Vedi Thailandia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il 2015 della Thailandia è stato dominato dall’attentato terroristico al tempio induista di Erawan, nel cuore della capitale, che ha causato la morte di 22 persone e altre 100 ferite. Nonostante l’attacco abbia provocato numerose vittime di nazionalità cinese, che attualmente rappresentano il principale flusso di turisti in Thailandia, l’evento non sembra aver sconvolto gli equilibri diplomatici di Bangkok e in particolare la relazione con Pechino, che ad oggi sembra più stretta che mai. La storia thailandese è costantemente stata caratterizzata da una tradizione diplomatica flessibile, ben visibile già in epoca coloniale, che ha permesso al paese di rispondere positivamente alle richieste inglesi e francesi, sfruttando l’interesse condiviso dalle due potenze europee nel mantenere uno stato cuscinetto tra l’Indocina a est e la Birmania a ovest e garantendo alla Thailandia il vanto di essere l’unico stato del sud-est asiatico a non aver subìto la colonizzazione occidentale. Allineatasi al Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale nella speranza di riconquistare parte dei territori ceduti agli occidentali, a fine conflitto la Thailandia riuscì a evitare il trattamento riservato agli stati aggressori, grazie al favoreggiamento segreto operato dal governo nei confronti del movimento ‘Free Thai’ appoggiato dagli alleati, Stati Uniti in testa. Da allora per Washington la Thailandia ha rappresentato una pietra angolare della propria politica estera nella regione. Nel corso della guerra in Vietnam oltre a costituire una base operativa cruciale per l’intelligence e per i B-52 statunitensi, una quota rilevante dell’esercito thailandese (circa il 14%) fu direttamente impiegata in territorio vietnamita, dove tra il 1965 e il 1969 vennero inviati più di 12.000 soldati. Al flusso di truppe e mezzi corrisposero ingenti forniture in armamenti, giungendo a circa 850 milioni di dollari nel quadriennio 1979-83. Con la fine della Guerra fredda l’alleanza con gli Stati Uniti è rimasta stabile, come ha sin da subito dimostrato la concessione dell’utilizzo delle basi in territorio thailandese nel corso della prima guerra del Golfo. L’acquisizione nel 2003 da parte della Thailandia dello status di ‘Major non-Nato Ally’, la partecipazione alle operazioni belliche in Iraq tramite l’invio di 400 soldati e la perdurante garanzia dei diritti di sorvolo e rifornimento per i mezzi statunitensi diretti verso Afghanistan ed Iraq, sono tutti indicatori dello stretto legame che ha unito fino ad ora Bangkok e Washington.
Tuttavia, parallelamente all’alleanza con gli Stati Uniti, la Thailandia ha consolidato il legame con la Repubblica Popolare Cinese, andando a celebrare nel giugno del 2015 il 40° anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Nella seconda metà degli anni Settanta, quando le truppe vietnamite invasero la Cambogia – l’allora Kampuchea Democratica dei Khmer Rossi – Thailandia e Cina videro i propri interessi a rischio; qualora il Vietnam fosse divenuto egemone nell’area indocinese. In risposta, la Repubblica Popolare Cinese interruppe il sostegno al Partito comunista thailandese e la Thailandia si impegnò a favorire il transito degli aiuti militari cinesi diretti ai Khmer Rossi. Questo rapporto storico con la Cina si è mantenuto e si è anzi consolidato con la crisi che colpì le economie asiatiche nel 1997, quando l’aiuto cinese permise alla Thailandia di non naufragare oltre il già pesante -11% fatto registrare dal pil per quell’anno. Nel 1999 i due stati hanno poi firmato il Sino-Thai Plan of Action per il Ventunesimo secolo, finalizzato ad accrescere la cooperazione commerciale, scientifica, in materia giudiziaria e nel settore della sicurezza. Conseguentemente al colpo di stato del settembre 2006 per mano dei militari, gli Stati Uniti hanno sospeso gli aiuti militari, mentre la Cina ha stanziato altri 50 milioni di dollari, dimostrando di non voler interferire negli affari interni thailandesi. Ha una valenza simbolica il fatto che 23 dei 41 Istituti Confucio presenti in Asia sudorientale si trovino in territorio thailandese e che proprio la Thailandia nel 2015 sia stata scelta per inaugurare il primo “Confucius Institute of Maritime Silk Road”.
