Sistemi, teoria dei
Il termine sistema rientra negli usi tradizionali sia del linguaggio ordinario che di quello di molte discipline, quali la matematica e la filosofia. Tuttavia una definizione rigorosa del termine è stata tentata soltanto recentemente, allorché gli sviluppi tecnologici e scientifici hanno posto la necessità di una definizione esplicita e consapevole, in grado di sottrarre la parola a un uso indebito sul piano ideologico, e a una fuorviante interpretazione sul piano semantico. La nascita per così dire ufficiale di una teoria esplicitamente dedicata allo studio dei sistemi deve essere fatta risalire al 1954, anno in cui a Palo Alto un gruppo di studiosi europei e americani di differente origine disciplinare - come l'economista Kenneth Boulding, il biomatematico Anatol Rapoport, il fisiologo Ralph Gerard e il padre delle teorie sistemiche, il biologo Ludwig von Bertalanffy - fondarono la Society for general system research. Il loro scopo originario era quello di sviluppare una teoria in grado di isomorfizzare tra loro settori conoscitivi tradizionalmente separati. Il concetto di sistema offriva infatti la possibilità di porre in relazione tra loro ambiti tradizionalmente studiati secondo modalità esclusivamente specialistiche. Un'impostazione globalizzante, orientata cioè a elaborare le regole della totalità empirica, definita come wholeness, era alla base del progetto, la cui vocazione interdisciplinare fu sicuramente influenzata dagli studi biologici di von Bertalanffy. Dalla sua idea di totalità organismica, ove operano non causalità singole ma interi complessi causali interdipendenti, deriva infatti il cosiddetto principio di equifinalità, secondo il quale un sistema è in grado di raggiungere lo stesso stato finale di omeostasi, ovvero di equilibrio dinamico, a prescindere dall'intervento di singoli fattori causali. Tale principio fu elaborato da von Bertalanffy proprio per dimostrare quanto fossero insufficienti le spiegazioni deterministiche nell'analisi dei fenomeni complessi: non più singole causalità, ma interi complessi causali tra di loro interrelati determinano l'evoluzione dei sistemi. La metafora dell'organismo, come totalità autonoma e capace di auto-organizzarsi in vista del raggiungimento di uno stato finale caratterizzato da equilibrio dinamico, si costituisce come modello fondamentale da utilizzare per altre forme di pensiero, soprattutto per le scienze sociali.
I successivi progressi dell'informatica e delle scienze cognitive hanno fornito alla teoria generale dei sistemi ulteriori occasioni di sviluppo, consentendole di trasformare l'intuizione organismico-totalizzante bertalanffyana in una praticabile via di accesso alla soluzione di problemi conoscitivi e operativi particolarmente caotici, irriducibili a imputazioni esplicative monocausali. Il destino della teoria generale dei sistemi sarà dagli anni sessanta in poi non tanto quello di fornire un metalinguaggio isomorfo per le scienze iperspecializzate, quanto quello di affrontare la complessità, l'emergenza cioè di fenomeni che, conoscitivamente e operativamente, presentano gradi elevati di incertezza e di indecidibilità. Tale teoria si confronta in tal modo non solo con alcuni tra i più ardui problemi della conoscenza, ma anche con l'ansia crescente del mondo contemporaneo, incapace di controllare quella complessità che esso stesso produce.Prima di addentrarci nei problemi specificamente sociali incontrati dalla teoria, occorre chiarire un concetto fondamentale per accedere a quello di sistema: l'entropia.
In forma sintetica e discorsiva l'entropia può essere definita come la misura del disordine elementare cui necessariamente, e cioè deterministicamente, tendono tutti i processi naturali. Il secondo principio della termodinamica descrive, com'è noto, il destino di tutti i sistemi naturali, compresi quelli organici, i quali tendono ad assestarsi in stati equiprobabili di caos e cioè di disordine elementare, ove l'organizzazione e le differenze vengono irreversibilmente distrutte. La natura meccanica e deterministica del processo entropico trova un suo correlato nel concetto di entropia negativa, inteso come misura dell'ordine che viene a formarsi in un sistema già caratterizzato da stati di disordine elementare. L'informazione, intesa nel senso etimologico del termine, è appunto un processo di entropia negativa, che pone un qualche ordine tra segni o segnali altrimenti irrelati tra loro. In quanto tale essa rappresenterebbe quindi una deviazione dal secondo principio della termodinamica e cioè dalla curva universale crescente dell'entropia. Tale definizione di informazione, elaborata da Norbert Wiener, si riferisce naturalmente alle proprietà di un messaggio ordinatore, capace di 'mettere in forma' un sistema e quindi di far decrescere la curva dell'entropia. Esiste - e ciò va detto per rendere giustizia alla storia del concetto - anche una definizione di informazione secondo cui la riduzione dell'entropia e cioè del disordine non è proprietà dell'informazione stessa, ma della fonte del messaggio, e cioè della possibilità, statisticamente definita per quella fonte, di trasmettere ordine, come sostengono Claude E. Shannon e Warren Weaver.In termini generalissimi quindi un sistema è un insieme organizzato di relazioni tra oggetti, risultante da un processo di riduzione selettiva del disordine. Detto in altre parole: il sistema è un ordine organizzato di relazioni, la cui emergenza nella realtà risulta relativamente improbabile in quanto la tendenza naturale e più probabile, stante il principio di entropia, è quella del disordine.
