ALBONESI, Teseo Ambrogio degli
Antesignano dello studio delle lingue orientali nella prima metà del sec. XVI, nato a Pavia, o nei dintorm, nel 1469, morto ivi quasi certamente poco dopo il 1540. Ambrogio ("Ambrosius"), considerato cognome nella maggior parte dei repertori biografici che lo registrano, è invece nome di battesimo ("Theseus" è forse soprannome umanistico) e il casato (che meglio sarebbe "Albonese" o "di Albonese") è quello della famiglia dei conti di Albonese ("ex comitibus Albonesii" e "de li conti d'Albonesio" s'intitola egli stesso), uno dei rami dell'antica stirpe dei conti di Lomello, che prese il titolo dalla borgata di Albonese nei pressi di Mortara. Mancando tuttora per la biografia dell'A. il sussidio di documenti (che pur potrebbero trovarsi in archivi di Pavia o dei Canonici regolari lateranensi), quel tanto che se ne conosce è desunto (a prescindere da fuggevoli menzioni di contemporanei e da scarse e tarde notizie di dubbia autenticità) dai dati forniti da lui stesso nella sua unica opera a stampa, ove alla trattazione dell'argomento s'intrecciano ricordi personali e s'inserisce bizzarramente un lungo excursus celebrante l'invenzione dello strumento a fiato detto phagotus, di cui sarebbe stato autore il suo zio e patrono Afranio dei conti d'Albonese, canonico a Ferrara, e lo strumento stesso è minutamente descritto e raffigurato in incisione: a questa circostanza è dovuta la notorietà della quale il libro dell'A. gode presso i musicologi.
Della precoce attitudine poliglotta e dei primi studi umanistici compiuti a Milano parla in termini vaghi il suo primo biografo, Rosini; certo è che conseguì a Pavia la laurea in giurisprudenza, giacché s'intitola "iuris utriusque doctor" nel frontespizio del libro e in questo rammenta i suoi maestri pavesi; ben presto tuttavia (nel 1494, secondo Rosini), abbandonata la carriera del diritto (di un suo ufficio di console del Collegio dei giudici si parla senza documentazione) e ricevuta l'ordinazione sacerdotale, entrò nell'Ordine dei chierici regolari di S. Agostino (canonici lateranensi). Per circa vent' anni non si sa nulla di lui (la notizia data da Rosini di un suo insegnamentQ nell'università di Bologna non ha fondamento) e soltanto nel 1515 lo si trova a Roma; ma doveva esservi almeno dal 1512, giacché menziona l'incontro ivi fatto dell'umanista Antonio Flaminio, morto in quell'anno. Il cardinale di Santa Croce, Bernardino Lopez Carvajal, lo mise in relazione con tre ecclesiastici libanesi delegati del patriarca dei maroniti al concilio lateranense e gli commise la verifica dell'ortodossia cattolica del rituale maronita della messa, redatto in siriaco. Di questa lingua, egli dice, non sapeva allora nulla; ma doveva esser progredito nella conoscenza dello ebraico, acquistata o perfezionata presso alcuni dotti ebrei di Roma, tra i quali rammenta, oltre a un Aaron e a un Abdia non identificati, il noto medico e grammatico pugliese Abramo di Balmes e Ioseph "Gallus", figlio del medico di papa Giulio II Samuele Zarfati (Zarfati significa appunto "francese" in ebraico): quest'ultimo gli fece da tramite nell'ardua impresa d'intendere e trasporre in latino il testo siriaco attraverso una duplice versione in arabo (lingua materna dei maroniti nota anche agli ebrei di cultura elevata) e in italiano; del risultato di essa rimane testimonianza in un codice estense studiato dal cardinale G. Mercati.