La visita di Barack Obama nel novembre 2012, seguita a ruota da quella dell’allora premier cinese Wen Jiabao, aveva ribadito ancora una volta l’importanza della duplice relazione, ma con il nuovo colpo di stato del 2014 la storia si è ripetuta e l’ago della bilancia sembra si stia spostando sempre più verso Pechino. Gli Stati Uniti, infatti, hanno sospeso 3,5 milioni di dollari di aiuti militari e nel 2015 hanno ridimensionato la propria partecipazione a Cobra Gold, la più grande esercitazione militare congiunta dell’intera Asia Pacifico che si tiene ogni anno in Thailandia, inviando solamente 3.700 uomini. La già annunciata partecipazione all’edizione 2016, con un ulteriore ridimensionamento del numero del personale militare, dimostra che l’atteggiamento di Washington appare più condizionato da cautela ed attesa che dalla volontà di ripensare nel breve periodo l’intero impianto della relazione bilaterale. L’eventuale, seppur complicata, futura partecipazione della Thailandia alla controversa Trans Pacific Partnership potrebbe diventare un fattore importante di riavvicinamento. Alle oscillazioni statunitensi, fanno in ogni caso da contraltare legami sempre più stretti con il gigante cinese, alimentati in primis dalla forte convergenza di interessi riguardante l’interconnessione infrastrutturale della regione. Oltre a partecipare alla costruzione della ferrovia Singapore-Kunming, il 1° ottobre 2015 la Thailandia ha siglato l’accordo per prendere parte, in qualità di membro fondatore, alla nuova banca asiatica di investimenti per le infrastrutture promossa da Pechino, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib).
Anche in materia di sicurezza e difesa militare, ogni segno di arretramento della potenza statunitense sembra lasciare spazio all’avanzamento della controparte cinese. Se all’inizio del mese di luglio il rimpatrio di 109 uiguri aveva allarmato la comunità internazionale sollevando interrogativi sull’efficacia delle pressioni del governo di Pechino su Bangkok, l’annuncio della Giunta di voler acquistare tre sottomarini cinesi per oltre un miliardo di dollari ha rafforzato ulteriormente le perplessità in materia. Nell’eventualità che l’acquisto dovesse andare in porto, il legame militare che si andrebbe a creare tra Cina e Thailandia potrebbe spostare definitivamente l’asse geopolitico del Paese verso Pechino.
Infine, i rapporti con gli stati confinanti non sono privi di elementi di tensione e risentono dell’instabilità politica interna. Pur restando generalmente buoni, persiste il rischio che vengano destabilizzati dalla presenza di minoranze separatiste, al confine con Malaysia e Myanmar, e da dispute relative ai confini, come nel caso della Cambogia.
Anche se, in seguito alla vittoria elettorale del Pheu Thai Party (Partito per i thailandesi) nel luglio 2011, le frizioni con la Cambogia sono drasticamente calate, la sentenza della Corte internazionale di giustizia del novembre 2013 ha costituito una sconfitta diplomatica per Bangkok, cosa che potrebbe incrinare nuovamente le relazioni bilaterali. Le tensioni con la Malaysia, al contrario, nonostante il movimento separatista nelle province meridionali sia un costante fattore di tensione, sono state risolte e stabilizzate; così come quelle con il Laos, con il quale, dopo un conflitto territoriale che nel 1988 provocò oltre 1000 morti in un solo mese, la Thailandia sta cooperando per giungere a una demarcazione definitiva dei confini. La relazione con il Myanmar, malgrado solo 60 dei 2400 chilometri di confine siano ufficialmente demarcati, dal riavvicinamento del 1988 propende più verso la cooperazione che il conflitto, anche grazie alla forte interconnessione commerciale e, in particolare, energetica. Nonostante i forti interessi in gioco, la rivalità di lunga data tra i due paesi è uno dei principali fattori che impedisce di instaurare una relazione più collaborativa. Le violenze e devastazioni che nel 1767 accompagnarono la conquista birmana di Ayuttaya – all’epoca cuore politico, economico e spirituale della Thailandia – hanno contribuito a instillare nella classe dirigenziale dell’epoca paura e rancore verso gli spietati nemici birmani. Con l’emergere del nazionalismo thailandese, nel secolo successivo, la figura dei birmani è stata costruita attorno all’immagine di vicini ostili e pericolosi. Un’immagine negativa che ha avuto una forte presa sulle coscienze dei thailandesi tanto da influenzare la moderna politica estera del paese verso il Myanmar.
Se a queste tensioni si aggiungono l’elevato numero di migranti presenti sul proprio territorio e l’elevato grado di polarizzazione della vita politica interna, emerge chiaramente l’instabilità che caratterizza l’attuale Thailandia.
Dalla fine della monarchia assoluta nel 1932, la peculiarità della politica interna thailandese è stata l’elevata instabilità e la perenne tensione tra il consolidamento delle istituzioni democratiche e la resistenza dell’élite militare e politica. Da allora, compreso l’ultimo colpo di stato del maggio 2014, si sono verificati 12 colpi di stato andati a buon fine e il paese si è dotato di 17 Carte costituzionali, in attesa della diciottesima. Di particolare rilevanza, tra queste, la Costituzione del popolo che, elaborata da un’assemblea costituente eletta dal popolo e promulgata nell’ottobre 1997, introduceva una legislatura bicamerale elettiva.
