Teologie
Tra la fine del 20° e l'inizio del 21° sec. non ci sono state nuove acquisizioni capaci di sconvolgere il paesaggio teologico. Semmai si è consolidata una certa diversità dei rispettivi orizzonti continentali. Il quadro delle t. contemporanee, rispetto al 1995, potrebbe essere disegnato con gli stessi personaggi e con gli stessi movimenti di fondo, ma con variazioni di posizione: la migrazione della t. verso luoghi differenti da quelli tradizionali ha rallentato il suo ritmo; il 'risveglio' della dimensione religiosa ha invece conquistato altri spazi, in modo da mettere in crisi una certa 'teologia della secolarizzazione'; la riflessione ecumenica, tesa a una diversità riconciliata tra le Chiese, segna il passo, sopraffatta da ritorni 'identitari' all'interno delle varie confessioni; la t. al femminile ha conquistato ormai il suo posto e sempre più ha elaborato un'ermeneutica specifica e irriducibile; le varie t. contestuali e della liberazione hanno sposato, accanto alla causa dei poveri, quella dell'avvenire ecologico del pianeta; le t. dell'inculturazione vivono delle posizioni acquisite; il dialogo interreligioso produce un nuovo costume dell'incontro con gli altri, senza tuttavia aggiungere nuove prospettive teoriche; la riflessione sul rapporto tra il Vangelo cristiano e la società secolarizzata registra invece un recupero di posizioni che sembravano appartenere all'ideologia della cristianità, pur adeguandosi al nuovo contesto pluralistico e democratico. E, trasversalmente ai vari orizzonti ermeneutici e geografici, si ha un proliferare di ricerche all'interno delle varie discipline tradizionali (esegesi, storia delle dottrine cristiane, sistematica teologica) che, come dicevamo, non riesce a incidere a sufficienza per mutare il quadro. Stagnazione o stabilità? Non è facile giudicare, perché la sentenza dipende quasi totalmente da opzioni previe. Senza la pretesa di un'informazione globale, che copra tutti i settori, qui si accennerà pertanto ad alcuni nodi giudicati centrali: il pluralismo teologico; il problema apologetico; il problema del Gesù storico e della cristologia; il dialogo interreligioso; l'ecumenismo. La successione degli argomenti non corrisponde a una successione logica e l'ordine potrebbe essere anche cambiato.
Il pluralismo teologico
Il pluralismo teologico in quanto tale non è un dato nuovo. Come fenomeno è sempre esistito. Tuttavia dopo il Concilio Vaticano ii ha assunto aspetti nuovi, che non è stato facile decifrare. Le differenziazioni infatti, sempre più, non si concentrano su un determinato contenuto dottrinale, come era ancora avvenuto nella prima metà del Novecento (il problema del soprannaturale, la coscienza umana di Cristo, la natura della Chiesa ecc.). Il pluralismo verte piuttosto in misura sempre maggiore sugli orientamenti culturali di fondo e non ha una radice 'ecclesiologica'. Su questo presupposto della radice ecclesiologica del pluralismo si basava, invece, la valutazione che del fenomeno dava la Commissione teologica internazionale nel 1972: Unità della fede e pluralismo teologico (1974). Nell'introduzione al documento, J. Ratzinger riconduceva infatti il problema al Concilio stesso, giacché fu il Concilio, sottolineando il significato dell'ufficio episcopale in rapporto a quello di Pietro e a quello della liturgia autonoma nella Chiesa locale, a porre attenzione alle ecclesiae nella ecclesia. E, sempre secondo lui, l'affermato pluralismo possiede un ruolo decisivo per i rapporti tra le Chiese e le comunità separate. Infatti "il problema del rapporto tra chiesa universale e chiesa locale subì una modifica e un approfondimento decisivi: che grado di unità - si pensava - deve promuovere la chiesa affinché l'adesione all'unica chiesa non si riduca a frase vuota?".
Questa valutazione trent'anni dopo appare insufficiente. Nel pluralismo teologico attuale si riflettono infatti in misura crescente le conseguenze della 'svolta linguistica', di quella considerazione dei linguaggi umani che ne sottolinea l'irriducibilità. La svolta linguistica può essere fatta risalire al 1913, anno di pubblicazione del Cours de linguistique générale di F. de Saussure. Nel campo teologico questa svolta ha prodotto i suoi effetti pieni solo di recente, soprattutto attraverso la mediazione dell'ultimo L. Wittgenstein (1889-1951): non si può dare una lettura del linguaggio come un tutto, giacché il linguaggio umano è un insieme di espressioni che svolgono funzioni molto diverse dipendentemente dalle rispettive pratiche, con regole che non possono essere fissate una volta per tutte (i 'giochi linguistici'). Ma questo rende ormai impossibile costruire una mathesis universale, una spiegazione 'prima' che renda conto dei principi comuni a tutta la realtà. Per poter spiegare il senso di ciò che è avvenuto con la 'svolta linguistica', possiamo semplicemente citare il fatto che per alcuni teologi, a causa del rifiuto dell'ermeneutica contemporanea di postulare una mathesis universalis, può essere ormai solo compito della t. quello di delineare una 'filosofia prima'. Ma, al di là di questi propositi più o meno volontaristici di riaffidare alla t. il compito di una fondazione universale del sapere, vale il fatto della pluralità delle t. dovuta alla varietà dei contesti culturali e delle preoccupazioni pratiche dominanti in ognuno di essi. Si pone quindi in termini nuovi il problema dell'unità della fede, sempre più distinto da quello dell'unità della teologia. L'unità della fede viene cioè sempre più rimandata alla confessione e alla sua espressione liturgica e sempre meno identificata con le elaborazioni concettuali che la proclamazione e la testimonianza della fede generano nei differenti contesti vitali.