Dai maroniti, e sopra tutto dal più giovane di essi, il suddiacono Elia, rimasto a Roma dopo la partenza dei compagni e al quale l'A. fu assegnato come maestro d'italiano e di latino, imparò il siriaco e l'arabo; da monaci d'Etiopia, stabiliti a Roma da tempo (nel 1515, col loro aiuto, il tedesco Johann Potken aveva dato alle stampe il Salterio etiopico), si procurò nozioni di etiopico. Tornando in patria, recava con sé, oltre a vari manoscritti per lo più arabi, un esemplare del Salterio siriaco, o "caldaico", come allora si diceva. Risoluto d'illustrarlo e pubblicarlo (forse in conseguenza della polemica con Potken di cui si dirà più avanti), aveva già faticosamente disegnato e fatto incidere le matrici dei caratteri, e anche, sembra, provveduto alla fusione di essi e iniziato la stampa, quando ogni cosa andò distrutta e dispersa, insieme coi manoscritti portati da Roma, nel sacco di Pavia del 12 ottobre 1527. L'A., cui la dolorosa notizia giunse a Ravenna, dove'era intervenuto nel sinodo del suo Ordine, sembra aver dedicato gli anni seguenti ad attività ecclesiastiche: nel 1529 era a Reggio Emma, dove lo visitò il diplomatico orientalista bavarese Widmestadio (Johann Albrecht Widmanstetter, 1506-57) e ne ebbe preziosi consigli, che rammenta con riconoscenza nell'introduzione alla sua edizione del Nuovo Testamento siriaco; nel 1534 era a Ferrara, probabilmente ospite dello zio Afranio, e colà gli capitò la straordinaria Ventura di riconoscere il suo manoscritto siriaco tra le carte da involtare nella bottega di un salumaio. Ripreso lo studio delle lingue orientali (egli rammenta le lezioni tenute a quel tempo nella canonica di S. Giovanni Battista a uditori italiani, tedeschi, francesi, spagnoli), si accinse, col sussidio finanziario dello zio, a ricostituire la sua tipografia, aggiungendo ai tipi siriaci quelli armeni, poiché aveva appreso gli elementi di quella lingua da un Armeno da lui conosciuto poco prima a Venezia. La stampa dell'opera (che a quanto pare doveva costituire l'introduzione all'edizione del Salterio) ebbe inizio nel luglio del 1537 ed era quasi compiuta quando la nomina a prevosto dell'Ordine nella canonica di S. Pietro in Cieldoro a Pavia costrinse l'A. a lasciare Ferrara e a trasferire nella sua città natale il materiale tipografico, all'uso del quale addestrò lo stampatore cremonese Giovanni Maria Simonetta. Il libro uscì finalmente colla data del I marzo 1539; ma già fin dall'anno precedente, mentre era ancora a Ferrara, l'A. ebbe il dolore di constatare che il geniale e squilibrato umanista francese Guillaume Postel, da lui conosciuto a Venezia nel 1537, si era valso per il suo Linguarum duodecim characteribus differentium Alphabetum (Parisiis 1538) - nel quale per vero i caratteri orientali sono riprodotti in incisione, non con tipi mobili - di un materiale documentario abbondante fornitogli da lui e, pur nominandolo, gli aveva sottratto la priorità della pubblicazione: di che gli muove rimprovero, peraltro in termini cortesi, in un'appendice alla sua opera. Dopo la stampa della quale l'A. compare ancora quale autore di una lettera in data 6 sett. 1540 preposta all'Expositio de Ageo propheta del suo confratello in religione Callisto Placentino (1483-1552: il suo cognome è dato come Fornari o Calceati), stampata per sua cura a Pavia, 30 marzo 1541, dal tipografo della sua Introductio, Simonetta. Non si hanno più notizie di lui posteriori a questa, il che rende verosimile che sia morto poco più tardi. Una lettera scrittagli dal vescovo di Foligno Isidoro Chiari per chiedergli il prestito di un libro greco (Isidori Clarli... Epistolae ad amicos, Miitinae 1705), sprovvista com'è di data, non è di alcun sussidio per la sua biografia.
Il libro dell'A., in 86 di 213 ff. numerati, porta il lungo titolo Introductio in Chaldaicam linguam, Syriacam atque Armenicam et decem alias linguas characterum differentium Alphabeta circiter quadraginta et eorundem invicem conformatio. Mystica et cabalistica quamplurima scitu digna. Et descriptio ac simulachrum Phagoti Afranii. Theseo Ambrosio ex Comitibus Albonesii I. V. Doct. Papien. Canonico Regulari Lateranensi ac Sanai Petri in Coelo Aureo Papiae Praeposito, Authore, MDXXXIX, A f. 213 v. "Excudebat Papiae loan. Maria Simoneta Cremonensis... Kal. Martil".
Doveva essere dedicato al duca di Ferrara Ercole Il, ma il trasferimento dell'autore a Pavia fu causa che la dedica fosse invece fatta allo zio Afranio. I caratteri siriaci e armeni, pur senz'essere eleganti, sono ben tagliati e chiaramente leggibili; altri caratteri orientali (arabi, etiopici, copti) e cirillici ("macedonici"), dei quali mancavano i tipi, compaiono scritti a mano in spazi lasciati in bianco nella composizione (in alcuni esemplari gli spazi bianchi non sono stati riempiti); in lettere siriache sono anche alcuni passi arabi (f. 25v. il primo capitolo dell'Evangelo di Luca, f. 83 v. una breve citazione del Corano), secondo un uso che l'A. dovette apprendere dai maroniti.