Edgar Morin definisce in modo icastico e suggestivo l'improbabilità dell'ordine e quindi dei sistemi: "Tutti gli oggetti della fisica, della biologia, della sociologia, dell'astronomia, gli atomi, le molecole, le cellule, gli organismi, le società, gli astri, le galassie, costituiscono sistemi [...]. Il nostro mondo organizzato è un arcipelago di sistemi nell'oceano del disordine. Tutto ciò che è oggetto è divenuto sistema" (v. Morin, 1977, p. 99).
Nonostante il termine sistema sia entrato nell'uso comune e sia divenuto da tempo sinonimo, spesso con connotazioni negative, di apparato, di dominio tecnico, di prepostulazione concettuale, ecc., una sua definizione rigorosa è difficilmente rintracciabile anche tra coloro che ne hanno fatto oggetto delle loro critiche epistemologiche e ideologiche.
La definizione di von Bertalanffy (v., 1968, p. 54) secondo cui "un sistema è un complesso di elementi che stanno in interazione" risulta intuitivamente comprensibile, ma non chiarisce sul piano formale quali siano gli elementi stessi e soprattutto quale sia il criterio per la loro identificazione. Resta escluso dalla definizione ogni riferimento ai criteri di selezione degli elementi e del loro costituirsi come entità sistemiche. Nella definizione di von Bertalanffy è presente infatti una forte ipoteca organicista derivante dall'origine biologica del concetto, che assume come suo modello quello della cellula. Tale circostanza non ha impedito a Talcott Parsons e a Edward Shils di riferirsi a von Bertalanffy per definire il sistema: "La proprietà più generale e fondamentale di un sistema è l'interdipendenza delle parti o variabili. L'interdipendenza consiste nell'esistenza di determinate relazioni tra le parti o variabili" (v. Parsons e Shils, 1951, p. 107).
Una definizione più precisa è quella fornita da A.D. Hall e R.E. Fagen (v., 1956, p. 18): "Un sistema è un insieme di oggetti e di relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi".
A tutte le definizioni sopra citate è comune la carenza di un elemento definitorio che l'attuale teoria sistemica ritiene fondamentale: è infatti assente qualsiasi riferimento al criterio di scelta sia degli oggetti sia delle relazioni cui viene conferito carattere sistemico, ossia manca l'osservatore del sistema. Il criterio di scelta, proprio dell'osservatore, pare invece comparire nella definizione di James Grier Miller (v., 1971, p. 52), secondo cui il sistema è "una regione delimitata nello spazio-tempo", ove il termine 'delimitata' rinvia evidentemente a un osservatore che delimita e che quindi sceglie. Questa dipendenza dalla prospettiva dell'osservatore, observer-dependance, viene a sua volta definita da Alessandro Pizzorno (v., 1973) come "incompletezza dei sistemi" e quindi presentata come un inconveniente della teoria stessa, che non è in grado di autodescriversi senza ricorrere a un osservatore esterno. Nella contemporanea teoria sistemica nessuno rifiuta di introdurre l'osservatore nelle argomentazioni della teoria stessa, e tale ormai accettata observer-dependance viene considerata non tanto un difetto quanto una 'virtù' costruttivistica.
Nella tradizione culturale ottocentesca, imbevuta di organicismo e di realismo ingenuo, poi divenuta una vera e propria vulgata a disposizione di ideologi con etichette varie, l'ambiente era visto come l'insieme dei fattori componenti il mondo esterno di un essere vivente o di un sistema sociale, capaci di determinare sia le caratteristiche dell'organismo individuale, sia quelle della società mediante il cosiddetto 'condizionamento'. Tale condizionamento può essere definito, in sintesi, come l'insieme delle sfide evolutive, in grado di determinare non solo la possibilità di sopravvivenza individuale di ogni organismo, ma anche la struttura della personalità umana e, per analogia, dei rapporti sociali. Le scienze biologiche, ma soprattutto quelle sociali, hanno attribuito in passato all'ambiente esterno ogni responsabilità immaginabile, in quanto causa deterministica del comportamento. Con l'apparire delle prime scoperte sul codice genetico l'ambientalismo, di volta in volta teorizzato come determinismo o come behaviorismo, ha iniziato a decadere quale criterio onnicomprensivo di spiegazione. Sempre maggior peso hanno infatti assunto i fenomeni di autonomia del vivente, centrati su processi interni di codificazione, che relativizzano - senza peraltro annullarla - la portata dei condizionamenti ambientali. Oggi il vivente e il sociale non sono più considerati entità totalmente plastiche, condizionate ad libitum dall'ambiente, ma sistemi dotati di una forte autonomia.