Dopo la vittoria del 2001, il magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra, forte del sostegno popolare derivatogli dalle politiche a favore delle classi meno abbienti, stava assumendo un’influenza politica ed economica smisurata rispetto ai tradizionali equilibri thailandesi. La marginalizzazione dei propri avversari e il posizionamento in ruoli chiave di uomini di fiducia contribuì ad alienargli il sostegno dell’élite di Bangkok, che solo quattro anni prima ne aveva in parte favorito l’ascesa. Le proteste sorte a partire dalla sua rielezione del 2005 sfociarono nell’incruento colpo di stato militare che depose Thaksin nel settembre 2006. Il 19 agosto 2007, in un clima in cui ogni critica era perseguibile penalmente, fu approvata una nuova Carta costituzionale che riduceva la libertà d’azione del governo, accrescendo il ruolo del potere giudiziario, delle commissioni speciali e del Senato. Tali misure non riuscirono però ad intaccare il potere di Thaksin e del suo partito, il Thai Rak Thai (Trt), e le elezioni del dicembre 2007 videro l’affermazione del Palang Prachachon, erede del Trt. Questo mantenne la maggioranza fino allo scoppio delle manifestazioni di piazza da parte delle Camicie Gialle e al conseguente scioglimento del partito ad opera della Corte costituzionale, che aprì la strada all’elezione a primo ministro di Abhisit Vejjajiva del Democrat Party. A fine 2008, dunque, la frattura politica si acuì ancora di più. Successivamente alla condanna a due anni in absentia comminata a Thaksin nell’ottobre dello stesso anno, allo scioglimento del suo partito e alla confisca delle sue proprietà a inizio 2010 (circa 1,4 miliardi di dollari), i suoi sostenitori, le Camicie Rosse, scesero in piazza, dando vita ai mesi più turbolenti e violenti vissuti dal paese dal ‘maggio nero’ del 1992. Nelle dimostrazioni della primavera 2010 si registrarono 88 morti e circa 2000 feriti tra i manifestanti. La netta vittoria del Pheu Thai Party nel 2011, rappresentato da Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, con 104 seggi conquistati nei collegi del nord-est contro i soli 3 vinti al sud, ha confermato la profonda divisione geopolitica ed economica che affligge la Thailandia.
L’intera vita politica è stata spesso dominata da scontri istituzionali, appesantendo di conseguenza il processo decisionale. In un simile clima, l’articolo 190 della Costituzione relativo alla sovranità nazionale, è stato ripetutamente chiamato in causa dall’opposizione nel tentativo di ostacolare l’azione dell’esecutivo. Ma la vera campagna contro il primo ministro Yingluck Shinawatra ha ruotato attorno alla proposta di una legge di amnistia per i fatti seguiti al colpo di stato del 2006, che rappresentava un passo essenziale sulla via della riconciliazione nazionale, capace al contempo di risolvere i problemi giudiziari di Abhisit Vejjajiva per la repressione del 2010 e favorire successivamente il ritorno del fratello in patria. Per gli oppositori tale proposta ha rappresentato invece la rottura del tacito compromesso che aveva permesso al Pheu Thai Party di governare per quasi due anni e mezzo. Le manifestazioni esplose nei mesi successivi, che hanno portato a quasi 30 vittime e centinaia di feriti, hanno paralizzato completamente l’azione del governo costringendo, all’inizio del 2014, Yingluck a favorire lo scioglimento della Camera e a indire nuove elezioni. Il voto è stato però annullato dalla Corte costituzionale, che ha poi deposto la premier per un caso di abuso di potere risalente al 2011. In questo quadro di totale stallo e ingovernabilità l’intervento militare – che era già nell’aria – si è concretizzato il 22 maggio con un colpo di stato guidato dal generale Prayuth Chan-ocha, attualmente primo ministro ad interim del paese.
Una volta preso il potere, la Giunta militare, conosciuta formalmente come ‘Consiglio nazionale per il mantenimento dell’ordine e della pace’ ha imposto la legge marziale, abrogata dieci mesi dopo, il 1° aprile 2015. E’ stata inoltre istituita una commissione per redigere una nuova Costituzione, allo scopo di trovare un meccanismo di riconciliazione alla profonda frattura che divide l’attuale società thailandese. La nuova bozza di Costituzione, depositata nell’aprile del 2015, e che avrebbe dovuto entrare in vigore nel mese di settembre, lasciava trapelare la ricerca da parte della Giunta di un regime di moralità e virtù, basato su una dialettica buddista che divide ‘le persone buone da quelle cattive’. Questo linguaggio, già utilizzato in precedenza, era stato sistematizzato e interiorizzato nella bozza attraverso la creazione dell’Assemblea nazionale della morale, che ha il compito di controllare le qualità morali dei politici e selezionare i candidati più adatti. I 315 articoli che componevano la bozza contenevano inoltre una serie di disposizioni riguardanti, tra gli altri, l’aumento dei poteri e del numero dei membri del Senato e la reintroduzione della possibilità per un membro non eletto del parlamento di diventare primo ministro. Tale bozza, la cui restrizione democratica non ha riscontrato i favori né tra i sostenitori di Thaksin né tantomeno dal Partito democratico, è stata bocciata dal Consiglio nazionale delle riforme ad inizio settembre con 135 voti contro 105. Di conseguenza è stata istituita una nuova commissione, composta da 21 membri, alla quale è stato affidato il compito di preparare entro 6 mesi un’altra bozza da far approvare prima al parlamento e in seguito da sottoporre a un referendum popolare. Le elezioni politiche, inizialmente previste per il 2015, non avranno quindi luogo prima del 2017, ed è possibile che nel corso del 2016 saranno annunciati ulteriori rinvii.
