TEOLOGIA.
– La crisi della teologia. Storia ‘sacra’ e storia ‘umana’. La ‘svolta linguistica’. Il Concilio Vaticano II. Bibliografia
La crisi della teologia. – Il termine teologia, nel significato attuale, come sapere ‘scientifico’ sull’esperienza della fede cristiana, nasce agli inizi del 13° sec. in connessione con la fondazione delle università e l’influenza dell’aristotelismo. Ma una ‘riflessione’, ossia un sapere riflesso di secondo grado, accompagna da sempre l’esperienza cristiana, a partire dal primo scrittore del Nuovo Testamento, Paolo di Tarso, che si avvaleva dell’ermeneutica rabbinica nell’interpretazione dell’Antico Testamento riferendola alla fede cristiana. Nota infatti giustamente Gerhard Ebeling che la t. si sviluppa dall’incontro della fede con il pensiero, perché «la fede a partire da se stessa spinge alla comprensione, in maniera adeguata alla situazione del comprendere» (Theologie (I), Religion in Geschichte und Gegenwart, 6° vol., 19623, p. 760, corsivo nostro). Non che la fede non contenga già un pensare, ma proprio perché essa contiene dentro di sé e da sempre una comprensione della realtà, perché è un ‘sapere’ di Dio e dell’uomo e delle cose, questa comprensione, raffrontandosi con le altre che segnano l’esistenza umana nella sua determinata concretezza storica, spinge a una comprensione ulteriore, creando un nuovo equilibrio interiore dello spirito umano. E proprio qui, in questo dinamismo interiore della fede, sta la ragione di un sempre ricorrente mutamento che scuote in determinati periodi storici la teologia. La ‘situazione del comprendere’ è infatti sempre storicamente determinata, nello spazio e nel tempo. A ogni mutamento dell’orizzonte storico della comprensione si ha quindi la messa in questione, la crisi, del precedente equilibrio teologico. Sta alla sensibilità (e alla competenza) degli storici individuare i successivi punti di crisi: passaggio dal rifiuto di questo mondo alla sua accettazione (Franz Camille Overbeck, Hans Blumenberg); ellenizzazione del dogma, che può essere interpretata negativamente (Adolf Harnack) o positivamente (Alois Grillmeier, Joseph Ratzinger); introduzione dell’aristotelismo nel 12°-13° sec.; t. nominalistica (Blumenberg); introduzione del metodo storico critico; Illuminismo; postilluminismo e così via. Un fattore di crisi resta inoltre inerente sempre alla t. come tale. Jules Lebreton negli anni Venti del secolo scorso scrisse un memorabile articolo sull’argomento pubblicato in due parti (Le désaccord de la foi populaire et de la théologie savante dans l’Église chrétienne du IIIe siècle, «Revue d’histoire ecclésiastique», 1923, 19, pp. 481-506, e 1924, 20, pp. 5-37). Appoggiandosi, ma non soltanto, a Clemente Alessandrino e a Origene, Lebreton registrava un distacco congenito alla riflessione teologica in quanto tale rispetto al comune sentire dei cristiani che restano soddisfatti della loro semplice adesione alla fede. Persino Tertulliano avvertiva il sospetto dei simplices e degli idiotae davanti alle sue speculazioni sulla Trinità. La t. mette quindi sempre in crisi e a sua volta è messa in crisi da percezioni nuove del pensiero umano.
Il termine crisi (dal greco krìnein, separare, giudicare, scegliere, discernere) non è da parte sua un termine innocente. Applicato a un processo storico, trova il suo uso originario nel Corpus hippocraticum, dove indica il punto di svolta di una malattia che può condurre alla guarigione, ma anche alla catastrofe. A giudizio di Reinhart Koselleck (2004), applicato alla storia, il termine, dopo il 1780 circa, in Occidente indica «una nuova esperienza del tempo, fattore e indicatore di un rivolgimento epocale», con la nota tuttavia che «esso resta talmente poco chiaro e complesso, come le emozioni che vi si legano» (p. 617). Chi parla di crisi deve quindi essere consapevole della carica di soggettività presente nel suo discorso. Nel campo della t. occorre poi ricordare che la proclamazione della crisi del pensiero teologico del tempo (la t. liberale dominante nelle Chiese protestanti alla fine dell’Ottocento) fu opera della t. dialettica di Karl Barth (depositata soprattutto nella seconda edizione del suo commento a L’epistola ai Romani, Der Römerbrief, 1922; ed. a cura di G. Miegge, 1962), non a caso denominata anche teologia della crisi, al cui programma aderirono teologi che poi presero strade diverse, persino opposte, come Rudolf Bultmann, Emil Brunner, Friedrich Gogarten. L’individuazione di una crisi ha quindi come suo presupposto una diversa esperienza del tempo che oppone i diversi soggetti e per questo genera un conflitto di interpretazioni.
