Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia della teologia del Novecento è caratterizzata dal confronto con una cultura segnata da un progressivo processo di secolarizzazione nel quale sempre meno spazio è concesso alla religione. Il rapporto tra religione e storia, tra cristianesimo e mondo moderno, tra fede e cultura umana, e il tentativo di mediare questi termini, è al centro della preoccupazione della cosiddetta “teologia liberale”, una corrente composita che raccoglie autori anche molto differenti tra loro e che si impone tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del nuovo secolo in ambito protestante. La svolta nella teologia novecentesca si ha con la pubblicazione del libro dello svizzero Karl Barth, L’Epistola ai Romani (1919-1922). Ha inizio la “teologia dialettica” o “della crisi”, che afferma l’assoluta trascendenza di Dio e la gratuità dell’azione salvifica di Cristo, cerca l’Assoluto solo nella Bibbia, non si preoccupa più di trovare compromessi tra storia e fede. Nel mondo cattolico, la svolta nella riflessione teologica si ha con il Concilio Vaticano II (1962-1965), che apre al confronto con la cultura moderna. In ambito ebraico, i problemi teologici trovano una nuova e drammatica formulazione alla luce della Shoah, la catastrofe per eccellenza che, in pieno Novecento e nel cuore dell’Europa, coinvolge in primo luogo gli ebrei e fa sorgere interrogativi intorno alla natura di Dio, al ruolo da lui svolto nella storia e alla sua stessa esistenza.
Teologia liberale
Hans Jonas
Il concetto di Dio dopo Auschwitz
Tuttavia accanto a queste obiezioni di carattere logico e ontologico al concetto di una onnipotenza divina, assoluta e illimitata, vi è anche un’obiezione di carattere teologico e genuinamente religioso. La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. [...] Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza. [...] infatti la presenza del male implica una libertà con autonomo potere di decisione anche nei confronti del proprio creatore; e oggi i termini con cui deve misurarsi la teologia ebraica sono l’esistenza e il successo del male quale oggetto della volontà umana e non più le disgrazie e le tribolazioni che provengono dalla cieca causalità naturale (Auschwitz e non più Lisbona). Solo con la creazione dal Nulla possiamo avere l’unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all’esistenza e all’autonomia di un mondo.
H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova, Il Melangolo, 1991
Martin Buber
Il dialogo
L’autentico dialogo e quindi ogni reale compimento della relazione interumana significa accettazione dell’alterità. Se due uomini si comunicano reciprocamente le loro opinioni totalmente diverse su un oggetto, ciascuno nell’intento di convincere il proprio partner dell’esattezza del proprio modo di vedere, nel senso dell’essere uomo si tratta di vedere se ciascuno intende l’altro qual egli è quindi, con ogni volontà d’influsso, lo accoglie e lo attesta nel suo “questo-essere-uomo”, nel suo “essere-cosí-costituito”. Il rigore e la profondità dell’individuazione umana, l’elementare alterità dell’altro è presa poi non semplicemente come necessario punto di partenza per la conoscenza, ma accettato da soggetto a soggetto. Volontà d’influsso poi non significa volontà o aspirazione di cambiare l’altro, di inculcargli la mia propria “esattezza”, ma aspirazione a lasciar sorgere e sviluppare ciò che è conosciuto come esatto, come giusto, come vero che proprio perciò deve essere installato anche nell’altro e ciò proprio attraverso il mio influsso conformemente alla forma dell’individuazione. A questa volontà è contrapposta la brama di utilizzazione da cui è posseduto “colui che propaganda” e “che suggerisce” nel suo rapporto con l’uomo come persiste nel suo rapporto alle cose e invero a cose con le quali egli non entrerà mai in relazione, anzi è zelante nel privarle del loro essere distanti e della loro autonomia. L’umanità e il genere umano divengono in incontri autentici. Qui l’uomo si apprende non semplicemente limitato dagli uomini, rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di integrazione, ma viene esaudito il proprio rapporto alla verità attraverso quello distinto, secondo l’individuazione, dell’altro, distinto per far sorgere e sviluppare un rapporto determinato alla stessa verità. Agli uomini è necessario e a essi concesso di attestarsi reciprocamente in autentici incontri nel loro essere individuale.
