Élites, teoria delle
La teoria delle élites si propone di spiegare scientificamente una delle tendenze indiscutibili della storia umana: il fatto che, in ogni società e in ogni epoca, una frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie mani la maggior quantità di risorse esistenti - ricchezza, potere e onori - e s'impone alla quasi totalità della popolazione. Questo fenomeno costituisce uno degli oggetti più antichi e maggiormente discussi nelle scienze sociali: filosofi, storici, economisti, sociologi e politologi, a partire da Platone e Aristotele, hanno cercato d'individuare le modalità e le cause delle diseguaglianze sociali e della distribuzione del potere. Ma è soprattutto dalla seconda metà dell'Ottocento, quando sia la sociologia che la scienza politica acquistano un più deciso orientamento empirico, che il fenomeno delle disparità potestative presenti nella società diventa il tema centrale di queste discipline. Non stupisce quindi che Max Weber dedichi alcune delle pagine più interessanti della sua sociologia politica a quella che egli chiama "la superiorità del piccolo numero" (Vorteil der kleinen Zahl), che Friedrich von Wieser inizi la sua monumentale ricerca sul potere (Das Gesetz der Macht, 1926) partendo dalla constatazione della perennità del "principio minoritario" secondo cui poche persone governano le masse, che Gaetano Mosca pretenda di costituire la scienza politica a partire dall'analisi della dicotomia governanti-governati, che Vilfredo Pareto identifichi nelle élites e nella loro circolazione i concetti chiave per un'interpretazione globale dei fenomeni politico-sociali.
La teoria delle élites presenta due dimensioni principali: una sociologica e una più propriamente politologica.
Nella tradizione sociologica lo studio della minoranza, che possiede in misura segnatamente più elevata del resto della popolazione una o più caratteristiche che questa valuta positivamente, rientra nella più generale teoria della stratificazione sociale di impianto struttural-funzionalista e ha come oggetto l'eterogeneità e la differenziazione sociale strettamente congiunte ai processi di selezione sociale e al concetto di capacità naturali. Come ha scritto Pareto, in quella che rimane la miglior formulazione sociologica della teoria, le élites si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale: "La conquista della ricchezza presso i popoli commercianti e industriali, il successo militare presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere presso le aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel popolo cinese, l'acquisizione di dignità ecclesiastiche nel medioevo [...] sono altrettanti modi coi quali si effettua la selezione degli uomini" (v. Pareto, 1902; tr. it., p. 163).
Nella tradizione politologica, in cui si fa ricorso specificamente all'espressione 'élite del potere', l'oggetto dell'indagine coincide invece con la distribuzione del potere politico definito come possibilità di prendere e imporre, anche ricorrendo alla forza, decisioni valevoli per tutti i membri di una collettività. In questo senso la formulazione più classica della teoria è stata dettata da Gaetano Mosca negli Elementi di scienza politica (1896): "Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n'è la cui evidenza può essere a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate appena ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l'altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che all'utilità dell'organismo politico sono necessari" (v. Mosca, 1923², p. 52).
Se si segue una prospettiva sociologica le élites, di solito accompagnate dall'aggettivo 'sociali', costituiscono una pluralità più o meno ampia di gruppi ristretti, identificabili in relazione ai diversi tipi di attività, al grado di concentrazione delle risorse, agli indici più elevati delle capacità individuali. In questa prospettiva il problema di fondo consiste nel verificare se esista o meno congruenza tra le qualità degli individui e le posizioni che essi occupano nella gerarchia sociale o, come diceva Pareto, se c'è corrispondenza tra le capacità e i "cartellini" mediante i quali si è identificati e collocati nella piramide della disuguaglianza. Viceversa, se ci si muove lungo un'ottica politologica, l'élite, in questo caso al singolare, tende a essere rappresentata come una categoria più o meno ristretta ed eterogenea di persone e viene identificata generalmente con lo strato superiore, quello cioè che detiene le quote più consistenti di potere economico, ideologico e politico. Il problema centrale dell'analisi coincide allora con la valutazione del grado di concentrazione di risorse il cui possesso e/o controllo assicura potere e specificamente potere politico. Nella prima prospettiva le dicotomie utilizzate per descrivere le disuguaglianze sociali contemplano la contrapposizione tra élites e non élites, tra élites e massa, tra élites e classi sociali; nella seconda le dicotomie prevalenti indicano, volta a volta, una contrapposizione tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, tra dominanti e dominati.
Quanto si è detto finora ha già evidenziato l'affastellamento di molteplici e talvolta contraddittorie connotazioni del termine élite, ora adoperato al singolare, ora al plurale, ora con un significato valutativo, ora con mera valenza denotativa. Se a ciò si aggiunge la confusione generata dal frequente ricorso a sinonimi del tipo 'classe governante', 'classe superiore', 'classe politica', 'classe dirigente', 'classe dominante', 'aristocrazia', 'oligarchia', appare indispensabile sviluppare alcune considerazioni di carattere lessicale. Femminile di élit, participio passato di élire 'scegliere', il termine appare già in uso nel XII secolo, mentre a partire dal XVI incomincia a essere adoperato in relazione ai gruppi sociali, sia nel linguaggio comune che nel linguaggio colto, con il significato di eletto, scelto, eminente e distinto.
Per mettere un po' d'ordine in una letteratura che comprende migliaia di titoli, e dal momento che il vocabolo presenta tutti i vantaggi ma anche tutti gli inconvenienti dei termini troppo elastici, diventa opportuno distinguere prioritariamente tra un senso apprezzativo e uno neutro, tra un senso lato e un senso stretto. Il senso apprezzativo deriva dall'etimo eligere e trova riscontro in quegli studiosi che adoperano la parola élite come sinonimo di eminenza di valore o di capacità. È questo l'uso che ne propone Pareto che utilizza il termine come sinonimo di 'aristocrazia', intesa nel senso letterale dei 'migliori'; mentre proprio per questa sinonimia viene invece rifiutato da Mosca che gli preferisce l'espressione 'classe politica', dal momento che élite sembra "implicare un elogio che le classi dirigenti sono in molti casi ben lungi dal meritare". Peraltro l'uso apprezzativo è stato recentemente riabilitato da Giovanni Sartori che, nella sua teoria della democrazia, ha proposto di considerare l'élite come un "gruppo di riferimento di valore", dotato di capacità ed eccellenza; una definizione che consente di distinguere tra fatto e merito, cioè tra chi è al potere, la classe politica, e chi merita il potere, le potenziali élites politiche. In senso neutro, attualmente l'uso più frequente, il termine élite non viene impiegato come sinonimo di valore bensì come mero indicatore di uno stato di fatto: occupare le posizioni sovraordinate di una struttura sociale. In tale accezione il vocabolo è associato a qualunque tipo di gruppo che, pro tempore, occupi livelli di preminenza e di vertice nelle diverse gerarchie sociali e politiche. Tutte le organizzazioni, le istituzioni, le associazioni presentano in questo senso delle élites, delle minoranze gerarchiche. A questi due significati si accompagnano poi un impiego in senso largo e uno in senso stretto. Adoperata in senso ampio, la parola élite è sinonimo di posizione elevata e viene attribuita a tutti coloro che - di fatto o di diritto, meritatamente o immeritatamente - hanno di più, contano di più, ottengono di più, possono di più. Viceversa, l'uso ristretto porta il più delle volte a identificare le élites con la sola élite del potere, con una minoranza cioè che in virtù della sua organizzazione interna e della sua relativa omogeneità di composizione vede i propri membri caratterizzati da elevati gradi di coscienza, coerenza e cospirazione; una minoranza che nelle decisioni politiche fondamentali, quando si trova in contrasto con ogni altro possibile gruppo analogo, riesce a far prevalere, comunque e regolarmente, le proprie scelte.
La teoria delle élites ha svolto un ruolo essenziale nel fondare la scienza politica contemporanea come scienza empirica del potere. Tale risultato è stato raggiunto nella seconda metà dell'Ottocento scomponendo il tradizionale interrogativo della politica, 'chi ha potere?', in una serie più articolata di domande del tipo 'chi ha potere e perché, su chi e che cosa?', 'chi ha potere e come, su chi e che cosa?', 'chi ha quanto potere, su chi e che cosa?'. D'altro canto la scienza politica ha accantonato il problema dell'identificazione della 'migliore forma di governo', sostituendolo con l'individuazione degli attori reali della dinamica politica e la conoscenza delle modalità della lotta per il potere. Nel primo caso la teoria delle élites ha affrontato lo studio della natura del potere, della sua misurazione e delle modalità di esercizio. Nel secondo ha privilegiato come oggetto di studio i comportamenti concreti della politica, intessuti di egoismi, passioni, interessi, inganni e sopraffazione, rispetto alle configurazioni formali o dottrinarie. Con questo cambio di prospettiva la teoria delle élites ha introdotto il realismo nello studio contemporaneo della politica. Essa infatti ha consentito di separare la scienza politica dal diritto costituzionale insistendo sull'analisi dei poteri di fatto, oggettivi rispetto allo studio dei poteri di diritto o formali, e inoltre ha svolto una funzione critica nei confronti delle ideologie e dei miti politici diffusi nell'Ottocento, differenziandosi così dalla filosofia politica e dalla storia delle dottrine politiche.