Occorre tuttavia evitare di intendere questo processo storico del comprendere come sviluppo ascendente, in senso hegeliano o secondo il mito del continuo progresso. La comprensione teologica della fede nell’età patristica classica non è meno profonda e meno fondata della neoscolastica del 19° e 20° secolo. Ma occorre altresì evitare l’atteggiamento opposto, rappresentato, per es., da Overbeck (Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie, 1873, 19032; trad. it. della seconda edizione Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, 2000). Egli vedeva nella t. scientifica una smentita della natura originaria del cristianesimo. È la natura del sapere scientifico – come anche la t., nella misura in cui accetta una metodologia radicalmente storica, deve oggi essere – che è a suo avviso incompatibile con il cristianesimo. Il cristianesimo originario infatti per Overbeck consiste essenzialmente nell’attesa del ritorno di Gesù e della fine imminente del mondo, con una radicale negazione del mondo stesso. Esso è rappresentato dagli scritti del Nuovo Testamento e in qualche misura dei Padri apostolici. Con il ritardo della parusia il cristianesimo cercherà invece di convivere con il mondo, a prezzo di rinnegare sé stesso. Per reagire a questa corruzione del cristianesimo, è sorto il monachesimo e, per tutto il Medio Evo, si è potuta avere l’illusione che, grazie all’egemonia del pensiero monastico, il cristianesimo potesse ancora vivere. Questa illusione non è più possibile, una volta che la ricerca storica critica ha svelato in maniera inequivocabile che il cristianesimo non è sorto così com’è adesso. Il compito che si proponeva Overbeck era appunto quello di smascherare questa illusione della t., che non aveva più alcun «carattere cristiano». Il cristianesimo «si è dotato di una teologia solo quando esso si è voluto rendere accettabile in un mondo che da esso in realtà viene negato». La t. è allora solo un elemento della mondanizzazione (Verweltichung) del cristianesimo. Essa non fa altro che soppiantare la religione di fede (Glaubensreligion) con una religione del pensiero (Denkreligion) e una religione dei dotti (Gelehrtenreligion). La posizione di Overbeck si giustifica tuttavia solo sulla base di una comprensione preconcetta del cristianesimo originario, il cui carattere distintivo viene identificato con la negazione del mondo. Ma con quale diritto si può fare, per es., del rapporto personale con il Cristo crocifisso e risorto, un dato secondario e non centrale del cristianesimo di Paolo? (cfr. A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, 1954). La negazione di questo mondo, che certamente in Paolo esiste, è elemento secondario o principale del suo cristianesimo? E, in ultima analisi, è lo stesso rapporto credente con il Cristo sempre presente nella storia che genererà spesso t. che elaboreranno un rapporto positivo con questo mondo.
I fattori della crisi delle t. cristiane nel nostro tempo possono essere ricondotti a tre fenomeni che hanno segnato la riflessione teologica nel Novecento appena trascorso. I primi due toccano in diversa misura le varie Chiese cristiane: cattolica, ortodossa, protestante; il terzo tocca principalmente la Chiesa cattolica. Ci si riferisce alla ‘secolarizzazione’ della storia, alla svolta linguistica, al rivolgimento dottrinale operato nel Concilio Vaticano II.