Il problema apologetico
Nella prima metà del Novecento, la t. cattolica fu scossa dalla problematica della fondazione 'razionale' della fede: se la fede, proprio nella sua dimensione di grazia e di dono dato da Dio all'uomo, resta tuttavia 'consentanea' alla ragione umana, occorre allora chiarire dove si collochi questa 'ragionevolezza'. Secondo l'apologetica che era stata elaborata contro i deisti e gli illuministi (Ruggieri 1987) questa ragionevolezza andava collocata nel fatto che la rivelazione storica di Dio è accompagnata da eventi straordinari, quali le profezie e i miracoli. Un'analisi spassionata di questi segni straordinari mostra che la rivelazione che a essi si accompagna non può avere un'origine umana. Questa conclusione 'razionale' permette che l'adesione a una rivelazione che eccede la capacità della ragione umana non sia cieca, ma appunto ragionevole.
Il maggiore critico di questa impostazione fu M. Blondel, il quale denunciò il carattere 'estrinsecistico' di un siffatto procedimento. Infatti esso risultava indifferente al contenuto stesso della rivelazione cristiana che restava estrinseco al dinamismo stesso dello spirito umano. Ma niente può entrare nell'uomo che non corrisponda a un suo bisogno di espansione (era questo il cosiddetto principio di immanenza blondeliano). Occorreva quindi mostrare nell'uomo un insoddisfatto desiderio del soprannaturale, la congruenza quindi della rivelazione con il dinamismo profondo dello spirito. E Blondel stesso ne offrì l'esempio già a partire dalla sua famosa tesi del 1893: L'action. Con questo suo lavoro, che intendeva essere puramente filosofico, egli cercò di mostrare la 'necessità' (che non voleva per altro attentare al carattere di 'grazia') della rivelazione del 'Dio che si dona', illuminandone la congruità con le esigenze dello spirito, proprio perché questo possa appagare sé stesso.
L'apologetica dell'immanenza, ripresa sotto varie forme, spesso in polemica vicendevole (come tra H. De Lubac e K. Rahner), accompagnata alla riformulazione del tomismo in chiave postkantiana (per es., con J. Maréchal), ha segnato la prima metà del Novecento. Nella seconda metà del secolo l'orizzonte è tuttavia profondamente mutato, ancora una volta, non solo con il recupero di temi propri della Patristica greca e della filosofia contemporanea, ma con l'apertura alle varie filosofie del linguaggio e alle varie ermeneutiche, determinate anche dai grandi mutamenti storici che hanno imposto una nuova collocazione alla presenza cristiana nella società. Anche se non del tutto, si uscì dal clima della restaurazione, polemica nei confronti della modernità e, più che di una difesa della razionalità della fede contro la ragione autonoma dell'uomo postkantiano, ci si preoccupò della comunicazione della fede. Sia pure con incertezze, si cercò di superare l'ermeneutica del limite umano, come punto di partenza obbligato della comunicazione della fede, quasi che la ragione della rivelazione stesse nel carattere limitato dell'uomo. E questo non già perché il limite venisse ignorato, ma perché la finitezza si poneva ormai nel comune sentire come orizzonte invalicabile e come valore. L'apologetica non è più la riflessione che porta alla fondazione razionale della fede di fronte a una ragione ignara dei propri limiti, ma la chiarificazione dell'ermeneutica che sta alla base di una prassi di comunicazione della fede stessa, nella sua rilevanza storica per le donne e gli uomini del proprio tempo. Il famoso e noto aforisma di J. Scheffler (A. Silesius) caratterizza bene questo atteggiamento: "La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce. A se stessa non bada, che tu la guardi non chiede" (Cherubinischer Wandersmann oder Geist-Reiche Sinn- und Schluss-Reime, 1675; trad. it. 1989, p. 156). Si rinuncia alla fondazione razionale (nel senso di una razionalità estrinseca alla pratica della fede) della rivelazione, ma si cerca di mettere in luce la specificità dell'agire cristiano in una cultura segnata dallo scambio intersoggettivo e simbolico. "Si rinunciò così alla fondazione di ragione, ma non al dibattito interno alla comunicazione attuale, che cerca di fondare le scelte per via argomentativa" (Ch. Duquoc, Theologie. vii. Réflexion théologique, in Catholicisme, 1996, t. xiv, pp. 1042-1099, p. 1081). Così si spiegano sia l'ermeneutica teologico-politica elaborata da J.B. Metz sia la stessa t. della liberazione: mettere in atto, a partire quindi dalla stessa prassi cristiana e non già da affermazioni astratte, la rilevanza della fede per il cammino dell'uomo verso la sua compiuta liberazione e riconciliazione.
Il panorama attuale non è tuttavia così univoco. Esiste ancora, per così dire, l'apologetica della fondazione. Non tutti accettano infatti la pluralità irriducibile degli 'ordini' di cui parlava B. Pascal e che la filosofia contemporanea del linguaggio ha ripreso a modo suo. Pascal, nella sua straordinaria esperienza di scienziato aperto alla problematica filosofica e dopo, a partire dalla famosa notte della conversione, sensibile alla logica profonda della fede, percepì il mutato orizzonte del pensiero che già si prefigurava nella modernità e la differenza radicale tra i vari registri di approccio alla realtà; quello delle scienze, quello dello spirito, quello della grazia: "Da tutti i corpi presi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è impossibile e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli spiriti non si potrebbe trarre un sol moto di vera carità: ciò è impossibile, di un altro ordine, soprannaturale" (B. Pascal, Pensées et opuscoles, éd. L. Brunschvicg, 1897, fr. 793).
