Vedi Thailandia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Un’azione diplomatica storicamente flessibile, che le permise di rispondere positivamente alle richieste inglesi e francesi, unita all’interesse condiviso dalle due potenze europee nel mantenere uno stato cuscinetto tra l’Indocina a est e la Birmania a ovest, hanno garantito alla Thailandia il vantaggio di essere l’unico stato del Sud-Est asiatico a non aver subito la colonizzazione occidentale. Allineatasi al Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale nella speranza di riconquistare parte dei territori ceduti agli occidentali, a fine conflitto la Thailandia riuscì a evitare il trattamento riservato agli stati aggressori. Il merito fu del favoreggiamento segreto da parte del governo nei confronti del movimento Free Thai, appoggiato dagli alleati, Stati Uniti in testa. Da allora per Washington la Thailandia rappresenta una pietra angolare della politica estera regionale. Nel corso della guerra in Vietnam il paese costituì una base operativa cruciale per l’intelligence e per i B-52 statunitensi e, quando Nixon decise il disimpegno degli Stati Uniti e la ‘vietnamizzazione’ del conflitto, in Thailandia si trovavano oltre 50.000 soldati statunitensi e circa 600 mezzi dell’aviazione militare. Una quota rilevante dell’esercito thailandese (circa il 14%) fu inoltre direttamente impiegata in territorio vietnamita, dove tra il 1965 e il 1969 vennero inviati più di 12.000 soldati. Al flusso di truppe e mezzi corrisposero ingenti forniture in armamenti, che aumentarono dopo l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam vittorioso, giungendo a circa 850 milioni di dollari nel quadriennio 1979-1983. Con la fine della Guerra fredda l’alleanza con gli Stati Uniti è rimasta stabile, come ha sin da subito dimostrato la concessione dell’utilizzo delle basi nel corso della Prima guerra del Golfo. L’acquisizione nel 2003 da parte della Thailandia dello status di ‘Major non-Nato Ally’, la partecipazione alle operazioni belliche in Iraq tramite l’invio di 400 soldati e la perdurante garanzia dei diritti di sorvolo e rifornimento per i mezzi statunitensi diretti verso Afghanistan e Iraq, sono tutti indicatori dello stretto legame tra Bangkok e Washington.
Tuttavia, parallelamente all’alleanza con gli Stati Uniti, la Thailandia sta consolidando il legame con la Repubblica popolare cinese, con cui del resto condivide una sostanziale convergenza strategica dalla fine degli anni Settanta. Fu proprio negli anni Settanta, in relazione ai rapporti con il Vietnam, che il legame con la Cina subì un’accelerazione. Il rafforzamento del Vietnam unito fece riemergere frizioni storiche di natura politica e territoriale tra Cina e Vietnam e in ultima istanza rinsaldò il legame già stretto tra Hanoi e Mosca. Quando, nel dicembre del 1978, le truppe vietnamite invasero la Cambogia, l’allora Kampuchea democratica dei Khmer rossi, Thailandia e Cina videro i propri interessi a rischio, qualora il Vietnam fosse divenuto egemone nell’area indocinese. In risposta, la Repubblica popolare cinese sospese il sostegno al Partito comunista thailandese e la Thailandia si impegnò a favorire il transito degli aiuti militari cinesi diretti ai Khmer rossi. Questo rapporto storico con la Cina si è mantenuto e si è anzi consolidato con la crisi che colpì le economie asiatiche nel 1997, quando l’aiuto di Pechino permise alla Thailandia di non naufragare oltre il già pesante -11% registrato dal pil per quell’anno. Nel 1999 i due stati hanno poi firmato il Sino-Thai Plan of Action per il 21° secolo, finalizzato ad accrescere la cooperazione commerciale, scientifica, in