Storia ‘sacra’ e storia ‘umana’. – Nel 1566 Jean Bodin scriveva: «Ci sono tre generi di storia, cioè di una narrazione vera: umano, naturale, divino. Il primo riguarda l’uomo, il secondo la natura, il terzo il Padre della natura. Il primo spiega le azioni dell’uomo che conduce la sua vita in società; il secondo deduce dall’ultimo Principio le cause poste nella natura e i loro progressi; l’ultimo osserva la forza riunita in sé e il potere di Dio potentissimo e degli animi immortali. Ne nasce un triplice assenso: probabile, necessario, religioso. Il primo oppone il turpe all’onesto; il secondo il vero al falso, il terzo la pietà all’empietà» (Methodus ad facilem historiarum cognitionem, pp. 9-10). Questo testo come tale meriterebbe un’esegesi attenta. Colpisce anzitutto che la verità, dapprima attribuita a ogni narrazione storica, sia poi confinata al dominio delle scienze naturali. Ma a noi interessa un’altra osservazione: in Bodin per la prima volta la storia umana viene distinta costitutivamente dalla storia del cristianesimo, fatto, questo, sconosciuto prima di lui (cfr. A. Klempt, Die Säkularisierung der universalhistorischen Auffassung. Zum Wandel des Geschichtsdenkens im 16. und 17. Jahrhundert, 1960). A Bodin non sembrava quindi possibile una storia universale in cui i dati della storia umana in quanto tale, dalle date dei vari avvenimenti alla spiegazione delle varie vicende umane, venissero semplicemente dettati dalla tradizione biblica ebraico-cristiana. Certo, egli scriveva a ridosso della guerra civile che in Francia opponeva cattolici e ugonotti, ma la sua intuizione andava al di là dello schema confessionale e stava nel sottrarre la storia condotta dagli uomini alla storia ‘sacra’. Ma proprio così la sua visione costituì il primo passo di un processo secolare che porterà anche la storia ‘sacra’ a essere considerata come storia ‘umana’: le stesse fonti bibliche saranno studiate come le altre fonti, con metodo critico, e molte certezze verranno a cadere. Le t. protestanti faranno meno fatica ad assimilare questa introduzione della storia al loro interno. La
t. cattolica invece, a partire dalla crisi modernista degli inizi del Novecento, lo farà con difficoltà e progressivamente, in un processo che non può considerarsi ancora compiuto, anche se con il Concilio Vaticano II è stata superata la soglia di un accordo di principio. E la t. ortodossa si mostra ancora più restia di quella cattolica. Giacché un’assimilazione piena della storia umana tout court come dimensione dell’esperienza credente, senza la creazione di una storia ‘sacra’ accanto a essa, comporta domande che attendono ancora una risposta convincente: come concepire l’intervento di Dio nella storia ‘umana’ raccontata dalla Scrittura e vissuta dai credenti? Che ne è della fede nei miracoli? Che ne è della visione della storia presente nelle Scritture ebraico-cristiane (inizio dell’universo e risurrezione finale)? Esiste una risposta a queste domande che non sia quella della demitizzazione, intesa come eliminazione della dimensione oggettiva delle affermazioni bibliche a favore del loro significato esistenziale? Il Barth dialettico immagina l’evento della rivelazione di Dio come negazione e giudizio sulla storia umana, e la colloca in una Urgeschichte, in una storia originaria che non tocca se non come tangente la storia degli uomini. Bultmann pone la fede come inizio di una ‘esistenza escatologica’ che mette la parola fine al limite costitutivo dell’esistenza umana nel tempo (Der Begriff der Offenbarung im Neuen Testament, 1929). Wolfhart Pannenberg (Dogmatische Thesen zur Lehre von der Offenbarung, in Offenbarung als Geschichte, 19632, pp. 91-149), più recentemente, identifica storia e rivelazione ponendo tuttavia all’interno della storia anticipazioni della rivelazione compiuta. E questi sono solo alcuni esempi tra i tanti. I cattolici sono invece più sensibili a una ‘t. della storia’ che lascia apparire nella storia la ‘forma’ (Hans Urs von Balthasar) della presenza di Dio, forma oggettiva, percepita nella sua evidenza dai credenti. In questa visuale la posizione di Pannenberg appare quasi cattolica. Ma resta, all’interno della t. cattolica, una spaccatura tra coloro che accettano come dato acquisito l’approccio storico-critico alla Scrittura e coloro che invece ne diffidano perché esso non sarebbe in grado di cogliere tutta la ricchezza contenuta nel messaggio biblico. Resta comunque uno iato tra t. ‘dotta’ e fede dei credenti comuni. Soprattutto tra i cattolici la separazione è profonda.