La teoria dei sistemi ha immediatamente recepito l'importanza dei fenomeni di autonomia e di codificazione genica e ha tentato di riconsiderare in modalità non più riduttive il complesso tema dei rapporti tra sistema e ambiente, i quali sono destinati a interagire in una situazione assai complessa di "interdipendenza duale", come sostiene Heinz von Foerster. È utile citare a questo punto lo stesso von Foerster, biocibernetico di origine austriaca, emigrato negli Stati Uniti, che ha fornito alla nostra teoria un contributo fondamentale: "L'ambiente è riguardato sotto un duplice aspetto: come un insieme di proprietà del mondo fisico che agiscono su di un organismo, e anche come accumulo di soluzioni riuscite del problema della selezione di quelle condizioni nel mondo fisico che siano per lo meno sufficienti per la sopravvivenza. In questa discussione 'ambiente' implicherà sempre la nozione relativa di environment of [ambiente di], dove l'ambiente e l'organismo associato a esso risulteranno duali l'uno rispetto all'altro nel senso che un particolare organismo O implica il suo particolare ambiente E(O), e viceversa, che un particolare ambiente E implica il suo organismo appropriato O(E)" (v. von Foerster, 1968, p. 171).
Non esiste quindi l'ambiente esterno di per sé, ma soltanto l'ambiente specifico di uno specifico sistema. Ogni sistema, cioè, ha a che fare soltanto con il suo particolare ambiente, ossia con quella particolare porzione di mondo esterno che le sue codificazioni gli permettono di includere nelle proprie rappresentazioni e quindi nelle proprie operazioni. L'ambiente - e qui è doveroso richiamare anche il nome di Jean Piaget - non è più una datità esterna del sistema, ma è strettamente connesso all'effettuazione di determinate operazioni interne, sulla cui base soltanto risulta possibile stabilizzare un confine interno-esterno. Tale confine - che dipende anche, ma non solo, dalle codificazioni interne e quindi dalle operazioni già previste dalle codificazioni stesse - agisce come differenza tra esterno e interno. Tuttavia, tale differenza pone a disposizione anche possibilità di collegamento in termini di scambi di materia, energia e informazione. Possiamo sostenere a questo punto che il rapporto tra sistema e ambiente non è un gioco a somma zero, ma al contrario che a una maggiore autonomia interna corrisponde un incremento e non una diminuzione del condizionamento ambientale, poiché ogni sistema sarebbe in tal modo posto nella condizione di incrementare le proprie possibilità di interagire con i flussi provenienti dall'ambiente.
Detto in altre parole: è possibile per un sistema interagire con il proprio ambiente soltanto in base a codici specifici, i quali identifichino e organizzino le rilevanze del mondo esterno in modo da separarle dal rumore di fondo, dal disordine equiprobabile, rendendole quindi rilevanti per il sistema stesso. I codici permettono al sistema di riconoscere come ambiente soltanto taluni elementi ed eventi, che i codici stessi abilitano a prendere in considerazione. Uno dei meriti della teoria dei sistemi è quello di aver messo in discussione molte concezioni date per scontate come assolute verità. Una di queste è sicuramente quella dell'ambiente esterno come già dato, che ignora l'incidenza del sistema stesso sull'ambiente di riferimento. Nei suoi più recenti sviluppi la teoria dei sistemi ha introdotto il concetto di autoreferenza, con valenze che potremmo definire cognitive. In base a tale concetto, che tratteremo oltre, l'identità di un sistema è determinata da una chiusura organizzativa verso l'esterno, cioè a dire: ogni ambiente è il prodotto di un'operazione osservativa, mediante la quale un sistema 'decide' di considerare se stesso un sistema tracciando un confine. Un sistema, scrivono J. Gougen e F. Varela, origina attraverso una distinzione che "divide il mondo in due parti, come quello e questo o ambiente e sistema" (v. Gougen e Varela, 1979). Anche l'ambiente è l'effetto di un'operazione costruttrice, nel significato mentale e cognitivo del termine. Con l'autoreferenza (lo vedremo nel capitolo dedicato all'osservatore) la teoria dei sistemi compie il suo definitivo distacco da ogni sia pur remoto retaggio realistico-organicistico, per avvicinarsi, anche nelle modalità di definire l'ambiente, alla prospettiva cognitiva.