materia giudiziaria e nel settore della sicurezza. La vittoria elettorale del sino thailandese Thaksin Shinawatra nel 2001 accrebbe ancora di più la relazione, suggellata simbolicamente dal fatto che la prima visita diplomatica in uno stato membro dell’Asean da parte del nuovo presidente cinese, Hu Jintao, fu proprio in Thailandia. In seguito al colpo di stato del settembre 2006 compiuto dai militari, che pose fine a 15 anni di governo democratico, gli Stati Uniti hanno sospeso gli aiuti militari, mentre la Cina ha stanziato altri 50 milioni di dollari, dimostrando di non voler interferire negli affari interni thailandesi. Il legame sino-thailandese è in forte crescita in quanto la politica del ‘go abroad’ sta favorendo un aumento degli investimenti cinesi in Thailandia e l’interscambio sta notevolmente aumentando. A livello culturale riveste una valenza simbolica il fatto che 23 dei 41 Istituti Confucio presenti in Asia sudorientale si trovino in territorio thailandese. La visita di Barack Obama nel novembre 2012, seguita a ruota da quella di Wen Jiabao, ha ribadito l’importanza della duplice relazione e l’eventuale futura partecipazione della Thailandia alla controversa Trans Pacific Partnership potrebbe ripianare gli screzi legati al rifiuto opposto alla richiesta di Washington di utilizzare la base di U-Tapao per una ricerca meteorologica condotta dalla Nasa. Tale adesione, però, potrebbe al contempo comportare uno sbilanciamento e di conseguenza complicare i rapporti con Pechino. Significativamente, infine, la Thailandia è il primo paese ad aver raggiunto un accordo con la Cina per accedere al sistema di navigazione satellitare Beidou, che le permetterà di sviluppare il proprio sistema geospaziale. Se le relazioni con Cina e Stati Uniti appaiono stabili, altrettanto non può dirsi dei rapporti con gli stati confinanti, destabilizzati dalla presenza di minoranze separatiste, al confine con Malaysia e Myanmar, e da dispute relative ai confini, come nel caso della Cambogia. Benché alla vittoria elettorale del Pheu Thai Party (Partito per i Thailandesi) nel luglio 2011 le frizioni con la Cambogia siano drasticamente calate, la sentenza della Corte internazionale di giustizia del novembre 2013 costituisce una sconfitta diplomatica per Bangkok e rischia di incrinare nuovamente le relazioni bilaterali. Le tensioni con la Malaysia, al contrario, nonostante il movimento separatista nelle provincie meridionali sia un costante fattore di tensione, sono state risolte e stabilizzate. Altrettanto è successo con il Laos, con il quale, dopo un conflitto territoriale che nel 1988 provocò oltre mille morti in un solo mese, la Thailandia sta cooperando per giungere a una delimitazione definitiva dei confini. Il caso del rapporto con il Myanmar è interessante in quanto, malgrado soltanto 60 dei 2400 chilometri di confine siano ufficialmente definiti, dai primi anni del 21° secolo non si verificano scontri armati, anche perché esiste un forte legame commerciale e, in particolare, la Thailandia importa dal Myanmar circa un terzo del gas che consuma. Se però alle potenziali tensioni nelle zone di confine si aggiunge l’elevato numero di profughi e la polarizzazione della vita politica interna emerge chiaramente l’instabilità che caratterizza la Thailandia attuale. Come nel 2010, anche nel dicembre 2013 ci sono stati violenti scontri di piazza: i manifestanti cercavano di bloccare le elezioni previste per il 2 febbraio, appoggiati dalla commissione elettorale. La premier Yingluck Shinawatra, nominata nell’agosto 2011 e sorella dell’ex premier Thaksin Shinawatra, si è dichiarata fermamente decisa ad arrivare alle urne.
