esclusivamente critica tanto più la t. diventa strettamente dipendente dai dati positivi della rivelazione e dalla loro interpretazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Anche se di fatto la «sottigliezza» non manca di corrispondere alla preoccupazione di positività razionale, ferma rimane la convinzione che Dio, oggetto proprio della t., sfugge per natura alle nostre categorie. La sola che ne rispetti l’inaccessibilità è quella, negativa, dell’infinito. Noi raggiungiamo Dio, o meglio, lui ci raggiunge, nell’atto contingente della sua rivelazione, in cui ci si svela essenzialmente come volontà e come amore, ed è per un moto della nostra volontà, in un atto d’amore, che noi allora penetriamo nel suo mistero. La t., pertanto, non viene più concepita come «scienza subalterna» al modo di Tommaso, bensì come scienza pratica, scienza di ciò che è vissuto e praticato attraverso una fede «operante nella carità».
Le rotture annunciate da Duns Scoto furono consumate nel corso dei secc. 14° e 15° dal nominalismo, quella corrente filosofico-teologica che negava, in modo particolare, che una qualsiasi realtà corrispondesse a idee generali (non è reale se non ciò che è singolare; il concetto si riduce al segno, alla parola, al «nome» che lo indica in modo puramente convenzionale). I più notevoli rappresentanti di questa tendenza sono Guglielmo d’Occam, Pietro d’Ailly e Gabriel Biel. Per tutti costoro, tra il credente e il sapiente non c’è nulla in comune. Il primo si rifà a un Dio che è onnipotenza, volontà sovranamente libera; il secondo stabilisce relazioni tra segni che non hanno altra realtà se non quella artificiale, a meno che non si contenti di collezionare osservazioni di puri fenomeni. Quanto alla t., essa prorompe in qualche modo dall’interno; il suo senso, infatti, quasi si riduce a mettere in rilievo la realtà di Dio, manifestata nella sua rivelazione, e il ruolo di una ragione che non può lavorare altro che su sé stessa. Le due componenti della parola t. sono ravvicinate solo per una sorta di decisione violenta. Scotisti e nominalisti non sono i soli a impegnarsi in distinzioni e in ipotesi. I seguaci della scuola tomista, quali Capreolo o Caietano, preoccupati di commentare e difendere le posizioni del maestro più che di approfondire l’indagine diretta dei contenuti di fede, porranno mano ad argomentazioni più abili che feconde. La t. diventa, ogni giorno di più, un affare di «scuole», che per lo più si riallacciano agli ordini religiosi. Essa merita allora l’appellativo di «scolastica», risultando sempre più estranea alla vita della Chiesa e al mondo dei credenti.
Di contro alla estraniazione della t. ufficiale dal mondo spirituale della Chiesa, viene tuttavia emergendo una ricerca d’autentica interiorità, congiunta al culto della Sacra Scrittura affrontata senza intermediari. Una delle testimonianze più famose di questa ricerca e di questa «devotio moderna» è l’Imitazione di Gesù Cristo. Ma essa si esprime anche nelle numerose associazioni di pietà (Fratelli della vita comune, Fratelli moravi, i diversi beghinaggi, ecc.) e nelle opere di valore della mistica renano-fiamminga (Ruysbroeck, Suso, Taulero). Vengono messi in atto seri sforzi per riformare e rianimare la t. cercando di riavvicinarla ai bisogni spirituali e pastorali e alle sorgenti della fede; in tale direzione si muovono Gerson o Niccolò di Cusa. Ma questi tentativi non arrivarono a imporsi in un mondo cristiano profondamente turbato e dilaniato: la rottura tra t. e vita spirituale appare così come uno degli aspetti di un universo culturale in crisi, prossimo a disgregarsi.
Mentre la cristianità medievale manifesta tutti i segni della sua disgregazione, un mondo nuovo comincia ad annunciarsi, nel quale la t. sarà destinata a ricevere un nuovo statuto o, piuttosto, dovrà scoprire una sua collocazione, leggere nuove possibilità. Il mondo sul punto di nascere è quello del Rinascimento e degli umanisti. Costoro incominciano con passione a liberarsi delle tradizioni di un Medioevo inaridito, aprendosi a una rinnovata valutazione dell’antichità pagana, ma anche del cristianesimo primitivo e patristico. Ed è qui che la t. sembra chiamata ad apportare frutti fino allora ignorati. La Scrittura e le opere dei Padri vengono pubblicate con acribia critica, offrendo edizioni in lingua originale, illustrate dalla filologia e restituite al loro contesto. Questo studio positivo, rigoroso, non viene concepito come completamento e ausilio del metodo speculativo rappresentato dal procedimento dialettico della «quaestio» e della «disputatio». Esso viene elaborato e promosso con il fine di sostituirlo. E poiché la scolastica viene formalmente rigettata, quale espressione della «barbarie» medievale, ecco sorgere la ricerca della «sincera theologia», della «philosophia Christi», ossia di una t. che non si perda in inutili ragionamenti sofistici, ma che si riallacci invece alle fonti originarie, nonché alle espressioni primitive della fede cristiana.