La ‘svolta linguistica’. – Uno dei fenomeni che più han no segnato la cultura del Novecento è la cosiddetta svol ta linguistica. Con questo termine il filosofo statunitense Richard Rorty (The linguistic turn. Recent essays in philosophical method, 1967; trad. it. 1994) ha indicato il passaggio dal privilegio dato all’analisi delle condizioni soggettive del pensare (Immanuel Kant) a quello dato all’analisi del linguaggio come condizione del pensare stesso (Ludwig Wittgenstein). La t. è toccata da questa svolta nella misura in cui sono dichiarate prive di senso tutte le affermazioni assolute, perché prive di riscontro nei ‘fatti’, in quello che accade. Alla fine della sua famosa conferenza sull’etica, Wittgenstein tuttavia scriveva: «L’etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo» (Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, 1967, p. 18). Il linguaggio ‘logicamente sensato’ (che si riferisce a ‘fatti’) non esaurisce quindi le possibilità di altri linguaggi autenticamente umani e degni di attenzione sui quali lo ‘scienziato’ Wittgenstein non osa pronunciarsi. La complessità dei problemi legati alla distinzione troppo netta tra senso e nonsenso porta lo stesso Wittgenstein, nella sua fase più matura, a mostrare come non si possa dare una lettura del linguaggio come un tutto, giacché il linguaggio umano è un insieme di espressioni che svolgono funzioni molto diverse dipendentemente dalle rispettive pratiche, con regole che non possono essere fissate una volta per tutte (i ‘giochi linguistici’). Comunque la svolta linguistica sta a significare che non esiste una mathesis, un’ontologia prima del pensiero e della verità comune a tutti i linguaggi. Nella situazione precedente della comprensione umana la t. poteva richiamarsi a una philosophia perennis, l’espressione coniata da Agostino Steuco nel Cinquecento per indicare l’unica saggezza presente nei vari filosofi e mostrarne l’accordo con la religione cristiana. Quel richiamo comportava per il teologo, nel rapportarsi tra fede e pensiero, il privilegio per la filosofia, sia pure depurata dai suoi presunti errori. La situazione attuale è mutata proprio per la collocazione dell’istanza veritativa. La filosofia è oramai solo un percorso accanto agli altri per raggiungere la verità, che viene sempre ricercata, in maniera indeducibile da principi esterni, anche nei linguaggi diversi da quello filosofico: nell’attività poetica, nell’attività scientifica e così via. E l’epistemologia che ogni scienziato presuppone per praticare la propria disciplina non accetta principi esterni alla sua pratica stessa. Quello che connota questa situazione è quindi l’autofondazione di ogni esperienza, del linguaggio in cui si articola, del sapere che ne deriva. La situazione per la t. diventa quasi disperata e non meraviglia che qualche teologo pensi che allora sia compito proprio della t., nella nuova situazione dello spirito, costruire da sé stessa una «filosofia prima» che valga a stabilire «le condizioni di possibilità, affinché affermazioni che pretendono di essere vere e pretese che vogliono essere universalmente valide, possano essere legittimate come razionalmente valide» (Verweyen 2001). Ma è impossibile ignorare lo spirito del tempo. La soluzione della crisi viene allora trovata solo ripartendo dal logos originario della narrazione cristiana per confrontarlo con gli altri logoi del linguaggio plurale, non per assorbirli, ma per stabilire il confronto reso possibile dalla narrazione cristiana stessa e non già preso a prestito dagli altri linguaggi. Sta qui il senso di una t. narrativa, dove l’argomentazione non va eliminata, come alcuni ingenuamente propongono, ma va anzi ristabilita su nuove basi, come fondazione di un nesso possibile tra vari logoi vicendevolmente irriducibili.
Il Concilio Vaticano II. – Nella sua allocuzione conciliare Gaudet Mater Ecclesia (1962), papa Giovanni XXIII ha indicato come peculiarità del magistero ecclesiastico la pastoralità, la indoles praesertim pastoralis, intesa come discernimento tra la sostanza viva della dottrina cristiana, collocata nella capacità di alimentare l’esperienza della fede, e il suo rivestimento letterario, debitore ogni volta del proprio tempo storico (Ruggieri 1987 e 2003). Letta sul lungo periodo, la posizione di Giovanni Roncalli chiama a un’inversione della tendenza che aveva trovato il suo punto di arrivo nell’enciclica Humani generis (1950) di papa Pio XII. Questa enciclica provò a opporre una resistenza al rinnovamento della t. cattolica, che oltre tutto cercava allora di rinnovarsi recuperando le ricchezze della tradizione storica della fede stessa. In Francia soprattutto vanno ricordati due centri di ricerca, i gesuiti di Lyon-Fourvière e i domenicani di Le Saulchoir a Parigi. Questi due centri di ricerca avevano messo in crisi l’esclusività della sintesi teologica dominante, preoccupata di legittimare le affermazioni dottrinali del magistero con il ricorso alla Scrittura, ai Padri e ai principi della filosofia neoscolastica, il primo con il recupero della tradizione patristica studiata criticamente, recupero che ha fino a oggi la sua espressione più alta nella collana Sources chrétiennes (Fouilloux 2011), il secondo con la liberazione del pensiero medievale, e di Tommaso d’Aquino soprattutto, dalle secche della t. scolastica. Il libro Une école de théologie. Le Saulchoir (1937) di Marie-Dominique Chenu, sviluppo di una prolusione accademica nel quale si spiegano gli orientamenti di una t. sensibile alle grandi lezioni del passato per un verso e aperta alle istanze nuove della vita della Chiesa per altro verso, era già stato condannato nel 1942 dal Sant’Uffizio. Il muro innalzato dalla Humani generis contro la pretesa legittimità di t. diverse (e in genere contro tutti i tentativi di scalfire il monolitismo dottrinale allora imperante, in campo sia teologico sia filosofico o scientifico) era tuttavia al tempo stesso tanto perentorio quanto fragile. La maturazione della coscienza teologica era infatti arrivata a un punto di non ritorno, tale da mettere definitivamente in crisi quella ‘papalizzazione’ della t. che si era affermata a partire dal Concilio di Trento ed era culminata nella pretesa romana di fare del magistero papale l’unico depositario del depositum fidei (Seckler 1988, pp. 207-33).