Secondo i teorici delle élites l'osservazione della realtà dimostra che, oltre l'apparenza esteriore delle istituzioni ufficiali, al di là delle carte costituzionali, tutte le forme di governo sono riconducibili sostanzialmente a delle oligarchie; così come dimostra che i principî ideali e i valori servono, il più delle volte, a celare o a mascherare la lotta per il potere e a manipolare il consenso dei governati. La critica alle ideologie coinvolge il liberalismo, la democrazia e il socialismo. Al liberalismo la teoria delle élites obietta l'inconsistenza del principio della separazione dei poteri e l'inefficacia dei controlli meramente formali sul potere di governo; alla dottrina democratica contesta la rilevanza empirica del principio della sovranità popolare, e contrappone al mito della partecipazione politica la realtà di un'aristocrazia perennemente dominante; al socialismo, infine, rimprovera l'utopia della società egualitaria e l'infondatezza di una rivoluzione che abbia come protagonista una moltitudine di persone se non addirittura l'intera classe operaia. Nonostante questa sua connotazione antideologica la stessa teoria delle élites è stata talvolta proposta come ideologia. Ciò è accaduto tutte le volte che il concetto di élite da strumento di interpretazione della realtà politica si è trasformato in modello valutativo, accentuando gli elementi prescrittivi delle qualità della minoranza dominante. In tal senso non sono mancate strumentalizzazioni di carattere razzistico, fondate sulle presunte superiorità biologiche o etniche delle élites dominanti, così come sono state esasperate le connotazioni antidemocratiche, tese a sottolineare l'impossibilità o l'indesiderabilità del governo di tutti o quantomeno della maggioranza, e sono state accentuate quelle antisocialistiche, rivolte alla negazione e comunque all'assorbimento del conflitto sociale e della lotta di classe.
Negli anni più recenti la teoria delle élites ha attenuato notevolmente la sua originaria connotazione antideologica e la sua valenza critica si è esercitata piuttosto nei confronti di altri modelli di distribuzione del potere diffusi nella scienza politica contemporanea. In particolare essa si è confrontata con il modello marxista e con quello pluralista. Alla teoria delle classi, di derivazione marxiana, si è obiettata l'infondatezza dell'assunto che lega indissolubilmente il potere politico al potere economico. L'origine della formazione delle ineguaglianze sociali e politiche, nonché della contrapposizione tra dominanti e dominati, secondo gli elitisti non va ricercata nella proprietà privata dei mezzi di produzione, bensì nella struttura di autorità presente nei diversi contesti organizzativi. In ogni organizzazione s'individuano non due classi, ma due gruppi contrapposti: coloro che occupano le posizioni di vertice e monopolizzano il potere e coloro che si trovano a svolgere ruoli subordinati. In una società quindi vi possono essere tanti gruppi dominanti quante sono le principali organizzazioni esistenti, e i loro rapporti possono essere improntati alla competizione e al conflitto oltre che alla coesistenza e alla concertazione. L'altro modello, quello pluralista, risale ad Arthur F. Bentley (1908) e interpreta la politica come il risultato di un'incessante interazione tra gruppi di interesse e di pressione. Secondo questo modello, sviluppato negli anni cinquanta da David Truman e David Riesman, la struttura del potere delle società contemporanee risulta caratterizzata da un sostanziale equilibrio di forze controbilanciate: non esiste una élite dominante, ma una disgregazione del potere connessa a una pluralità di gruppi che competono e si controllano a vicenda nell'articolazione degli interessi e nella traduzione di questi in domanda politica. A questa configurazione gli elitisti hanno contrapposto il modello della concentrazione del potere nelle mani di una élite più o meno unitaria, e hanno eccepito la natura apparente e superficiale della conflittualità degli interessi in gioco, che maschera la realtà della difesa di alcuni interessi predominanti.
Sotto il profilo temporale la teoria delle élites si sviluppa nell'arco di un secolo, scandito in quattro periodi successivi. Un primo periodo si estende dal 1880 al 1925 ed è dominato dalla scuola italiana di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, alla quale si deve la formulazione classica della teoria. Sebbene in maniera diversa - più sensibili ai fenomeni organizzativi Mosca e Michels, più attento alle capacità soggettive e alle connotazioni psicologiche Pareto - e con diversa terminologia (classe politica, élites, oligarchia), questi autori, che spesso sono accomunati sotto la denominazione di 'eredi di Machiavelli' o di 'scuola machiavellica', hanno posto le fondamenta della teoria politica secondo la quale è sempre una minoranza a comandare e a guidare la maggioranza di una società. Una seconda fase si colloca negli anni che intercorrono tra le due guerre mondiali e si alimenta principalmente dei contributi di Harold Lasswell, Karl Mannheim e James Burnham. Un terzo periodo prende le mosse dalla fine del secondo conflitto e stabilisce i canoni di quella che si potrebbe chiamare la teoria post-classica. Essa annovera tra i maggiori protagonisti lo statunitense Charles Wright Mills e lo iugoslavo Milovan Djilas. Questa fase, che dura fino al termine degli anni settanta, oltre a segnare la trasmigrazione della teoria dall'Europa agli Stati Uniti, presenta due specifiche caratterizzazioni: l'accentuazione del carattere empirico degli studi sulle élites e la proliferazione delle indagini condotte a livello di comunità locale. L'ultimo periodo, tuttora in corso, segna una decisa battuta d'arresto nel campo della ricerca ma configura con evidente necessità l'esigenza di una teoria generale prodotta a partire dal bilancio dei risultati finora ottenuti.
La teoria della classe politica, nei termini in cui è stata codificata da Mosca nell'arco di mezzo secolo - il tempo che intercorre tra la comparsa del suo primo libro, Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), e quella della Storia delle dottrine politiche (1937) -, ha l'ambizione non solo di costituire una teoria generale della distribuzione del potere nella società, ma anche di fondare una nuova scienza politica che sia in grado di spiegare come gli Stati sorgono, si organizzano e decadono. La scoperta delle tendenze che regolano l'ordinamento dei poteri politici, delle leggi che presiedono all'organizzazione dell'umana società, passa attraverso lo studio analitico dei caratteri costanti e di quelli variabili delle classi dirigenti, e l'individuazione dei fattori da cui dipendono la loro coesione e la loro dissoluzione. Tale programma di ricerca comporta non solo la netta separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, ma soprattutto l'accumulazione di dati, raccolti e verificati in chiave storico-comparativa, in ordine ai diversi modi in cui le varie classi politiche si formano, si rinnovano e si organizzano.Il tema della formazione presenta due dimensioni, a seconda che l'analisi sia prevalentemente statica o dinamica. Da un punto di vista statico la composizione della classe politica evidenzia come le minoranze governanti ordinariamente siano "costituite in maniera che gli individui che le compongono si distinguono dalla massa dei governati per certe qualità, che danno loro una certa superiorità materiale ed intellettuale o anche morale". Per quanto tali qualità non siano sempre le stesse, potendo mutare secondo le epoche storiche, Mosca ritiene che alcune abbiano un carattere ricorrente nell'assicurare l'accesso alla classe politica. Valore militare, ricchezza, sapienza religiosa o cultura scientifica rappresentano altrettanti fattori costitutivi di una classe politica, anche se nel passato l'elemento più ricorrente nel determinare l'entrata o l'esclusione da essa è stato la nascita. Con questo fattore si introduce la dimensione dinamica della formazione che viene a coincidere con la tematica del rinnovamento. Ogni classe politica vive per un periodo più o meno lungo. I procedimenti più usuali attraverso cui essa si perpetua e si rinnova sono l'eredità, la cooptazione e l'elezione. Mosca suggerisce di studiare la dinamica politica come l'urto di due tendenze opposte: quella che mira alla perpetuazione delle posizioni di potere e quella, opposta, che tende al suo rinnovamento. La prima tendenza, che egli chiama aristocratica, ha come obiettivo la stabilizzazione del potere nei discendenti di quella minoranza che in un dato momento storico se ne è impossessata; la seconda, democratica, si propone di rinnovare la classe politica sostituendola, o almeno completandola, con elementi provenienti dalla classe governata. Se prevale la tendenza aristocratica, i membri della classe politica sono selezionati per nascita o cooptazione; se si afferma la tendenza democratica, si fa ricorso alle elezioni per realizzare un rinnovamento più o meno rapido e un ricambio più o meno ampio delle forze governanti.