Questa nuova concezione dell’operare teologico dovrebbe rispondere sia alle esigenze di una cultura rinnovata, preoccupata della verità oggettiva e che comincia a svegliarsi al senso della storicità, sia a quella di coloro che si preoccupano di soddisfare l’aspirazione interiore per un nutrimento religioso autentico. L’opera di Erasmo (➔) è particolarmente rappresentativa di questo duplice orientamento di una t. impegnata a cercare nuove strade: a fianco degli studi filosofici e storici sulle fonti cristiane, Erasmo consacra il meglio dei suoi sforzi a lavori di educazione morale e spirituale, convolgendo l’uno nell’altra umanesimo e t. cristiana. Un nuovo modo di «teologare» fu realizzato da Martin Lutero. Questo nuovo modo consiste nel riconoscere il valore della soggettività e dell’interiorità del singolo. In questo senso, si può dire che la t. di Lutero si è costituita come risposta ai bisogni di spiritualità che la t. aveva ormai da tempo cessato di soddisfare. La novità della t. di Lutero è data anzitutto dal suo punto di partenza. Essa consiste nella preoccupazione di non separare l’opera teologica dall’atto che la costituisce: l’atto di fede personale del teologo. Lutero sviluppa la sua t. nel quadro della dottrina trinitaria e cristologica, quale era stata formulata nei primi concili ecumenici. Ma la sua preoccupazione è anzitutto quella dell’appropriazione di questa dottrina, del suo significato per il credente. La t. di Lutero rifiuterà sempre di costituirsi come un sapere più o meno indifferente, nel quale il teologo non sia impegnato tutto intero. Lutero non cesserà mai di diffidare di una speculazione che sia sviluppata per sé stessa, e nella quale lo spirito umano giunga ben presto alla contemplazione di sé stesso. Egli intraprende nel contempo una guerra aperta contro la scolastica e la filosofia di Aristotele a cui essa è legata: «Non si diventa teologo se non senza Aristotele», come dichiara nella sua Disputatio contra scholasticam theologiam (1517). In questo senso Lutero respinge una «t. della gloria», intesa come visione e possesso delle realtà di fede; egli al contrario ritiene che il solo modo di raggiungere queste realtà risieda in una «t. della croce», intesa come passaggio attraverso la prova della notte dei sensi e dello spirito. Per Lutero la t. non è frutto di una contemplazione serena, ma di un combattimento. «Vivendo, anzi morendo e condannando si fa il teologo, non comprendendo, leggendo o speculando». La «vera maniera di dedicarsi allo studio della t.» è, per lui, quella di abbandonarsi alla vita spirituale, che è «preghiera», «meditazione», «tentazione». La t., così come la concepisce Lutero, è dunque risolutamente di natura esistenziale. Essa procede dall’esperienza vissuta: «Solo l’esperienza fa il teologo». Tuttavia non si tratta di un’esperienza fatta di sentimenti o di stati d’animo ma è l’esperienza della fede, sempre suscitata dall’ascolto di una parola e sviluppata in una confessione. Di qui lo stretto legame della t. di Lutero con la predicazione. La sua è una t. «pastorale» piuttosto che «mistica», sempre in rapporto diretto con il mistero della parola. Riformatore, profeta, predicatore, Lutero pensò e volle sempre essere teologo nel senso più completo della parola; rifiutare alla sua opera il carattere di vera t. si potrebbe solo partendo da quel concetto di t. che egli, appunto, rigettava. Conviene pertanto mettere in rilievo con precisione la novità del concetto della t. di Lutero. Essa verte su ambedue gli elementi di cui il nome si compone: «ϑεός» e «λόγος». Come abbiamo già detto, il Logos prende in Lutero la forma di un discorso impegnato, intrinsecamente legato alla prassi, all’azione, all’esistenza, alla storia. Il fatto è che un tale Logos è capace di parlare di un Dio non in quanto raggiunto per quello che è in sé, ma in quanto colto nell’atto della rivelazione e della salvazione. Il punto di vista filosofico, astratto, delle «essenze» viene risolutamente scartato come sterile, anche perché porta a volgere le spalle alla realtà sia di Dio sia dell’uomo che comincia a parlarne. Oggetto della t. non è quello di offrire la natura di Dio alla conoscenza di una ragione che opera attraverso categorie atemporali. È questo il dramma dell’incontro dell’uomo concreto, peccatore con il Dio vivente, che Lutero definisce rispettivamente «uomo colpevole e perduto e Dio che giustifica e che salva». La t. ha come oggetto la Sacra Scrittura di cui, meglio che la scolastica decadente, intrisa di allegorismo, intende rispettare scrupolosamente i termini esatti; la t., così come la concepisce Lutero, riceve la sua certezza dal suo oggetto e nella fermezza con cui quest’oggetto le impone di partire dalla Scrittura: «Per questo la nostra t. è vera, perché ci pone al di fuori di noi». Questa t. trova la sua struttura fondamentale non già nell’articolazione ragione-rivelazione, ordine naturale-ordine soprannaturale, ma nel rapporto, accolto dal Nuovo Testamento, Legge-Vangelo. Questo rapporto è essenzialmente un rapporto storico, nel quale ciascuno dei termini è impensabile senza l’altro, e nel quale il secondo è la chiave d’intellegibilità del primo. La Legge è ciò di cui il Vangelo rivela la vera natura, nel momento stesso in cui pone fine a essa. Orbene, il Vangelo è il trionfo della grazia, la realizzazione dell’impossibile: la «giustificazione dell’empio». Così pure la t. luterana non intende far altro che ribadire la Parola del Nuovo Testamento, e la salvezza che essa annuncia. Essa ad altro non tende che a realizzarsi «con la sola fede».