AII'A. non è riuscito di comporre un lavoro organico: l'Introductio è un'opera farraginosa, confusa e disordinata, che vuol essere a un tempo una ricerca linguistica e una raccolta di alfabeti esotici. Nè del siriaco nè dell'armeno, oggetto principale del suo studio, l'A. ha saputo presentare un sistema grammaticale coerente, e tanto meno dell'arabo, dell'etiopico, del copto, dei quali tratta a più riprese. Dei numerosi alfabeti riprodotti soltanto alcuni sono autentici; siquanti sono fantastici, altri, desunti da taluni degli scritti cabalistici e magici, dei quali è ricca la letteratura del Medioevo e del Rinascimento (vi figurano perfino quelli "del diavolo", "dell'angelo Raffaele", e simili), riflettono speculazioni, che del resto allettarono ingegni insigni quali Giovanni Pico e Giovanni Reuchlin, intorno al significato e mistico. delle lettere. Tuttavia, nonostante e oltre siffatte deficienze e bizzarrie, l'Introductio ha il merito di presentare per la prima volta all'Europa dotta, andante ad ampliare il proprio orizzonte filologico oltre l'antichità classica e l'ebraismo biblico, l'edizione e la traduzione di brani abbastanza lunghi in siriaco e in armeno (neotestamentari, liturgici, agiografici) e di fornire informazioni nuove, se pur anche Incomplete e non sempre esatte, su queste e su altre lingue esotiche. Sopra tutto rivela nel suo autore uno zelo d'indagine, una serietà d'intenti, e anche un felice presentimento della storicità del linguaggio, che ne fanno un precursore della scienza linguistica: se il rapido sviluppo dello studio del siriaco, dell'arabo e dell'etiopico, manifestatosi a pochi anni di distanza, le ha tolto valore di utilità attuale, non ne esce sminuita la sua importanza storica. In polemica con Potken, che aveva, chiamato "caldaico" l'etiopico, l'A. afferma l'indipendenza di questa lingua (chiamata da lui "indiana" riferendosi a una terminologia tradizionale) e riserva il termine "caldaico" per il siriaco, del quale riconosce la stretta afiinità coll'aramaico biblico e targumico. Ha nozione abbastanza chiara dell'arabo, in cui distingue le varietà di scrittura e la differenziazione linguistica del gruppo di dialetti occidentali ("punico") dalla lingua classica, e dà uno schizzo grammaticale di ambedue, fondandosi per il primo sull'opera di Pedro de Alcali. Intuisce genialmente, se pure con ingenuità, la parentela delle lingue semitiche e artiva a scorgere la costanza di alcune corrispondenze fonetiche; cerca di darsi ragione, coll'analogia, del sorgere dell'italiano dal latino e post Gothorum Barbarorunique in Italiam in cursus, dell'abbandono dell'ebraico come lingua parlata e della sua sostituzione coll'aramaico. È il primo in Europa a individuare l'aspetto linguistico del copto; e benché la sua nozione delle lingue slave sia alquanto vaga, ne riconosce il carattere unitario. Si fa dare copia di un alfabeto "gotico" da un vescovo di Upsala che ha incontrato a Bologna mentre si recava a Roma. Affronta perfino (naturalmente in maniera embrionale e confusa) il problema dell'etrusco e dei dialetti italici, citando l'iscrizione del "sepolcro di Tarconte" a Volterra e le Tavole Bugubine.
La Biblioteca universitaria di Pavia possiede, sotto la segnatura C. XXXI G. 26, un manoscritto degli Evangeli in arabo, incompleto (giunge a Luca 19,30 e s'interrompe bruscamente a mezzo della pagina), che si dice essere di mano dell'A., affermazione che richiederebbe conferma.
Bibl.: G. Pennottus (Pennotti), Generalis totius sacri Ordinis clericorum canonicorum Historia tripartita, Romae 1628, p. 7-17 (ed. 1724, p. 789); C. de Rosinis (Rosini), Lycei Lateranensis illustrium scriptorum... elogia, Cesenae 1649, II, pp. 312-318; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp. 608-611; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IV, Milano 1833, pp. 109-111;. P. Terenzio, Di A. T. degli A. Pavese..., Pavia 1860; E. Nestie, Aus einem sprachwissenschaftlichen Werk von 1539, in Zeitschrift der deurschen morgeniandischen Gesellschaft, LVIII (1904), pp. 601-616; G. Mercati, A. T. primo traduttore e raccoglitore di liturgum orientali, in Rass. gregoriana, V (1906), pp. 551-557 (ora in Opere minori, II, Città del Vaticano 1937, pp. 509-513); G.Levi Della Vida, Ricerche sulla formazione del più antico fondo dei manoscritti orientali della Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1939, passim; A. Penna, A. T. "introduttore del siriasmo in Occidente", in Ordo canonicus. Commentarium Ordinis can. reg. S. Augustini, I (1946), pp. 142-157; W. Leslau, Bibliography of Semitic Language, of Ethiopia, New York 1946, p.18; Biographie universelle, I, p. 569; Nouvelle biographie générale, II, p. 326; Enciclopedia Cattolica, X, pp. 1-2.