Se già Pascal aveva prefigurato così il pluralismo degli approcci fondamentali alla realtà, riconciliabile solo nell'unità esistenziale della persona, la vicenda culturale del Novecento ha ulteriormente inasprito le differenze dei mondi vitali. Di fronte alla pluralità dei linguaggi e delle filosofie soggiacenti dovrà essa scommettersi nella sua 'nudità' (che possiede tuttavia il proprio linguaggio e la propria filosofia) o deve coprirsi e farsi forte di una razionalità 'universale'? Si innesta qui il messaggio della Fides et ratio, l'enciclica di Giovanni Paolo ii apparsa nel 1998. Essa si presenta come un grande inno al 'pensare filosofico' quale ricerca della verità ultima dell'esistenza, da distinguere per un verso dai vari sistemi filosofici, ma che per altro verso dà origine a un nucleo costante di verità (nr. 4). Il luogo di incontro tra fede e filosofia viene collocato nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto, scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano sconfinato della verità. In esso si "mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare" (nr. 23). Se a partire da quest'affermazione sembra allora che il problema sia quello dell'incontro di due 'sapienze' o, nei termini pascaliani, di due 'ordini', dentro un evento che è anche evento in cui si confrontano due linguaggi, di fatto più spesso il vero luogo di incontro che l'enciclica sembra delineare è quello delle verità filosofiche fondamentali dell'esistenza, del nucleo filosofico (cfr. soprattutto i nr. 83-84, che lo riassumono nell'istanza metafisica, 'mediazione privilegiata' della ricerca teologica; cfr. anche il nr. 97, sulla necessità della filosofia dell'essere). L'enciclica d'altra parte ribadisce come l'intelligenza della fede goda di una propria intelligibilità che la costituisce in autentico sapere (nr. 66). Il rapporto tra t. e filosofia viene anche posto all'insegna della circolarità, che presuppone ultimamente una prospettiva meno lineare di quella che vige tra una istanza incompiuta che viene dal basso e una risposta che cala dall'alto (nr. 73). Ma questi tratti non cambiano la direzione di fondo delle affermazioni dell'enciclica che legano la razionalità della fede all'istanza metafisica della filosofia dell'essere. Se è vero infatti che si affermano come arricchimento i dati della "filosofia del linguaggio" (nr. 91), e si accenna pure alle "varie forme e funzioni del linguaggio", l'enciclica riduce il sorgere delle "varie razionalità" alle conseguenze del dominio dato alla "ragione strumentale" (nr. 47). Per spiegare queste distonie dell'enciclica c'è la via facile del ricorso all'ipotesi di diverse redazioni del documento non ben unificate. Più corretto sembra invece assumerle come testimonianza eloquente di una transizione, di un passaggio da un vecchio status quaestionis a un altro.
Bisogna cioè constatare una fase di transizione, che è teologico-dottrinale, ma anche pratica. L'apologetica ultimamente riflette il cammino dell'uomo che cerca un fondamento alla propria identità. In essa si riflette una tendenza che non è limitata allà religiosa, ma all'identità dell'uomo tout-court, se è vero che nel corso del 20° sec. va in frantumi l'ideale ingenuo del possesso di un 'fondamento' universale e identico e immanente già alla singola esistenza umana. Non resta quindi che la via del confronto fra le varie identità, ultimo senso dell'apologetica (Schwartz, Krech 2004, p. 7). Nell'apologetica sia religiosa sia filosofica, ma anche nel più comune tentativo di render conto agli altri delle proprie scelte, si riflette cioè il disagio di ogni identità di fronte all'altro e il tentativo di giustificare la propria differenza. Questo disagio porta alcuni alla nostalgia verso una cultura che, almeno sul piano dei fondamenti ultimi del pensare, prometteva di saldare le differenze. È questa una tendenza che affiora soprattutto in alcune correnti della t. anglosassone (anche se non solo in essa) per le quali resta fondamentale per la fede mostrare la propria plausibilità dentro il contesto contemporaneo, ma partendo dalle esigenze razionali di plausibilità originate sostanzialmente al di fuori della pratica della fede, sotto l'implicito presupposto che la razionalità intrinseca a questa pratica non sia in grado di 'parlare' ad altri, non sia cioè comunicabile ad altri contesti vitali. Per cui non resta che incontrarsi in quella zona di confine che è rappresentata da una 'filosofia prima' (porti o non porti questo nome). Con una differenza fondamentale: che presso alcuni questa 'filosofia prima' non è prodotta dalla fede e per altri invece può essere raggiunta solo da essa (si vedano i due approcci complementari degli anglosassoni, quello di R. Trigg 1999 e di A. Plantinga 2000). Ma anche secondo parecchi rappresentanti della t. cattolica, soprattutto in Italia e Germania, spetterebbe alla t. 'fondamentale' il compito di delineare questa 'filosofia prima' che valga a stabilire "le condizioni di possibilità, affinché affermazioni che pretendono di essere vere e pretese che vogliono essere universalmente valide, possano essere legittimate come razionalmente valide" (H. Verweyen, Gottes letztes Wort: Grundriss der Fundamentaltheologie, 1991; trad. it. 2001, p. 218).