La linea teologica tracciata da Lutero si svilupperà nella Riforma. Senza dubbio alcuni tratti caratteristici della t. di Lutero, che dipendevano dalla sua personalità eccezionale, si attenuarono; alcune delle sue intuizioni saranno riprese e sviluppate all’interno di sistematizzazioni che, più o meno, ne modificheranno il tono. Il secondo grande riformatore, Calvino, nonostante alcuni principi comuni, riguardanti in partic. l’autorità unica della Scrittura, elabora una t. più sistematica, meno immediatamente legata all’esperienza spirituale. D’altra parte la t. luterana ripresa dai discepoli tende ad assumere, dalla fine del 16° sec., la forma di una nuova scolastica, al servizio di una nuova «ortodossia». Parallelamente, la t. cattolica, sulla linea del tomismo, è portata piuttosto a consolidare sé stessa e a difendere le posizioni acquisite. A fianco della scolastica tradizionale, si sviluppano una t. «mistica», una t. più tardi definita «fondamentale» o «apologetica», che mira a stabilire la solidità delle basi della fede, e infine una t. «controversistica». Inoltre, si viene operando in modo graduale un distacco tra t. «morale» e t. «dogmatica» mentre, accanto alla t. speculativa, comincia a edificarsi una t. «positiva», ordinata alla conoscenza delle testimonianze della tradizione, nei loro termini originali.
Dopo la rivoluzione della Riforma e le sistematizzazioni del 17° sec., il nuovo contesto in cui si deve inserire la t. è anzitutto quello dell’Illuminismo. Seguendo un processo già iniziato nel Seicento, la t. subisce sempre più la concorrenza, nel campo della cultura, della scienza e della filosofia. La scienza in partic. contesta sempre più alla t. l’universalità delle sue competenze. Il caso di Galileo costituisce l’esempio più illuminante di tale conflitto e, a partire da esso, la contestazione si allargherà a campi sempre più vasti. Dopo la serrata critica alla cosmologia aristotelico-scolastica a cui era più o meno legata la t., è la volta della storia, e in partic. della storia sacra, la cui critica coinvolgerà gli stessi documenti di base. Si sviluppa soprattutto un atteggiamento sempre meno conforme con una disciplina fondata sull’autorità e sulle tradizioni: nasce un nuovo senso della realtà che rischia di mettere in causa radicalmente non solo il modo di parlare proprio della t., ma anche ciò di cui essa parla. In altre parole, la t. sembra respinta sempre più in uno spazio irreale, e in essa non si tarderà a vedere un modo di pensare da cui importante, anzitutto, è affrancarsi, se si vuol cogliere la realtà nei suoi molteplici aspetti e poter così operare in un modo utile e fecondo. Lo scienziato non solo non ha bisogno dell’«ipotesi Dio» per stabilire le leggi del reale, ma deve anzi respingerla, se vuole operare con rigore e progredire nella conoscenza effettiva del mondo. La filosofia, che traduce almeno in parte questo modo di vedere generato dal sorgere della scienza e della tecnica, s’afferma sempre più saldamente di fronte alla t.; all’inizio non in maniera aggressiva ma anzi con condiscendenza, e talvolta con la pretesa di venirle addirittura in soccorso. Descartes, per es., intese dare un nuovo fondamento alla certezza dell’esistenza di Dio di cui la t. ha fondamentale bisogno. Ma su questa strada tutto un settore della t. subirà a lungo, senza dubbio molto di più di quanto esso stesso non ne avrà coscienza, la tutela della filosofia cartesiana che, specialmente nei paesi latini, tenderà a mantenere la t. in un intellettualismo devitalizzato. Più tardi, e in un diverso contesto culturale, la filosofia, nel tentativo di penetrare all’interno della t. allo scopo di rianimarne il contenuto, finirà con l’assorbirla nel suo procedimento. Tale è la tendenza dell’idealismo tedesco, che trova la sua più perfetta realizzazione nel sistema hegeliano. Parve allora che la t. non potesse continuare a esistere se non acconsentendo a una mutazione radicale, accettando anzitutto la negazione e la morte di tutto ciò che essa era stata: non più quindi una disciplina edificata sulla fede, ma sulla ragione. Ciò posto, continuare a parlare di t. non aveva più senso e in qualche modo più conseguenti furono coloro che seguirono il pensiero di Hegel nel senso dell’ateismo e della riduzione della t. a pura antropologia. Tale fu, in partic., il caso di Feuer- bach, per il quale «compito dei tempi che sono ora arrivati» è «la trasformazione e la dissoluzione della t. in antropologia». Egli ritiene la filosofia hegeliana come «l’ultimo rifugio, l’ultimo supporto razionale della t.» e, più precisamente, ritiene lo «Spirito assoluto» di Hegel come «lo spirito evaso dalla t. e che ancora erra nella filosofia hegeliana a guisa di uno spettro». Nel contempo un altro filosofo, Kierkegaard, denuncia la mistificazione del sistema hegeliano. Tale sistema infatti ignorava secondo lui quel che c’è di più reale, e che proprio per questo non si lascia sistematizzare: la soggettività di quel che esiste («non c’è un sistema dell’esistenza»). Kierkegaard non intese operare direttamente come teologo ma come filosofo, e come tale aprì nuove strade alla t.: strade impervie quant’altre mai, determinate dalla coscienza dell’«assoluta differenza qualitativa» tra Dio e l’uomo, e dal carattere radicalmente «paradossale» del linguaggio della fede. L’eredità di Kierkegaard sarà raccolta nel 19° sec. dalla corrente della «t. dialettica» di cui si tratterà più avanti.