Dalla fine della monarchia assoluta nel 1932, la peculiarità della politica interna thailandese è stata l’elevata instabilità e la perenne tensione tra il consolidamento delle istituzioni democratiche e la resistenza dell’élite militare e politica. Da allora si sono verificati 11 colpi di stato andati a buon fine e il paese si è dotato di 17 carte costituzionali. Di particolare rilevanza, tra queste, la ‘Costituzione del popolo’ che, elaborata da un’assemblea costituente eletta dal popolo e promulgata nell’ottobre 1997, introduceva una legislatura bicamerale elettiva. Benché le istituzioni democratiche avessero resistito per quasi 15 anni dal 1992, la rielezione del magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra, avvenuta nel 2005, scatenò la reazione dell’élite thailandese, che sfociò nel colpo di stato incruento del settembre 2006 con il quale Thaksin venne deposto. Quest’ultimo, forte del sostegno popolare che gli veniva dalle politiche di sostegno alle classi meno abbienti, residenti prevalentemente nella zona nordorientale del paese, stava assumendo un’influenza politica ed economica smisurata rispetto ai tradizionali equilibri thailandesi, marginalizzando i propri avversari, ponendo uomini di fiducia nelle posizioni cruciali e assumendo un prestigio che in Thailandia può appartenere solo al sovrano. Tutti questi fattori contribuirono ad alienargli il sostegno dell’élite di Bangkok che solo quattro anni prima ne aveva in parte favorito l’ascesa. Il ruolo di guida assunto durante una cerimonia presso il tempio del Buddha di smeraldo costituì la scintilla della campagna anti-Thaksin e filomonarchica, basata sullo slogan ‘We love the King’ e messa in atto dal partito d’opposizione Pad (People’s alliance for democracy) con il sostegno della casa reale. In seguito al colpo di stato, la giunta militare aveva nominato un’assemblea per la redazione di una nuova Costituzione. Il 19 agosto 2007, in un clima in cui ogni critica era perseguibile penalmente, la nuova carta fondamentale fu approvata tramite referendum, con il 59,3% dei voti. Il nuovo documento ridusse la libertà d’azione del governo, accrescendo il ruolo del potere giudiziario, delle commissioni speciali e del senato. Quest’ultimo non è più completamente elettivo, ma prevede la nomina di 73 membri selezionati tra esponenti del mondo imprenditoriale, accademico e della pubblica amministrazione. Il nuovo senato, inoltre, è apartitico e i candidati non devono essere stati affiliati a un partito nei cinque anni precedenti. Benché queste misure avessero la funzione di sradicare il potere di Thaksin (bandito esplicitamente dall’attività politica) e del suo partito Trt (il Thai Rak Thai, a sua volta bandito nel maggio del 2007), le elezioni del dicembre 2007 videro l’affermazione del Palang Prachachon (erede del Trt). Il Palang Prachachon mantenne la maggioranza fino allo scoppio delle manifestazioni di piazza da parte delle camicie gialle e al conseguente scioglimento del partito su decreto della corte costituzionale. Questi eventi aprirono la strada all’elezione a primo ministro di Abhisit Vejjajiva del Democrat Party. A fine 2008, la frattura politica si acuì ancora di più e, successivamente alla condanna a due anni in absentia (dato che dal 2008 si trova in esilio volontario) comminata a Thaksin nell’ottobre dello stesso anno, allo scioglimento del suo partito e alla confisca delle sue proprietà a inizio 2010 (circa 1,4 miliardi di dollari), i suoi sostenitori, le camicie rosse, scesero in piazza, dando vita ai mesi più turbolenti e violenti vissuti dal paese, fin dal ‘maggio nero’ del 1992, quando 52 manifestanti furono uccisi durante la repressione dell’esercito. Nelle dimostrazioni della primavera 2010 si registrarono 88 morti e circa 2000 feriti tra i manifestanti. La netta vittoria del Pheu Thai Party nel 2011, che ha conquistato 104 seggi contro i quattro andati ai democratici nei collegi del Nord-Est, (nel Sud, però, dove la popolazione musulmana ricorda ancora la repressione dell’era Thaksin, il Pheu Thai Party ha preso solo tre seggi su 53), ha confermato la profonda divisione geopolitica ed economica del paese. L’impasse sembra difficilmente superabile proprio per le profonde fratture citate e l’intera vita politica del paese è dominata dagli scontri istituzionali, e ciò appesantisce il processo decisionale e rende imprevedibili i futuri sviluppi. In tale clima l’articolo 190 della Costituzione relativo alla sovranità nazionale viene ripetutamente chiamato in causa dall’opposizione nel tentativo di ostacolare l’azione dell’esecutivo.
L’incertezza politica è accresciuta inoltre dalla questione cruciale della successione del re. Bhumibol Adulyadej (Rama IX), che ha compiuto 85 anni, è il regnante più longevo al mondo, ma dal 2009 non gode di buona salute. È il nono sovrano della dinastia Chakri che guida il paese da 230 anni e, nonostante non abbia poteri formali rilevanti, rappresenta il simbolo dell’unità nazionale ed è molto amato dal popolo, anche perché in passato ha saputo evitare che le fratture interne degenerassero. Per quanto riguarda i più recenti cambiamenti, la nomina di una donna, Yingluck Shinawatra, al ruolo di premier (fra l’altro si tratta anche del più giovane primo ministro degli ultimi 60 anni), ha senz’altro portato alla luce un nuovo e più moderno volto della Thailandia, per quanto elitario.