Tra i problemi relativi alla classe politica, Mosca studiò con maggiore attenzione quello dell'organizzazione. Oltre alla definizione stessa di classe politica in termini di 'minoranza organizzata', non va dimenticato che tutta la scienza politica moschiana è profondamente collegata alla dimensione organizzativa del potere. Innanzitutto Mosca distingue tra organizzazione intesa come contesto, come campo strutturale che condiziona i comportamenti degli attori politici, e organizzazione come prodotto, ossia come risultato delle relazioni di potere, come conseguenza di una deliberata volontà e capacità di coordinamento. Nel primo caso organizzazione è sinonimo di gerarchia e rimanda a un requisito strutturale dell'intera collettività. Nel secondo è sinonimo di coesione e si riferisce a un gruppo speciale di persone. Pertanto, se da un lato non può esistere una società politica che non sia organizzata, cioè che non sia strutturata gerarchicamente, dall'altro ciò che rende una forza sociale politicamente rilevante è la sua organizzazione interna: "Ogni forza, perché si faccia valere proporzionatamente alla sua reale importanza, è necessario che sia ben organizzata".Il concetto di organizzazione viene adoperato da Mosca ora come sinonimo di Stato e gerarchia politica, come organizzazione esterna alla classe politica, ora invece come organizzazione interna, come risorsa indispensabile per la conquista, l'esercizio, il mantenimento, la trasmissione e l'eventuale rovesciamento del potere, come insieme di attività coscientemente coordinate poste in atto dal gruppo dirigente per accrescere la propria coesione e per conseguire obiettivi comuni. In quest'ultima accezione la dinamica organizzativa del gruppo dirigente fa riferimento a tre processi distinti: il primo riguarda il modo in cui la classe politica si è costituita e ha istituzionalizzato i rapporti tra le sue diverse componenti (frazioni); il secondo concerne i meccanismi di divisione del potere e l'insorgenza di una gerarchia all'interno della stessa minoranza governante; il terzo infine rimanda alla coesione psicologica e alla volontà di coordinazione che, cementando i contrasti di interesse e di opposizione, rende irresistibile l'azione del gruppo che detiene il potere. Rispetto all'organizzazione esterna, che tende a coincidere, come si è visto, con l'organizzazione politica della società, Mosca individua due tipi fondamentali di strutture di potere: quella in cui l'autorità viene trasmessa dall'alto verso il basso (principio autocratico) e quella opposta in cui il potere emana dai governati verso i governanti (principio liberale). Combinando assieme le tendenze relative alla formazione e al ricambio della classe politica con i principî che presiedono alla trasmissione e alla strutturazione del potere, la teoria moschiana offre un'articolata tassonomia dei sistemi politici, che configura quattro tipi ideali di organizzazione statuale: aristocratico-autocratica, aristocratico-liberale, democratico-autocratica, democratico-liberale. Il principio liberale è contraddistinto dall'introduzione di un sistema elettorale più o meno allargato; il principio autocratico fa ricorso solitamente all'ereditarietà delle cariche, anche se non è raro il caso di una suddivisione tra potere di scena, che resta appannaggio dell'autocrate titolare, e potere effettivo che invece viene affidato, anche tramite cooptazione, a un autocrate coadiutore.L'introduzione di questa tipologia consente a Mosca di sviluppare ulteriori riflessioni sull'estensione e sulla composizione della classe politica. L'attenzione alla gerarchia e all'organizzazione esterna del potere lo porta a identificare due livelli di classe politica. Tra l'esigua minoranza dei governanti, "due o tre dozzine o anche un centinaio di individui, i quali monopolizzano la direzione dello Stato", e la vastissima maggioranza dei governati Mosca colloca un "secondo strato" della classe politica, molto più numeroso del primo. Questo secondo strato comprende tutte le capacità direttrici del paese ed esercita il potere "a mezzadria" e spesso "per conto" del primo che, da solo, non potrebbe inquadrare e dirigere l'azione delle masse. Presente in tutte le forme di regime politico, questo secondo strato è più o meno ampio e viene reclutato ora sulla base della nascita e della cooptazione, ora mediante concorsi ed elezioni. Nei regimi autocratici questo secondo strato è quasi sempre formato da sacerdoti e guerrieri; nei regimi liberali esso tende a coincidere con i vertici della burocrazia e i quadri dirigenti dei partiti politici in lotta per il potere.
La teoria della classe politica si completa con l'analisi delle modalità di legittimazione del potere. Mosca chiama "formula politica" l'insieme dei principî astratti con cui i governanti tendono a giustificare la detenzione e l'esercizio del potere. Nella varietà delle formule che la storia presenta si delineano due tipi principali: quelle che hanno il loro fondamento in una credenza soprannaturale e quelle che si basano su un principio, almeno in apparenza, razionale. Credere che ogni potere derivi dal sovrano, il quale a sua volta l'ha ricevuto da Dio, è una formula del primo genere; al contrario appartiene al secondo il principio che fa derivare ogni legittimo potere dalla volontà popolare. Con l'introduzione del tema della formula politica si aprono alcuni problemi di notevole interesse per l'analisi delle forze politiche. Il primo consiste nella relazione esistente tra forze e formule. Per Mosca non è la formula che "determina il modo di formazione della classe politica, ma al contrario è questa che sempre adotta quella formula che più le conviene". Il secondo riguarda il fatto che una formula politica può esprimere coerentemente i reali rapporti di potere o, viceversa, incoerentemente tendere a giustificare il potere di gruppi che in realtà non l'hanno più: è il caso esemplificato dall'ascesa al potere della borghesia e dalla persistenza della formula politica dell'ancien régime. L'ultimo problema, infine, nasce dal grado d'incoerenza e di contraddizione insito in ogni formula politica. Tali gradi oscillano da un massimo a un minimo: il grado d'incoerenza è per esempio massimo nei regimi democratici, dove la formula politica si fonda sul principio della sovranità popolare mentre la direzione del sistema politico rimane compito esclusivo di gruppi minoritari. Il grado di contraddizione è maggiore in tutte le situazioni in cui le dottrine politiche sono improntate all'allargamento della partecipazione al potere, mentre le strutture politiche continuano a favorire il monopolio di un'oligarchia autoperpetuantesi.
La teoria delle élites di Pareto nasce dall'analisi della eterogeneità sociale e si propone di spiegare le disuguaglianze presenti nella società. La sua prima enunciazione appare nella lunga introduzione premessa ai Sistemi socialisti (1902), mentre la sua più completa formulazione va ritrovata nei capitoli del Trattato di sociologia generale (1916). Il punto di partenza della teoria paretiana, che risente degli studi condotti precedentemente da Otto Ammon, Jakov A. Novikov e Georges Vacher de Lapouge, coincide con l'analisi della curva della ripartizione della ricchezza. Questa curva configura tradizionalmente una piramide, o meglio una specie di trottola, in cui i ricchi occupano la sommità e i poveri la base. La forma della curva non è dovuta al caso, ma dipende dalla distribuzione dei caratteri fisiologici e psicologici degli individui, caratteri e qualità che a loro volta configurano una varietà di piramidi sociali. Mentre non si può sostenere che la distribuzione delle qualità individuali abbia lo stesso andamento della distribuzione della ricchezza, in quanto difficilmente un genio matematico o un sommo poeta occupano la stessa posizione in entrambe le piramidi di riferimento, si può invece osservare che, se si tiene conto del grado e del livello di influenza e di potere politico e sociale, nella maggior parte delle società sono gli stessi individui a occupare lo stesso posto nelle due gerarchie. La constatazione del fatto che coloro che occupano i livelli superiori della ricchezza occupano anche i gradi più elevati del potere spinge Pareto a concludere che le classi superiori sono generalmente le più ricche. Queste classi costituiscono un'élite, un'aristocrazia nel senso etimologico del termine. Stabilita questa definizione, l'attenzione di Pareto si sofferma sui processi di formazione, estinzione, rinnovamento e circolazione delle élites. Lo studio della formazione mette in evidenza l'esistenza di tre canali privilegiati: l'eredità, la cooptazione e l'elezione. L'estinzione sembra a sua volta dipendere da tre motivi: la distruzione o l'esaurimento biologico, il cambiamento delle attitudini psicologiche, la decadenza che insorge nei momenti di disgregazione e di pericolo ed è accompagnata dall'"invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità". In tali condizioni, per mantenere la stabilità sociale e assicurare la continuità delle élites al potere si può fare ricorso, simultaneamente o alternativamente, a due mezzi: eliminare le nuove élites insorgenti oppure assimilarle. Nel caso in cui nessuna delle due strategie venga perseguita, l'élite al potere è condannata a essere rovesciata violentemente da una rivoluzione. La storia, vero e proprio "cimitero delle aristocrazie", dimostra che il grado di conflitto tra élites varia al variare della loro circolazione e della loro permeabilità reciproca, e che solo quando si ha circolazione si ha stabilità.