La t. costituitasi nel 19° sec., al seguito o al fianco dell’idealismo filosofico, presenta tutto un altro aspetto. Nel protestantesimo essa fu essenzialmente liberale, dominata dall’alta statura di Schleiermacher. Il suo proposito fu di riconciliare il cristianesimo con la cultura moderna. Egli intese evitare che «il nodo della storia» si sciogliesse lasciando andare «il cristianesimo con la barbarie e la scienza con l’incredulità». Individuando i suoi ideali interlocutori «nelle persone educate tra coloro che disprezzano la religione», egli dà alla sua t. un orientamento risolutamente apologetico. Nondimeno questa apologetica è tutt’altro che un’impresa razionalizzante, tesa a «provare» la fondatezza del cristianesimo. Schleiermacher vuole piuttosto manifestarne il valore educativo e culturale, in funzione stessa del mondo moderno, mettendo in risalto l’alto contributo del cristianesimo alla cultura. Egli concepisce il suo compito di teologo come quello di un «virtuoso» ermeneuta della religione, che interpreta con arte, per svelarne lo spirito e la virtù, il dato cristiano. Un simile trattamento presuppone la plasticità di tale dato, da considerarsi più che nella rigidità delle sue forme nella vivente ricezione in seno all’anima del credente. La t. di Schleiermacher, e con lei tutta la t. «liberale», è infatti una t. della coscienza e del sentimento religioso. Essa mantiene l’uomo nella consapevolezza della propria insufficienza, nella necessaria disposizione del suo spirito e del suo cuore ad aprirsi, nel «sentimento di assoluta dipendenza» che definisce la condizione più profonda del suo essere. La rivelazione pertanto, e con essa ogni realtà cristiana, non sono da considerare altro che nel quadro dell’esperienza umana, nel rapporto che le lega all’uomo, sia esso soggetto individuale o comunitario. Ancor più che di Dio, la t. parla in modo fondamentale dell’uomo: dell’uomo religioso, dell’uomo religioso cristiano, che vive nella comunità cristiana, ma sempre dell’uomo. Essa è una «scienza dello spirito» tra le altre, e in tal senso rappresenta un settore, una dimensione, per altro imprescrittibile, dell’antropologia. In quanto antropologia cristiana, la t. non potrebbe venir elaborata senza parlare del Cristo, e con lui di tutta la realtà storica che da lui deriva e a lui si riallaccia. Ma sia Cristo sia questa realtà tendono a essere considerate unicamente come simbolizzazione di ciò che, a proprio modo e secondo la propria intensità, è vissuto da ogni coscienza religiosa. In tal senso la t. entra piuttosto nel quadro della storia e della psicologia religiosa. Per più di un secolo il protestantesimo resterà sotto il segno di questa t. «liberale». Essa troverà echi, o varianti, nel modernismo cattolico. Altri teologi cattolici nel 19° sec., tuttavia, avevano tentato di far fronte in altro modo alle rivendicazioni della ragione e del soggettivismo. Günther (➔) e Hermes (➔), che cercarono di stabilire la totale razionalità dei dogmi, di fatto rischiano di ridurre il mistero di Dio a un Logos umano. In altra direzione, J. A. Möhler e la Scuola di Tubinga s’adoperarono a rivivificare la t. cattolica attraverso un ritorno alle fonti patristiche, introducendo inoltre categorie vitalistiche mutuate dalla cultura romantica dell’epoca.