Nella definizione di von Bertalanffy, citata in precedenza, emergeva chiaramente il carattere aperto dei sistemi, come identità complesse di unità in interazione, a loro volta impegnate in un continuo scambio di energia e materia con l'ambiente. Secondo questa versione ancora tradizionale della teoria, la continua interazione sistema-ambiente, intesa come flusso ininterrotto di input-output, rende il sistema una entità complessa in continua evoluzione, caratterizzata da equilibri dinamici. Ciò che von Bertalanffy e i primi sistemisti hanno trascurato sono proprio i fenomeni di costruzione e conservazione dell'identità delle formazioni complesse. In altre parole, la teorizzazione di un'apertura dei sistemi, come precondizione per il mantenimento dell'equilibrio dinamico e come caratteristica fondamentale per la definizione stessa del vivente, ha finito per sottovalutare non solo gli aspetti relativi all'autonomia del vivente in termini di codificazione, ma anche quelli relativi alla conservazione dell'identità.
Con il concetto di chiusura autoreferenziale la teoria ha preso in considerazione il problema della conservazione dei confini di un sistema, sia vivente che sociale. Questo può avvenire solo attraverso la formazione di un confine, che chiuda organizzativamente le operazioni interne del sistema. Tuttavia, il fatto fondamentale è che l'operazione di chiusura non viene effettuata dall'ambiente ma dal sistema stesso, il quale 'decide' di tracciare un confine tra sé e l'esterno. Tutte le operazioni di un sistema sono quindi autoreferenziali, in quanto sono riferite a se stesse e non ad altre entità esterne. Un sistema può riferirsi soltanto a ciò a cui i suoi codici lo abilitano a riferirsi. Le operazioni che permettono a un uomo di conservare la propria identità nel tempo e di non trasformarsi in qualche cosa d'altro sono per l'appunto autoreferenziali, nel senso che riproducono gli elementi, le loro relazioni, l'organizzazione delle relazioni che costituiscono il sistema delle operazioni che a loro volta costituiscono l'identità. L'autopoiesis di cui hanno parlato Humberto Maturana e Francisco Varela è per l'appunto la riproduzione delle strutture di mantenimento del sistema da parte del sistema stesso.
Ma chiusura non significa affatto esclusione di rapporti con l'ambiente, ove operano altri sistemi; al contrario, la chiusura resa possibile dall'autoreferenza rende possibile l'apertura, anche se soltanto alle condizioni stabilite dalle codificazioni interne. Ad esempio, un sistema sociale può comunicare con altri sistemi sociali proprio in virtù della sua chiusura autoreferenziale, dato che soltanto mantenendo stabile la riproduzione della propria identità può interagire con l'esterno: solo la chiusura permette l'apertura, dato che ciò che non è chiuso non può nemmeno venire aperto. Esemplificando in termini di sistemi sociali, si può affermare che un sistema giudiziario può comunicare con un sistema politico non in virtù di un'apertura che porterebbe alla sua dissoluzione, ma proprio in virtù della sua chiusura, e cioè del mantenimento autoreferenziale della propria identità come sistema giudiziario. Quando i magistrati affermano di riconoscere solo il codice, alludono all'autoreferenza che chiude il sistema e lo riproduce di fronte a un ambiente di altri sistemi.
Durante una prima fase, che giunge fino alla metà degli anni settanta circa, la teoria dei sistemi sociali venne identificata e talvolta genericamente confusa con le impostazioni organicistiche che, assai prima dello stesso von Bertalanffy, ma senza alcun consapevole utilizzo delle virtù concettualmente isomorfizzanti del sistema, avevano caratterizzato la sociologia di Auguste Comte, Herbert Spencer ed Émile Durkheim.
Soprattutto la sociologia di Durkheim, con i suoi fondamentali concetti di divisione del lavoro e di solidarietà, ha anticipato non solo i temi parsonsiani del funzionalismo, ma anche quelli sistemici della differenziazione. Al contrario di von Bertalanffy, tuttavia, per il quale il concetto di sistema ha assunto un significato eminentemente ed esplicitamente concettuale, sia pure ricavato a partire dal concetto di cellula, in Durkheim l'aspetto sistemico rimane fondamentalmente implicito. Esso è infatti ricavabile indirettamente attraverso il concetto di solidarietà, intesa come legame obiettivo di elementi tra loro differenziati in virtù della divisione del lavoro, e purtuttavia connessi funzionalmente. Ed ecco che in Durkheim l'organicismo ottocentesco già si coniuga con la cultura funzionalistica della sociologia novecentesca di Parsons.
In sintesi, nella formulazione contemporanea della teoria dei sistemi sociali confluiscono sia la tradizione organicista ottocentesca, sia la tradizione funzionalista, sia quella propriamente sistemica bertalanffyana. Eppure nessuna delle tre tradizioni sopra richiamate può sic et simpliciter essere inglobata nella teoria senza profonde trasformazioni, che riguardano aspetti epistemologicamente determinanti. Nella teoria dei sistemi, infatti, il sistema è soprattutto una descrizione della realtà che può assumere sia i connotati realistici propri della proposta bertalanffyana, sia quelli prospettici (observer-dependance), sia quelli costruttivistici e autoreferenziali dell'attuale formulazione dominante. Nel secondo e nel terzo caso il sistema è visto non come un semplice oggetto della teoria, ma come il modo mediante cui l'osservatore argomenta e descrive gli oggetti per lui stesso rilevanti. Il sistema non è qui un costrutto concettuale di stampo organicistico né una rappresentazione obiettiva e realistica dell'esistente, ma un modo di osservare. Torneremo su tale fondamentale tema al momento delle conclusioni.