La teoria delle élites di Pareto trova la sua formulazione più completa negli ultimi capitoli del Trattato di sociologia generale. Ancora una volta il punto di partenza è costituito dalla constatazione dell'eterogeneità sociale per cui gli uomini sono "diversi fisicamente, moralmente, intellettualmente". Tale disuguaglianza è accresciuta dal fatto che, in ogni ramo dell'attività umana, vi sono individui che hanno indici più alti di capacità e altri che hanno indici più bassi. Coloro che hanno gli indici più elevati compongono la classe eletta, l'élite. Ogni società quindi è composta da élites e non élites; tuttavia, al fine di studiare la forma e il movimento di una società, Pareto ritiene di dover isolare come più rilevante la classe eletta. Questa si ripartisce a sua volta in due settori: la classe eletta di governo, che raccoglie tutti coloro che "hanno il cartellino di uffici politici non troppo bassi [...] e direttamente o indirettamente hanno parte notevole nel governo", e la classe eletta non di governo, che comprende i membri dello strato superiore che non occupano tuttavia posizioni di governo.La composizione delle élites dipende in ultima analisi da due fattori: 1) le principali motivazioni all'azione (chiamate "residui" da Pareto) che caratterizzano i loro membri; 2) i settori di attività più rilevanti per strutturare l'equilibrio sociale. Nel primo caso Pareto ritiene di primissimo rilievo i residui delle combinazioni e quelli che, al contrario, rivelano sentimenti a favore della persistenza degli aggregati. Nel secondo caso vengono indicati come fondamentali per la strutturazione della società i settori governativo, politico, economico e intellettuale. Rispetto alla distribuzione dei residui, quindi, le élites sono progressiste, innovative, aperte e tolleranti, oppure conservatrici, tradizionali, chiuse e autoritarie; rispetto al settore di attività si identificano invece élites governanti, politiche, economiche e intellettuali. Combinando assieme gli elementi appena descritti, la mappa dell'eterogeneità proposta da Pareto viene a configurare quattro coppie di élites, una per ogni settore di attività, ciascuna articolata al suo interno in due componenti, a seconda della preminenza dell'uno o dell'altro residuo. L'élite di governo si ripartisce tra coloro che governano con la forza e coloro che ricorrono all'astuzia; l'élite politica si scinde in materialisti e idealisti; l'élite economica si divide tra speculatori e redditieri; l'élite intellettuale si articola in scettici e dogmatici. Ogni società è quindi caratterizzata dalla diversa proporzione dei gruppi delineati e dalla modalità con cui avviene la circolazione fra un gruppo e l'altro. Il mutamento sociale dipende dal modo in cui avviene il passaggio di elementi dalla classe non eletta alla classe eletta; il mutamento politico è legato, più specificamente, al passaggio tra classe eletta non di governo e classe eletta di governo. Le varie forme di governo differiscono poi, quanto alla sostanza, a seconda della proporzione tra forza e consenso e, quanto alla forma, a seconda dei diversi modi in cui le componenti delle élites fanno ricorso all'una o all'altro.Preceduta da una serie di saggi sulla classe politica e le tendenze oligarchiche presenti nella società, fa la sua comparsa, nel 1911, la prima edizione tedesca della Sociologia del partito politico di Roberto Michels. Con questo contributo, tradotto in italiano nel 1912, in francese nel 1914 e in inglese nel 1917, la teoria classica delle élites si arricchisce di un ulteriore tassello: l'insorgenza di una élite di potere in tutte le organizzazioni a base volontaria. Anche in questo caso, come già in Mosca, viene privilegiato il legame che intercorre tra organizzazione e gruppo di potere. Ma mentre in Mosca l'organizzazione è vista soprattutto come un requisito per la formazione della minoranza governante e uno strumento per l'esercizio del potere, Michels tende a dimostrare che la stessa organizzazione finisce per consolidare il gruppo dirigente e per diventare la causa principale della sua trasformazione da leadership in oligarchia.
Per Mosca la minoranza genera l'organizzazione per consolidare e imporre il proprio potere; per Michels l'organizzazione genera la minoranza per esigenze di sopravvivenza e di successo nel raggiungimento dei fini. Per quanto il libro di Michels si possa leggere come un vero e proprio trattato di sociologia della leadership, e della leadership di partito in particolare, il contributo più saliente dell'analisi va ritrovato nella codificazione della legge ferrea dell'oligarchia che, nella sua formulazione più completa, recita: "chi dice democrazia dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi dice democrazia dice oligarchia". Come si può notare dall'enunciato della legge, due sono le ipotesi verificate nel corso della ricerca: la prima concerne il rapporto che lega lo sviluppo dell'organizzazione alla nascita e al consolidamento di un'oligarchia dirigente; la seconda tende a dimostrare che anche le organizzazioni non costrittive di ispirazione democratica o, come nel caso della socialdemocrazia tedesca studiata da Michels, di chiara derivazione socialista tendono a sviluppare un gruppo dirigente minoritario, una nuova élite, che si impone alla stragrande maggioranza degli associati. Le ragioni dell'insorgenza dell'oligarchia vengono fatte dipendere da un concorso di elementi che comprendono: fattori organizzativi, quali l'ampliamento delle dimensioni organizzative e l'aumento dei compiti; fattori di psicologia individuale, concernenti le qualità vere o presunte dei leaders; fattori di psicologia collettiva, che rimandano all'apatia, al misoneismo delle masse e al bisogno di venerazione dei capi.
Le minoranze dirigenti dei partiti di massa tendono a suddividersi in due gruppi: i leaders elettivi, che dipendono direttamente dal consenso elettorale, e i leaders burocratici, la cui posizione di potere è legata al controllo dell'apparato. Non tutte le leaderships di partito si trasformano necessariamente in oligarchie. Solo quando s'instaura una stretta connessione tra competenza, indispensabilità e inamovibilità si può parlare propriamente di élite oligarchica. In questo caso i membri dell'élite tendono a cumulare le cariche e ad accentrare il potere. Alla loro identificazione con il partito fa seguito il fatto che interessi personali o di gruppo vengano proposti agli associati come interessi dell'intera organizzazione. Le conseguenze dell'affermazione di un'oligarchia sono di tre tipi. Rispetto agli oppositori, si assiste a una chiusura di casta del gruppo dirigente e al ricorso a pratiche di cooptazione. Rispetto al partito si verifica, da un lato, quel fenomeno che Michels chiama "sostituzione dei fini", ossia il fatto che "l'organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa", e, dall'altro, si accresce la prudenza, l'immobilismo, quando non addirittura la conservazione. Rispetto agli iscritti o agli elettori, infine, si manifesta una crescente differenziazione degli interessi e delle aspettative, cui si accompagna una concomitante deresponsabilizzazione dei leaders nei confronti dei propri seguaci.
L'oligarchia di partito è quindi per Michels il risultato dell'organizzazione della lotta politica nelle democrazie rappresentative e si caratterizza, sotto il profilo della composizione, per l'ingresso nelle sue file di veri e propri professionisti della politica. Memore dell'insegnamento di Weber sui rapporti che intercorrono tra processi di razionalizzazione, burocratizzazione e professionalizzazione, Michels presenta i membri della leadership del partito di massa come "burocrati della politica", una "casta di politici di professione", di tecnici dell'organizzazione i quali, in virtù delle loro competenze, tendono a ridurre la lotta politica a gestione amministrativa e a trasformare la mobilitazione degli associati in partecipazione passiva e istituzionalizzata. La competizione tra i partiti e, all'interno di questi, tra i diversi leaders non ha come conseguenza la sostituzione di un gruppo dirigente con un altro: il più delle volte essa si conclude con un lento processo di rinnovamento e di fusione, in cui la cooptazione assurge a principale canale di selezione della leadership. Il ricorso continuo alla cooptazione - meccanismo mediante il quale i vecchi leaders offrono ai nuovi cariche onorifiche per lo più prive di potere effettivo -, se da un lato porta i potenziali avversari a condividere le responsabilità di potere senza averne concreti e immediati vantaggi, dall'altro vanifica le procedure elettive e annulla la responsabilità dei dirigenti del partito, sia nei confronti degli iscritti sia nei confronti degli elettori.Un'oligarchia selezionata per cooptazione stravolge inoltre la rispondenza della leadership alle aspettative e ai desideri dei seguaci, e rimodella il problema dell'efficienza organizzativa. L'introduzione del principio della delega, adottato nel partito in analogia con il sistema politico caratterizzato da una democrazia rappresentativa e quindi indiretta, riduce il coinvolgimento e il senso di responsabilità delle masse e al tempo stesso "produce un diritto morale al proseguimento della stessa". I dirigenti che ricevono una regolare delega per un determinato periodo di tempo pretendono di trasformarla in carica a vita, quasi fosse una loro proprietà. Questo spiega secondo Michels perché i leaders non cercano di adeguarsi ai desideri degli elettori, ma hanno presente principalmente l'interesse dell'organizzazione dalla quale traggono potere, quando addirittura non perseguono, egoisticamente, obiettivi e vantaggi personali. Analogamente anche il problema dell'efficienza, ossia l'adeguatezza dei leaders ai compiti che debbono affrontare, subisce una profonda alterazione. Un gruppo dirigente stabile e centralizzato è in condizione di scegliere tra diverse alternative che comprendono sia il perseguimento degli interessi dei seguaci, sia la realizzazione degli interessi dell'organizzazione in sé e per sé, sia infine il soddisfacimento degli interessi dello stesso nucleo dirigente. Ma mentre la scelta di interessi più vasti di quelli degli associati può essere attribuita a una élite lungimirante, che persegue il rafforzamento e il consolidamento dell'organizzazione da essa diretta anche per conto dei suoi aderenti, la scelta degli interessi personali configura un'oligarchia non solo irresponsabile ma sfruttatrice, una vera e propria casta che, all'interno del partito di massa, riproduce la divisione tra governanti e governati, trasformando i delegati in sovrani e i gestori del partito in padroni.
Negli anni che intercorrono tra la fine del primo conflitto mondiale e quella del secondo la teoria delle élites viene riproposta in diversi contesti nazionali, ma, se si escludono alcuni contributi americani, si è di fronte più ad applicazioni o esemplificazioni che a formulazioni teoriche innovative. In Italia, dove Mosca dà alle stampe la versione definitiva della sua teoria nella seconda edizione ampliata degli Elementi di scienza politica (1923), i contributi più significativi nel campo della classe politica fanno capo soprattutto a Piero Gobetti, che utilizza il concetto moschiano come una delle idee direttrici sia della sua ricerca storica, sia del suo programma politico. Più fortuna riscuote la teoria delle élites di Pareto. Applicata dallo stesso autore in una serie di saggi dedicati agli sconvolgimenti sociali e politici intervenuti in Europa nel dopoguerra (saggi raccolti successivamente nel volumetto Trasformazione della democrazia, apparso nel 1921), la teoria viene ripresa pochi anni più tardi da Carlo E. Ferri nel libro Lineamenti di una teorica delle élites in economia (1925), a testimonianza della continuità di un filone di studi che già in precedenza aveva costituito l'oggetto privilegiato dell'indagine di due economisti di scuola paretiana: Gino Borgatta e Guido Sensini. D'altro canto, gli scrittori più vicini al fascismo preferiscono affrontare lo studio dei rapporti di potere nell'ottica delle relazioni fra il duce e le masse, e solo due contributi di rilievo, La classe dirigente (1926) di Roberto Cantalupo e Governanti e governati del nostro tempo (1933) di Guido Bortolotto, si propongono di conciliare le teorie di Mosca e di Pareto con l'organizzazione politica del fascismo. Nel frattempo c'è da registrare anche l'interesse di Antonio Gramsci che, per quanto estremamente critico nei confronti degli autori e delle loro opere, finisce per fare proprie molte delle osservazioni della teoria classica delle élites, a partire dall'accettazione del fatto "primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)" che "esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti".