Tuttavia, oltre che dalle fratture politiche e socio-economiche, la grande incertezza che avvolge la politica thailandese deriva dalla questione cruciale della successione del re. Bhumibol Adulyadej (Rama IX), compiuti gli 87 anni, è il regnante più longevo al mondo e da anni la sua salute desta grandi preoccupazioni. È il nono sovrano della dinastia Chakri che guida il paese da oltre 230 anni e nonostante non goda di poteri formali rilevanti, rappresenta il simbolo dell’unità nazionale ed è molto amato dal popolo, anche perché in passato ha saputo evitare che le fratture interne degenerassero in guerra civile. Attorno al re si fonda l’intero assetto politico della monarchia costituzionale thailandese. La sua influenza, oltre che simbolica, ha solide basi costituzionali, viene soprattutto rinsaldata dalla profonda simbiosi con l’apparato militare-burocratico. La questione più critica dunque consiste nella futura successione: il principe ereditario Vajiralongkorn non riscuote né l’apprezzamento dell’establishment, nè quello del popolo a causa del suo stile di vita dissoluto. Ancora più spinoso è il suo stretto legame con Thaksin. La sorella Sirindhorn gode invece di maggior stima e sarebbe una soluzione molto più gradita a monarchici e militari e, dunque, non si può escludere che la Palatine Law venga emendata dal re stesso allo scopo di favorire la successione della figlia. Mentre eventuali sviluppi sono avvolti da un mistero quasi assoluto, la morte di Bhumibol Adulyadej spariglierà le carte, lasciando sul tavolo l’unica certezza che il suo successore non avrà il medesimo peso politico e difficilmente riuscirà ad agire da forza stabilizzante nei periodi di crisi più acuti.
Più di un quinto della popolazione thailandese ha meno di 15 anni. Tuttavia, il tasso di crescita demografica del paese è diminuito costantemente nel corso degli ultimi decenni, anche grazie al successo ottenuto dai programmi di controllo delle nascite adottati dagli anni Settanta.
Malgrado il costante aumento della popolazione inurbata, inoltre, la Thailandia rimane ancora oggi un paese prevalentemente rurale, in cui più della metà degli abitanti vivono nelle campagne. La maggioranza della popolazione urbana si concentra invece nell’area metropolitana di Bangkok. Sotto il profilo etnico la Thailandia è uno dei paesi più omogenei del Sud-Est asiatico: il 75% dei suoi abitanti è di etnia thai, mentre il 14% ha almeno un antenato cinese. All’interno del paese si possono tuttavia rintracciare alcune pronunciate variazioni etnolinguistiche. Quasi un terzo degli abitanti del nord del paese, per esempio, parla una variante della lingua lao. Non solo: esistono delle differenze di prestigio tra la lingua thai di Bangkok e le varianti thai del nord e del nord-est, altra espressione delle fratture e delle tensioni politiche.
Il principale collante sociale della Thailandia è costituito dalla religione: oltre il 90% degli abitanti appartiene alla confessione buddista, e la pressoché totalità aderisce a dottrine che si rifanno alla scuola theravāda. Malgrado ciò, è proprio una minoranza religiosa a costituire uno dei più grossi problemi per il paese: il 4% di fedeli musulmani è in massima parte di etnia malese e vive nel sud della Thailandia, al confine con la Malaysia. Dall’inizio del Ventunesimo secolo, in particolare dal 2004 (in seguito all’adozione della nuova politica da parte di Thaksin atta a indebolire il tradizionale dominio del Partito democratico nel sud), le tendenze separatiste di questo gruppo etnico sono riesplose in un’escalation di violenze, provocando la morte di soldati e civili.
Un ultimo punto di rilievo concerne, infine, lo status degli immigrati e dei rifugiati nel paese. Da un lato, a causa della presenza di aree periferiche in passato difficilmente controllabili dall’autorità centrale, di un ventennio di forte immigrazione dai paesi vicini e delle leggi sull’immigrazione thailandesi che a seconda dei periodi sono state più o meno restrittive, si stima che circa mezzo milione di persone siano apolidi. D’altra parte, malgrado la Thailandia non sia firmataria della Convenzione sui rifugiati del 1951, attualmente riconosce lo status di rifugiato a 75.137 profughi: l’Unhcr stima altresì che 55.101 birmani, che vivono in nove campi lungo il confine, ne avrebbero diritto.
Tra il 2001 e il 2006, durante il premierato di Thaksin, una delle questioni più controverse riguardo il livello delle libertà civili era il forte monopolio dell’informazione nelle mani del primo ministro. Thaksin utilizzava inoltre periodicamente le accuse di diffamazione – reato per il quale le pene previste dal codice penale sono alte – per silenziare i suoi critici. Dal colpo di stato militare del settembre 2006, con la deposizione e l’esilio di Thaksin, il monopolio mediatico è stato spezzato, ma le incriminazioni per diffamazione non sono cessate, pur diminuendo di numero.