Occorre ora affrontare gli aspetti propriamente sociologici della teoria, cercando di mostrare quale sia stata finora la sua influenza e soprattutto quali siano stati i suoi risultati.
Mentre sul piano epistemologico esistono ancora non colmate divergenze circa i rapporti tra teoria sistemica, organicismo e funzionalismo sociologico, sul piano della continuità della ricerca e dei suoi risultati è possibile tracciare già oggi un bilancio, che conduce direttamente dalle originarie formulazioni durkheimiane sulla divisione del lavoro alla teoria dei symbolic media of interchange di Parsons e alla teoria luhmanniana dell'autoreferenza.
"I sistemi sociali originano soltanto sotto la condizione della doppia contingenza" (v. Luhmann, 1988, p. 273). Questa proposizione di Niklas Luhmann è contenuta in un libro pubblicato nel 1988, ma il suo significato e la sua portata per la sociologia sono apprezzabili a pieno soltanto se, per l'appunto, partiamo da Durkheim e poi, attraverso Parsons e Bertalanffy, giungiamo all'attuale teoria dell'autoreferenza.
Il problema dell'ordine sociale, che fu già affrontato da Thomas Hobbes e successivamente dagli utilitaristi inglesi, è stato, come è noto, uno dei problemi principali anche per Durkheim, il quale rifiutò ogni soluzione psicologica o individualista: l'ordine della società non deriva, secondo Durkheim, da alcuna automatica confluenza degli egoismi individuali - come volevano gli utilitaristi - e nemmeno da un contratto tra individui che liberamente negoziano in ordine alle reciproche attese sulla base del diritto naturale. Al contrario, per Durkheim l'ordine della società è basato sulle cosiddette "condizioni precontrattuali di ogni contratto", come dire su una serie di regole sociali indipendenti dagli individui, dalle loro intenzioni, passioni e interessi. Tali regole potrebbero oggi dirsi sistemiche, nel senso che, rendendo possibile l'ordinato e continuativo incontro delle prospettive d'azione dei vari individui in competizione, fanno in tal modo decrescere il disordine e con ciò conducono la società verso stati di organizzazione e differenziazione. La divisione del lavoro non è altro che la forma assunta dalla solidarietà, e cioè dall'ordine sociale, in una fase avanzata dell'evoluzione sociale. Le premesse dell'ordine, quelle regole di fondo che riducono il disordine, ossia l'hobbesiano conflitto egoistico di tutti contro tutti, appartengono alla sfera dei prerequisiti stessi della società.
Quando non si realizza l'ordine significa che gli attori della società non sono riusciti a trovare forme stabili di incontro o di comunicazione capaci di rendere confrontabili le attese reciproche. E quando non si realizzano forme di incontro o di comunicazione significa che ogni attore rimane prigioniero delle proprie attese, le quali dipendono dalla contingenza del momento temporale, o psicologico, o politico, o semplicemente casuale. Il superamento della "doppia contingenza", come lo chiama Parsons, è il meccanismo sistemico di base che permette alla società di esistere e di funzionare come tale. La teoria parsonsiana del sistema di azione sociale è esplicitamente debitrice nei confronti di Durkheim, in quanto sottrae la realizzazione dell'ordine al condizionamento delle contingenze individuali, ma allo stesso tempo è debitrice nei confronti del nuovo concetto di sistema, inteso come ordine, come processo di entropia negativa e cioè come organizzazione. Il sistema sociale emerge quindi come superamento della doppia contingenza in cui gli attori sono, per così dire, caduti allorché sono apparsi sulla scena sociale.
Talcott Parsons, come è noto, affida a particolari meccanismi sistemici - "i media comunicativi di interscambio simbolico" - il compito di ridurre la doppia contingenza. I media simbolici, tra cui Parsons colloca il denaro, l'influenza, il potere, l'affettività, svolgono la funzione di ordinatori mediante la costituzione e codificazione delle attese, che possono in tal modo divenire reciproche.
I sistemi sociali si differenziano dai sistemi biologici, con cui del resto sono interrelati, in quanto sono costituiti e organizzati sulla base del senso. Anche se gli attori individuali sono organismi biologici, i sistemi sociali si presentano come entità prevalentemente non organiche, in quanto tenute insieme da processi simbolici, capaci di fornire indicazioni decisionali e criteri di orientamento reciproco. In breve, il senso è una risorsa simbolica che rende possibile e plausibile la comprensione reciproca e la comunicazione.