M. Buber, Separazione e relazione, in Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Milano, Marzorati, 1991
Karl Barth
La teologia
La parola di Dio come compito della teologia
La parola di Dio è il compito tanto necessario quanto impossibile della teologia. Questo è il risultato di quanto si è detto fino ad ora, e quanto si è detto fino ad ora è tutto ciò che ho da dire su questo tema. [...]E a questo proposito si deve considerare che la nostra professione è fatta in modo che di Dio solo Dio stesso può parlare. Il compito della teologia è la parola di Dio. Questo significa il sicuro scacco di ogni teologia e di ogni teologo. [...] Se è vero che dobbiamo andare per una qualche via, e anche che vale veramente la pena di essere schifiltosi e di non andare per la prima via che capita, è altrettanto vero che dobbiamo considerare la meta del nostro cammino: essa è che Dio stesso parli; non ci è permesso dunque di meravigliarci se dovunque, alla fine del nostro cammino, ci vien chiusa la bocca, anche se abbiamo fatto bene quello che dovevamo, anzi tanto più in questo caso.
K. Barth, Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia, Queriniana Editrice, 1976
“È possibile costruire una salvezza eterna sopra un fatto storico?”. In questo paradosso formulato dal filosofo danese Søren Kierkegaard è racchiuso un nodo decisivo incontrato in epoca contemporanea dalla teologia cristiana. Come poter concepire e cogliere l’eterno nel tempo? Come conciliare cristianesimo e storia, il primo termine riferentesi all’Assoluto e il secondo indicante il regno del relativo al quale gli uomini sono irrimediabilmente legati? L’affermazione di Kierkegaard pone in questione il significato del cristianesimo nella storia occidentale – caratterizzata da un progressivo processo di secolarizzazione nel quale sempre meno spazio è concesso alla religione, sacrificata in vario modo allo spirito del tempo. Con l’Illuminismo, per esempio, si assiste ad una riduzione del Vangelo a messaggio di carattere etico, quasi che il Figlio di Dio sia divenuto un semplice maestro di morale. Con l’idealismo di Hegel, la concretezza storica della figura di Gesù viene annullata per lasciare spazio a una intellettualizzazione della religione cristiana. In generale, il diffondersi delle filosofie storicistiche favorisce la rilettura di concetti come quello di Regno di Dio entro schemi intramondani. Parallelamente, nel XIX secolo, ricerche storico-critiche sempre più raffinate sui testi biblici mettono in crisi il millenario connubio di cristianesimo e storia. Il progresso di queste indagini alla ricerca della reale natura della predicazione di Cristo ha come conseguenza quella di relativizzare il messaggio evangelico, mettendone in risalto la natura sempre strettamente legata alle credenze della comunità protocristiana. Per esempio: se il concetto di Regno di Dio significa, per i primi cristiani, l’attesa di una catastrofe imminente, allora il fatto che il cristianesimo diventi chiesa storica dall’esistenza millenaria non ha fondamento nel Vangelo.
La teologia tra Otto e Novecento si trova in primo luogo a dover affrontare questa situazione di precarietà, e comunque a dialogare con una filosofia sempre più autonoma, quando non addirittura indirizzata verso approdi ateistici (Feuerbach, Marx, Nietzsche). In ambito protestante, la corrente dominante all’inizio del XX secolo è rappresentata dalla cosiddetta “teologia liberale”. Si tratta di una formula che raccoglie autori anche molto diversi gli uni dagli altri. Esemplare delle tendenze liberali in teologia risulta la vicenda di Ernst Troeltsch. La prospettiva storicistica di Troeltsch giunge a riconoscere la superiorità del cristianesimo attraverso una comparazione con le altre religioni universali: “Il cristianesimo è di fatto, fra le grandi religioni, la manifestazione più vigorosa e intensa della religiosità personalistica” (Assolutezza del cristianesimo, 1902). La fede in Dio, così come vissuta da Cristo, rappresenta la massima espressione storica di quanto di vero e buono è celato nell’interiorità dell’uomo. Troeltsch si propone inoltre di dimostrare la vitalità nella storia moderna delle forme sociologiche e politiche che si rifanno al cristianesimo. Egli risolve così il problema kierkegarardiano del rapporto tra eternità e tempo: il cristianesimo è innestato nel flusso della storia (essendo in ogni momento connesso a condizioni storiche determinate) e mantiene stretti legami con la modernità (il protestantesimo in particolare dimostra grande capacità di adattamento alle condizioni politico-sociali tipiche della civiltà borghese e capitalistica); è possibile pensare a una composizione tra lo storicismo e il cristianesimo, e dunque tra la cultura moderna e la religione di Gesù. Questo, però, può avvenire – secondo i critici della teologia liberale – solo annacquando e trasformando il messaggio cristiano, facendolo scendere a patti con il secolo, dimenticando che il perno della fede è la Parola di Dio contenuta nella Bibbia. Così come la considerazione comparativa alla quale Troeltsch sottopone il cristianesimo ha la conseguenza di accomunare indistintamente le varie religioni in nome della morale, e di portare a una forma di tolleranza relativistica e a una perdita di specificità del cristianesimo rispetto alle altre religioni.
