TESTAMENTO BIOLOGICO.
– Generalità e premesse terminologiche. Cenni alle esperienze straniere e ai documenti internazionali. La situazione in Italia. Bibliografia
Generalità e premesse terminologiche. – Per l’art. 587 c.c. il testamento «è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse». Nelle norme successive figura di preferenza l’espressione disposizioni testamentarie, che è conforme al frequente articolarsi dell’atto in una serie di dichiarazioni di volontà, suscettibili di distinta considerazione. Il 2° co. dell’art. 587 allude a disposizioni di natura non patrimoniale «che la legge consente siano contenute in un testamento»: quando affidate a un atto che del testamento presenti i requisiti di forma, esse dispiegano efficacia giuridica anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale. Potrà trattarsi del riconoscimento di un figlio, della destinazione a pubblicazione di opere dell’ingegno o, al contrario, dell’espressione della volontà che restino inedite, di indicazioni sulle modalità di sepoltura: determinazioni in molti casi non prive di riflessi economici, ma di indole prevalentemente personale e morale. Un modo di esprimersi consolidato tra i giuristi designa queste come disposizioni testamentarie ‘atipiche’: delle tipiche e patrimoniali (istituzione di eredi; legati) esse condividono in primo luogo il tratto dell’efficacia differita alla morte dell’autore. Quanto al principio di revocabilità presentato dalla legge italiana come indeclinabile per le disposizioni a causa di morte con carattere patrimoniale, esso vale per il contenuto atipico del testamento con una sola ma importante eccezione: il riconoscimento di un figlio produce effetti dal giorno della morte del de cuius anche se l’atto è stato revocato (art. 256 c.c.).
Tutta questa materia appartiene al tradizionale e, si può ben dire, secolare bagaglio del giurista – più precisamente del civilista; mentre la formula testamento biologico evoca problemi relativamente nuovi, a pieno titolo facenti parte di quel terreno di incontro tra diverse discipline cui si dà il nome di bioetica. L’accostamento all’antico vocabolo di un aggettivo che richiama la vita umana nella sua pura fisicità (nei Paesi di lingua inglese è in uso l’espressione living will) è stato essenzialmente provocato dallo sviluppo delle tecniche mediche cosiddette di sostegno vitale (si pensi alla ventilazione artificiale). Tali tecniche consentono di salvare vite che in passato sarebbero andate inevitabilmente perse; ma possono anche dar luogo a situazioni percepibili come sinistre o tragiche, ossia protrarre a lungo l’esistenza di pazienti in condizioni meramente vegetative o di grave sofferenza. Per t. b. si intende l’atto con il quale una persona dichiari in vista di un futuro ed eventuale stato di incapacità di voler ricevere tali trattamenti, o uno di essi, solamente in determinate circostanze (per es., in presenza di realistiche prospettive di recupero della coscienza), o di non volerli ricevere in alcun caso. Sul fatto che a tali dichiarazioni debbano annettersi effetti, e a quali condizioni, verte un intenso dibattito, e gli ordinamenti giuridici adottano soluzioni differenti. Quanto fin qui detto è comunque sufficiente a chiarire i limiti dell’analogia tra t. b. e testamento ‘classico’: anche il primo non può essere che un atto personale dell’interessato, unilaterale e sempre revocabile; anche il primo pone ineludibili questioni di forma e pubblicità; ma a differenza del secondo, il t. b. è destinato a dispiegare la sua efficacia quando il disponente è ancora in vita, e in un certo senso a regolare le modalità e anche i tempi della morte.
Cenni alle esperienze straniere e ai documenti internazionali. – Il Natural death act della California (1976) ha rappresentato il primo modello di regolazione per legge della materia, più tardi seguito, nelle sue linee generali, da quasi tutti gli Stati americani e poi influente sulla stessa legislazione federale. Nei testi statunitensi l’oggettività delle condizioni terminali è via via passata in second’ordine rispetto all’intento di valorizzare – a fronte delle sempre più avanzate offerte della medicina – l’autodeterminazione del paziente, ed è emerso con crescente chiarezza che le istruzioni o direttive anticipate circa la cura della salute possono trascendere la prospettiva dell’incombente fine della vita. Ricorre anche la figura dell’health care power of attorney, che si risolve nell’investitura di un soggetto perché assuma le decisioni da prendere quando l’interessato non sarà in grado di farlo. È la via segnata in particolare dallo Uniform health-care decisions act del 1993: l’agent non può essere persona legata alla struttura che somministra cure al paziente e deve assumere decisioni conformi alle eventuali istruzioni del principal, o ai valori da questo professati.