Più di un quinto della popolazione thailandese ha meno di 15 anni. Tuttavia, il tasso di crescita demografica del paese è diminuito costantemente nel corso degli ultimi decenni, anche grazie al successo ottenuto dai programmi di controllo delle nascite adottati dagli anni Settanta.
Malgrado il costante aumento della popolazione inurbata, inoltre, la Thailandia rimane ancora oggi prevalentemente rurale: due terzi degli abitanti vivono nelle campagne. La maggioranza della popolazione urbana si concentra nell’area metropolitana di Bangkok. Sotto il profilo etnico la Thailandia è uno dei paesi più omogenei del Sud-Est asiatico: il 75% degli abitanti è di etnia thai, mentre il 14% ha almeno un antenato cinese. Si stima tuttavia che il dato più probabile sulla quota di popolazione con almeno un antenato cinese possa avvicinarsi al 30%, con picchi nelle grandi città (il 70% circa a Bangkok). Il dato è così incerto perché sin dagli anni Quaranta i governi hanno seguito politiche di assimilazione, tanto che oggi la popolazione di discendenza cinese è considerata tra le meglio integrate dell’intera regione del Sud-Est asiatico. All’interno si possono tuttavia rintracciare alcune pronunciate variazioni etnolinguistiche. Quasi un terzo degli abitanti del nord, per esempio, parla una variante della lingua lao. Non solo: esistono differenze di prestigio tra la lingua thai di Bangkok e le varianti thai del nord e del nord-est, specchio di fratture e tensioni politiche.
Il principale collante sociale della Thailandia è costituito dalla religione: il 95% degli abitanti si professa buddista, e la pressoché totalità aderisce a dottrine che si rifanno alla scuola theravada. Malgrado ciò, è proprio una minoranza religiosa a costituire uno dei più grossi problemi per il paese: il 4% di fedeli musulmani è in massima parte di etnia malese e vive nel sud della Thailandia, al confine con la Malaysia. Dall’inizio del 21° secolo le tendenze separatiste di questo gruppo etnico sono riesplose in un’escalation di violenze, provocando la morte di soldati e civili. Un ultimo punto di rilievo concerne lo status degli immigrati e dei rifugiati nel paese. Lo scorso ventennio è stato caratterizzato da una forte immigrazione dai paesi vicini, legata a leggi restrittive sull’immigrazione e allo scarso controllo centrale di aree periferiche in rapidissima espansione. Si stima che circa mezzo milione di persone che vivono nel paese siano apolidi. Benché la Thailandia non sia firmataria della convenzione sui rifugiati del 1951, attualmente riconosce lo status di rifugiato a 84.900 profughi. L’Unhcr stima che 62.000 birmani, che vivono in nove campi lungo il confine, potrebbero godere dello status di rifugiati.
Tra il 2001 e il 2006, durante il premierato di Thaksin, una delle questioni più controverse nei confronti delle libertà civili era il forte monopolio dell’informazione nelle mani del primo ministro. Thaksin utilizzava periodicamente le accuse di diffamazione – reato per il quale il codice penale prevede pene severe – per silenziare i suoi critici. Dal colpo di stato militare del settembre 2006, con la deposizione e l’esilio di Thaksin, il monopolio mediatico è stato spezzato, ma le incriminazioni per diffamazione non sono cessate, pur diminuendo di numero.
La nuova Costituzione, approvata nell’agosto 2007 tramite referendum popolare, ha ripristinato alcune libertà, tra cui quelle di stampa e di espressione. Tuttavia la legge per la sicurezza interna, approvata a dicembre del 2007, prevede la possibilità di adottare misure di emergenza che restringono arbitrariamente la libertà di manifestazione. Resta inoltre vigente nel paese un articolo del codice penale che individua il crimine di lesa maestà. Interpretazioni estensive di questa norma permettono di comminare pene fino a 15 anni di carcere a chiunque rivolga insulti in direzione del re, della famiglia reale o del buddismo. Dal 2009, la tendenza a giustificare gli arresti sulla scorta della norma di lesa maestà è cresciuta in modo esponenziale. I capi di imputazione possono essere cumulativi, tanto che, nell’agosto 2009, un giornalista è stato condannato a 18 anni di carcere.