La Costituzione del 2007 aveva ripristinato alcune libertà, ma la nuova Costituzione temporanea del 2014, pur riconoscendo in linea di principio maggiori libertà politiche e civili, lascia ampio margine di manovra alla Giunta che alla bisogna può sospendere o annullare suddetti diritti. Interpretazioni estensive della legge di lesa maestà permettono inoltre di comminare pene fino a 15 anni di carcere a chiunque rivolga insulti in direzione del re, della famiglia reale o del buddismo. La crescente tendenza a giustificare gli arresti sulla scorta della norma di lesa maestà ha raggiunto la massima intensità e ha trovato nuova linfa successivamente al colpo di stato.
L’accesso a Internet è limitato a circa un quarto della popolazione. Inoltre la censura governativa, istituita nel 2003 e diretta inizialmente a limitare la circolazione di materiale pornografico, dal 2006 è stata utilizzata in maniera sempre più frequente per chiudere siti considerati una minaccia alla sicurezza nazionale, inclusi quelli dei gruppi separatisti musulmani. Oltre ai siti Internet, l’attuale regime militare ha intensificato i controlli sui social media e in particolare sui contenuti e i commenti ritenuti sovversivi o che possano ulteriormente infiammare le divisioni del paese. L’inevitabile risultato dell’aumento della sorveglianza di massa è scaturito nell’autocensura in una popolazione molto attiva sui social network se si considera che in Thailandia esistono più di 30 milioni di utenti attivi di Facebook e oltre 26 milioni di utenti che accedono ogni mese a Youtube.
Tra il 1990 e il 1996 la Thailandia visse una forte crescita, pari in media all’8,6%, che si interruppe bruscamente in occasione della crisi asiatica del 1997-98, in seguito alla quale il pil thailandese crollò dell’11%. Tuttavia, l’elevato sviluppo del settore commerciale, unito a un’economia marcatamente orientata alle esportazioni, favorirono una ripresa repentina fino allo scoppio della crisi economica globale nel 2009, che ha portato a una nuova contrazione dello 0,7%, evidenziando la stretta interconnessione dell’economia thailandese con il tessuto del mercato globale. Nel 2010 il pil è cresciuto del 7,5%, un valore più alto rispetto a quelli degli ultimi quindici anni, così come è cresciuto il reddito procapite, tanto da permettere alla Thailandia di essere inserita dalla Banca Mondiale nel 2011 tra le economie di reddito medio-alto. Nel 2011, a causa delle peggiori inondazioni degli ultimi 50 anni che hanno provocato 815 morti e danni pari a circa 46 miliardi di dollari, l’economia è cresciuta solo dello 0,8%. Da allora la crescita del pil ha seguito un andamento fluttuante, segnando un +7,3% nel 2012, +2,8% nel 2013, +0,9% nel 2014 e nuovamente in crescita al 2,5% nel 2015. Sebbene l’economia thailandese sia in continua espansione, il recente rallentamento della crescita sembra sia la manifestazione di un paese intrappolato tra la difficoltà a tener testa ai paesi meno sviluppati nelle lavorazioni ad alta intensità di manodopera e l’incapacità di competere nei settori a più alto contenuto tecnologico con i paesi più industrializzati.
Il motore economico del paese sono le esportazioni: il settore rappresenta oltre il 60% del pil, percentuale in linea con quella registrata in alcuni stati Asean, ma molto superiore a quella di un gigante europeo la cui economia si basa anch’essa sull’export come la Germania, a quella della Cina o degli Stati Uniti. Gli ingenti flussi commerciali in entrata e in uscita sono ripartiti tra diversi partner, ognuno dei quali con una quota non superiore a un quinto dell’interscambio totale. Tuttavia l’interscambio con la Cina sta crescendo notevolmente e, mentre fino alla metà degli anni Novanta non superava il 2,8% delle esportazioni e il 3,7% delle importazioni, attualmente ne assorbe rispettivamente il 12% e il 15%. La fragilità del panorama economico thailandese, invece, consiste nell’elevata sperequazione del reddito, dato che il 10% più ricco della popolazione detiene circa un terzo del reddito, mentre il 20% più povero non supera il 7%. Ciò si ripercuote sulle vicende politiche: se si considera che sotto il governo Thaksin la percentuale di thailandesi con un reddito giornaliero inferiore ai 2 dollari si era ridotta dal 21% del 2000 al 12% nel 2004 (sarebbe poi tornata al 27% nel 2009), si spiega il largo sostegno che il governo ha avuto nel nord-est, zona prevalentemente rurale e nettamente più povera rispetto all’area metropolitana di Bangkok e delle città portuali del sud. Le politiche ‘populiste’ del governo Yingluck, che si sono concretizzate in un aumento del 40% del salario minimo (portato a 300 baht giornalieri), in una riduzione delle tasse e in sussidi, quali il calmieramento del prezzo del riso ad un livello superiore a quello di mercato, hanno seguito la stessa logica.
