Hobbes, Thomas
Filosofo inglese (Westport, presso Malmesbury, Wiltshire, 1588 - Hardwicke 1679).
Studiò a Oxford, dove conseguì nel 1607 il diploma di baccelliere delle arti. Fu introdotto presso la potente famiglia del barone William Cavendish, poi conte di Devonshire, come precettore del figlio. Ebbe inizio così una consuetudine con la nobile famiglia, destinata a durare, tranne qualche intervallo, tutta la vita. Viaggiò lungamente in Europa, specie in Francia e in Italia, ed ebbe contatti con la cultura e con alcuni dotti del tempo. Nel corso del suo terzo viaggio sul continente (1634-36), conobbe Galilei a Pisa ed entrò in rapporto, a Parigi, con il circolo di padre Mersenne. Sarà proprio questi a fare da tramite tra H. e Descartes nei primi mesi del 1641, quando H. fu costretto dalle vicende politiche del suo paese a un volontario esilio in Francia dove sarebbe restato per oltre dieci anni. Tutte queste esperienze favorirono in lui la consapevolezza dell’insufficienza delle vecchie nozioni scolastiche e l’esigenza di un rinnovamento della sua cultura. Si dedicò così allo studio dei poeti e degli storici antichi, tradusse le Storie di Tucidide (pubblicate nel 1628), lesse con particolare interesse gli Elementi di Euclide. Lo studio di Euclide gli offrì il modello di una scienza rigorosa e deduttiva, che egli pensò di poter applicare anche alla scienza politica. I contatti con l’ambiente scientifico parigino, con l’opera e la persona stessa di Galilei rafforzarono in lui questa tendenza verso una filosofia scientifica, ossia costruita sulla base di nozioni semplici e assolutamente certe, in partic. sulla nozione di movimento, capace di spiegare tutti gli aspetti della realtà. Concepì dunque il disegno di un’opera sistematica, gli Elementa philosophiae, divisa in tre parti, De corpore, De homine, De cive (fisica, antropologia, politica), condotta secondo un principio unitario meccanicistico. Questo disegno fu attuato molto lentamente. Infatti nel 1640 Hobbes portò a termine la sua prima opera filosofica, gli Elements of law natural and politic (trad. it. Elementi di legge naturale e politica) che fece circolare manoscritta e che solo dieci anni più tardi pubblicò a stampa, divisa in due trattati, Human nature e De corpore politico. In quest’opera, che rispondeva agli interessi politici di H., sempre assai vivi, e in partic. all’esigenza di opporsi alle ideologie antimonarchiche, la dottrina politica è ricondotta alla generale visione meccanicistica. L’anno dopo (1641) scrisse le Terze obiezioni alle Meditazioni metafisiche cartesiane, che furono accompagnate da una serie di polemiche tra i due filosofi. Nel frattempo, il precipitare degli eventi in Inghilterra lo spinse a dare la precedenza nel suo sistema filosofico al trattato di politica, e nel 1642 pubblicò a Parigi in edizione privata il De cive (trad. it. Elementi filosofici sul cittadino) ristampato con aggiunte ad Amsterdam nel 1647, e poi dallo stesso H. tradotto in inglese e pubblicato a Londra nel 1951 con il tit. Philosophical rudiments concerning government and society. Nel 1651, tornato in patria, pubblicò il Leviathan or the matter, form and power of a Commonwealth, ecclesiastical and civil (trad. it. Leviatano), che prendeva il suo nome dal mostro biblico citato nel libro di Giobbe, alla cui potenza H. paragona la forza dello Stato. In esso H. intendeva dimostrare la necessità di un potere assoluto che assorbisse ogni altro potere nello Stato, compreso quello religioso, di qui i sospetti che colpirono l’autore e l’accusa di ateismo. D’altra parte, le posizioni materialistiche e deterministiche del filosofo avevano già suscitato grandi ostilità negli ambienti ecclesiastici; ne è un esempio la disputa con John Bramhall, vescovo di Derry, sul tema della libertà del volere, iniziata ai tempi del soggiorno parigino e ripresa in Inghilterra, testimoniata dallo scritto Of liberty and necessity (trad. it. Libertà e necessità) steso nel 1646 come replica a Bramhall e pubblicato nel ’54 senza però il consenso dell’autore. H. diede poi alle stampe nel 1655 il De corpore (trad. it. Sul corpo), nel 1658 il De homine (trad. it. Sull’uomo). Caduta la repubblica, era stato di nuovo accolto alla corte di Carlo II, e negli ultimi anni di vita attese a un’opera storica sul Lungo Parlamento, Behemoth: the History of the causes of the civil war of England (trad. it. Behemot). Tuttavia, a causa delle polemiche con gli ambienti ecclesiatici preferì non pubblicare questo e altri scritti di storia politica e religiosa, tra i quali il Dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England (trad. it. Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’ Inghilterra). Trascorse una lunga vecchiaia con la famiglia dei suoi protettori ed ex allievi, con la mente sempre vigile e attiva, componendo un’autobiografia in versi (la Vita carmine expressa), una storia ecclesiastica, e dedicandosi alla traduzione di Omero in giambi rimati.