Come più volte accade nel corso della storia, il rinnovamento della t. nel 20° sec. è avvenuto, anzitutto, attraverso un ritorno alle fonti: all’ispirazione dei riformatori in seno al protestantesimo, alla Scrittura e alla tradizione patristica in seno al cattolicesimo. Dopo la Prima guerra mondiale prende forma nella t. protestante una nuova corrente, quella t. dialettica che non tarderà a lasciare un segno in larghi settori del pensiero cristiano e della vita ecclesiale. Legata ai nomi di Barth, Bultmann, Gogarten, Brunner, questa nuova linea di ricerca si definisce, per gran parte, in opposizione a quella seguita dalla t. liberale. I suoi promotori parlano di «rivoluzione copernicana» in quanto il centro della t. non è più l’uomo ma Dio, e il discorso teologico viene interamente determinato dalla Parola trascendente della rivelazione, nell’atto stesso in cui essa si produce. Una t. rivolta così esclusivamente e sottomessa così interamente alla Parola di Dio, lungi dall’essere una t. d’evasione, si rese promotrice degli impegni più radicali. Essa non riteneva di dover portare immediatamente la sua attenzione sui problemi del mondo in quanto tali, ma si vedeva chiamata a rivendicare la Parola che la costituiva e con essa la totalità dell’esistenza di coloro che vi si erano votati. Orbene, quest’atteggiamento forniva una salvaguardia di fronte a ogni volontà di terreno asservimento, e il più notevole rappresentante di questa t., Barth, vi trovò il principio di una resistenza inflessibile al totalitarismo dello stato nazional-socialista. Nell’opuscolo Esistenza teologica ai nostri giorni, redatto nel 1933 (all’indomani della presa del potere da parte di Hitler) Barth afferma che il teologo non si deve mescolare in questioni politiche in quanto tali, neanche di politica ecclesiastica, ma deve restare sé stesso e testimoniare della «realtà» che egli serve e che non deve lasciarsi ipotecare da nessuno. «Nella particolare cura che gli è stata affidata, il teologo deve restare vigilante, uccello solitario sul tetto, e perciò sulla terra, ma sotto il cielo aperto, largamente e incondizionatamente aperto». Il teologo continuerebbe in tal modo il ruolo che fu proprio dei profeti. Mentre la t. protestante operava questo deciso ritorno alle fonti del profetismo, che la rendeva atta a combattere in Germania il neopaganesimo trionfante, la t. cattolica stava gradualmente uscendo dal torpore in cui l’aveva gettata la reazione antimodernista dell’inizio del secolo; ciò attraverso un ritorno alle «fonti» della fede, specialmente quelle scritturistiche e patristiche, ma anche con lo sforzo di ritrovare, al di là di una scolastica da manuali, la vera ispirazione dei grandi teologi medievali. I nomi di Congar, M.-D. Chenu, J. Daniélou, de Lubac, Balthasar sono particolarmente rappresentativi di questo rinnovamento che doveva largamente contribuire a render possibile l’opera del Concilio vaticano II. Da parte sua, nello stesso tempo, la t. ortodossa, attraverso uomini come Bulgakov e V.N. Losskij, faceva conoscere all’Occidente le ricchezze della tradizione orientale. La solidità di tale rinnovamento veniva rimessa in causa subito dopo la Seconda guerra mondiale. Il centro di gravità della t. si spostava di nuovo: la preoccupazione per l’uomo, con i suoi problemi, le sue speranze e i suoi progetti, catalizzava ben più che nel primo dopoguerra l’attenzione dei teologi. Questa preoccupazione appare chiaramente nella discussione del progetto bultmanniano di «demitizzazione» e di «interpretazione esistenziale» del Nuovo Testamento. Secondo Bultmann i differenti detti, racconti, «miti» della Scrittura devono essere interpretati in funzione delle strutture dell’esistenza umana, e nel quadro di quelle sole strutture essi trovano il loro vero senso. La filosofia, per lo meno quella che analizza queste strutture, assume un ruolo di importanza fondamentale per l’esegesi e per la t., anche se questo ruolo resta puramente strumentale, non potendo alcuna filosofia, in quanto tale, essere veicolo della Parola viva alla quale risponde la fede. La «comprensione» diventa così, per il teologo, una preoccupazione principale; anzi Bultmann sottolinea ancora la necessità di una «pre-comprensione» di quel che significano i documenti della fede, perché quel che dicono possa esser compreso e ricevuto. In altri termini, viene portata un’attenzione primaria sul soggetto che interroga e sul suo modo di ricevere la Parola della salvezza. La t. tende di nuovo a riavvicinarsi all’antropologia. Il suo oggetto diretto non è tanto Dio quanto l’uomo che crede, l’uomo che comprende la Parola.
Nell’opera di Bultmann e sotto il suo influsso, l’ermeneutica, cioè la teoria dell’interpretazione, dell’attualizzazione, dell’appropriazione, è chiamata a ricoprire un ruolo di capitale importanza. Essa tende, in un teologo come G. Ebeling, a confondersi più o meno con il procedimento teologico in quanto tale. O piuttosto, per Ebeling, la forma che la t. deve assumere nella nostra epoca è una forma ermeneutica. Una t. ermeneutica è una t. continuamente alla ricerca delle sue proprie strade. Essa, più che proporre un nuovo oggetto d’indagine – che ne farebbe come una nuova branca del sapere teologico a fianco della t. biblica, storica, dogmatica –, consiste in una certa maniera di muoversi tra questi differenti fatti, nella preoccupazione di reperire il loro significato e la loro rispettiva portata. La t. ermeneutica perciò si preoccupa del funzionamento del linguaggio, ma nella specifica preoccupazione di vederlo funzionare come linguaggio teologico. Dei due termini che costituiscono il concetto di teo-logia, la t. ermeneutica mette l’accento sul secondo, nella convinzione che il λόγος non è affatto estraneo al ϑεός, e anche che il perfetto Logos, la vera Parola, la Parola in senso pieno, è propria di Dio e di lui solo. L’uomo non diventa capace di vera parola se non sentendosi interpellare, in un modo o nell’altro, dalla Parola di Dio, nella quale e attraverso la quale tutte le cose trovano il loro principio e la loro realizzazione, cioè il loro senso. In questo modo di procedere la t. ermeneutica cerca di manifestare cosa sia parlare secondo verità, cioè esprimere qualcosa di veramente significante, e svelare chi è Dio.
