Testimonianze - Luchino Visconti
Luchino Visconti
I suoi film li ho visti nell'adolescenza. Già sapevo qualcosa sul cinema, sullo star system, sulla celebrità del metteur en scène. Compresa la riprovazione sulla vita privata, anche quella, a suo modo, motivo di suggestiva perdizione. A rileggersi le cronache del debutto veneziano di Senso (1954) c'è da non credere al livore (speculare ad altrettanto acritica esaltazione) con cui venne accolto il film e ai duelli che innescò su Risorgimento, Melodramma, Realismo, Romanzo e altre maiuscole a piacere. Il successo di massa di Il Gattopardo, proseguendo quello del romanzo da cui è derivato, trasforma Visconti nel Luchino nazionale, ne certifica definitivamente icona e peso, insieme ai paralleli Federico e Michelangelo, altrettanto nazionali.
Nel Sessantotto non c'è posto per niente che gli somigli. Io, che a quella generazione appartengo, dovrei perlomeno sentire l'air du temps, adattarmi, consentire. Dovrei far piazza pulita di tutti i padri, ripudiare ogni tradizione, non avere alcuna indulgenza per ciò che si compiace di essere 'decadente' e 'borghese'. Come se questo non bastasse, la stessa leggenda che ha innalzato Visconti a public figure è ciò che lo perde agli occhi di una generazione che dovrà contrattare il proprio ingresso nel mondo del lavoro con lo spettro della crisi economica: sperpero produttivo, ossessione per l'orpello, ridondanza scenografica, tempi biblici di lavorazione.
Ma tutto quello che in quei plumbei anni Settanta dovrebbe vietarlo come Maestro, a me vagamente mitomane fa invece simpatia. Non posso dirlo agli amici con cui impesto di fumo le salette del Filmstudio a Roma; né approverebbero quelli con cui m'annego in dolce naufragio all'Obraz o al Cineclub Brera o alla Cineteca di Milano. Posso solo condividerla con quelli di L'Officina a Roma, dove inseguo qualche vecchia copia di Lo straniero, o di La strega bruciata viva, o di Siamo donne dove Anna Magnani canta Quant'è bello fa' l'amore quann'è sera, e dovrò andarmene da solo a Spoleto a vedere Manon Lescaut di G. Puccini, disertando una manifestazione con scontri e tutto il resto. Finisce che gli trovo una settaria, speciale collocazione nel mio pantheon privato; insieme a Orson Welles, John M. Stahl, Douglas Sirk, John Ford, Max Ophuls, David Lean, Ozu Yasujirō, Vincente Minnelli, Pier Paolo Pasolini, Ingmar Bergman, Rainer Werner Fassbinder, e molti altri, anche se so benissimo che bisogna dichiararsi rosselliniani come quelli dei "Cahiers du cinéma", inchinarsi a Michelangelo Antonioni (lo faccio volentieri), ammettere Federico Fellini (altra gioia) purché con sufficienza, idolatrare Jean-Luc Godard (obbedisco) e adorare i fratelli maggiori tedeschi in auge al momento (cari nomi di Wim Wenders, Alexander Kluge, Hans-Jürgen Syberberg, Werner Schroeter, Werner Herzog...), ma mai e poi mai dichiararsi ammiratori o seguaci dell'estetizzante maestro lombardo.Invece a me piace proprio quel che lo rende sospetto: il proclama (forse) involontario del primato dell'arte sulla politica, sull'economia, sulla morale. L'apologia dell'accessorio in un mondo che parla solo e ossessivamente di bisogni primari. Immoralista ed esteta, proprio così.Poi ci sono anche ragioni più legate al mestiere: il rifiuto della scomposizione delle mansioni, per es., l'idea che il gesto registico sia tutt'uno con il complesso di segni ‒ e di competenze 'artigiane' ‒ che mette in gioco (spazio, luce, colore, costume ecc.), obbligandosi alla cognizione completa degli strumenti di scena, dei limiti, delle prestazioni. Molto simile in questo all'altro nume tutelare che mi scelgo negli stessi anni: Pier Paolo Pasolini. Se PPP abolisce ogni soluzione di continuità fra letteratura, cinema, saggistica, poesia (e pittura), Visconti riunifica i palcoscenici di teatro, opera, balletto e cinema, ne combina le diverse concezioni (e tradizioni) dello spazio/tempo, azzarda sconfinamenti continui di disciplina. Tanto Pasolini è poligrafo (ogni cosa in lui è prima di tutto scrittura, perfino il cinema) quanto Visconti è scienziato della mise en scène pura, dello spettacolo assoluto, del 'maraviglioso' barocco applicato a ogni artificio, ogni macchinismo, ogni immagine in movimento. La camera per lui non è che un privilegiato punto di vista, un ideale palco della Scala, il più bello e frontale. Combinato con altri punti di vista, magari da un secondo o terz'ordine, dalla galleria, dal loggione (durante le prove Visconti andava a controllare gli equilibri spaziali anche da lassù). Gli obiettivi non sono che moltiplicatori di attenzione, di fuoco, sul volto (e canto) degli attori. Più che la macchina da presa ‒ difatti quasi sempre denotativa ‒ conta la mise en espace, quello che si consuma in scena, le dinamiche di gesti, movimenti e sguardi che mettono in relazione i performers, descrivono il loro campo elettrico, lo scambio di energie. Tutto il dispositivo intorno (scena/paesaggio, costume, illuminazione) non è che un gigantesco pantografo di quello che succede lì, fra uomo e uomo, uomo e donna, padre e figlio (meglio: madre e figlio), fratello e fratello (meglio: fratello e sorella).