Data la sua impostazione scientifica, esplicitamente modellata sulle scienze moderne e sulla geometria degli antichi, la filosofia, per H., non può occuparsi che di verità rigorosamente accertabili. Non sono dunque suoi oggetti né la rivelazione, né dio, né le nature spirituali, e neppure la storia, naturale o politica, perché fondata sull’esperienza o sull’autorità e non sul ragionamento. L’impostazione di H. è strettamente materialistica: esistono soltanto corpi, naturali e artificiali (i corpi artificiali sono le comunità politiche, create dall’uomo, i naturali sono opera della natura). Dei corpi, la filosofia studia la generazione e le proprietà. Termine medio è l’uomo, che fa parte dei corpi naturali e produce quelli artificiali, di qui la tripartizione degli Elementa philosophiae. Esiste quindi una sola sostanza, la realtà corporea estesa; una sostanza immateriale, quale la res cogitans cartesiana, è per H. un concetto contraddittorio, come documentano le sue obiezioni. I principi esplicativi di tutti i fenomeni sono dunque materia estesa e movimento: quest’ultimo è causa del divenire di tutti i fenomeni. Anche la conoscenza, che ha il suo fondamento nella sensazione, può essere spiegata tramite il movimento. La sensazione è il risultato del movimento reciproco dell’oggetto sentito e dell’organo di senso: la conoscenza si risolve così in un moto che procede dall’interno verso l’esterno come reazione a uno stimolo di oggetti esterni che esercitano una pressione sugli organi di senso. Tale stimolo per mezzo dei nervi e dei filamenti e membrane che terminano nel cervello genera là una resistenza o controstimolo che produce immagini sensibili (sensazioni) o phantasmata. Solo il movimento essendo reale, le qualità sensibili dei corpi hanno carattere soggettivo. Anche spazio e tempo non hanno nessuna consistenza ontologica, ma sono solo enti immaginari. L’attenuarsi delle sensazioni trasforma i fantasmi sensibili in immagini mentali (idee), che si dispongono in serie, secondo un procedimento associazionistico, seguendo lo stesso ordine delle sensazioni che le hanno suscitate.
La trattazione filosofica è preceduta da una logica e da una dottrina del metodo. La logica è nominalistica: gli universali sono nomi, e la verità sta in dictu e non in re. Ratiocinatio est computatio, afferma H., cioè il ragionamento è calcolo, riconducibile alle operazioni elementari dell’addizione e della sottrazione. Per es., ‘uomo’ è uguale a ‘corpo’ più ‘animato’ più ‘razionale’. La scienza è pertanto connessione di nomi e non di fatti (e il linguaggio è fonte di universalità). Tali connessioni sarebbero vere anche se le cose corrispondenti non esistessero.