Ma è soprattutto negli Stati Uniti, dove le principali opere di Michels, Pareto e Mosca vengono tradotte rispettivamente nel 1917, nel 1935 e nel 1939, che si assiste a un rilancio della teoria. I primi ad applicare il modello michelsiano sono i suoi stessi traduttori in lingua inglese, i coniugi Eden e Cedar Paul, che nel 1920 danno alle stampe uno studio sulla rivoluzione sovietica (Creative revolution. A study of communist ergatocracy), che si conclude con la descrizione della nuova oligarchia dominante. Il contributo più importante degli anni trenta è invece legato a quella che è stata chiamata la Scuola di Chicago e ai lavori di Harold D. Lasswell. Il suo volume Politics: who gets what, when, how, apparso nel 1936, costituisce una vera e propria riformulazione delle tesi proposte da Pareto. Lasswell infatti ritiene di identificare le élites sulla base del successo, anziché delle capacità, e restringe gli indeterminati settori di attività di cui parlava il sociologo italiano a tre soli 'valori', che giudica più rilevanti per l'analisi politica: ricchezza, deferenza e sicurezza. L'élite risulta quindi composta da coloro che occupano la posizione di vertice nelle tre piramidi di distribuzione dei valori considerati. Di questa élite, i cui membri rappresentano gli influenti, i potenti, "coloro che hanno di più nella società", Lasswell studia poi in dettaglio i metodi adoperati per conquistare o per conservare il predominio, il ricorso agli strumenti di violenza o agli apparati simbolici - l'ideologia e la propaganda -, le pratiche di governo perseguite ora in direzione dell'ampliamento della democrazia ora in vista del consolidamento di un regime dittatoriale.
Gli anni quaranta sono contraddistinti da due lavori di James Burnham. Il primo, The managerial revolution (1941), costituisce una fortunata valorizzazione della tendenza a interpretare la storia del XX secolo in termini di crescente burocratizzazione; il secondo, apparso due anni più tardi, rappresenta già a partire dal suo titolo, The Machiavellians, una delle più complete e più popolari esposizioni della tradizione elitistica europea. L'assunto di Burnham nel primo lavoro è che il sistema capitalistico è in declino, come dimostra la progressiva estromissione dei proprietari dal controllo della produzione a favore di una élite di dirigenti e tecnocrati. Coniugando la teoria delle classi di impostazione marxista con le analisi di Mosca e di Pareto, Burnham arriva alla conclusione che il controllo e non la proprietà degli strumenti di produzione assicura l'accesso al potere, e che la classe dominante del futuro sarà costituita da una minoranza di managers tecnicamente indispensabili. Il secondo libro invece, che reca come sottotitolo I difensori della libertà, si propone di divulgare una politica scientifica e presenta dettagliatamente i teorici dell'élite come "gli unici che hanno detto la completa verità sul potere", mettendo in luce, tra l'altro, come la libertà in un sistema politico dipenda dall'esistenza e dall'attività di un'opposizione in grado di limitare e controllare effettivamente il potere dell'élite dominante pro tempore. L'ultimo contributo di rilievo apparso in questi anni consiste infine in una ricerca di Michels sugli spostamenti sociali e intellettuali del primo dopoguerra, pubblicata postuma in Italia nel 1936 con il titolo Nuovi studi sulla classe politica.
La ripresa della teoria elitistica nel secondo dopoguerra vede in prima fila due studiosi italiani: Guido Dorso e Filippo Burzio. Il primo prende le mosse dalla teoria moschiana, il secondo si richiama invece all'opera di Pareto. Il saggio di Dorso, Dittatura, classe politica e classe dirigente, è scritto in occasione di un convegno sui problemi del Mezzogiorno, svoltosi a Bari nel dicembre 1944. In esso si ritrova la distinzione di rilievo, nell'ambito dell'élite del potere, tra classe dirigente e classe politica: la prima comprende tutti coloro che in una determinata società svolgono una funzione direttiva, economica, politica, intellettuale; la seconda coincide con quella parte della classe dirigente che esercita esclusivamente funzioni politiche e agisce come "comitato direttivo" o "strumento tecnico" della prima. Dorso si dimostra particolarmente sensibile all'interdipendenza tra classe dirigente e classe diretta, studia i partiti politici come canale di formazione e di circolazione delle élites, si sofferma sulle modalità della lotta politica che, nella società contemporanea, portano alla scissione della classe politica in due ulteriori distinte frazioni: la classe di governo e la classe di opposizione. Con Essenza e attualità del liberalismo, uscito all'indomani della liberazione, nel 1945, Burzio riprende la paretiana teoria delle élites con il duplice proposito di elaborare una nuova tipologia delle minoranze dirigenti e di formulare un programma politico d'ispirazione liberal-democratica. Due sono le leggi sociologiche fondamentali che sono alla base del suo progetto: la legge dell'ineguaglianza, o delle élites, e la legge della loro circolazione. Come pure due sono sostanzialmente i principî che presiedono alla formazione e alla trasformazione delle élites: il postulato liberale e quello autoritario nel primo caso, il postulato democratico e quello aristocratico nel secondo. Ne consegue che un programma politico che si vuole liberal-democratico deve tendere a selezionare le élites mediante la concorrenza e far sì che esse vengano elette e controllate dai cittadini: solo a queste condizioni si avranno élites aperte, tolleranti, benefiche; élites che "si propongono" e non "si impongono" ai governati.
Se i lavori di Dorso e di Burzio testimoniano la ripresa e l'approfondimento dell'elitismo nell'Italia post-fascista, e il suo accreditamento in pensatori di provata fede democratica, è tuttavia all'estero che bisogna guardare per trovare significativi contributi di teoria generale. Sotto questo profilo gli anni cinquanta segnano una significativa ripresa della teoria delle élites che, attraverso gli apporti di Lasswell, Mills e Djilas, riacquista una posizione centrale negli studi sul potere e viene ad assumere rinomanza internazionale. Il contributo di Lasswell è legato a un libro e a un progetto. Il libro, Power and society (1950), redatto insieme al filosofo Abraham Kaplan, rappresenta lo sforzo più maturo condotto in quegli anni per formulare un lessico e una metodologia adatti a una teoria politica empiricamente orientata. Il progetto, impostato per conto del Hoover Institute di Stanford in California, si propone di studiare le principali rivoluzioni del XX secolo alla luce delle élites che le hanno guidate. Ma mentre tale progetto si esaurisce rapidamente in quattro monografie raccolte successivamente nel volume World revolutionary elites (1965) - rispettivamente dedicate al politbjuro sovietico, all'élite fascista, a quella nazista e al Guomindang cinese - nelle pagine di Potere e società si trovano concetti e formulazioni sul potere e sulle élites destinati ad assumere un grande rilievo nella scienza politica contemporanea. Innanzitutto Lasswell pone al centro della politica non più il semplice possesso di risorse o di valori, bensì l'effettiva partecipazione al processo in cui vengono prese le decisioni significative per la società. Ciò gli permette di distinguere tra l'élite del potere, ossia coloro che occupano una posizione preminente nel processo decisionale, e la classe dominante, costituita dalle persone che hanno posizioni di rilievo nell'ambito della distribuzione dei valori. Questa separazione consente a Lasswell non solo di superare la rigida dicotomia governanti-governati, a favore di una più ampia ricognizione della costellazione dei gruppi, delle influenze e dei poteri reciproci presenti in una società, ma anche di stabilire delle tipologie più articolate che, da un lato, evidenziano la presenza di un'élite, di un'élite media e di una massa all'interno di ciascun gruppo e, dall'altro, distinguono tra una classe dominante, detentrice del potere effettivo, una classe dipendente, titolare del potere formale, e una classe soggetta, dotata a sua volta, sia pure in misura minore, di quote di potere.