Il petrolio e il gas naturale sono stati relativamente abbondanti in Thailandia, assicurando al paese un lungo periodo di sostanziale indipendenza energetica dall’estero. La compagnia energetica nazionale, la Ptt, ha conosciuto un processo di parziale privatizzazione dal 2001 ed è oggi la società a più elevata capitalizzazione nella Borsa thailandese.
Sin dagli anni Ottanta, tuttavia, la Thailandia è divenuta importatrice netta di petrolio. Raggiunto un picco di dipendenza dalle importazioni di greggio dall’estero nel 1992 (quando l’86% del petrolio consumato era importato), nel tempo il paese è riuscito a ridurla leggermente. Tuttavia oggi le importazioni si attestano a circa l’85% del consumo interno di petrolio, rendendo il paese esposto alla volatilità dei prezzi. Il settore dell’estrazione del gas naturale ha conosciuto un notevole sviluppo nell’ultimo ventennio: se nel 1981 la produzione interna ammontava a poco più di un miliardo di metri cubi all’anno (Gmc/a), nel 2012 ha superato i 40 Gmc/a. Nel frattempo, per soddisfare i consumi interni, dal 2000 la Thailandia ha cominciato a importare gas: ad oggi compra dal Myanmar circa un quinto del gas che consuma. Attualmente si stima che il paese detenga oltre 254 miliardi di metri cubi, quasi interamente off-shore. Il governo ritiene che il picco della produzione possa aversi nel 2017, mentre il probabile esaurimento attorno al 2030. Le riserve di carbone sono invece abbondanti: si stima che la Thailandia potrà sfruttarle per i prossimi 70 anni. Tuttavia, il sottosviluppo del settore minerario costringe il paese a importare quasi la metà del carbone che consuma.
Sotto il profilo ambientale la Thailandia è un grande emettitore di anidride carbonica. La crescita del settore industriale ha creato notevoli problemi di inquinamento, che si concentrano prevalentemente attorno all’agglomerato urbano di Bangkok. Tuttavia il paese sta cercando di incrementare la quota di rinnovabili nel mix energetico con l’obiettivo di raggiungere il 25% nel 2021.
Nel 2008 il governo thailandese ha varato un ambizioso piano atto a modernizzare i mezzi in dotazione alle forze armate. La parte più consistente del piano prevedeva l’acquisto di 12 Jas-39 Gripen, aerei prodotti in Svezia dalla Saab e idonei sia ad attacchi al suolo che a operazioni di intercettazione e ricognizione, e di due velivoli Erieye di preallarme e controllo (Awacs). Tuttavia la crisi economica ha costretto il governo a differire l’acquisto della seconda tranche da sei Jas-39 e di uno dei due Erieye. Parimenti è stato procrastinato l’acquisto di mezzi corazzati ed elicotteri. Nei primi mesi del 2011 è emersa inoltre la volontà di acquistare 4 sottomarini di seconda mano dalla Germania, ma il governo non ha dato il via libera lasciando decadere l’offerta. Nel 2012 sono ad ogni modo iniziati i lavori di costruzione di una base sottomarina, i cui lavori sono stati completati nel 2014, e la marina preme per la costruzione della flotta sia per tutelarsi in caso di escalation della tensione nel Mar Cinese Meridionale, sia in quanto Indonesia, Vietnam, Malaysia e Singapore stanno procedendo nella stessa direzione. L’ambizione di dotare la propria marina di sottomarini, già ponderata da diversi decenni ma mai effettivamente andata in porto per ragioni di costi, sembra ormai diventata una priorità in quanto, a causa del recente aumento della militarizzazione nella regione, la Thailandia è rimasta l’unica potenza a non possederne uno. Il fiore all’occhiello dell’apparato militare thailandese consiste nella portaerei Chakri Naruebet – letteralmente ‘in onore della dinastia Chakri’ – di fabbricazione spagnola e varata nel 1996. Considerando che a livello globale esistono, ad oggi, esclusivamente 20 portaerei operative, 10 delle quali statunitensi, il valore aggiunto in termini di prestigio e proiezione militare è considerevole. Tuttavia, nonostante tra il 2002 e il 2011 le spese militari siano cresciute del 66%, l’industria bellica thailandese è ancora poco sviluppata e di conseguenza il paese è in una condizione di quasi totale dipendenza dalle forniture estere, soprattutto statunitensi. Malgrado la crisi economica e le debolezze strutturali, la Thailandia riesce a mantenere un budget per la difesa consistente pur destinandovi l’1,52% del pil, dato leggermente inferiore alla media globale. I legami con due potenze del calibro di Stati Uniti e Cina portano alla Thailandia un notevole vantaggio in termini militari, in quanto il paese intrattiene con entrambe una fitta relazione di scambio di materiali, tecnologie e know-how. Con gli Usa, a partire dal 1980, ogni anno si tiene l’esercitazione militare congiunta Cobra Gold (la maggiore svolta da Washington nello scacchiere asiatico) e, grazie allo status di ‘Major non-Nato ally’, la Thailandia gode dell’accesso preferenziale alle forniture militari ad alta tecnologia, come le munizioni all’uranio impoverito.