T. b. e direttive anticipate hanno trovato cittadinanza anche in molte legislazioni europee: per es., in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Spagna. Nelle rispettive discipline si realizzano diseguali punti di equilibrio fra il valore dell’autodeterminazione del paziente e della dignità da rispettare in lui fino al momento della morte da una parte, e dall’altra il timore che ruolo e competenze dei medici siano sminuiti all’eccesso, o che l’atto si risolva in una pratica burocratica, cui il soggetto si induca in modo conformistico o meccanicamente. Variamente risolto è anche il grave problema dell’età minima perché la dichiarazione possa essere resa efficacemente.
Sullo sfondo delle normative nazionali sta l’affermazione del principio del consenso informato alle cure in molti documenti sovrastatali. Fra tutti è da ricordare l’art. 9 della cosiddetta Convenzione di Oviedo, approvata dal Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996, il quale afferma che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che [...] non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». La formula molto prudente viene per lo più intesa come un’avvertenza che le preventive dichiarazioni circa le cure devono essere eseguite solo in situazioni cliniche corrispondenti alle previsioni dell’interessato.
Dalle esperienze estere i progetti di legge italiani (v. oltre) traggono numerosi accorgimenti: l’efficacia del t. b. potrebbe essere differita nel tempo al fine ‘paternalistico’ di imporre all’autore uno spatium di ulteriore riflessione; può prevedersi che l’atto abbia nel tempo efficacia limitata, che per mantenere efficacia debba essere confermato una o più volte, che dopo la prima o reiterate conferme esso consegua – salva sempre la libertà della revoca – definitiva validità. Da tenere presente è d’altra parte l’insuccesso di proposte di disciplina tanto minuziose da far temere che ne uscisse compromesso il rapporto di fiducia tra medici e pazienti, o trasformata la stanza del morente nella succursale di un ufficio ministeriale.
La situazione in Italia. – Le opposizioni alla rilevanza del t. b. sono ispirate da sentimenti etici e religiosi di sacralità e indisponibilità della vita umana. Queste resistenze sono particolarmente forti nel nostro Paese, ove la materia non è stata finora legislativamente regolata. Contro l’ammissibilità del rifiuto di cure per diritto attuale ci si è a volte appellati all’art. 5 del codice civile. Tale norma proibisce gli atti di disposizione del proprio corpo che comportino «una diminuzione permanente dell’integrità fisica» (oltre a quelli «altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume»): ma a dispetto di una certa retorica che al tempo dell’entrata in vigore del codice aleggiava intorno a tale norma – come sanzionante una sorta di responsabilità del cittadino verso la collettività per la sua efficienza di lavoratore, militare, padre di famiglia – è ab origine quanto meno disputabile la sua riferibilità alla materia dei trattamenti terapeutici, retta dall’idea dell’orientamento di ogni procedura al beneficio del paziente; soprattutto, è da ricordare l’art. 32 della Costituzione, norma successiva e sovraordinata la quale, discorrendo della salute come di un fondamentale diritto (e non dovere) della persona, implica il principio della libertà di cure, che solo in nome della sanità pubblica può essere, per legge, sacrificato.
Un’altra obiezione investe intrinsecamente il t. b. quale dichiarazione fatta ‘ora per allora’ e destinata a esecuzione quando il disponente sarà incapace: l’incapacità, in quanto preclude l’espressione di un ipotetico ripensamento, di per sé stessa inficerebbe le disposizioni consegnate all’atto. Per quanto animata da scrupolo di garanzia della persona, non pare un’obiezione convincente: è logico pensare che rispettoso della personalità del paziente incosciente sia dare seguito a quello che egli aveva in precedenza chiesto (ossia all’eventuale rifiuto di certi trattamenti), e non fare il contrario; il testamento del codice civile offre del resto un chiaro esempio di volontà alla quale si riconoscono effetti anche oltre il tempo della sopravvenuta incapacità.