Come la fede, di cui essa rende conto, la t. deve far fronte al fenomeno della secolarizzazione, quel fenomeno cioè secondo cui le realtà del mondo e della società tendono a stabilirsi in un’autonomia sempre più grande, rifiutando o ignorando ogni riferimento religioso. Sotto lo stimolo di tale situazione, certo non nuova ma sempre più generalizzata, la t. interroga una volta di più sé stessa, ritornando ai suoi principi e a ciò che fu sempre la sua giustificazione. Invece di considerare la secolarizzazione come una minaccia, essa ne fa, con uomini come Gogarten o H. Cox, uno dei temi privilegiati della sua riflessione; il che la porta a sottolineare come lo stabilirsi dell’uomo e del mondo su proprie basi solide e autonome s’accordi molto bene con la fede biblica che la t. ha la missione di formulare. Se il senso della dottrina della creazione è quello di «disilludere» la natura; se tutta la rivelazione biblica, affermando la sola santità di Dio, tende a liberare l’uomo dagli idoli che lo asserviscono; se essa culmina nell’opera del Cristo che ha fatto dell’uomo un «affrancato», erede del Regno, allora, lungi dall’opporsi alla fede di cui la t. rende conto, la secolarizzazione può apparire piuttosto come la conseguenza della fede, di cui la t. deve scoprire le radici giudaico-cristiane per garantire le condizioni necessarie per la sua continuazione correggendo le eventuali perversioni cui con il tempo è andata incontro. A ogni modo, superando il piano relativamente formale sul quale ci si è mossi, è necessario porsi nuove domande. E anzitutto, che ne è stato, esattamente, di questa secolarizzazione considerata come un dato di tutta evidenza? È vero che gli uomini d’oggi si muovono unicamente entro i limiti di un universo interamente razionale e profano? Soprattutto, il punto di vista secondo cui il mondo contemporaneo è immediatamente considerato in relazione, negativa, con la sfera religiosa, consente di comprendere in modo sufficiente il processo concreto ed infinitamente complesso della sua costituzione? E poi, il potere critico della fede cristiana, che vuol essere un fattore permanente di liberazione in rapporto agli idoli del mondo sempre pronti a risorgere, non deve forse giustificarsi, riscoprirsi incessantemente, esercitarsi, coltivarsi? La t. della secolarizzazione, dunque, deve sempre preoccuparsi di saper parlare di Dio. Ancora da questa preoccupazione è mossa quando, come t. della «morte di Dio» (G. Vahanian, W. Hamilton, P. Van Buren, Th. Altizer), adotta come punto di partenza la scomparsa di Dio dall’orizzonte della coscienza contemporanea. Questa t. reinveste, di fatto, nella figura di Gesù un significato assoluto, che corrisponde pur senza nominarlo a ciò che ha sempre evocato l’idea di Dio. In altri casi, la «morte» vuole esprimere il modo singolare del rapporto dell’uomo contemporaneo con Dio. La t. tenta di definire così un modo originale di parlare di ciò che è sempre stato il suo oggetto.
Un tipo particolarmente rappresentativo di t. riferita all’esperienza umana, aderente in qualche modo a questa esperienza e che, tuttavia, stimola l’uomo a più e ad altro che non a sé stesso, è la t. della cultura di P. Tillich. Secondo una delle idee fondamentali di Tillich, «come la religione è la sostanza della cultura, così la cultura è la forma della religione». La religione non è un settore particolare della realtà umana, ma è una delle sue dimensioni costitutive; e tuttavia la realtà umana non cessa mai d’esser messa radicalmente in discussione, nelle sue limitazioni, dalla religione, in quanto la religione è il rapporto intrattenuto con il senso ultimo di tutto ciò che è, la relazione implicitamente o esplicitamente stabilita con ciò che, in definitiva, interessa l’uomo (ultimate concern) e il centro che è al di là di lui stesso. La religione è pertanto ovunque si annunci una «preoccupazione estrema», ma quest’ultima non esce dall’«oblio» e non diventa veramente una realtà per noi, se non determinandosi in certe figure storiche. Tale è il significato delle religioni e, tra esse, del cristianesimo. Nel suo simbolo fondamentale, «Gesù in quanto Cristo», si è reso manifesto «l’essere nuovo», la realtà perfettamente compiuta. La t. ha il ruolo di contribuire a rivelare ciò che si potrebbe chiamare il fondo delle cose, e insieme di presentare il significato del cristianesimo nel concreto della realtà e di tutte le manifestazioni dell’esistenza umana. Suo metodo è quello della «correlazione». Esso consiste nello «spiegare il contenuto della fede cristiana per mezzo di questioni esistenziali e di risposte teologiche in mutua dipendenza». T. della mediazione, si potrebbe dire, con una espressione che aveva voluto esprimere il senso di un certo numero di saggi rappresentativi del sec. 19°. Come per molti uomini della sua generazione, la guerra del 1914-18 distrusse definitivamente nello spirito di Tillich parecchie delle illusioni alle quali aveva ceduto l’epoca precedente. L’essere non è dominato dal pensiero, l’esistenza non è identica all’essenza. La realtà non si costituisce e non si raggiunge se non attraverso rotture e crisi. E appunto di una rottura e di una crisi radicale il cristianesimo, il cui segno distintivo è quello della croce, rende testimonianza. Interprete di questo segno della croce, la t. fa vedere come, superando la singolarità della sua esistenza limitata, Gesù si rivela come il Cristo e permette alla potenza dell’essere nuovo, di cui egli è portatore, di far risplendere la sua luce. Presa essa stessa in questo movimento, la t. consiste in definitiva nell’attraversare le differenti espressioni della cultura umana, e i simboli propri del cristianesimo, per negarne la troppo stretta particolarità e prepararsi così ad accogliere la realtà ultima che cerca d’esprimersi attraverso di essi.