Per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, invece, nel 2005 ha avuto luogo la prima esercitazione congiunta sino-thailandese nel Golfo di Thailandia, che è stata anche la prima esercitazione cinese con uno stato membro dell’Asean, e da allora la cooperazione militare è andata rafforzandosi di anno in anno tanto da annunciare nel luglio l’intenzione di voler acquistare tre sottomarini da Pechino. Secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa Prawit Wongsuwan, tale acquisto è già conteggiato nell’aumento del budget per il 2016, che secondo la dichiarazione ufficiale emessa nel mese di aprile raggiungerà i 270 miliardi di Baht (+7% rispetto al 2015), circa 1,5% del pil del Paese.
Dall’ottobre del 2008 Thailandia e Cambogia si sono scontrate a più riprese nell’area circostante il complesso del tempio khmer risalente all’XI secolo che i thailandesi chiamano Phra Viharn e i cambogiani Preah Vihear. La genesi della disputa risale al periodo dell’Indocina francese, che nel 1907 si impossessò dell’area in questione senza il consenso del Siam (da cui le rivendicazioni attuali). Successivamente all’indipendenza della Cambogia, la Corte internazionale di giustizia nel 1962 si pronunciò in favore di quest’ultima e decretò l’illegittimità dell’occupazione thailandese. Nel 1975 i Khmer Rossi di Pol Pot assunsero il controllo del sito facendone il teatro delle proprie operazioni. Il tempio tornò a essere un’attrazione turistica solo alla fine degli anni Novanta, quando i due stati contendenti ne intuirono le potenzialità, tanto che la Thailandia sostenne la candidatura del sito a patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Il momento cooperativo venne però infranto dalle spinte nazionaliste che nel 2008 animavano le cosiddette ‘Camicie Gialle’, movimento nazionalista e monarchico thailandese collegato alla People’s Alliance for Democracy (Pad).
Paradossalmente, l’inserimento del sito nella lista dell’Unesco ha acuito le tensioni e dall’autunno del 2008 si è assistito a ripetuti scontri a fuoco, che hanno provocato diverse decine di morti da ambo le parti e la periodica evacuazione di migliaia di contadini residenti nella zona di confine. Con la vittoria elettorale di Yingluck Shinawatra, seguita da una visita in Cambogia due mesi dopo, i due paesi hanno ripreso a negoziare in modo proficuo sfruttando anche i buoni rapporti tra il primo ministro cambogiano e Thaksin Shinawatra. Il verdetto della Corte internazionale di giustizia, però ha confermato la sovranità cambogiana sull’area del tempio, pur lasciando irrisolta la disputa per le aree limitrofe; se a ciò si aggiungono le mutazioni politiche avvenute in Thailandia, non si può escludere che la disputa venga nuovamente strumentalizzata al fine di perseguire obiettivi di politica interna.
Le province di Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwat, al confine con la Malaysia, fino a due secoli fa, prima di finire sotto il controllo del Siam, costituivano un sultanato indipendente. Nei decenni scorsi le tensioni separatiste provenienti dalla minoranza di etnia malese e fede musulmana che risiede nell’area sono sfociate in intense offensive contro le forze governative; tra gli anni Ottanta e Novanta il governo era riuscito a pacificare la regione, concedendole maggiore autonomia. Tuttavia, con l’ascesa politica di Thaksin si è assistito a una svolta repressiva, manifestatasi nello scioglimento del Consiglio locale e in un drastico aumento della presenza delle forze dell’ordine. Ciò ha riportato alla luce un problema solo temporaneamente sopito, ma ancora potenzialmente esplosivo per l’integrità stessa della Thailandia. Il coinvolgimento di truppe paramilitari ha contribuito ad alimentare la violenza e conseguentemente ha portato alla presa delle armi da parte dei civili buddisti. Da allora, infatti, è in atto una vera e propria guerra civile che negli ultimi dieci anni ha causato oltre 6500 morti e 10.000 feriti. L’ex premier Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, è riuscita nel 2013, grazie anche al ruolo di intermediario giocato dalla Malaysia, ad aprire una finestra di dialogo con il Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn), uno dei principali gruppi attivi nella lotta separatista. Dopo tre riunioni plenarie, il cosiddetto ‘Processo di Kuala Lumpur’ è andato in frantumi, minato dalle divisioni in entrambi i fronti.
Dall’attentato del 22 maggio 2014, la Giunta militare sta formalmente cercando il dialogo, in particolare con alcuni gruppi militanti riuniti sotto la bandiera del Consiglio consultivo di Patani (Mara Patani), ma tra questi non figurano le Brn, che sono disposte a riaprire i negoziati solo con la garanzia di una mediazione internazionale. Senza la partecipazione di tutte le principali fazioni in lotta, qualsiasi processo di dialogo non porterebbe ad una piena risoluzione del conflitto.