Il Concilio Vaticano II, accogliendo il messaggio di Giovanni XXIII sulla pastoralità come discernimento tra la sostanza viva del Vangelo e la sua espressione legata al tempo, causò quindi un vero e proprio éclatement teologico, difficile da valutare perché i suoi effetti continuano ancora oggi. Karl Rahner (Il significato permanente del Vaticano II, «Il regno. Documenti», 1980, 3, pp. 73-77) definì il Concilio «inizio di un inizio», indicazione quindi di un cammino ulteriore. Nel Concilio infatti, a detta di Rahner, la Chiesa ha «proclamato, anche se solo inizialmente e non chiaramente, il passaggio dalla chiesa occidentale alla chiesa universale in un modo che fino adesso è accaduto una sola ed unica volta, quando da chiesa dei giudei è diventata chiesa dei pagani». Sia vero o no il giudizio di Rahner, i teologi ci hanno provato. I risultati dell’esegesi protestante sono diventati di casa; l’apertura ecumenica ha favorito non solo lo studio dei Padri greci, ma soprattutto l’integrazione dell’ecclesiologia eucaristica orientale (vanno soprattutto ricordati, per il loro influsso sulla t. cattolica, il russo Nicolas Afanasieff e il greco Yannis Zizioulas); l’abbandono del privilegio dato alla mediazione filosofica concettuale ha dato origine a varie espressioni di t. ‘simbolica’, dove confluiscono riflessione sulle forme simboliche, liturgia, influssi della t. bizantina (Dionigi l’Areopagita) e analisi della letteratura mondiale (cfr. tra l’altro C.A. Bernard, Theologie symbolique, 1978; trad. it. 1981, ma soprattutto von Balthasar, Gloria, 7 voll., 1961-1969); nel Sud del mondo sono esplose le t. della liberazione e Nord e Sud del mondo hanno visto crescere l’ermeneutica al femminile della Bibbia e della Tradizione (cfr. il libro forse più rilevante di questa t. al femminile: E. Schüssler Fiorenza, In memory of her. A feminist theological reconstruction of christian origins, 1983; trad. it. 1990). Al tempo stesso i vari tentativi di reinterpretazione dei diversi aspetti del dogma sono stati oggetto di attenzione preoccupata della Congregazione per la dottrina della fede e nemmeno nomi illustri (da Eduard Schillebeeckx a Hans Küng) sono stati risparmiati, come non erano stati risparmiati in precedenza i teologi che maggiormente hanno influito nella redazione dei testi conciliari (da Yves-Marie-Joseph Congar a Henri-Marie de Lubac, da Chenu a John Courtney Murray a Rahner).