Tuttavia il disagio attuale non è soltanto teologico-dottrinale. Primariamente esso infatti va collocato nella crisi del diritto delle società occidentali, ben espressa in una delle formulazioni che J. Habermas ha pronunciato nel suo confronto con Ratzinger e che egli trae dal costituzionalista tedesco E.-W. Böckenförde: "la questione cioè se lo stato liberale, secolarizzato, viva di processi normativi che esso stesso non è in grado di garantire" (J. Ratzinger, J. Habermas, Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, in Zur Debatte, 1, 2004; trad. it. 2005, p. 41). Habermas per risolvere il problema non rimanda alla necessità di introdurre un fondamento metafisico o religioso allo Stato, ma all'accordo dei cittadini che fanno giocare dialetticamente le loro convinzioni, dove viene riservata una precisa funzione anche alle convinzioni religiose. Ma, da parte del teologo Ratzinger, si fa invece valere che nella tradizione dell'Occidente questo compito, di introdurre cioè quel 'fondamento' di cui l'uomo non è capace, resta una funzione della fede (con un ritorno quindi sostanziale alla prospettiva del 'limite', quale luogo di inserzione della rivelazione cristiana nell'uomo).
Il problema del Gesù storico e la cristologia
Si dirà dopo di quei problemi della riflessione cristologica che sorgono in rapporto al dialogo tra le religioni. Qui ci si limita ai riflessi che sulla riflessione cristologica esercita la riflessione recente sul Gesù storico. Con Gesù storico si intende la figura umana di Gesù di Nazareth accessibile agli strumenti dello storico contemporaneo. Dal Gesù storico, o semplicemente da 'Gesù', si distingue il Cristo professato nella fede, il Cristo così come è visto dalla comunità credente già all'interno del Nuovo Testamento. La questione sorse con la famosa pubblicazione dei frammenti di H.S. Reimarus a opera di G.E. Lessing (Fragmente eines Ungenannten, 1774-1778), nei quali si esprimeva la posizione radicale dello stesso Reimarus che attribuiva agli apostoli una falsificazione della dottrina di Gesù e un inganno riguardo alla sua presunta risurrezione. Attraverso le varianti che la questione assunse man mano lungo l'Ottocento ( che era segnato dalla fiducia nella ricostruzione storica di Gesù, liberato dalle sovrastrutture dogmatiche), nella prima metà del Novecento si era invece rafforzata una posizione scettica sulla possibilità di poter delineare i tratti del Gesù storico. Non solo, ma si considerava irrilevante questa conoscenza ai fini della fede. Secondo R. Bultmann è solo nella Parola predicata che gli uomini, con la decisione della fede, possono riconoscere la presenza del Risorto. Importante è conoscere il Cristo della fede, non quello della storia. Questa posizione fu rovesciata nel 1953 da una famosa conferenza di un discepolo di Bultmann, E. Käsemann (Das Problem des historischen Jesus): alla fede cristiana, pena la caduta nello spiritualismo fanatico, è essenziale la continuità tra il Cristo predicato e il Gesù storico; con gli attuali strumenti della ricerca storico-critica è d'altra parte possibile stabilire i tratti decisivi della figura del Gesù storico, quelli che non possono essere ascritti né alla comunità primitiva né all'ambiente religioso ebraico in cui Gesù ha operato. Si tratta di pochi tratti, ma sufficienti a ricostruire la pretesa del Gesù storico che poi viene interpretata in sostanziale continuità grazie alla fede in lui, come Signore che ancora agisce nella Chiesa. Più di recente ancora, questa posizione di Käsemann è stata giudicata insufficiente e riduttiva, perché partirebbe dal presupposto non dimostrato che ciò che Gesù eredita dal mondo ebraico per lo storico non sarebbe affidabile. Per es. J.P. Meier, in A marginal Jew: rethinking the historical Jesus (3 voll., 1991-2001; trad. it. 2001-2003), enumera diversi criteri per la conoscenza di Gesù. Ecco quelli fondamentali: a) l'imbarazzo della comunità primitiva, come nel caso del battesimo di Gesù; b) il criterio privilegiato da Käsemann, quello della discontinuità, di ciò che non può essere ricondotto né alla cultura del suo tempo, né alla fede della comunità primitiva; c) il criterio dell'attestazione molteplice in fonti indipendenti; d) il criterio della coerenza, che dipende dai primi tre: "altri detti e fatti di Gesù che sono ben congruenti con i preliminari 'dati fondamentali' stabiliti usando i nostri primi tre criteri hanno una buona probabilità di essere storici (per es., detti riguardanti la venuta del regno di Dio o dispute con avversari sull'osservanza della legge)" (1° vol., p. 171); e) il criterio del rifiuto e dell'esecuzione: sono autentici quei detti o fatti che possono spiegare il processo a Gesù e la sua crocifissione come 're dei giudei'.
Senza entrare qui nei dettagli e nelle varianti dei differenti interpreti, esiste un consenso attuale (quello della 'terza fase' del problema del Gesù storico, la third quest) sulla plausibilità di una ricostruzione della figura di Gesù a partire dalla sua continuità con il contesto umano di origine. Le varianti nella caratterizzazione sintetica di Gesù presso i vari autori sono tuttavia molteplici: profeta escatologico o maestro carismatico di saggezza eversiva, contadino ebreo dotato di saggezza cinica o filosofo cinico tout-court, pacifico rivoluzionario sociale o reinterprete radicale della Legge attorno al comandamento dell'amore, e altro ancora. Ci si può allora chiedere se la peculiarità della third quest ultimamente non significhi soltanto la continuità di Gesù con l'ambiente del suo tempo (cfr. Barbaglio 2002, che cita D. Marguerat). Il problema ritornerebbe allora nei termini essenziali posti da Käsemann. Giacché resterebbe pur sempre di sapere in che cosa sia consistita la singolarità di questo profeta, taumaturgo, maestro, tale da provocare la sua morte, e di fissare al tempo stesso i criteri che permettono di ravvisare la continuità o meno con l'immagine che se ne fecero le comunità protocristiane.