Con la pubblicazione del libro di Charles Wright Mills, The power elite (1956), la teoria delle élites compie un significativo salto di qualità. In primo luogo questo lavoro costituisce la prima verifica empirica sorretta da un appropriato metodo sociologico e da un'ampia documentazione - se si eccettua l'analisi condotta da Mosca nella Teorica dei governi (1884) sulla classe governante italiana di fine secolo - dell'esistenza di un'élite del potere in una società contemporanea. In secondo luogo esso riguarda una nazione, gli Stati Uniti, in cui non solo l'ideologia dominante è improntata al più radicale egualitarismo, ma dove gli studi condotti fino a pochi anni prima avevano a più riprese evidenziato l'esistenza di una struttura del potere amorfa e indifferenziata. Basti pensare alle conclusioni della ricerca pubblicata nel 1950 da David Riesman, in cui si sottolineava la presenza di una miriade di gruppi di potere tra loro bilanciati, forti a sufficienza da impedire la presa di decisioni contrarie ai propri interessi, ma non abbastanza da promuoverne a proprio esclusivo vantaggio. La configurazione della struttura del potere delineata da Mills è radicalmente opposta. Attraverso una dettagliata analisi storica e sociologica, Mills dimostra come gli Stati Uniti degli anni cinquanta siano dominati da una ristretta élite del potere composta da coloro che occupano le posizioni chiave nei tre settori dell'economia, dell'esercito e della politica. Ed è proprio nell'individuazione delle componenti del gruppo dirigente che va ritrovato il contributo più saliente di Mills alla teoria delle élites. A differenza di Pareto, il sociologo americano ritiene infatti che la composizione di un'élite non possa essere definita in termini di successo o di capacità dei suoi membri, ma debba invece essere analizzata nel contesto della struttura economica e sociale. Le posizioni di potere non sono legate tanto alle qualità degli individui, quanto ai ruoli che essi svolgono nelle grandi istituzioni in cui si articola la società. Il potere è istituzionalizzato e certe istituzioni occupano, per la loro burocratizzazione e il grado di accentramento decisionale, posizioni strategiche nella struttura sociale. I massimi livelli della gerarchia di queste istituzioni corrispondono alle posizioni-chiave del potere, dal momento che assumono decisioni di portata almeno nazionale. Per quanto eterogenea in termini di composizione istituzionale e differenziata al suo interno secondo una gerarchia di poteri, l'élite risulta tuttavia unificata al punto da costituire un 'raggruppamento coerente'. Tale unitarietà dipende, secondo Mills, da tre ordini di fattori: la permeabilità sociale e l'affinità psicologico-culturale dei suoi membri, i rapporti reciproci e i punti d'interesse comuni, la coordinazione esplicita. Ciò non significa tuttavia che l'élite del potere sia monolitica e totalmente stabile: i membri dell'élite non solo non costituiscono un gruppo permanente dai confini fissi e formali, ma sono sottoposti a un'intensa circolazione. Peraltro, questa circolazione risulta attenuata sia dalla sostanziale omogeneità sociale dei requisiti necessari per essere selezionati e per occupare le posizioni di vertice, sia dalla notevole interscambiabilità, realizzata mediante cooptazione, che si verifica tra i titolari delle gerarchie istituzionali. A un'élite il cui operato è sovente sconosciuto al pubblico, essendo improntato alla segretezza, si contrappone una massa di cittadini atomizzati, la cui eterodirezione risulta accentuata dalla centralizzazione dei mezzi di informazione nelle mani di pochi. L'uomo della strada dispone di poteri limitati al mondo quotidiano in cui vive: l'educazione obbligatoria e il monopolio dei mass media consentono alle élites di formare le opinioni, suscitare i problemi, canalizzare le aspirazioni, orientare gli atteggiamenti attraverso una manipolazione costante che costituisce il modo più diffuso di esercizio del potere nella società industriale contemporanea.
Nello stesso anno in cui Mills dava alle stampe la sua ricerca sull'élite del potere in America, il sociologo iugoslavo Milovan Djilas terminava la stesura della sua analisi dell'oligarchia dei paesi socialisti, conosciuta in Occidente sotto la suggestiva denominazione di La nuova classe. Sviluppato in una prospettiva e con una metodologia rigorosamente marxiste, il lavoro, che tuttavia doveva costare al suo autore dieci anni di prigione, si presenta come "una critica marxista del comunismo contemporaneo" e come la verifica del fatto che anche nell'Unione Sovietica e negli altri paesi comunisti si fosse consolidata un'élite del potere, una nuova classe dominante, il cui potere "è il più assoluto conosciuto finora dalla storia". La dimostrazione dell'esistenza di uno strato sociale e politico privilegiato che sorge dall'apparato di partito prende l'avvio dalla constatazione che il comunismo realizzato nell'Europa orientale coincide in realtà con l'instaurazione di un capitalismo di Stato. In un sistema in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione risulta virtualmente abolita è la burocrazia professionale del partito unico che formalmente "fa sua, amministra e controlla" sia la proprietà nazionalizzata sia l'intera vita della società. La nuova classe dominante deve il suo potere al controllo monopolistico dei mezzi di produzione: la macchina statale diventa quindi elemento di protezione e strumento di potere per una minoranza privilegiata. Ciò non toglie tuttavia che la "nuova classe" presenti alcune caratteristiche strutturali che la distinguono e la differenziano dalle classi dominanti del passato. In primo luogo le origini sociali dei suoi membri vanno ritrovate non negli strati superiori, ma nel proletariato; inoltre essa non è reclutata attraverso l'ereditarietà, bensì attraverso un continuo collegamento con "i più bassi e larghi strati" della popolazione. Formalmente aperta a tutti, essa richiede tuttavia come criterio di inclusione "la sincera e completa lealtà verso il partito o verso la nuova classe". Meglio organizzata delle precedenti, più intransigente - come dimostra la fermezza adoperata nei confronti di oppositori e antagonisti - la nuova classe trova la sua spina dorsale nella burocratizzazione della società e nell'esistenza di un partito unico in grado di imporre una completa uniformità ideologica e una disciplina di ferro. Sono queste le basi per l'affermazione di una dittatura totalitaria dell'oligarchia di partito o per il consolidamento di una dittatura personale. In questo caso il titolare del massimo potere è colui che esprime e protegge più ragionevolmente ed efficacemente "gli interessi della nuova classe in un dato momento".
Agli inizi degli anni sessanta si consolidano due modelli di tipo funzionale. Il primo, ispirato a Parsons, viene delineato da Suzanne Keller nel libro Beyond the ruling class (1963); il secondo, più complesso, è presentato nel 1964 da Carl Beck e da James M. Malloy al VI Congresso mondiale dell'Associazione Internazionale di Scienza Politica. La Keller imposta la sua ricerca sul concetto di élites strategiche, individuate sulla base dei processi di differenziazione e specializzazione in atto nelle società industriali avanzate, e perviene all'identificazione negli Stati Uniti di una decina di élites, che con il loro numero e la loro eterogeneità smentirebbero in maniera clamorosa la tesi di Mills relativa all'esistenza di un'unica élite del potere. Di carattere più ambizioso è invece la proposta di Beck e Malloy che, con valenza descrittiva e classificatoria, costruiscono un modello che configura tre tipi ideali di élites, distinti sulla base della dimensione divisione/unità e della distinzione permeabilità/impermeabilità. Si delineano così élites unite e impermeabili, come quelle al potere nei paesi totalitari; élites divise e impermeabili, tipiche dei paesi sudamericani; élites divise e permeabili, presenti nelle democrazie competitive occidentali.Un'ulteriore rivitalizzazione della teoria si manifesta quasi vent'anni dopo attraverso gli studi di G. Lowell Field, John Higley e Michael G. Burton. Questi studiosi ripropongono un nuovo paradigma elitista, che nelle loro intenzioni dovrebbe dare nuovo impulso alla ricerca politologica e porre le basi per una teoria generale del potere. A partire da Elitism, apparso nel 1980 ad opera di Field e Higley, per arrivare a The elite variable in democratic transitions and breakdowns, pubblicato da Higley e Burton nel 1989, il nuovo paradigma elitistico si sta progressivamente ponendo al centro dell'attenzione della sociologia politica americana per la sua capacità di affrontare in chiave comparativa i nessi tra tipi di élites governanti e stabilità politica. Esso viene anche adoperato per ripercorrere la storia politica dell'Occidente, a partire dal Cinquecento, in cerca dell'individuazione dei fattori che hanno indotto l'affermarsi della democrazia o alternativamente lo scoppio delle rivoluzioni.
La necessità di verificare empiricamente la presenza o l'assenza di élites del potere, in base a una metodologia improntata alle tecniche quantitative, ha fatto nascere, a partire dalla metà degli anni cinquanta, un gran numero di ricerche sulla struttura del potere. Questi studi, protrattisi fino alla metà degli anni settanta, hanno a lungo costituito uno dei campi d'indagine più significativi della scienza politica contemporanea, la sede privilegiata per lo studio delle élites, e hanno avuto come oggetto soprattutto le comunità locali ritenute più facilmente accessibili per la raccolta dei dati. Tra le centinaia di indagini, dedicate ora a villaggi con poche migliaia di abitanti, ora a città delle dimensioni di Chicago e New York, due si sono imposte per il loro carattere paradigmatico: la ricerca condotta da Floyd Hunter su Atlanta, capitale della Georgia, e quella sviluppata da Robert Dahl su New Haven, una cittadina del Connecticut con 150.000 abitanti. La prima, che praticamente ha dato l'avvio a questo filone di studi, è stata pubblicata nel 1953 con il titolo Community power structure e ha dimostrato l'esistenza, anche a livello di comunità, di un'unica élite del potere, omogenea e coesiva, che esercita il suo dominio in modo informale e 'nascosto', facendo ricorso a pressioni e a manipolazioni per ottenere il consenso. La seconda, data alle stampe pochi anni dopo con il titolo Who governs? (1961), ha viceversa individuato la presenza di una molteplicità di élites, eterogenee e in concorrenza tra loro, che subiscono la forte influenza che i cittadini possono esercitare sul loro operato mediante varie forme di partecipazione politica e, soprattutto, attraverso l'esercizio del voto.