C'è qualcosa oggi d'imitabile? Quasi nulla, considerando soprattutto un pubblico reso analfabeta dalla televisione. Niente più sorprende, niente stupisce. I fratelli di Rocco, i gattopardi, i pescatori, le contesse veneziane, gli Essenbeck simil-Krupp di La caduta degli dei, o gli Aschenbach oggi sembrano perfino ingenui con i loro incesti mancati e omicidi/suicidi per procura. E il mélo sembra appartenere a un'epoca in cui virtuale era solo lo schermo, troppo remota da quella odierna dove virtuale è soltanto la nostra vita, come la politica. E le passioni.Essere al servizio dello spettacolo è antidoto al narcisismo. Le regie di Visconti sono da questo punto di vista straordinariamente sobrie, addirittura reticenti: protagonista è la scena, la compagnia, la disposizione di corpi e oggetti nello spazio, il movimento e il ritmo di quegli stessi corpi. Niente sottolinea l'opera del demiurgo dietro le quinte, quindi nessuna firma o logo in primo piano. I contributi dei collaboratori ne risultano enfatizzati: luci, scena, costume (e nel cinema aggiungo: musica e montaggio) si esprimono in forte autonomia connotativa, fanno 'spettacolo' tanto quanto la regia e danno luogo a carriere illustri, anche quando Luchino non sarà più di questo mondo. A me basta per considerarlo generoso, un Maestro nel vero senso. Per molti non è così. Eppure.Eppure io vedo continue filiazioni indirette, adozioni a distanza. L'esempio filtra, fa scuola, che lo si ammetta o meno. Non discendenze, ma vere e proprie agnizioni, magari anche rinnegate. Non penso tanto ai suoi collaboratori e allievi diretti ‒ Franco Rosi, Franco Zeffirelli, Aldo Trionfo, Giuseppe De Santis, per dirne qualcuno ‒ quanto a registi senza vera appartenenza e a loro modo capiscuola: Marco Bellocchio, Martin Scorsese, Peter Stein, Bernardo Bertolucci, Arthur Penn, Peter Brook, Sergio Leone, Luca Ronconi, Pedro Almodóvar (via Fassbinder), Wong Kar-Wai, Chen Kaige e perfino gli iraniani Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Jafar Panahi. La lezione di Visconti germoglia a distanza, muove a tradimento come il cavallo degli scacchi, prosegue nel magistero di attori che, formatisi giovanissimi alla sua scuola (uno per tutti: Umberto Orsini), continuano a perseguire il teatro di parola, sgorga come fiume carsico dalla colossale rimozione che la buona società dello spettacolo italiano opera retroattivamente dopo averne subito per quasi un trentennio la soggezione.
Tutto il teatro (e l'opera lirica) è scritto sull'acqua, i suoi testimoni muoiono uno a uno: chi non ha visto quegli spettacoli non può farsene un'idea dalle foto di scena o dalle recensioni conservate in biblioteca, dai bozzetti di scene e costumi che sembrano quadri senza vita, scritti servili. Sono eventi che esistono solo nell'hic et nunc e spariscono nel momento stesso in cui si trasformano in memoria; impossibile, almeno per me, parlare di qualcosa che non conosco, che non conosco più, o che conosco per sentito dire, che è solo violento stato d'animo, superstite alla censura retroattiva del ricordo.I film invece restano, si possono rivedere. Sullo schermo, in televisione, in cassetta, in DVD, con le scene aggiunte, il director's cut, le interviste postume. Consentono letture ulteriori, rotazioni di prospettiva, di gusto, di predilezione. I valori cambiano. Non mi rendo conto del passare del tempo se non per questo ondivago listino di Borsa: perché a vent'anni mi piaceva tanto Senso e ora lo trovo ridicolo, perché mi piacevano Morte a Venezia e La caduta degli dei e ora mi sembrano così datati, pesanti, retorici? Sale l'astro di opere che parevano minori; oggi mi commuove Bellissima come non succedeva vent'anni fa, mi colpisce Le notti bianche, che trovavo gelido e stilizzato. Altri resistono nel mio cuore con impressionante stabilità: La terra trema, Rocco e i suoi fratelli, Ossessione, Ludwig, l'agghiacciante sequenza della fucilazione di Koch nel documentario Giorni di gloria."Luchino torna, tutto è perdonato" scrisse Alberto Arbasino tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. In realtà era lui a doversi far perdonare la perfidia con cui aveva dato i connotati di Visconti al personaggio di Ottorino in Fratelli d'Italia (1963). Quando Arbasino gli chiese di tornare, Visconti era morto da qualche anno ed era già chiaro a tutti che il testimone, anzi lo scettro, non sarebbe più stato raccolto da nessuno. L'Italia era diventata finalmente piccolo-borghese senza complessi, famelica di richieste, appetiti e consumi. Senza volgarità la ricchezza non sembrava dare soddisfazione. Addio elegante, sprezzante, cortese sobrietà di casa Agnelli, addio fasti di casa Visconti, addio per sempre borghesia.
Per questa ragione, anche perdonato di tutto, sarà difficile che Luchino torni. Come se non bastasse ‒ sia detto di sfuggita ‒ era anche di sinistra, anzi: proprio comunista. Con tanto di fotografie (e quadri di Guttuso) ai funerali di Togliatti. Anche se la sua formazione ha debiti soprattutto con Thomas Mann, Jean Renoir, Giuseppe Verdi, Arturo Toscanini, Jean Cocteau, il grande fotografo Horst P. Horst e Coco Chanel. Ma tant'è: la cosa al momento potrebbe non facilitare riscoperte, beatificazioni, retrospettive. Per qualche anno ancora saremo in pochi a volergli bene. Pazienza.