L'attenzione rivolta nei confronti della vicenda storica dell'uomo Gesù, affermatasi progressivamente nella seconda metà del 20° sec., faceva d'altra parte un tutt'uno con la particolare attenzione della t. alla storia, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. Non è un caso che sia sorta così la proposta di una 'cristologia dal basso' che capovolgesse la prospettiva della cristologia classica: non partire cioè dal Verbo che si incarna, ma risalire dal Cristo uomo alla comprensione del mistero della Parola di Dio che prende dimora in lui. Entravano quindi immediatamente in crisi quelle categorie con cui si era espressa la tradizione cristiana per comprendere la divinità e l'umanità dell'unico Gesù Cristo: natura, sostanza, persona. È entrata in discussione soprattutto la categoria della personalità umana: una volta che si abbandona il concetto metafisico di persona e la si identifica con la dimensione della libertà e della relazionalità, si può negare la personalità 'umana' del Dio-uomo? Cosa pensare allora dell'affermazione tradizionale dell'unica persona divina di Cristo come base di sussistenza dell'umanità di Gesù? O bisogna invece ritornare a quell'affermazione proprio come garanzia della piena libertà umana del Cristo? Ma anche in questo caso di un consenso della t. non si può parlare.
Il confronto fra le religioni
Il dialogo interreligioso non è una novità di questo trapasso di secolo. Senza voler qui esporre tutto il dibattito intervenuto nella seconda metà del Novecento, basterà ricordare anzitutto che tradizionalmente, per i cristiani, le altre religioni erano opera del demonio. Almeno a partire da Tertulliano, il cristianesimo soltanto vale come la 'vera religione'. Persino K. Barth, nella sua Die kirchliche Dogmatik (1° vol., 1932, 2° t., par. 17), cede alla tendenza comune che applica questa qualifica al cristianesimo. Per sottrarsi all'influsso del demonio - il pensiero è già in Paolo, ma poi andrà declinato in maniera diversa, ché per lui la conversione non costituiva l'ingresso in un'altra ' - occorreva abbandonare la religione degli avi e aderire all'unica vera religione. Solo pochissimi tra i cristiani - e qui è necessario ricordare almeno il Niccolò Cusano del De pace fidei (1453) - avevano una diversa percezione del significato di una religione storica. Che un'altra religione potesse cioè far parte, nella sua specificità determinata, dell'identità spirituale di una persona o di un gruppo umano, che fosse molto difficile - se non impossibile - abbandonare la religione per la quale avevano dato il sangue i propri padri (è questa una delle convinzioni del Cusano), era una prospettiva alla quale in genere i teologi non erano molto aperti. Stranamente a volte questa era una prospettiva più facile ai politiques, costretti a pensare più realisticamente dei teologi. Basterebbe da questo punto di vista confrontare da una parte quanto scrivevano sulla guerra contro i turchi teologi tra loro diversi come Erasmo da Rotterdam, M. Lutero e F. de Vitoria e dall'altra i consiglieri che hanno ispirato quel documento che è l'Epistola apologetica di Francesco i di Francia a Paolo iii nel 1543, dove invece si spiega perché i turchi non sono da combattere.
Sostanzialmente dopo la Seconda guerra mondiale, il mutamento più significativo, per una diversa valutazione del significato delle religioni storiche, fu dato dalla perdita della centralità del cristianesimo. La sostanziale impermeabilità, non soltanto dell'Islam, ma anche delle grandi religioni orientali, alla missione cristiana, ha convinto parecchi teologi, soprattutto in area anglosassone, ma in maniera teologicamente ancora più determinante in Asia, a superare ciò che essi chiamano l'esclusivismo (fuori del cristianesimo non si dà vera religione) e l'inclusivismo (tutto quanto di buono c'è nelle altre religioni può trovare il suo compimento solo all'interno del cristianesimo) della tradizionale t. del rapporto interreligioso: tutte le religioni sono storicamente una via di salvezza; la prospettiva della verità astratta va sostituita con quella della via concreta attraverso cui Dio salva gli uomini; all'orizzonte cristocentrico occorre preferire quello teocentrico. Il passaggio, per i cattolici, ma non senza influenza sulle t. protestanti, è stato segnato dal Concilio Vaticano ii con il decreto Nostra aetate e portato a compiutezza, a livello del magistero romano, nel pontificato di Giovanni Paolo ii. Si può così citare l'enciclica Redemptoris missio nr. 20: pur nella sottolineatura del nesso di ogni realtà salvifica con il Cristo e la Chiesa, si afferma che "è quindi vero che la realtà già in atto del Regno può trovarsi ugualmente al di là dei confini della chiesa, nell'umanità intera, nella misura in cui questa vive dei 'valori evangelici' e si apre all'azione dello Spirito che soffia dove vuole e come vuole...". Questa posizione si situa con una sua specificità all'interno del dibattito teologico. Infatti per un verso essa ha segnato definitivamente la scomparsa della vecchia posizione, denominata adesso esclusivista, che richiedeva la conoscenza esplicita di Gesù Cristo e l'appartenenza alla Chiesa come condizione necessaria di salvezza per tutti, posizione già respinta nella sua versione radicale dallo stesso Sant'Uffizio nel 1949, con la condanna delle posizioni del teologo statunitense L. Feeney. Per altro verso, essa non raggiunge all'estremo opposto la posizione cosiddetta pluralista secondo cui Dio si è rivelato in diversi modi, anche nelle religioni differenti da quella cristiana. Ma non è chiaro se essa possa identificarsi con la cosiddetta posizione inclusivista, così chiamata perché in qualche modo riporta al Cristo tutte le religioni. Posizione a sua volta non univoca giacché questo inclusivismo viene declinato in due modi radialmente differenti: secondo il primo (J. Daniélou, H. de Lubac, H.U. von Balthasar ecc.) in Cristo trova il suo compimento quanto di positivo c'è nelle altre religioni; secondo l'altra versione, Cristo è presente e opera anche nelle altre religioni.