La struttura del potere descritta da Hunter è configurabile come una piramide il cui vertice comprende solo una quarantina di persone a fronte di una comunità di cinquecentomila abitanti. Fra l'esigua minoranza che costituisce l'élite e la totalità dei cittadini si frappone uno strato intermedio di alcune centinaia di individui che, dotati per lo più di potere formale, svolgono un ruolo esecutivo e ausiliario rispetto alle decisioni assunte dal vertice. Ma i dati più significativi riguardano tre fenomeni che l'indagine evidenzia: la predominanza dell'élite economica sull'élite politico-amministrativa, l'esistenza di un alto grado di coesione tra i detentori del potere, la quasi totale assenza di responsabilità per le loro azioni. Viceversa, la struttura del potere di New Haven configura una molteplicità di piramidi di potere, una per ciascun settore decisionale. Questa pluralità di élites risulta inoltre accentuata dall'eterogeneità della provenienza sociale dei loro membri, dalla mancata integrazione delle diverse componenti, spesso in contrasto e competizione tra loro, dall'assoluta fluidità delle posizioni pro tempore prevalenti, dalla responsabilità continua nei confronti del corpo elettorale.
Con l'apparire di queste due ricerche la teoria delle élites, fino allora unitaria, ha conosciuto l'affermazione di due modelli radicalmente opposti. Il primo modello, che è stato chiamato elitistico, descrive l'élite del potere nazionale o locale accentuando la contrapposizione tra i 'pochi' dominanti e la 'massa' subordinata, e presenta l'élite come una minoranza unica, omogenea e coesiva; il secondo modello, che è conosciuto come pluralistico, sottolinea invece il processo di reciproca interdipendenza e condizionamento che lega, almeno nelle democrazie occidentali, i 'pochi' ai 'molti', e configura l'élite del potere come l'insieme di una pluralità di minoranze, eterogenee e discordanti. Si è venuta così delineando la contrapposizione tra due modelli di distribuzione del potere che, col tempo, non solo ha dato luogo a due vere e proprie 'scuole' diverse, ma si è spinta al punto di alimentare due prospettive ideologiche opposte. L'antitesi tra 'scuole' è arrivata all'estremo di attribuire ai sociologi una propensione per il modello elitistico, e di imputare ai politologi una predilezione per il modello pluralistico. Il contrasto ideologico ha confusamente indotto a qualificare ora come 'conservatori', ora come 'radicali' i sostenitori dell'élite unica, mentre ha gratificato della connotazione di 'progressisti' o di 'democratici' quanti hanno difeso l'esistenza di una molteplicità di gruppi di potere.Ma al di là di queste polemiche, che dimostrano ancora una volta il nesso che esiste tra concezioni teoriche e prospettive ideologiche, o più propriamente tra uso scientifico e uso ideologico di una teoria, le reali divergenze tra elitismo e pluralismo possono essere ricondotte a tre ordini di fattori: il concetto di potere adoperato, le ipotesi di partenza, il metodo impiegato nel corso della ricerca. Per quanto concerne il concetto di potere, gli elitisti restano ancorati a una prospettiva 'sostanziale', che lega il potere alle risorse che ne costituiscono o possono costituirne la base. Essi ritengono che il potere sia un fenomeno cumulativo, che dà luogo a una distribuzione a somma zero, nel senso che un individuo o un gruppo godono di una quota di potere nella stessa misura in cui altri individui o gruppi ne sono privi, che il potere di un soggetto aumenti o diminuisca nella misura in cui aumenta o diminuisce il potere di un altro soggetto. Inoltre per gli elitisti il potere è essenzialmente potere sulle persone ed è tendenzialmente antagonistico, coercitivo e unidirezionale, dal momento che dal vertice fluisce a senso unico verso la base della piramide sociale. Per i pluralisti, invece, il potere ha un carattere relazionale e non è una sostanza immutabile che conserva uno stesso peso e una stessa validità erga omnes. Al contrario è un rapporto differenziato che varia a seconda dei soggetti coinvolti, delle questioni cui si applica, del momento in cui si estrinseca. Sottoposto come tutte le relazioni sociali alla regola delle reazioni previste, regola che stabilisce un'anticipazione delle reazioni altrui alla propria azione, per i pluralisti il potere comporta quindi un'incessante negoziazione nel rapporto comando-obbedienza e un costante ricorso alle pratiche del consenso. Ancora, il potere è una delle tante risorse presenti nella società, è prevalentemente esercitato in vista del perseguimento di obiettivi e fluisce secondo un andamento bidirezionale dal vertice alla base e viceversa.
Un altro modo di evidenziare la differenza tra elitisti e pluralisti consiste nell'individuare le rispettive ipotesi di ricerca. Partendo dalla constatazione di una diseguale distribuzione delle risorse (ricchezza, prestigio, status, ecc.), gli elitisti ipotizzano un'analoga distribuzione del potere politico; i pluralisti, pur accettando l'ineguale distribuzione delle risorse e della influenza politica, non condividono l'assunto secondo cui esse sarebbero distribuite allo stesso modo in tutte le società o in tutte le componenti di una stessa comunità politica. La cumulatività delle ineguaglianze e l'automatica conversione delle risorse economico-sociali in potere politico costituiscono per i pluralisti un oggetto specifico di ricerca. Dal che si deduce che, mentre gli elitisti intraprendono lo studio della struttura di potere alla luce dell'interrogativo 'chi possiede il potere?', i pluralisti si domandano invece: 'chi governa?'. Limitandosi al primo quesito si corre il rischio di confondere il potere potenziale con il potere reale; insistendo sul secondo si può essere indotti a scambiare il potere esercitato con il potere effettivo.Anche le opinioni in tema di diffusione o di concentrazione del potere contribuiscono a differenziare le prospettive in esame. Per gli elitisti il potere tende alla concentrazione, sia per il suo stretto legame con le risorse, sia per la tendenza a stabilizzarsi in istituzioni gerarchicamente organizzate. Per i pluralisti, al contrario, il potere è intrinsecamente condiviso, diffuso e disperso, dal momento che le relazioni di potere sono molteplici e compartimentalizzate e i soggetti che soccombono in un campo possono essere i vincitori in un altro. Da queste due differenti prospettive sono nate due configurazioni alternative dell'élite: la prima (monistica) tende a descriverla come un gruppo unico, unitario, coeso; la seconda (pluralistica) come un insieme di gruppi, divisi e discordanti. Da ultimo, a partire dai lavori di Peter M. Bachrach e Morton Baratz, The two faces of power (1962) e Power and poverty (1970), si è delineata una nuova prospettiva di ricerca che è conosciuta come 'neo-elitista'. Essa si propone di studiare la dimensione non visibile del potere, che sfugge sia agli elitisti, propensi a considerarne detentori coloro che occupano i vertici delle gerarchie istituzionali, sia ai pluralisti, convinti di dover concentrare l'analisi sulla diretta partecipazione ai processi decisionali. La nuova ipotesi di ricerca, tradotta nell'interrogativo 'chi trae vantaggio?', presuppone che qualsiasi status quo attribuisca vantaggi a qualcuno in modo non proporzionato e che queste persone debbano essere identificate come i reali detentori del potere, anche se non occupano cariche formali e se non sono visibilmente coinvolte nel processo decisionale.Un terzo elemento che può spiegare la divergenza tra elitisti e pluralisti chiama in causa le tecniche adottate nel corso dell'indagine. A mettere in evidenza l'esistenza di una correlazione tra metodo e configurazione della struttura di potere è stato John Walton che, in un articolo apparso nel 1966, Substance and artifact: the current status of research on community power structure, dopo aver considerato trentatré differenti ricerche relative a cinquantacinque comunità, è giunto alla conclusione che l'adozione di un metodo reputazionale porta a individuare una piramide del potere, mentre il ricorso al metodo decisionale favorisce la conclusione opposta, secondo cui esiste una pluralità di centri di potere. Il primo, che è il metodo più di frequente scelto dagli elitisti - è stato adoperato ad esempio da Hunter -, consiste nel descrivere la struttura del potere e nell'identificare la composizione dell'élite basandosi sul parere di 'giudici' opportunamente prescelti. Il ricorso alla reputazione degli esperti, cui si chiede di fornire indicazioni sulle persone più influenti della comunità, indicazioni che vengono in vario modo verificate attraverso una serie di controlli incrociati che culminano con le interviste dirette ai membri dell'élite, porta solitamente a sopravvalutare il potere 'dietro le quinte' e ad accentuare il carattere 'cospirativo' dell'esercizio del potere nonché la coesione, la consapevolezza, la coordinazione e la cospirazione della minoranza dominante.
Viceversa, il metodo decisionale, elaborato per oltrepassare la 'facciata' delle reputazioni e delle posizioni formali, consiste nell'individuare gli attori che di fatto prendono parte direttamente ai principali processi decisionali della comunità. Questo metodo consente di differenziare le varie aree di esercizio del potere, come pure di distinguere tra un potere generale e un potere specializzato. Delineato nelle sue linee generali da Dahl, esso comporta una netta distinzione tra decisioni fondamentali e decisioni di routine, e richiede l'attenta ponderazione dell'attività di quanti partecipano alle decisioni, attività che si può manifestare nella promozione di una scelta che supera l'opposizione, nell'esercizio di un veto sulle scelte promosse da altri, oppure nel sostenere una scelta che non incontra opposizione. A questi metodi i neo-elitisti ne hanno affiancato un terzo, conosciuto come analisi della 'mobilitazione delle preferenze'. Partendo dal presupposto che il potere non si esprime unicamente in decisioni concrete, ma si realizza anche nel sopprimere le decisioni che sarebbero sfavorevoli, i sostenitori di questo metodo suggeriscono di considerare pure il contesto istituzionale e organizzativo in cui le decisioni vengono prese. Ciò equivale a spostare il fuoco dell'analisi sulle regole del gioco e sui valori dominanti, che potrebbero preselezionare le proposte su cui decidere, limitandole a quelle su cui esiste un consenso generalizzato, o addirittura non includere nell'agenda decisionale quei temi che si ritengono lesivi degli interessi dominanti.