L’accesso a Internet è limitato a circa un quarto della popolazione. Inoltre la censura governativa, istituita nel 2003 e diretta inizialmente a limitare la circolazione di materiale pornografico, dal 2006 è stata utilizzata in maniera sempre più frequente per chiudere siti considerati una minaccia alla sicurezza nazionale, inclusi quelli dei gruppi separatisti musulmani. La legge contro il crimine informatico, del 2007, prevede fino a cinque anni di carcere per la pubblicazione telematica di contenuti falsi o tendenziosi che mettano a rischio la sicurezza nazionale, pubblica o individuale.
Tra il 1990 e il 1996 la Thailandia ha vissuto una forte crescita, pari in media all’8,6%, che si è interrotta bruscamente in occasione della crisi asiatica del 1997-98, in seguito alla quale il pil thailandese è crollato dell’11%. Tuttavia l’elevato livello del settore commerciale, unito a un’economia marcatamente orientata alle esportazioni, hanno favorito una ripresa repentina che si è materializzato in un incremento medio del pil del 4,6% fino allo scoppio della crisi economica globale nel 2009, che ha portato a una nuova contrazione del 2% evidenziando la stretta connessione dell’economia thailandese nel mercato globale. Nel 2010 il pil è cresciuto del 7,8%, un valore più alto rispetto a quelli degli ultimi 15 anni. Ma nel 2011, a causa delle peggiori inondazioni degli ultimi 50 anni, che hanno provocato 815 morti e danni pari a circa 46 miliardi di dollari, l’economia è cresciuta solo dello 0,1%. Nonostante già nel 2012 il pil abbia segnato un +5%, il 2013 con ogni probabilità si è chiuso con una nuova flessione (circa 3%) e solo dal 2015 dovrebbe tornare a superare il 5%. I primi nove mesi del 2013 hanno visto calare del 5% anche gli investimenti diretti esteri rispetto all’anno precedente, soprattutto a causa del calo degli afflussi dal Giappone. Resta da monitorare la sostenibilità economica delle politiche sociali del nuovo governo, che si sono concretizzate in un aumento del 40% del salario minimo (portato a 300 baht giornalieri), in una riduzione delle tasse e in sussidi, quali il calmieramento del prezzo del riso a un livello superiore a quello di mercato. Nel novembre 2013 il senato ha anche approvato il piano governativo per un investimento nel settore infrastrutturale pari a 69,5 miliardi di dollari da implementare nei prossimi sette anni. L’obiettivo consiste nel triplicare i servizi ferroviari e di conseguenza ridurre il commercio su ruota e i consumi di energia, costi e tempi. Le preoccupazioni legate all’impatto sul debito pubblico fanno da contraltare alle aspettative di stimolo all’economia che un tale progetto potrà garantire.
Nell’arco dell’ultimo ventennio la Thailandia si è posizionata tra le prime 33 economie del mondo, davanti alla maggioranza dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dietro solamente all’Indonesia per quanto concerne l’Asia sudorientale, e attestandosi dunque sui livelli di alcuni stati europei. Il motore economico sono le esportazioni: nel 2012 il settore dell’export ha rappresentato il 61% del pil, percentuale in linea con quella registrata in alcuni stati Asean, ma molto superiore a quella di un gigante europeo la cui economia si basa anch’essa sull’export come la Germania, a quella della Cina o degli Stati Uniti. Basando la sua ricetta economica sull’export la Thailandia è riuscita ad avere una bilancia commerciale positiva, nonostante una dipendenza energetica crescente. Nel 2013 il surplus è stato però di soli 6 miliardi di dollari contro i 32 del 2009. La colpa non è delle esportazioni, che continuano a crescere, ma dell’aumento più rapido dell’import.
Gli ingenti flussi commerciali in entrata e in uscita sono ripartiti tra diversi partner, ognuno dei quali con una quota non superiore a un quinto dell’interscambio totale. Tuttavia l’interscambio con la Cina sta crescendo notevolmente e, mentre fino alla metà degli anni Novanta non superava il 2,8% delle esportazioni e il 3,7% delle importazioni, attualmente ne assorbe rispettivamente l’11,7% e il 15% e il trend è in crescita. La fragilità del panorama economico thailandese, invece, consiste nell’elevata sperequazione del reddito, dato che il 10% più ricco della popolazione detiene circa un terzo del reddito, mentre il 20% più povero non supera il 7%. Il fatto che nel corso del 2011 il governo abbia destinato alla lotta alla povertà solo il 76% delle risorse antecedentemente stanziate ha suscitato preoccupazioni e critiche. Ciò si ripercuote sulle vicende politiche: se consideriamo che sotto il governo Thaksin la percentuale di thailandesi con un reddito giornaliero inferiore ai 2 dollari si era ridotta dal 21% del 2000 al 12% nel 2004 (sarebbe poi tornata al 27% nel 2009), si spiega il largo sostegno che egli ha avuto nella regione nordorientale, zona prevalentemente rurale e nettamente più povera rispetto all’area metropolitana di Bangkok, così come il sostegno di cui gode tuttora la sorella Yingluck.