Questa continuazione dell’attività inquisitoriale va collocata dentro una precisa interpretazione dell’evento conciliare. Contro la novità epocale del Concilio affermata da Rahner, va registrato infatti anche l’atteggiamento contrario, espresso non solo nelle esasperazioni di Marcel François Lefebvre e del suo movimento scismatico che vede nel Vaticano II una rottura della tradizione, ma nel modo più autorevole da Ratzinger, ormai cardinale e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in Rapporto sulla fede(1985), famosa intervista resa a Vittorio Messori dove si mettono in luce i danni di coloro che, basandosi sullo spirito del Concilio contrapposto alla lettera, lo interpretano arbitrariamente. Un atteggiamento questo che in maniera più pacata è poi ripreso nel discorso tenuto da Ratzinger papa alla Curia romana il 22 dicembre 2005, dove, a quella che viene chiamata «ermeneutica della discontinuità e della rottura», egli ha contrapposto l’«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato». Il discorso in questi termini rischia tuttavia di volatilizzarsi nelle volute astratte del linguaggio, al quale solo un’effettiva storicizzazione del concilio può conferire concretezza (Melloni 2015). Richiamare infatti la continuità del soggetto Chiesa come dono di Dio è un’affermazione teologica scontata, che nessuno mette in discussione. Ma essa è talmente ‘teologica’ che vale anche nel caso della cosiddetta riforma gregoriana, del Concilio di Costanza, del Concilio di Trento, del Vaticano I e del Vaticano II. Parlare di continuità o discontinuità in questi casi non porta lontano, se non si identificano con i loro nomi propri i mutamenti intervenuti e il loro effettivo spessore. E in ogni caso, in questa situazione éclatée della t., va usato con circospezione anche il concetto di crisi, per il suo carico di soggettività. Come si ricordava sopra, l’individuazione di una crisi ha come presupposto una diversa esperienza del tempo che oppone i diversi soggetti e produce quindi un conflitto di interpretazioni.
L’ermeneutica ‘pastorale’ introdotta da Giovanni XXIII ha comunque prodotto un effettivo mutamento che ancora oggi non è possibile misurare. Certamente, con il richiamo dell’esigenza pastorale, come dato privilegiato del linguaggio dei pastori preoccupati soprattutto di alimentare la vita dei credenti, Giovanni XXIII implicitamente escludeva la papalizzazione della riflessione teologica e al tempo stesso richiamava questa, attraverso i suoi strumenti specifici, al fine comune: sostegno alla fede vissuta dal popolo credente. Si ristabiliva così in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la distinzione tomista del duplice magistero: il magistero della cattedra pastorale e il magistero della cattedra del maestro o dottore. Infatti, per Tommaso d’Aquino i doctores seu magistri vengono considerati, accanto ai vescovi, gli ‘architetti’ dell’edificio ecclesiale. E sono i doctores che correggono i doctores nel loro confronto comune per la ricerca sempre più adeguata della verità.
Dopo il magistero di Giovanni XXIII, l’altro esempio di un magistero ‘pastorale’ è quello di papa Francesco, nel 2013 tematizzato in maniera particolare nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Questo documento, analogamente alla Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII, costituisce lo statuto di un magistero ‘pastorale’ davanti al quale la riflessione teologica deve fare ancora i conti, per ricollocarsi nella nuova situazione della Chiesa e dello spirito del tempo. Del resto, già Melchor Cano nel 16° sec. pensava che il ritrovamento della verità nella Chiesa fosse compito comune dei vari luoghi/soggetti ecclesiali che, in maniera vicendevolmente irriducibile, ma organicamente connessi, permettono la penetrazione del Vangelo (Seckler 1988, pp. 171-206). Quello che è avvenuto con il Concilio Vaticano II impone allora un ripensamento della riflessione teologica, nei suoi metodi, ma ancora prima nella propria collocazione ecclesiale, ossia riposizionandosi davanti agli altri luoghi/soggetto: esegesi, concili, magistero, ricerca storica, riflessione filosofica e così via.
Bibliografia: G. Ruggieri, Appunti per una teologia in papa Roncalli, in Papa Giovanni, a cura di G. Alberigo, Roma-Bari 1987, pp. 245-71; M. Seckler, Teologia Scienza Chiesa. Saggi di teologia fondamentale, Brescia 1988 (in partic. i capp. Il significato ecclesiologico del sistema dei ‘loci theologici’, pp. 171-206; La teologia come scienza ecclesiale. Un modello romano, pp. 207-33); H. Verweyen, La parola definitiva di Dio, Brescia 2001, p. 218; G. Ruggieri, Esiste una teologia di papa Giovanni?, in Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, a cura della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, Gorle 2003, pp. 253-74; R. Koselleck, Krise, in Geschichtliche Grundbegriffe, hrsg. O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, 3° vol., Stuttgart 2004, p. 617; É. Fouilloux, La collection «Sources chrétiennes». Éditer les Pères de l’Église au XXe siècle, Paris 2011; A. Melloni, Postscriptum, in Storia del concilio Vaticano II, 5° vol., a cura di A. Melloni, Bologna 2015, pp. IX-XIX; G. Ruggieri, Evangelii gaudium nel solco aperto dal Vaticano II, in Misericordiae vultus, Istituto della Enciclopedia Italiana, in corso di stampa.