Correttamente dunque la giurisprudenza ha ‘aperto’ in questi ultimi anni – sia pur con formule caute e indirette – al riconoscimento del t. b. nel sistema italiano. Si può al riguardo in primo luogo ricordare la pronuncia resa dalla Cassazione nel travagliatissimo caso Englaro (sentenza nr. 21748/2007; successivamente nr. 27145/2008): indici di volontà emananti dalla stessa paziente (poi entrata in stato vegetativo persistente) quando era cosciente giustificano e anzi esigono che sia messo fine ai trattamenti di sostegno delle funzioni vitali. Può menzionarsi anche una sentenza su un caso di obiezione alla trasfusione di sangue da parte di un testimone di Geova (Cassazione, nr. 4211/2007): la responsabilità civile dei medici che praticarono la trasfusione fu esclusa non affermando in via di principio l’inefficacia del rifiuto di cure indicate o vitali, ma per essere rimasto dubbio nella fattispecie se al momento di esprimere il rifiuto il paziente fosse consapevole di mettere a rischio la propria sopravvivenza. Quest’ultima decisione mostra bene come la mancanza di una normativa che fissi per il t. b. requisiti di forma e garanzie di ponderatezza determini un clima di incertezza, che non giova agli operatori sanitari e soprattutto mette a rischio le aspettative dei cittadini potenziali pazienti. In tale situazione, più volte i giudici hanno attribuito all’amministratore di sostegno di cui alla l. nr. 6/2004 un ruolo di ‘investigatore’ e ‘relatore’ di orientamenti in precedenza manifestati dall’incapace; mentre da varie parti sono stati approntati formulari per facilitare l’esercizio del diritto a rifiutare le cure.
La lunga serie di progetti di legge presentati in Parlamento – sempre finora falliti per mancanza di consenso sufficiente o per timore di intervenire in materia tanto controversa – ha inizio intorno alla metà degli anni Ottanta del Novecento: talvolta le proposte hanno riguardato il rifiuto di trattamenti determinati, per es. rischiosi o economicamente onerosi; sempre più spesso il tema è stato invece prospettato con ampiezza e senza esclusivo riferimento alla condizione terminale: la formula delle direttive anticipate di cura, come si è già accennato, è la più confacente a questo allargamento di visuale. Sovente i progetti affiancano alla previsione dell’indicazione diretta delle terapie che si intende o non si intende ricevere quella dell’investitura di un incaricato o fiduciario (a somiglianza dell’agent statunitense, o del Betreuer della legge tedesca), il quale nella fase terminale della vita o comunque nell’incoscienza dell’interessato debba rendersi interprete delle sue preferenze e della sua personalità. Il meno lontano dall’approvazione è stato il cosiddetto disegno Calabrò (approvato dal Senato della Repubblica il 26 marzo 2009 e modificato dalla Camera dei deputati il 12 luglio 2011: XVI Legislatura, nrr. 10 ecc.), il quale – a riprova delle tenaci diffidenze che suscita il tema – prevedeva che il rilievo delle direttive fosse subordinato a tanti limiti e condizioni da renderle pressoché inutili.
Bibliografia: F.D. Busnelli, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Torino 2001; E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari 2005; P. Rescigno, Danno da procreazione e altri scritti tra etica e diritto, Milano 2006; S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano 2006; Comitato nazionale per la bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, Roma 2008; P. Zatti, Le ‘disposizioni del paziente’: ci vorrebbe un legislatore, «La nuova giurisprudenza civile commentata», 2009, 25, 7-8, pp. 313-14; M. Mori, Una ‘analisi bioetica’ dell’attuale disputa sul testamento biologico come estensione del consenso informato, «Notizie di Politeia», 2011, 27, 102, pp. 53-80; Trattato di biodiritto, 2° vol. Il governo del corpo, t. 2, a cura di S. Canestrari, G. Ferrando, C.M. Mazzoni et al., Milano 2011, pp. 1785 e segg. (in partic. i contributi di D. Neri, C.H. Baron, G. Ferrando, S. Canestrari, L. D’Avack, N. Zamperetti); D. Carusi, Per una deliberazione auto-esaminata. Idee per una legge sul ‘testamento biologico’, «Ragion pratica», 2012, 38, 1, pp. 307 e segg.; Rifiuto di cure e direttive anticipate: diritto vigente e prospettive di regolamentazione, Atti del Convegno, Genova 2011, a cura di D. Carusi, S. Castignone, G. Ferrando, Torino 2012.