Il petrolio e il gas naturale sono stati relativamente abbondanti in Thailandia, e sono stati sufficienti per assicurare al paese un lungo periodo di sostanziale indipendenza energetica dall’estero. La compagnia energetica nazionale, la Ptt, ha conosciuto un processo di parziale privatizzazione dal 2001 ed è oggi la società a più elevata capitalizzazione nella Borsa thailandese.
Sin dagli anni Ottanta, tuttavia, la Thailandia è divenuta importatrice netta di petrolio. Raggiunto un picco di dipendenza dalle importazioni di greggio dall’estero nel 1992 (quando l’86% del petrolio consumato era importato), nel tempo il paese è riuscito a diminuire la propria dipendenza di oltre venti punti percentuali, grazie a un forte sviluppo nel settore energetico.
Il settore dell’estrazione del gas naturale ha conosciuto un notevole sviluppo nell’ultimo ventennio: se nel 1992 la produzione interna ammontava a 7,1 miliardi di metri cubi all’anno (Gmc/a), nel 2009 ha superato i 30 Gmc/a. Nel frattempo, per soddisfare i consumi interni di una popolazione e di un sistema economico in crescita, dal 2000 la Thailandia ha cominciato a importare gas dal Myanmar. Le importazioni sono aumentate con il tempo: oggi la Thailandia compra dal Myanmar circa un terzo del gas che consuma. Attualmente si stima che il paese custodisca oltre 280 miliardi di metri cubi, quasi interamente off-shore. Il governo ritiene che il picco della produzione possa aversi nel 2017 e che le riserve possano esaurirsi attorno al 2030.
Oltre alla crescente dipendenza dall’estero anche il metano, che occupa la seconda posizione nel mix energetico del paese, è destinato a esaurirsi in tempi brevi, tanto che ai ritmi di estrazione attuali le riserve conosciute sono sufficienti solo fino al 2023. Le riserve del carbone sono invece abbondanti, dal momento che la Thailandia dispone di riserve certe per i prossimi 70 anni. Tuttavia, il sottosviluppo del settore minerario costringe il paese a importare circa i due terzi del carbone che consuma. Anche lo sviluppo dell’idroelettrico è fermo da un decennio, con tassi di generazione elettrica che nel 2009 erano praticamente equivalenti a quelli del 2000.
Sotto il profilo ambientale la Thailandia, che ha la trentaduesima economia del mondo, è però trentaquattresima per emissioni totali di anidride carbonica. La crescita del settore industriale ha creato notevoli problemi di inquinamento dell’aria, che si concentrano prevalentemente attorno all’agglomerato urbano di Bangkok. Tuttavia il governo sta perseguendo una policy finalizzata all’incremento della quota di rinnovabili nel mix energetico con l’obiettivo di passare dall’attuale 7,6% al 25% nel 2021.
Nel 2008 il governo thailandese ha varato un piano notevolmente ambizioso atto a modernizzare i mezzi in dotazione alle forze armate, anche per far fronte alla minaccia separatista proveniente dalla minoranza malese nel sud del paese.
