terza rima
La terza rima è il metro della Divina Commedia. Se ne attribuisce concordemente l’invenzione a ➔ Dante, perciò è anche detta terzina dantesca. Con l’➔ottava rima, è il metro narrativo principe della tradizione italiana (Beltrami 20024: 105-109, 317-321).
A differenza dell’ottava – unità in sé conclusa dal distico conclusivo, a ➔ rima baciata (ABABABCC), e indefinitamente ripetibile, anche se in genere all’interno di sequenze (canti e/o libri) –, la terzina è un metro aperto, fondato su un meccanismo propulsivo che, attraverso l’incessante spinta in avanti delle rime, genera continua tensione. In ciascuna terzina, cioè in ogni strofa di tre endecasillabi (➔ endecasillabo), detta, meno comunemente, terzetto (altra cosa è la terzina lirica; ➔ sestina), la rima dell’endecasillabo mediano, diversa dalla rima identica dei due endecasillabi esterni, si ripercuote nel primo (e dunque nel terzo) endecasillabo della terzina successiva (ABA BCB CDC …), senza che sia preventivamente determinabile, se non dal rimatore, il punto di arresto:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte (Dante, Inf. I, 1-9)
La trama rimica si dipana attraverso una incatenatura delle terzine l’una con l’altra: si parla perciò anche di terzine incatenate. Un componimento in terza rima ha però una sua conclusione metrica, in quanto termina allorché la rima mediana di quella che sarà l’ultima terzina rima con sé stessa in un endecasillabo isolato, che conclude la sequenza (… XYX YZY Z):
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle (Dante, Par. XXXIII, 139-145)
Nella struttura compositiva della Commedia, ogni serie (in numero variabile) di terzine così concluse – e cioè inaugurate e chiuse da una coppia di versi sulla stessa rima – prende il nome di canto: l’uso del termine dantesco, generalizzatosi, si applicò in seguito anche alle partizioni dei poemi in ottave (i canti dell’Orlando furioso o della Gerusalemme liberata). Se la delimitazione dei canti (in terzine) risponde a una ragione metrica, tale ragione non produce gli eventuali raggruppamenti dei canti (nella Commedia la riunione dei canti in tre cantiche di 33 canti ciascuna, più uno di proemio, obbedisce a ragioni di ordine numerologico).
L’enorme successo del poema dantesco determinò il successo del metro, subito imitato in componimenti d’intento principalmente didascalico e/o narrativo. Così, nel Trecento sono in terza rima il Dittamondo di Fazio degli Uberti e i Trionfi di ➔ Francesco Petrarca, così come la Commedia delle ninfe fiorentine (Ameto) di ➔ Giovanni Boccaccio (un panorama sintetico ma efficace della fortuna della terza rima in Baldelli 1976: 592-593).
Ben presto invalse l’uso di scrivere in terza rima testi di vario genere e argomento (per lo più non lirico), ma non divisi in canti: molti ne scrisse, per es., il rimatore fiorentino Antonio Pucci (a sua volta autore del Centiloquio, nel quale è versificata in canti la Cronica di Giovanni Villani). Tali testi prendono il nome di capitoli ternari (o anche, semplicemente, di capitoli, ovvero di ternari). Per analogia, si parla di capitoli quadernari – metro diffuso principalmente nel Trecento e nel Quattrocento – a proposito di testi a schema ABbC CDdE …, ovvero ABbA BCcD … (con alternanza di endecasillabi e settenari), di genere vario (anche lirico), nei quali si attua un meccanismo di collegamento in parte affine a quello della terza rima. Il capitolo quadernario è considerato una forma di serventese: categoria alla quale i metricisti antichi ascrivono del resto la stessa terzina dantesca. Nella poesia bucolica quattro-cinquecentesca, e in particolare nell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, sono adottati capitoli ternari a rima regolarmente sdrucciola, nei quali è possibile che il verso mediano sia saltuariamente un ➔ settenario; così anche nella poesia elegiaca (per es., nella Mirtia e nell’Agilitta di ➔ Leon Battista Alberti), che peraltro non fa uso di rime sdrucciole. Nell’Acerba, poema ‘scientifico’ di Cecco d’Ascoli (m. 1327) composto immediatamente dopo la Commedia, l’autore, in polemica emulazione con Dante, elabora un metro in terzine doppie (ABA CBC, DED FEF …; i capitoli sono delimitati da un distico monorimo ZZ), a sua volta ricondotto al genere dei serventesi (Beltrami 20024: 310).
Tra le infinite riproposizioni più recenti del capitolo in terza rima si ricordino, per es., “Il primo amore” o “I nuovi credenti” di ➔ Giacomo Leopardi, Il trionfo della libertà di ➔ Alessandro Manzoni, “Idillio maremmano” di ➔ Giosuè Carducci, Canzoni delle gesta d’Oltremare di ➔ Gabriele D’Annunzio. Il metro è stato rivisitato più volte da ➔ Giovanni Pascoli: in specie nei Primi poemetti, tra i quali vanno ricordati “Digitale purpurea” e “Italy” (per l’uso pascoliano della terzina si rinvia alla sintesi di Beltrami 20024: 320). Notevole, infine, è la variazione libera del metro (i versi sono di misura variabile, anche se prossima a quella endecasillabica, e alle rime vere e proprie si alternano, in schemi che ricordano quello della terza rima, le assonanze) attuata nelle Ceneri di Gramsci di ➔ Pier Paolo Pasolini.
Baldelli, Ignazio (1976), Terzina, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970-1978, 6 voll., vol. 5º, ad vocem.
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).