Il fatto che la posizione espressa da papa Giovanni Paolo ii difficilmente può essere collocata all'interno di questo dibattito è confermato dall'iniziativa di invitare gli esponenti delle grandi religioni mondiali per una preghiera comune per la pace ad Assisi, il 26 ottobre 1986. Un incontro di preghiera fra gli esponenti delle varie religioni era qualcosa di diverso e di difficilmente integrabile nelle visioni abituali. Ne sono un indice sia i tentativi della curia romana, volti a liberare il gesto dall'accusa di sincretismo, sia le contestazioni recise del gesto da parte dei cattolici tradizionalisti, ma anche le perplessità di teologi moderati (per es. Seckler 1989). La peculiarità del gesto sta nel fatto che esso non consiste in un colloquio fra le religioni, ma in un incontro religioso fra le religioni. Senza pervenire a una preghiera comune per la pace, i rappresentanti delle religioni hanno pregato in una unità di tempo, e in qualche modo di spazio, per lo stesso scopo - la pace - seguendo tuttavia i canoni, i riti e i contenuti della tradizione religiosa propria a ognuno. La diversità delle preghiere è stata, per così dire, come il santuario che gesti comuni hanno circondato e protetto quale centro più delicato, quale zona intangibile: dal comune digiuno al comune silenzioso pellegrinaggio di inizio che portava dalla Porziuncola alla città - nelle cui chiese o piazze si sarebbe celebrata la diversità stessa della preghiera - per arrivare a una comune conclusione presso la tomba di Francesco. La diversità è stata cioè contornata da una rete di gesti comuni, volti quasi a fare della diversità qualcosa di sacro. E tutto questo come iniziativa del vescovo di Roma.
Nella pratica, e non in una sintesi astratta, è apparso come non sia sostenibile la pretesa radice comune di tanto confronto teologico. Giacché il 'centro' era dato proprio dalla diversità. Le varie posizioni, sia quella inclusivista sia quella pluralista e teocentrica, risultano in confronto a quel gesto essere segnate da una concezione debitrice di un modello 'occidentale', il quale presuppone la logica del comune denominatore. Secondo questo modello, l'incontro con l'altro è possibile perché abbiamo qualcosa in comune, di cui l'altro è una variante. Esso traduce in tale modo la logica di un sostanzialismo statico, e non quello dell'incontro effettivo con la diversità. In qualche modo infatti in questo modello la diversità dell'altro non ha valore in sé, è una semplice variante di un genere. L'insofferenza per questo modello comincia ad apparire nella consapevolezza di qualche teologo (Duffy 2000), ma in qualche modo era già affiorato nel pensiero di R. Panikkar, quale per es. appare dal suo saggio The Jordan, the Tiber, and the Ganges (in The myth of Christian uniqueness, 1987). Egli oppone il concreto e l'universale al particolare e al generale. L'universale è ciò che è centrato verso la concretezza specifica, e trova in essa ogni volta una sua realizzazione differente; mentre il generale è astratto e il particolare separa. Il concreto è la parte per il tutto, il kath'olon, secundum totum, e l'universale è il tutto nella parte, il totum in parte, ma non è una nozione quantitativa, così come una goccia d'acqua è identica all'altra, ma non è la seconda goccia. L'acqua della goccia (non la goccia d'acqua) è sia concreta sia universale: è sia quest'acqua, sia più semplicemente acqua. Per Panikkar, Cristo, come secondo Adamo, rappresenta tutta l'umanità e in un certo senso l'intero kosmos. Il problema dell'universalità di Cristo e della salvezza cristiana non può essere risolto in modo semplicistico, secondo il sistema copernicano, ma in maniera complessa, secondo il sistema tolemaico che presuppone più centri.
Al di là delle categorie usate, Panikkar mette a nudo come il problema centrale del confronto tra le religioni, da parte della t. cristiana, sia quello del ripensamento radicale della cristologia. Se infatti sembrano abbastanza rigorosi i termini del problema fissati dal magistero romano, altrettanto inesplorate appaiono le conseguenze. Quei termini sono due affermazioni complementari, ma non suturate: a) lo Spirito opera anche nelle altre religioni e mediante esse; b) occorre tuttavia affermare il legame tra questa presenza esterna e il Cristo e la sua Chiesa. Questo tuttavia rappresenta solo un punto di partenza e non di arrivo. Occorre infatti non solo affermare il nesso; occorre altresì comprenderlo. Di che natura è il rapporto che lega il mistero di Cristo, che i cristiani proclamano come Signore e Salvatore di tutti gli uomini e di tutta la storia, con le altre religioni, ma anche con ogni altra visione culturale che non si lascia influenzare dal cristianesimo? Il rapporto stabilito infatti con la diversità religiosa diventa paradigmatico per ogni rapporto cristiano con l'alterità. Cosa significa che il Cristo è l'unico salvatore quando la stragrande maggioranza dell'umanità attinge ad altre fonti l'alimento della propria vita spirituale e di obbedienza al mistero di Dio, sia esso professato esplicitamente sia esso vissuto implicitamente? La teoria patristica dei semina Verbi, pur elaborata nel contesto di una visione cristocentrica esclusivista, era già un primo tentativo di affrontare la questione e ha una sua fortuna fino ai nostri giorni. Essa tuttavia parte sempre dal comune e non ha spazio per una comprensione della diversità in quanto tale. Nella t. attuale vengono 'a tentoni' elaborate quindi altre soluzioni: quella per cui il riferimento è al Cristo glorioso o al Verbo e non a Gesù: sarebbe il Verbo o il Cristo glorioso l'unico mediatore della salvezza. Ma si può separare il Verbo dalla carne, dall'individualità precisa e irriducibile del figlio di Maria? Oppure, in una fuga quasi disperata, si ricorre al futuro, al compimento escatologico - sia esso individuale o collettivo - in cui apparirà ciò che è nascosto, in cui ogni carne vedrà la gloria di Dio rifulgere sul volto del Cristo.