La parte più consistente del piano di modernizzazione delle forze armate prevedeva l’acquisto di 12 JAS-39 Gripen, aerei prodotti in Svezia dalla Saab e idonei sia ad attacchi al suolo sia a operazioni di intercettazione e ricognizione, e di due velivoli Erieye di preallarme e controllo (Awacs). Tuttavia la crisi economica ha costretto il governo a differire l’acquisto della seconda tranche da sei JAS-39 e di uno dei due Erieye. Parimenti è stato procrastinato l’acquisto di mezzi corazzati ed elicotteri. Nei primi mesi del 2011 è emersa inoltre la volontà di acquistare quattro sottomarini di seconda mano dalla Germania, ma il governo non ha dato il via libera, lasciando decadere l’offerta. Tuttavia nel 2012 sono iniziati i lavori di costruzione di una base sottomarina e la marina preme per la costruzione della flotta sia per tutelarsi in caso di escalation della tensione nel Mar Cinese Meridionale, sia in quanto Indonesia, Vietnam, Malaysia e Singapore stanno procedendo nella stessa direzione. Attualmente è in cantiere un piano decennale che stabilisca gli investimenti per i prossimi dieci anni. Il fiore all’occhiello dell’apparato militare thailandese consiste nella portaerei Chakri Naruebet – letteralmente ‘in onore della dinastia Chakri’ – che fu costruita dagli spagnoli e lanciata nel 1996. Considerando che a livello globale esistono esclusivamente 19 portaerei operative, dieci delle quali statunitensi, il valore aggiunto in termini di prestigio e proiezione militare è considerevole. La Cina stessa è riuscita a varare la prima portaerei solo nel 2012. Nonostante tra il 2002 e il 2011 le spese militari siano cresciute del 66%, l’industria bellica thailandese è ancora poco sviluppata e di conseguenza il paese è in una condizione di quasi totale dipendenza dalle forniture estere, soprattutto statunitensi. Malgrado la crisi economica e le debolezze strutturali, grazie al proprio peso economico la Thailandia in termini assoluti riesce a mantenere un consistente budget per la difesa pur destinandovi l’1,6% del pil, dato leggermente inferiore alla media globale. Gli ottimi legami con due potenze del calibro di Stati Uniti e Cina portano alla Thailandia un notevole vantaggio in termini militari, in quanto il paese intrattiene con entrambe una fitta relazione di scambio di materiali, tecnologie e know how. Con gli Usa, a partire dal 1980 ogni anno si tiene l’esercitazione militare congiunta Cobra Gold (la maggiore svolta da Washington nello scacchiere asiatico) e, grazie allo status di ‘Major non-Nato Ally’, la Thailandia gode dell’accesso preferenziale alle forniture militari ad alta tecnologia, come le munizioni all’uranio impoverito. Per quanto riguarda la Repubblica popolare cinese, invece, nel 2005 ha avuto luogo la prima esercitazione congiunta sino-thailandese nel Golfo di Thailandia, che è stata anche la prima esercitazione cinese con uno stato membro dell’Asean, e da allora la cooperazione militare è andata rafforzandosi di anno in anno.
Dall’ottobre del 2008 Thailandia e Cambogia si sono scontrate a più riprese nell’area circostante il complesso del tempio khmer risalente all’11° secolo che i thailandesi chiamano Phra Viharn e i cambogiani Preah Vihear. La genesi della disputa risale al periodo dell’Indocina francese, che nel 1907 si impossessò dell’area senza il consenso del Siam (da cui le rivendicazioni attuali). Successivamente all’indipendenza della Cambogia, la Corte internazionale di giustizia nel 1962 si pronunciò in favore di quest’ultima e decretò l’illegittimità dell’occupazione thailandese. Nel 1975 i Khmer Rossi di Pol Pot assunsero il controllo del sito e ne fecero un teatro delle proprie operazioni Il tempio tornò a essere un’attrazione turistica solo alla fine degli anni Novanta, quando i due stati contendenti ne intuirono le potenzialità, tanto che la Thailandia sostenne la candidatura del sito a patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. Il momento cooperativo venne però infranto dalle spinte nazionaliste che nel 2008 animavano le cosiddette ‘camicie gialle’, movimento nazionalista e monarchico collegato alla People’s Alliance for Democracy (PAD) thailandese. Paradossalmente, l’inserimento del sito nella lista dell’Unesco ha acuito le tensioni e, dall’autunno del 2008, si è assistito a ripetuti scontri a fuoco, che hanno provocato diverse decine di morti da ambo le parti e la periodica evacuazione di migliaia di contadini residenti nella zona di confine. Con la vittoria elettorale di Yingluck Shinawatra, seguita da una visita in Cambogia due mesi dopo, i due paesi hanno ripreso a negoziare in modo proficuo sfruttando anche i buoni rapporti tra il primo ministro cambogiano e Thaksin Shinawatra. Il verdetto della Corte internazionale di giustizia, però, conferma la sovranità cambogiana sull’area del tempio, pur lasciando irrisolta la disputa per le aree limitrofe. Il governo thailandese si trova quindi a doversi confrontare con un’opinione pubblica inferocita e con i militari. La disputa verrà quindi verosimilmente ancora una volta strumentalizzata per perseguire obiettivi di politica interna.