La teoria sistemica realizza qui un primo, significativo distacco rispetto all'organicismo ottocentesco, in quanto i sistemi sociali risultano fondamentalmente costituiti da una 'materia immateriale', da una organizzazione di rinvii reciproci di senso tra attori e tra sistemi, cioè da un ordine simbolicamente realizzato. La differenziazione, ossia la divisione del lavoro, non solo tra individui ma anche tra sistemi, tra diritto e politica, tra economia e scienza, tra vita privata e vita pubblica, è basata su confini di senso, cioè sull'attribuzione codificata di un riferimento condiviso al confine, che appunto differenzia i sistemi sociali stessi. La codificazione del confine non discende dalla natura delle cose, da una necessità ineluttabile, ma solo dalle forme che il superamento della doppia contingenza può di volta in volta assumere nel corso dell'evoluzione storica, nelle particolari situazioni comunicative della società ove il superamento stesso si renda necessario. Per tale ragione i confini di senso, e cioè le modalità specifiche di superamento della doppia contingenza nel diritto, nella politica, nell'economia, potrebbero di volta in volta essere differenti da quelli esistenti. Niente è necessario nell'evoluzione dei sistemi e ancor meno nell'evoluzione di quelli sociali, le cui possibilità di pervenire a organizzazione e ordine appartengono, come si è visto, alla sfera dell'improbabile. Un improbabile che gli attori vivono e interpretano come assolutamente normale, grazie proprio ai particolari sistemi di senso che sono le società. Il senso fa apparire come normale l'improbabile, come necessario ciò che potrebbe anche essere diverso, come plausibile ciò che è altamente problematico. Il superamento della doppia contingenza, il raggiungimento dell'ordine, non implica però che i sistemi si assestino in stati immodificabili, che la loro organizzazione divenga deterministicamente necessaria, che la sicurezza abbia ormai permeato la società. Al contrario, il senso, il cui compito è quello di assicurare l'ordine, rende anche possibile la rappresentazione della limitatezza dei sistemi e talvolta utilizza la paura, come estremo meccanismo di allarme di fronte a contingenze che paiono insuperabili.
Il senso è un'indicazione selettiva di orientamento che rende accessibile agli attori la possibilità di superare la doppia contingenza e con ciò di comunicare tra loro. Ma affinché il superamento della doppia contingenza possa avvenire concretamente occorre che le indicazioni selettive, poste a disposizione dal senso stesso, assumano una forma simbolicamente codificata. I codici simbolici, quelli che Parsons - come si è già accennato - ha chiamato symbolic media of interchange, sono strutture che rendono possibile il coordinamento delle attese nelle forme specializzate, richieste da ogni sistema differenziato: l'economia, il diritto, la politica, la scienza, la vita privata, ecc.
I codici comunicativi prestabiliscono quindi le condizioni per la formazione dell'ordine sociale tra gli attori (Ego e Alter), in modo da rendere loro accessibile un qualche rapporto comunicativo o di scambio in situazioni determinate e specializzate. Attraverso i codici, insomma, le attese vengono rese confrontabili e con ciò viene ridotta l'improbabilità di pervenire a una qualche forma di ordine.In generale i codici non contengono regole prescrittive che impongano condotte o comportamenti determinati, ma soltanto alternative di scelta che riducano la complessità della decisione per gli attori, i quali si trovano a dover superare la doppia contingenza e cioè, come si è già visto, a gettare un ponte tra le attese reciproche. Il modello di codice per eccellenza, già trattato non solo da Parsons ma anche da Luhmann, è quello del denaro, il quale predispone le alternative di scelta tra compratore e venditore, mediante la possibilità di determinare il prezzo di una merce. In tal modo viene assicurata la possibilità di pervenire a uno scambio commerciale, senza che gli attori debbano costruirsi autonomamente la procedura dello scambio stesso e senza che per ogni nuova transazione debbano ogni volta reinventarsi da capo il modo per confrontare le reciproche attese. Analogamente, il potere assicura la comunicazione nel sistema politico, creando la possibilità per gli attori di negoziare e competere secondo alternative codificate: maggioranza-minoranza, progressista-conservatore, governo-opposizione. La predisposizione delle alternative riduce la complessità della decisione politica, permettendo agli attori non solo di presentare aspettative confrontabili, ma anche di accordarsi o eventualmente confliggere. Anche il conflitto politico richiede il superamento della doppia contingenza.
La funzione dei codici come il denaro, il potere, la verità scientifica, l'amore, ecc. è quindi, lato sensu, tecnica, in quanto essi rendono accessibile e disponibile la comunicazione e con ciò la formazione di un non effimero ordine sociale nell'economia, nella politica, nella vita accademica, nelle relazioni personali.