L’ultimo trentennio del Novecento è stato caratterizzato dall’accoglimento del Concilio vaticano II e dallo sviluppo dei suoi orientamenti metodologici e contenutistici, soprattutto in antropologia, ecclesiologia, cristologia, mariologia, morale. Argomenti come la natura e la missione della Chiesa, l’autorità del magistero, il ministero del vescovo di Roma, il significato dell’incarnazione, la cooperazione di Maria al mistero di Cristo, la presenza dello Spirito Santo, la morale sessuale, la bioetica, il dialogo con le culture, la rivalutazione della donna rimangono al centro del dibattito teologico, a cui hanno contribuito teologi come Rahner, J. Ratzinger, B. Häring, E. Schillebeeckx, Küng, W. Kasper. Semplificando, si possono ridurre a cinque gli ambiti di sviluppo della t. cattolica della seconda metà del Novecento. Il primo consiste in una rinnovata considerazione della molteplicità delle tradizioni liturgiche, giuridiche, teologiche e spirituali non latine che sono presenti all’interno della Chiesa e fanno parte del suo patrimonio. Il secondo ambito è quello del dialogo ecumenico con le altre tradizioni cristiane (delle antiche Chiese d’Oriente, di quelle ortodosse, dell’anglicanesimo, del protestantesimo e di altre comunità cristiane). Il terzo ambito è rappresentato dal dialogo interreligioso e dalla presenza sempre più avvertita delle altre credenze religiose (ebraismo, islam, induismo, buddismo e religioni tradizionali delle varie parti del mondo), al punto che è sorta una nuova disciplina, chiamata t. delle religioni, anticipata nel 1973 da un trattato così intitolato di V. Boublik. Cristologia, ecclesiologia, t. dei sacramenti, ma anche antropologia culturale, storia e filosofia delle religioni sono alcuni degli aspetti implicati in questa t., che presenta posizioni molto articolate, ma riducibili fondamentalmente a tre: atteggiamento esclusivista, propugnato, per es., da Barth, che considera la rivelazione cristiana come l’unica assolutamente vera, rifiutando come superstizioni perniciose le altre religioni; atteggiamento inclusivista, tenuto dal Concilio vaticano II (cfr. Lumen gentium 16, Ad gentes 7, Gaudium et spes 22), che, confermando l’universalità del mistero di Cristo, è più positivo nei confronti delle altre religioni, per cui un’eventuale presenza di fede e di grazia al di fuori del cristianesimo attingerebbe dal mistero pasquale di Cristo la propria efficacia salvifica; atteggiamento pluralista, tenuto dai cosiddetti teologi relativisti, che considerano tutte le religioni legittime mediazioni salvifiche per i propri fedeli. Il documento della Commissione teologica internazionale su Il cristianesimo e le religioni (1997) e quindi nel 2000 la dichiarazione Dominus Iesus hanno riconfermato la posizione del Concilio vaticano II, ritenendo Gesù l’evento costitutivo e originario di ogni mediazione salvifica dentro il cristianesimo e fuori da esso. Il quarto ambito riguarda il tema dell’inculturazione, che indica l’urgenza del radicamento del messaggio cristiano in una determinata cultura o in un determinato contesto, in modo che questa cultura o questo contesto possano riesprimere e sperimentare in modo originale e autenticamente salvifico il vangelo di Gesù Cristo. Nel concetto di inculturazione si sovrappongono diverse istanze relative all’unità e all’universalità del cristianesimo: in partic., superare l’identificazione del cristianesimo con la sua veste occidentale ed europea o con espressioni tradizionali, linguistiche e strutturali troppo legate a epoche e forme di pensiero superate e scomparse, ed esprimere il cristianesimo con elementi delle diverse culture o delle nuove espressioni culturali. Tutto questo riguarda la liturgia, il linguaggio religioso e teologico, le forme sociali, economiche e politiche, ecc. Sul tema dell’inculturazione vanno ricordate l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI, l’enciclica Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo II e l’istruzione La liturgia romana e l’inculturazione (1994) della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. L’inculturazione o la contestualizzazione del vangelo obbediscono a precisi criteri teologici, che sono: quello cristologico, che vede nell’incarnazione di Cristo il modello di ogni inculturazione; quello ecclesiologico, che considera la Chiesa locale l’agente e la norma di ogni inculturazione; quello antropologico, che vede nella salvezza e nella promozione dell’uomo e della donna secondo particolari contesti culturali la verifica e la prova di ogni autentica inculturazione. Negli ultimi anni del Novecento si sono moltiplicate le t. inculturate. Nel contesto asiatico, per es., la t. indiana, attenta al dialogo con l’induismo (si deve ricordare l’opera pionieristica di J. Monchanin, S. Abhishiktananda e B. Griffiths, continuata da D. S. Amalorpavadass e R. Panikkar) e all’impegno nella liberazione degli