Si tratta di tentativi generosi che non reggono tuttavia di fronte a un'analisi rigorosa e soprattutto non dicono molto per la concretezza del problema. Giacché questo problema consiste proprio nella necessità che il riconoscimento dell'alterità non può essere operato dal cristiano senza che egli comprenda come Gesù crocifisso e risorto è attualmente colui che mi permette questo accoglimento, come l'alterità dell'altro è accolta proprio salvificamente dallo stesso Gesù che io proclamo come Signore. Prima ancora di pensarla e di riuscire a pensarla, l'alterità accolta in una preghiera comune è per il cristiano un'alterità che, senza cessare di essere tale - per cui il buddista, anche se prega con me per lo stesso scopo, non è diventato un cristiano -, è tuttavia parte viva del mistero di Cristo, nel quale l'altro è già accolto. Se ciò non fosse vero, se nel Cristo non ci fosse intimamente posto per l'altro nella sua stessa alterità, allora la fede, quale si esprime nella preghiera comune, sarebbe monca di qualcosa di essenziale o la preghiera equivarrebbe a un tentare il Dio di Gesù Cristo. I cristiani, e insieme a loro i teologi, possono coerentemente avere da cristiani questo atteggiamento, solo se non pensano che Voltaire avesse visto giusto, solo cioè se non pensano come lui che le diversità dogmatiche siano irrilevanti e quel che invece conta sia la religione universale di tutti, la religione della natura, lasciando poi tranquillamente discutere alle varie caste sacerdotali le sottigliezze dogmatiche, irrilevanti per la gente comune.
Ma questo richiede appunto una ricomprensione del significato che per i credenti ha Gesù di Nazareth, nato da donna ed esaltato nella gloria di Dio. Occorre cioè vedere se la relazione all'altro sia posta già nell'evento cristologico e di che genere sia questa relazione. Il termine un po' esoterico e che comincia ad affiorare qua e là di cristologia relazionale vuole dire soltanto questo: una visione del Cristo in cui sia evidenziato il rapporto con l'altro che Cristo ha vissuto e che è costitutivo della sua stessa vicenda umana. Un rapporto con l'altro che, nella fede, i cristiani ritengono essere la manifestazione del rapporto con l'altro che è proprio del Dio trinitario e che proprio per questo è stato esaltato dal Padre, per cui essi professano la divinità di Gesù crocifisso (cfr. P. Gamberini 2002).
L'ecumenismo
Il cammino ecumenico delle Chiese cristiane verso l'unità, nell'ultimo scorcio del 20° sec., ha segnato, quale suo fatto più appariscente, l'accordo cattolico-luterano sulla giustificazione. La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, sottoscritta il 31 ottobre 1999 nel duomo di Augsburg, riconosce ufficialmente il consenso raggiunto dal dialogo sulla giustificazione e afferma che le condanne reciproche, pronunciate nel 16° sec. a questo riguardo, non colpiscono quanto le Chiese oggi credono (documentazione relativa in Dossier sulla giustificazione, 2000). È come dire che il motivo principale della separazione avvenuta nel 16° sec. tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese uscite dalla Riforma di Lutero non sussiste più. Ma, come già a seguito del ritiro dei rispettivi anatemi tra Chiesa cattolica romana e Chiesa bizantina il 7 dicembre 1975 (documentazione relativa in Tomos Agapis, 1971 e, in maniera più completa, in Tomos Agapis, 1978), sostanzialmente, nei rapporti tra le Chiese nulla è mutato rispetto a prima. È come se esistesse un pudore delle Chiese rispetto alle reciproche condanne del passato, per cui formalmente si rimuovono le cause del disagio, ma nulla cambia. Segno questo che manca il supporto di un'adeguata riflessione teologica e non si producono nella pratica le conseguenze (ristabilimento della participatio in sacris) degli accordi raggiunti. Il comune riconoscimento che quelle cause che portarono nel passato alle divisioni rispettive non erano tali, giacché per lo più si trattò di fraintendimenti, e la conseguente abolizione della scomunica, non ha come effetto la comunione piena. Si potrebbe obiettare che la storia successiva ha aggiunto altre cause a quelle della divisione iniziale, soprattutto per quanto riguarda l'evoluzione della dottrina e della prassi del ministero petrino all'interno della Chiesa cattolica romana. Ma, senza negare il peso storico delle dottrine e delle prassi, che nel tempo susseguente alla separazione si sono accumulate nelle rispettive Chiese, resta pur sempre forte la considerazione secondo cui ciò che è stato sufficiente per mantenere la comunione fra le Chiese per un millennio o per quattordici secoli può essere sufficiente ancora adesso, una volta riconosciute come inconsistenti le cause che determinarono la rottura. Del resto, non bisogna nemmeno dimenticare che, per quanto riguarda per es. il rapporto tra Chiesa cattolica e orientale, per secoli la lacerazione è stata vissuta più come uno scisma provvisorio che come una separazione vera e propria. Fino al 17° sec. le due Chiese hanno praticato nei fatti un comune riconoscimento che ha portato, in casi di necessità, ad affidare formalmente la cura pastorale dei propri fedeli all'altra Chiesa (cfr. Suttner 2004). Mantiene quindi una forte plausibilità l'ipotesi espressa da Rahner e H. Fries e cioè che il tempo è maturo per una 'decisione', che tuttavia le Chiese non hanno ancora il coraggio di prendere (Fries, Rahner 1983). Ma, soprattutto, resta l'impressione che le Chiese compiano ormai dei gesti che appartengono a un contesto, teorico e pratico, che esse tuttavia si rifiutano di riconoscere. Si tratta cioè di un 'futuro' già presente e tuttavia non riconosciuto. Si tratta di un futuro nel quale non si riesce più a legittimare le separazioni passate, ma che non riesce a imporsi perché permangono ancora residui fortissimi di quelle concezioni che furono alla base di quelle stesse separazioni.