Le direttrici simbolicamente codificate quindi generalizzano il senso e allo stesso tempo lo specializzano, a seconda delle specifiche richieste di ciascun sistema differenziato.
Un'altra funzione dei codici comunicativi è quella di mantenere i confini di senso tra sistemi e quindi la differenziazione, in modo che non si realizzino le condizioni della de-differenziazione e quindi di una diminuzione dell'ordine comunicativo. Nel rendere disponibile il superamento della doppia contingenza nelle situazioni specializzate e differenziate (economia, politica, diritto, ecc.), ogni codice impedisce che vengano confusi i criteri e i linguaggi della comunicazione: che la politica interferisca nel diritto, che la vita personale interferisca in quella economica, e via dicendo. I codici quindi, come vedremo meglio in seguito, chiudono organizzativamente i sistemi, rendendo nello stesso tempo validi collettivamente i confini per mezzo di sanzioni di carattere comunicativo.
Comunque non è in alcun modo ammissibile che il codice simbolico venga messo in discussione e divenga dunque esso stesso contingente, in quanto trasformato a sua volta in oggetto di scambio o di comunicazione. In tali casi il codice, divenuto anch'esso contingente, non permette più il superamento della doppia contingenza, ma deve necessariamente ricorrere a un altro codice che funga da equivalente funzionale. Ciò può accadere ad esempio allorché il codice della politica - il potere - non sia più in grado di permettere la comunicazione politica. Ecco allora che un altro codice può intervenire, esponendo però il sistema al rischio della de-differenziazione.
Abbiamo già accennato alla differenziazione come formazione di un confine tra interno ed esterno del sistema, determinata dalle esigenze del sistema stesso, il quale nel momento in cui assume la propria identità necessariamente si distingue da ciò che lo circonda. Ogni identità presuppone la formazione di una differenza che, come scrive Niklas Luhmann (v., 1984, p. 244), "non è ontologica" ma dipendente dalle operazioni mediante le quali il sistema mantiene e riproduce nel tempo la propria struttura rispetto all'esterno.
Esiste anche una differenziazione interna, la quale può essere brevemente definita come la riproduzione entro il sistema stesso della differenza sistema-ambiente. Lo sviluppo di sottosistemi differenziati corrisponde infatti alla formazione di differenze sistema-ambiente, in cui ogni sistema opera come ambiente rispetto a ogni altro e viceversa. La differenziazione insomma è la moltiplicazione della differenza, per così dire originaria, tra sistema e ambiente all'interno del sistema.
Occorre tuttavia precisare in quale senso l'attuale teoria dei sistemi parli di differenziazione, dopo che nel secolo scorso - a partire da Comte e Spencer fino a Durkheim - il concetto in questione è stato introdotto nella teoria sociologica come vero e proprio cardine dell'organicismo. Il concetto di differenziazione, di cui abbiamo già tentato una definizione, seguendo in parte l'impostazione di Luhmann, è sostanzialmente diverso da quello proposto dall'organicismo, in quanto non ha alcuna pretesa realistica e tantomeno ontologica.
Nella fase organicista che le scienze sociali hanno attraversato nel secolo scorso, a partire da Comte fino a Durkheim, la differenziazione era considerata fondamentalmente come incremento di complessità, e cioè come proliferare di parti e organi. L'analogia con la scienza biologica è evidente, ma meno evidente è l'ambizione profondamente ideologica di tale analogia, con cui si nutriva la speranza di poter esportare le leggi della materia nel territorio della società. In tal modo sarebbe stato possibile non solo dare certezza nomologico-esplicativa alle scienze della società, ma anche e soprattutto consegnare alle turbolente società industriali dell'epoca una serie di leggi, fondate non più sulle incerte volontà umane ma sulla natura stessa. La divisione del lavoro sociale - terminologia con cui Durkheim designa la differenziazione - è soprattutto il modo mediante il quale una società diseguale organizza la propria solidarietà interna e cristallizza quelli che Marx chiamava rapporti tra le classi. 'Differenziazione' ha qui un significato profondamente realistico e rinvia allo spirito di un'epoca, in cui il permanere della fiducia illuministica nei confronti della ragione faceva ancora sperare in una soluzione scientifica del conflitto industriale.
Al di là del richiamo alla rappresentazione della differenza come sinonimo di ordine, nel concetto contemporaneo di differenziazione vi è ben poco della vecchia impostazione organicista. Non solo sul piano epistemologico, ma anche su quello ideologico la differenziazione come stato empirico della società non corrisponde ad alcuna legge che assesti in modo deterministico i sistemi: si tratta al contrario di una modalità di autorappresentazione da parte di un sistema, il quale può trovarsi nella condizione di scegliere una forma oppure un'altra della differenziazione a seconda dei concreti imperativi imposti dalla necessità di superare la doppia contingenza. La concreta divisione del lavoro, ovvero per usare il linguaggio di Marx, i rapporti materiali di produzione non sono la cristallizzazione di alcuna necessità naturale o storica, ma dipendono dalla contingenza, dal modo che di volta in volta si renderà utile per superarla. Così ogni sistema, che come abbiamo visto nasce sotto la spinta della doppia contingenza, si trova a dover 'disegnare' al proprio interno determinate differenze invece di altre, ma tutto potrebbe anche essere disegnato in un altro modo.