Inoltre, nell’ultimo decennio il clima politico nell’area è stato ulteriormente surriscaldato dalla serrata guerra al commercio della droga avviata dallo stesso Thaksin a inizio 2003 e finalizzata a contrastare in particolare il mercato delle anfetamine provenienti dal Myanmar e dirette in Malaysia. L’instabilità politica e la mancanza di un efficace controllo sul territorio hanno così permesso la proliferazione delle attività dei trafficanti nelle province dell’Estremo Sud che, oltre alla droga, sono state recentemente coinvolte nello scandalo relativo al traffico di esseri umani. Nel maggio 2015 è stata ritrovata una fosse comune nella giungla nella provincia di Songkhla, a 400 metri dal confine con la Malaysia, con all’interno 26 cadaveri di migranti provenienti da Bangladesh e Myanmar, probabilmente di etnia rohingya.
Approfondimento
La sera del 17 agosto 2015 un ordigno esplosivo posizionato sotto una panchina davanti al tempo induista di Erawan, in un distretto turistico nel cuore della capitale thailandese, è esploso provocando 22 morti e oltre 100 feriti. Gli artificieri hanno poi disinnescato un secondo ordigno nei pressi del luogo dell’esplosione mentre un terzo è stato trovato inesploso dalle forze dell’ordine. La mancata rivendicazione dell’attentato terroristico – definito ad oggi il peggiore nella storia della Thailandia –, l’apparente mancanza di trasparenza nello svolgimento delle indagini e le difficoltà riscontrate dalle autorità locali nell’identificare rapidamente i responsabili hanno dato adito a numerose speculazioni a livello sia interno sia internazionale sulle possibili responsabilità dell’attentato.
Nell’immediatezza dell’esplosione, si è ritenuto che gli attentatori provenissero dalle file dei separatisti del sud, di minoranza etnica malese e fede musulmana, che nell’ultimo decennio sono stati più volte coinvolti in attacchi contro obiettivi militari ed economici nelle province più meridionali della Thailandia. L’ipotesi è stata però presto scartata poiché l’attentato non trovava corrispondenza con le tecniche impiegate abitualmente da questi gruppi che fino ad ora hanno concentrato il loro raggio d’azione nell’Estremo Sud. Un’altra ipotesi inizialmente presa in considerazione ma presto accantonata attribuiva la responsabilità dell’attacco al terrorismo transnazionale di matrice islamista, che anche nel Sud-Est asiatico sta rappresentando una minaccia sempre più concreta. La presenza di un elevato numero di turisti di nazionalità cinese fra le vittime, unita agli arresti e ai mandati di cattura verso cittadini turchi emessi dalle autorità thailandesi nei giorni successivi all’esplosione, hanno lasciato ipotizzare che l’attentato potesse essere stato compiuto da cinesi di etnia uigura, una minoranza di origine turca e religione musulmana che risiede nello Xinjiang, nell’estremità nord-occidentale della Cina. Il rimpatrio da parte di Bangkok di 109 uiguri nel mese precedente aveva scatenato numerose proteste, sfociate ad Istanbul in un assalto al consolato onorario thailandese. L’ipotesi più generalmente accettata è quella che ricollega l’attentato alla faida politica interna del paese, contraddistinta da una polarizzazione sempre più estrema tra due fazioni che appaiono ben lontane dalla riconciliazione auspicata dalla giunta militare. Tale polarizzazione, la cui principale manifestazione politica è la divisione tra i sostenitori delle Camicie gialle e delle Camicie rosse, è una spaccatura molto profonda nella Thailandia contemporanea. È una divisione socio-economica che contrappone l’élite del paese e la classe media urbana alla forza lavoratrice operaia ma soprattutto agricola, che ancora rappresenta la maggioranza della popolazione thailandese. È una polarizzazione di natura geografica che separa le città portuali e in generale le province dal sud al nord e al nord-est. È una divisione sub-etnica che frammenta la popolazione in termini di identità: i thai siamesi delle pianure centrali il cui dialetto è diventato la lingua ufficiale della Thailandia, dai thai del nord (Lanna) e del nord-est (Isan/Lao). All’inizio del 2014 i sentimenti secessionisti si sono diffusi soprattutto in questi territori e, seppur determinati più da uno sfogo di rabbia e frustrazione che da una reale richiesta di indipendenza, hanno spinto l’élite burocratico-militare a un colpo di stato per ristabilire l’ordine e «restituire la felicità al popolo thailandese».
L’apparente confusione che si è venuta a creare attorno all’attentato di Bangkok ha però avuto lo straordinario potere di portare alla luce l’ampio spettro di preoccupazioni che affligge la giunta militare al comando e, più in generale, la Thailandia nel nuovo millennio. Terrorismo interno ed internazionale, separatismo e la forte ostilità che sta dividendo a metà un intero paese, ai quali si aggiungono le preoccupazioni sull’imminente successione reale, dispute territoriali con i vicini sempre più dinamici e l’emergere di un nuovo ordine regionale promosso dall’Asean in un’area in cui la Thailandia ha storicamente detenuto una posizione di rilievo.
di Martina Dominici