Teologia della crisi
La svolta nella direzione di un cristianesimo meno conciliante e facile è legata al libro L’Epistola ai Romani (1919-1922), pubblicato dallo svizzero Karl Barth. Con questo libro ha inizio la cosiddetta “teologia dialettica” o “della crisi”. Essa accetta incondizionatamente il principio kierkegaardiano che presuppone la “infinita differenza qualitativa tra il tempo e l’eternità”, tra storia e religione, tra cultura umana e fede. Barth riporta in primo piano l’assoluta trascendenza di Dio e la gratuità dell’azione salvifica di Cristo con il suo Sacrificio. Egli prende di petto la tradizione liberale: se il fondamento della religione è nel soggetto, nella coscienza, nell’uomo, a che cosa servono i testi sacri? Non si perde, così, la specificità del cristianesimo rispetto alle altre religioni? Si tratta di una teologia suggestiva, scomoda e irrazionalistica: nella più genuina tradizione protestante – quella che, secondo Barth, era stata disattesa dalla teologia liberale – si cerca l’Assoluto nella Bibbia e solo nella Bibbia, e non più nella storia, nella morale, nella ragione, nel sentimento, nella soggettività umana ecc.
La teologia dialettica di Barth esprime efficacemente il senso di crisi e smarrimento attraversato dalla cultura europea all’indomani della Grande Guerra. In ciò, e nel comune riferimento a Kierkegaard, essa mostra qualche analogia con le filosofie esistenzialistiche nate in quello stesso frangente. In realtà, la “crisi” della quale Barth parla non è tanto legata a questo o quell’accadimento storico particolare. Si tratta, nelle intenzioni dell’autore, di denunciare non la crisi di un periodo storico, ma della storia tout court. Il termine “crisi” è da intendersi in un senso strettamente teologico, del tutto diverso da quello attribuitogli da coloro che, all’indomani della catastrofe rappresentata dalla prima guerra mondale, lo utilizzano per indicare una drammatica transizione da un periodo a un altro. La “crisi” non è un nodo interno al corso storico, ma piomba dall’alto e inchioda gli uomini irrimediabilmente peccatori.
Il confronto con Barth resta ineludibile per i teologi del Novecento – non solo protestanti. Ben presto, però, iniziano a prendere piede indirizzi critici verso questa teologia, che, spostando tutta l’attenzione su Dio e accentuandone la trascendenza, non lascia alla creatura margine di azione. Motivi tipici della teologia liberale, riguardanti l’uomo e la sua collocazione nel mondo, tornano a farsi sentire, venendo affrontati con nuovi strumenti culturali. Inizialmente vicino a Barth, Rudolf Bultmann imposta una propria personale riflessione rifacendosi alle categorie dell’esistenzialismo di Heidegger. Il suo nome è legato al concetto di demitizzazione, una modalità interpretativa che – svincolandosi dal rigido biblicismo di Barth – aiuti l’uomo moderno ad avvicinarsi al significato profondo dei testi sacri. In Paul Tillich – filosofo che, come Barth, è costretto a lasciare la cattedra universitaria in Germania all’avvento del nazismo – si assiste al tentativo di nuove sintesi tra cristianesimo e cultura moderna. La teologia di Tillich si confronta con la filosofia esistenzialistica, la psicanalisi e il marxismo e presta attenzione alla dimensione politica e ai rivolgimenti sociali del suo tempo. In Dietrich Bonhoeffer – che morirà impiccato a causa della sua partecipazione alla resistenza antinazista – la secolarizzazione viene interpretata come disposizione di Dio a lasciare autonomia ad un uomo “diventato adulto”.