oppressi e degli emarginati (per es., in J. Webster). In contesto africano va registrato il sorgere, per es., di una cristologia africana, che sottolinea alcuni titoli di Gesù: capo e grande antenato (F. Kabasélé, B. Bujo, C. Nyamiti), guaritore (A. Shorter), maestro di iniziazione (A. T. Sanon), liberatore supremo (L. Magesa). Nel contesto latino-americano, è molto nota la t. della liberazione, che sottolinea la valenza pratica del vangelo di Gesù, come annuncio di libertà e come affermazione di giustizia sociale per i poveri e gli oppressi. Nell’America Settentrionale, oltre alla valorizzazione delle culture autoctone (si veda, per es., la presentazione di Gesù come Native American, così come viene vissuto dalle tribù cristianizzate del Canada, in A. Peelman), si stanno affermando quella che viene chiamata la Latino-Theology (per es., in V. Elizondo), e cioè la riflessione teologica delle comunità cristiane provenienti dall’America Centrale e Meridionale, che intendono conservare i propri valori culturali e religiosi anche in un contesto diverso da quello delle loro radici, e una t. india, elaborata cioè nei contesti cristiani di ascendenza maya, azteca, inca. Un quinto ambito riguarda l’indagine storica su Gesù, che è approdata alla cosiddetta Third Quest (terza fase di ricerca), sviluppata da cattolici e protestanti. La prima, la cosiddetta Old Quest, era stata caratterizzata da una certa riluttanza a fondare sul Gesù storico il kerigma della prima comunità cristiana; così, per es., soprattutto R. Bultmann, rigettando il Gesù storico, sottolineava il significato esistenziale dell’appello del vangelo, con un atteggiamento, condiviso anche da Barth, nel quale si deve vedere una rivendicazione dell’assoluta trascendenza della rivelazione cristiana di fronte al fallimento della ricerca razionalistica sul Gesù storico. La seconda fase, la cosiddetta New Quest (per es., E. Käsemann), è stata caratterizzata da un ricupero significativo del Gesù storico come fondatore del cristianesimo e dall’elaborazione dei cosiddetti criteri di storicità. La terza, la Third Quest, iniziata negli anni Novanta, ha sottolineato sempre di più la dimensione storica di Gesù, ampliando la conoscenza e la valorizzazione del contesto ebraico attraverso le scoperte archeologiche e papirologiche e le nuove acquisizioni della letteratura comparata (per es., R. Burridge) registrate alla fine del Novecento. Ma questo sintetico panorama sarebbe incompleto se non si accennasse al cristocentrismo come a una delle chiavi interpretative più efficaci sia del Concilio vaticano II sia della t. cattolica successiva.
I percorsi della t. protestante della fine del Novecento non si discostano molto da quelli della t. cattolica. Dopo le grandi figure di Barth, Bultmann, Tillich e Bonhoeffer, si sono affermati i nomi di W. Pannenberg e Moltmann (➔). Contro il soggettivismo bultmanniano Pannenberg ha evidenziato l’intrinseca struttura storica della rivelazione biblica e, di conseguenza, la sua universalità salvifica. È quindi il Gesù storico, con l’evento cardine della sua risurrezione, il centro e l’origine di ogni cristologia e di ogni significato esistenziale del kerigma cristiano. Moltmann, dopo aver proposto tre diverse chiavi di lettura dell’evento cristiano (quella escatologica della speranza, quella salvifica della passione, e quella pneumatologica o messianica), ha sviluppato la sua t. messianica, passando dalla cristologia metafisica dell’antichità e dalla cristologia storica della modernità alla cristologia postmoderna, la quale situa ecologicamente la storia umana nel contesto della natura. In questa nuova ottica, particolare attenzione viene dedicata alla corporeità di Cristo e al significato che essa assume per la natura terrena, dato che la corporeità è il punto d’intersezione esistenziale fra storia e natura dell’uomo. Anche nella t. protestante contemporanea, come in quella cattolica, è molto viva la preoccupazione dell’inculturazione del messaggio cristiano. Non è poi irrilevante, sia nella t. cattolica sia in quella protestante, la t. femminista, una corrente di non facile decifrazione; essa infatti comprende studiose che s’inseriscono all’interno della tradizione biblica e cristiana (come R. Radford Ruether, L. Russell, P. Trible, E. Schüssler Fiorenza, E. Moltmann Wendel) e altre che occupano uno spazio dichiaratamente postcristiano o acristiano (come M. Daly). Secondo le femministe, l’emarginazione e l’invisibilità delle donne nella realtà teologica ed ecclesiale è dovuta alla predominanza dei simboli maschili presenti nella tradizione cristiana. Per questo, per es., Schüssler Fiorenza ha proposto un’ermeneutica critica femminista che, a partire dai testi patriarcali, ricostruisca al femminile le origini cristiane. Anche per la religiosa cattolica E. A. Johnson è necessario oggi nominare e immaginare il Dio trinitario in termini di esperienza femminile.