Il concetto di differenziazione quindi non introduce più la sicurezza operativa, e tantomeno quella epistemologica, di un realismo tranquillizzante. Si tratta, al contrario, di un ben fragile principio di ordine, che rischia a ogni nuovo ciclo di autoriproduzione la de-differenziazione e il disordine. La tranquilla rappresentazione di una società differenziata in sistemi politici, economici, giuridici, scientifici, personali, ecc. non corrisponde ad alcuna necessità cogente ma è solo la risultante di un complesso gioco di rinvii reciproci tra sistemi di senso. La differenziazione quindi perde ogni connotazione ontologica assumendo valenze esclusivamente semantiche. Sono confini di senso e non di materia a garantire l'ordinata riproduzione sociale.
"Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore". Questa frase di Humberto Maturana e Francisco Varela è divenuta celebre tra coloro che si occupano di sistemi. Essa infatti per un verso appare come una critica radicale di ogni positivistica dualità tra osservatore e realtà, per un altro costituisce la premessa di un nuovo modo di pensare che la teoria dei sistemi ha contribuito a elaborare in esplicita polemica contro ogni idealismo tradizionale. Ma per comprendere correttamente la frase di Maturana e Varela è bene prendere le mosse dalla definizione di sistema che, come già abbiamo mostrato nel cap. 3, richiede necessariamente il rinvio a un osservatore che delimiti il sistema stesso, ovvero decida quale porzione di mondo esterno debba venire considerata un sistema. Questa observer-dependance, che per molti critici della teoria sistemica è una insuperabile debolezza in quanto rende il concetto di sistema privo di oggettività, è per altri una virtù epistemologica che introduce l'osservatore stesso nell'osservato, ponendo con ciò le basi per una impostazione costruttivistica della conoscenza.
Secondo la teoria dei sistemi l'osservatore non è né il depositario di un linguaggio oggettivo, positivisticamente inteso, per la designazione degli elementi costituenti la realtà, né il depositario di categorie trascendentali, idealisticamente intese quali possibilità conoscitive a priori. L'osservatore è un'entità empirica, e osservare significa operare mediante distinzioni che differenzino gli oggetti, le relazioni tra gli oggetti e i sistemi di relazioni. Distinguere e quindi delimitare sistemi significa rendere il mondo disponibile sia conoscitivamente sia operativamente, facendolo emergere dallo sfondo indistinto e disordinato, rendendolo quindi dotato di senso per noi.
Il rifiuto sia del realismo sia dell'idealismo non conduce tuttavia ad alcuna dissoluzione dell'oggetto, ma a una sua ridefinizione in termini pragmatici. Se la realtà è da considerarsi in tutto e per tutto observer-dependent, ciò non preclude affatto la possibilità di un 'accoppiamento strutturale' tra le differenti prospettive osservative. L'uniformità e omogeneità sistemica con cui il mondo ci si presenta quotidianamente deriva dall'accoppiamento ricursivo di differenti osservazioni e quindi di diversi modi di distinguere. L'osservare quindi ha un significato esclusivamente connesso ai problemi della conoscenza ma, stante la definizione stessa di sistema, ha anche un significato connesso ai problemi dell'operare. Osservare, ha scritto Heinz von Foerster, è una forma di "managing cognitivo". Ma l'osservatore non va inteso come individuo, bensì a sua volta come sistema. Ogni osservatore è infatti un sistema che osserva, cioè che distingue e delimita mediante le proprie operazioni. È qui che interviene la nozione di autoreferenza sistemica: ogni osservazione dipende dalla struttura cognitiva di chi osserva. Ciò che possiamo osservare, lo osserviamo entro e attraverso la nostra mente. Ciò che la nostra mente non è abilitata a osservare, o i nostri organi visivi a vedere, è come se non esistesse. Per tale ragione non vi è differenza tra osservazione ed auto-osservazione. Al sistema osservante si applica lo stesso criterio di chiusura osservativa che viene applicato ai sistemi osservati, come quelli sociali di cui abbiamo già parlato. Heinz von Foerster, Gregory Bateson, Gordon Pask, Humberto Maturana hanno sostenuto in forme diverse la circolarità di ogni osservazione, la quale può uscire da se stessa, dalla propria organizzazione, soltanto mediante l'autoreferenza, che sola può permettere l'eteroreferenza: solo attraverso la chiusura è possibile l'apertura. (V. anche Ambiente, tutela dell'; Complessità sociale; Sistema sociale).
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