Espressione di questo disagio, di un'inadeguatezza della prassi e della mentalità di separazione vicendevole, sono vari pronunciamenti dello stesso magistero romano. Basterà qui citare due documenti. Il primo è una dichiarazione comune, firmata l'11 novembre 1994 dal papa Giovanni Paolo ii e dal patriarca della Chiesa assira dell'Oriente (di tradizione nestoriana) Mar Dinkha iv, che smentisce implicitamente quell'affermazione del Concilio di Efeso, secondo cui, dalla lettura degli scritti e dalle affermazioni di Nestorio, "abbiamo costatato che egli pensa e predica empiamente" (Conciliorum oecumenicorum decreta, 1973, p. 61). Il documento infatti sottolinea come oggi ci rendiamo conto che quelle affermazioni furono la conseguenza di vicendevoli incomprensioni. Il vescovo di Roma e il patriarca nestoriano proclamano "davanti al mondo" la comune fede nel mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio vero Dio e vero uomo. La sua divinità e la sua umanità sono unite in una persona, senza confusione oppure mutazione, senza divisione o separazione. "L'umanità che la benedetta vergine Maria partorì fu sempre quella dello stesso Figlio di Dio. Questo è il motivo per cui la chiesa assira dell'oriente prega la vergine Maria come 'la madre di Cristo nostro Dio e Salvatore'. Alla luce della stessa fede la tradizione cattolica si rivolge a Maria come madre di Dio e quindi come 'madre di Cristo'. Noi due riconosciamo la legittimità e la correttezza (rightness) di queste espressioni della medesima fede e rispettiamo la preferenza di ogni chiesa nella sua vita e nella sua pietà liturgica. Questa è l'unica fede che noi professiamo nel mistero di Cristo. Le controversie del passato hanno portato ad anatemi riguardanti persone e formule. Lo Spirito del Signore ci permette oggi di comprendere meglio come le divisioni, sorte in questo modo, in gran parte furono dovute a incomprensioni". Si ammette così che gli anatemi dottrinali siano privi di referente storico. Da questo tuttavia non viene tratta la conseguenza che l'insegnamento degli antichi concili sia errato. Esso continua a essere considerato vero, nella sua intenzione originaria, volta a salvaguardare un aspetto essenziale della fede. Si presuppone quindi, ma non lo si dice, che la verità delle affermazioni dottrinali sia di un genere particolare, diverso da quello comune. Si presuppone ancora che questa verità resti nonostante gli 'errori' e le incomprensioni riguardanti le formule usate e le persone.
Il secondo documento che vale la pena citare per intendere i 'mutamenti' intervenuti è l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo ii, laddove egli formula l'invito ai responsabili delle Chiese e ai loro teologi per un "dialogo fraterno e paziente" perché si trovi "una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova" (nr. 95 e 96). Si arriva quindi a riconoscere che esiste una situazione nuova, tale da richiedere mutamenti nella "forma dell'esercizio" della funzione del primato papale.
Di fronte a tutto questo c'è come un deficit delle rispettive t. nei confronti di un'ermeneutica adeguata della verità cristiana (cfr. Ruggieri 2002). La concezione dell'unità è stata elaborata nel passato in maniera funzionale alle separazioni, in funzione della propria identità da difendere. L'unità stessa, anziché oggetto di fede, soprattutto a partire dall'epoca della Riforma, è diventata una 'prova' apologetica della 'propria' verità. Dal suo contesto originario,vale a dire quello della professione di fede che proclama il mistero dell'unità operata dallo Spirito, l'unità della Chiesa si trasferì nel contesto delle argomentazioni controversistiche (cfr. l'opera ormai classica di G. Thils, Les notes de l'Eglise dans l'apologétique catholique depuis la Réforme, 1937). Per recuperare la concezione originaria dell'unità e della verità cristiana è invece necessario seguire due piste convergenti. La prima è quella indicata dal Vaticano ii sulla 'gerarchia delle verità': "Esistono verità che fanno parte dell'ordine del fine, come il mistero della Santissima Trinità, dell'incarnazione del Verbo e della redenzione, dell'amore e della grazia divina verso l'umanità peccatrice, della vita eterna nel compimento del regno di Dio e simili. Ma esistono altre verità che appartengono all'ordine dei mezzi, come per es. la verità del numero settenario dei sacramenti, della struttura gerarchica della Chiesa, della successione apostolica e altro" (cfr. Pesch 2001); la seconda è quella della priorità dell'annuncio della parola di Dio, della liturgia e della diaconia sulla dottrina (cfr. Schulz 1996).
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