Il dibattito conseguente alla contrapposizione tra elitismo e pluralismo ha avuto, tra gli altri meriti, anche quello di ridare attualità a un vecchio e spinoso problema: la compatibilità tra élite e democrazia. La storia di questo rapporto è più che secolare, in quanto affonda le sue radici nella seconda metà del secolo scorso, e ha conosciuto tante manifestazioni quanti sono i significati che si sono attribuiti al termine democrazia, sia nella sua dimensione realistica sia in quella prescrittiva. A una concezione della democrazia come forma di governo la teoria delle élites ha contrapposto la realtà di una inevitabile e perenne strutturazione oligarchica del potere. Alla presentazione della democrazia come forma di emancipazione popolare gli elitisti hanno reagito descrivendo il popolo come una massa, come un'entità atomizzata, inerte, incapace di produrre spontaneamente azioni organizzate e coerenti. All'ideale della partecipazione si è opposta la constatazione dell'apatia e dell'eterodirezione, mentre il valore dell'eguaglianza politica è stato criticato, alla luce della constatazione del carattere perenne dell'ineguaglianza nella distribuzione delle risorse e delle capacità. Solo negli ultimi tempi si è delineata un'area di conciliazione, a partire dal progressivo rifiuto di una democrazia intesa come partecipazione diretta e dalla crescente esaltazione dei processi di competizione che coinvolgono una pluralità di élites eterogenee e conflittuali anche al loro interno.
Di solito, quando si vuole porre l'accento sulla non compatibilità tra teoria delle élites e democrazia, si ricorre alle pagine in cui Pareto presenta la democrazia come una "derivazione metafisica", definisce la rappresentanza popolare "una finzione", e riconosce come unica prerogativa del governo democratico una maggiore propensione al clientelismo e al consenso manipolato, anziché all'uso della forza. Tuttavia, sempre per restare nell'elitismo classico, già in Mosca si trovano indicazioni di conciliabilità, come quando egli distingue tra regimi aristocratici e regimi democratici che, a differenza dei primi, sono governati da classi politiche articolate, eterogenee, aperte e soggette alla regola della libera discussione, oppure quando definisce il sistema rappresentativo come l'unica forma di organizzazione in cui una molteplicità di forze politiche sono poste in condizione di controllarsi efficacemente a vicenda. Ma è soprattutto qualche decennio più tardi, prima con Mannheim, successivamente con Schumpeter e Lasswell, che si sono poste le basi per una teoria elitistica della democrazia. Il sociologo ungherese Mannheim, in un'analisi scritta negli anni trenta ma pubblicata postuma con il titolo The democratization of culture (1956), ha sostenuto che la democrazia non esclude la presenza di élites, ma implica uno specifico principio di formazione e di reclutamento di queste ultime. L'economista di origine austriaca Schumpeter è andato ancora più in là proponendo, in Capitalism, socialism and democracy (1942), una nuova teoria della democrazia che ha il suo punto di forza proprio nei problemi relativi alla composizione e alla formazione dell'élite politica. Anche se il nome di Gaetano Mosca non compare mai nel libro di Schumpeter, la critica al concetto classico di democrazia in esso contenuta poggia in gran parte sugli stessi fondamenti sui quali il politologo italiano rigettò l'idea della sovranità popolare. Come Mosca, infatti, Schumpeter ritiene che in nessun caso la maggioranza possa governare e che in tutti i regimi sia sempre una minoranza a dirigere la maggioranza. La definizione letterale del termine democrazia come 'governo del popolo' non ha, tranne che nelle comunità politiche molto piccole, alcun senso reale, mentre il concetto di 'bene comune' risulta essere empiricamente più il prodotto fittizio della minoranza governante che la forza propulsiva del processo politico. Ma se non è possibile modificare il carattere minoritario della classe politica, né pensare alla volontà popolare come al soggetto che decide circa i problemi politici, si possono invece rovesciare i termini del problema e progettare una democrazia realistica in cui il popolo abbia l'opportunità effettiva di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno governarlo. In altri termini, partendo dalla constatazione che il compito del popolo è di produrre un governo, o un corpo intermedio che a sua volta genererà un esecutivo, Schumpeter propone di identificare la democrazia con una specifica modalità di selezione della classe politica. In questa prospettiva la democrazia è "lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., p. 257). Con questa nuova definizione, che qualifica come democratica una procedura di "accettazione" di una classe politica, Schumpeter sottolinea come il grado di autonomia e di iniziativa popolare sia connesso a un'effettiva competizione tra più individui o più gruppi che mirano al raggiungimento del potere. Solo la pluralità delle forze politiche in lotta per il potere e una genuina concorrenza per il comando costituiscono l'ultima roccaforte di difesa della dottrina democratica, l'unico modo possibile per conciliare l'inevitabilità di un'élite politica minoritaria con l'intervento diretto della stragrande maggioranza dei cittadini. In questi termini la teoria delle élites e la dottrina della democrazia liberale non solo non sono contraddittorie, ma diventano complementari: la proposta teorica di Schumpeter equivale a un'integrazione di elementi elitisti in una impalcatura democratica, che al concetto di 'governo del popolo' viene a sostituire quello di 'governo approvato dal popolo'.
Qualche anno più tardi, nel già ricordato Potere e società, Lasswell tratteggia una conclusione più o meno simile: la democraticità di una struttura sociale non dipende dal fatto che vi sia o meno un'élite, bensì dai rapporti che intercorrono tra l'élite e la massa, dalle procedure con cui l'élite è reclutata sulla base di valori egualmente accessibili a tutti e dal modo in cui essa esercita il suo potere. Un dominio è egualitario nella misura in cui è ugualmente distribuito non il potere ma l'accesso al potere. Le ricerche di Dahl e dei pluralisti in genere hanno consentito quindi di completare su base empirica il modello dell'elitismo democratico, in cui la democrazia si ritiene salvaguardata dalla pluralità, dalla varietà, dalla permeabilità e dall'ampiezza delle élites. I valori centrali di questo nuovo modo di intendere la democrazia coincidono con la libertà, la stabilità e la legittimità conseguita per mezzo del sistema elettorale, mentre la partecipazione è considerata un valore periferico e la massimizzazione dell'eguaglianza è interpretata come una reciproca compensazione e neutralizzazione tra diseguaglianze effettive.
Da ultimo gli studi di Giovanni Sartori, The theory of democracy revisited (1988), hanno consentito di superare definitivamente gli ostacoli residui che si frapponevano all'integrazione tra elitismo e democrazia, da un lato evidenziando come l'esistenza di tendenze oligarchiche all'interno delle singole organizzazioni non escluda la presenza, a livello sistemico, di una vigorosa ed effettiva competizione tra oligarchie e, dall'altro, sottolineando come il controllo elettorale, esercitato liberamente nei confronti di una pluralità di élites concorrenti, conferisca un effettivo potere potestativo all'elettorato, rendendo le minoranze governanti responsabili verso di esso. In conclusione, riconoscere che anche la politica democratica è dominata, in misura maggiore o minore, da élites ha comportato l'individuazione dei seguenti requisiti ritenuti indispensabili per configurare un'effettiva compatibilità tra élite e democrazia: 1) l'elettorato è in grado di scegliere tra una pluralità di élites in competizione; 2) le élites non possono rendere ereditario il loro potere o impedire a nuovi gruppi sociali di accedere alle posizioni di vertice; 3) le élites raccolgono sostegno da parte di coalizioni mutevoli in modo che nessuna può diventare permanentemente predominante; 4) le varie élites dominanti nei diversi settori della società non stabiliscono mai un'alleanza comune.Posta in questi termini, l'iniziale contrapposizione tra élite e democrazia risulterebbe superata dalla formula 'elitismo democratico' con cui si vuole indicare che in una poliarchia il potere politico è esercitato mediante un'alternanza tra diverse élites mobili e aperte, élites che si propongono e non si impongono, e che l'influsso che il popolo in quanto elettorato opera sul governo dipende in ultima analisi dall'effettivo pluralismo delle élites e dalla competizione reale che si instaura tra di esse. Tutto ciò equivale, come ha notato Peter Bachrach nel suo lavoro The theory of democratic elitism (1967), non solo a ripudiare l'ideale etico della democrazia classica e a ridimensionare le istanze partecipative, ma soprattutto a ribadire l'inalterabilità della dicotomia élite-massa anche nelle società industriali contemporanee. Nella teoria classica il fuoco dell'attenzione verteva sul popolo e sulla sua partecipazione al potere; nell'elitismo democratico l'attenzione si concentra sull'élite e sul suo carattere pluralistico e competitivo, con il conseguente arretramento del principio egualitario da uguaglianza di potere a uguaglianza della possibilità di accedere a posizioni di potere. (V. anche Democrazia; Partiti politici e sistemi di partito).
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