Lo scontro istituzionale si è acuito a fine 2013, quando la Corte costituzionale ha respinto la proposta di emendamento della Costituzione approvata dal parlamento che avrebbe reso il senato composto da 200 membri e totalmente elettivo. La corte ha motivato la sentenza rinnegando il principio della ‘dittatura della maggioranza’ e affermando che l’emendamento avrebbe messo a rischio l’attuale assetto monarchico-parlamentare. Ancora una volta la battaglia politica si è imperniata attorno all’ingombrante figura di Thaksin. Per la premier Yingluck Shinawatra la proposta di una legge di amnistia per i fatti successivi al colpo di stato del 2006 era un passo essenziale sulla via della riconciliazione nazionale: avrebbe permesso al contempo di risolvere i problemi giudiziari di Abhisit Vejjajiva per la repressione del 2010 e avrebbe favorito successivamente il ritorno del fratello in patria. Gli effetti, invece, sono stati opposti in quanto, per gli oppositori, la norma ha rappresentato la rottura del tacito compromesso che aveva permesso al Pheu Thai Party di governare quasi due anni e mezzo. Numerosi antagonisti sono scesi in piazza. Il 12 novembre il senato ha bocciato all’unanimità il provvedimento. Durante tutto il mese di novembre le proteste di piazza sono andate aumentando in maniera formidabile capitanate da Suthep Thaughsuban, ex vicepremier e leader indiscusso del movimento anti governativo, al grido di no al ‘Thaksin regime’. Dopo che il 24 novembre circa 400 mila persone si sono riversate nelle strade della capitale il livello dello scontro si è drasticamente alzato: sono stati occupati i ministeri degli esteri e delle finanze e altri uffici governativi locali e nazionali. Nel corso del fine settimana successivo, durante violenti scontri di piazza, sono morte cinque persone: lo spettro della primavera del 2010 si è quasi concretizzato. Tuttavia la reazione del governo è stata diametralmente opposta e solo il mantenimento di un basso profilo e la ricerca del dialogo hanno permesso di evitare un caos generalizzato, anticamera di una non impossibile guerra civile. Il riconoscimento, da parte di Yingluck, dell’impossibilità di governare ha favorito lo scioglimento della camera: Le elezioni sono state indette per il 2 febbraio 2014. Ciononostante, pur avendo sventato nel breve termine un inasprimento dello scontro, un nuovo compromesso si è rivelato difficile con il Democrat Party che ha annunciato il boicottaggio delle elezioni. Le manifestazioni di piazza sono continuate, anche con una certa violenza: la richiesta è l’estromissione totale dal potere della potente famiglia Shinawatra.
Le province di Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwat, al confine con la Malaysia, fino a due secoli fa, prima di finire sotto il controllo del Siam, costituivano un sultanato indipendente. Nei decenni scorsi le tensioni separatiste e autonomiste provenienti dalla minoranza di etnia malese e fede musulmana che risiede nell’area sono sfociate in intense offensive contro le forze governative, ma tra gli anni Ottanta e Novanta il governo era riuscito a pacificare la regione, concedendole maggiore autonomia. Tuttavia, con l’ascesa politica di Thaksin si è assistito a una svolta repressiva, manifestasi nello scioglimento del consiglio locale e in un drastico aumento della presenza delle forze dell’ordine. Ciò ha riportato alla luce un problema solo temporaneamente sopito, ma ancora potenzialmente esplosivo per l’integrità stessa della Thailandia. Da allora, è in atto una vera e propria guerra civile, esasperata anche dalla serrata lotta al commercio della droga, avviata dallo stesso Thaksin a inizio 2003 e finalizzata a contrastare in particolare il mercato delle anfetamine provenienti dal Myanmar e dirette in Malaysia. Negli ultimi anni si sono registrati oltre 5000 morti e migliaia di attentati. La violenza è divampata anche per il coinvolgimento di truppe paramilitari e conseguentemente alla presa delle armi da parte dei civili buddisti. L’unica via percorribile sembra essere la concessione di una sostanziale autonomia amministrativa, ma ad oggi non si sono registrate svolte in tal senso.