Il cattolicesimo
In ambito cattolico, lo svolgimento della riflessione teologica rimane a lungo condizionato dai vincoli disciplinari e dottrinali dettati dalla Chiesa. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà incontrate a inizio Novecento dal modernismo, movimento portatore di istanze per taluni aspetti affini a quelle del protestantesimo liberale: animati dal proposito di far dialogare cristianesimo e pensiero contemporaneo, i modernisti vanno incontro a forti resistenze (quando non vere e proprie persecuzioni) da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Si pensi, per fare un altro esempio, al clima di sospetto in cui matura le proprie teorie il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, filosofo e scienziato che media tra religione e dottrine evoluzionistiche. Una svolta si ha con il papato di Giovanni XXIII, che apre nel 1962 il Concilio Vaticano II. Anche all’interno del mondo cattolico si sviluppano tentativi di confronto con la modernità al di fuori di un atteggiamento esclusivamente improntato ad una cieca difesa dei capisaldi della fede. Spinte in direzione di questo tipo di apertura vengono da teologi quali Hans Urs von Balthasar, che pure assumerà posizioni critiche nei confronti di alcune conclusioni conciliari. Karl Rahner tenta di ripensare la teologia facendo riferimento alla prospettiva antropocentrica della filosofia moderna, delineando un’immagine dell’uomo come intimamente predisposto all’ascolto della parola di Dio. Un altro protagonista del Concilio, Hans Küng (1928-), si distingue per le aperture ecumeniche al mondo protestante e l’atteggiamento critico maturato nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Altri autori (per esempio, Johann Baptist Metz), strutturano la loro teologia rivolgendola verso il futuro e tenendo conto della dimensione politica che caratterizza l’uomo contemporaneo, giungendo in tal senso a dialogare con la cultura marxista. Spunti di questo genere vengono recepiti e per certi versi radicalizzati dalla cosiddetta “teologia della liberazione”, un movimento composito, caratterizzato in primo luogo dal fatto di aver avuto un’origine extraeuropea – in America Latina – alla fine degli anni Sessanta: si tratta di un contesto segnato da povertà diffusa e da profonde disparità di condizioni e possibilità di vita. L’impegno dalla parte dei poveri e degli oppressi spinge i teologi della liberazione a schierarsi contro le dittature dei paesi nei quali vivono, e a non rifuggire, in taluni casi, dallo sposare istanze rivoluzionarie. Gli esponenti di questa corrente vengono tenuti sotto controllo quando non ostacolati nella loro opera dai settori conservatori della Chiesa.
Teologia ebraica
In ambito ebraico, la svolta nella riflessione teologica è segnata dal tragico evento della Shoah. La Shoah, la catastrofe per eccellenza che, in pieno Novecento e nel cuore dell’Europa, coinvolge in primo luogo gli ebrei e fa sorgere interrogativi intorno alla natura di Dio, al ruolo da lui svolto nella storia e alla sua stessa esistenza. Domande antiche quanto il libro di Giobbe (come può un Dio buono colpire il giusto e l’innocente?) si ripropongono con una urgenza e una drammaticità nuove: come poter credere ancora in un Dio provvidente, alla luce dello sterminio che ha visto vittime in primo luogo gli ebrei? Come poter ancora pensare agli ebrei come popolo eletto? Temi come la morte di Dio, il silenzio di Dio, l’abbandono dell’uomo al suo destino, si intrecciano con riflessioni sulla modernità che con le sue macchine tecnologiche e burocratiche e le sue ideologie ha reso possibile lo sterminio. Come esempio di queste tendenze, si possono ricordare i nomi di Elie Wiesel e di Hans Jonas. Il primo, nel resoconto della sua prigionia nei campi di concentramento (La notte , 1960), formula la domanda fondamentale (“Dov’era Dio ad Auschwitz?”) e lancia la sua protesta contro un Dio muto, assente e sleale nei confronti del suo popolo. Il filosofo Hans Jonas fornisce un chiaro esempio di come si riproponga il problema filosofico classico del male (la teodicea) alla luce della Shoah in una conferenza intitolata Il concetto di Dio dopo Auschwitz (1984). Se tradizionalmente – argomenta Jonas – a Dio si attribuivano bontà, onnipotenza e conoscibilità, questi tre attributi non possono più coesistere nella medesima Persona. Il Dio di Jonas è un Dio non più onnipotente, un Dio che cambia nella storia (così come cambia il concetto di alleanza con il Suo popolo), ritraendosi per lasciare progressivamente spazio di libera manovra all’uomo; questo spazio di libertà è la dimensione che può essere colmata anche dal male.