Con lo stesso metodo meccanicistico e associazionistico vengono studiate le passioni e la vita morale dell’uomo. Il punto di partenza è dato dalle sensazioni elementari del piacere e del dolore, e dalla naturale tendenza a procurarsi il piacere e a fuggire il dolore. La volontà si limita a seguire l’appetito prevalente, e la libertà altro non è che l’assenza di impedimenti esterni allo svolgimento delle naturali appetizioni (cioè non è autodeterminazione del volere, concetto estraneo al meccanicismo hobbesiano). Di conseguenza, il criterio di distinzione tra bene e male risulta puramente utilitaristico: il bene corrisponde a ciò che è desiderato, il male a ciò che è fuggito ai fini del proprio piacere e della propria conservazione. Anche nella filosofia politica, il punto di partenza è costituito da proposizioni semplici ed evidenti. Per arrivare a conclusioni condivise da tutti, e dunque trasformare la politica in una scienza esatta, occorre seguire il metodo della geometria o euclideo (partire da assioni o verità autoevidenti, e procedere secondo un’ordinata catena di deduzioni), oppure il metodo della fisica o galileiano, cioè il metodo analitico-sintetico. In questo caso, scomporremo lo Stato come un meccanismo (come un grande orologio, dice H., nella prefazione al De cive) e poi lo ricomporremo in una nuova unità (lo Stato ideale, che funziona perfettamente). Scomporre lo Stato nei suoi elementi costitutivi significa partire dagli individui, dai loro bisogni e dalle loro caratteristiche. L’uomo naturale appare a H. animato da due pulsioni fondamentali: l’istinto di conservazione (la morte è il più terribile dei mali e la vita il sommo bene) e una naturale cupidigia che lo porta a cercare di allargare il suo spazio vitale, entrando con gli altri in rapporti di competizione. Aveva dunque torto Aristotele a definire l’uomo come animale politico, egli è in realtà un lupo per l’altro (homo homini lupus, secondo l’immagine di Plauto). Inoltre, se l’uomo è un meccanismo spinto a perpetuare il suo moto vitale, il diritto che gli sarà proprio nello stato di natura (diritto naturale) è il diritto di perseguire tutti i mezzi utili alla sopravvivenza, cioè ius in omnia. I rapporti immediati e naturali degli uomini sono dunque di scontro per gli stessi beni vitali e lo stato di natura corrisponde al più orribile stato di guerra, universale e perpetuo (bellum omnium contra omnes). Viene allora in aiuto dell’uomo la ragione, che indica la strada da seguire tramite le leggi naturali (dictamina rectae rationis, e quindi calcoli per elaborare le strategie più efficaci): cercare la pace come migliore condizione di sopravvivenza e, a tal fine, rimuovere la causa principale di guerra, cioè lo ius in omnia. Pertanto gli uomini dovranno, tramite un patto, rinunciare all’illimitata libertà naturale cedendo tutti i loro diritti (tranne quello alla vita) a un terzo, uomo o assemblea, da cui farsi governare e che garantirà ordine interno e protezione esterna. Questo terzo non è contraente, cioè il suo potere non è condizionato dal patto. Esso è dunque fornito di un potere assoluto (legibus solutus, cioè non vincolato al rispetto della legge), irrevocabile e irresistibile; ogni diritto del singolo o di comunità minori si riduce così a una concessione sovrana. La paura (o meglio, il timore reciproco) è dunque la motivazione che spinge gli uomini a entrare nella società civile, la quale tuttavia non trasformerà mai le tendenze egoistiche dell’uomo, ma le disciplinerà. La società rimane un aggregato atomistico, pronto a dissolversi qualora venga a mancare un forte potere centrale. Pertanto il potere sovrano per essere efficiente dovrà rimanere unitario (H. è contrario a qualsiasi forma di governo misto o separazione dei poteri, così come è contrario ai partiti politici, che sono solo fazioni) e unico, non è cioè ammessa, nel Commonwealth, una dualità di potere temporale e spirituale. Lo Stato, nella figura del sovrano, diventa così l’unica fonte del diritto (attraverso l’interpretazione e la ridefinizione delle leggi di natura) e della morale, una moralità interamente laica e mondana. La legalità giuridica si identifica con la norma morale: in questo modo l’originale giusnaturalismo (➔) hobbesiano si converte nel più radicale convenzionalismo etico e anticipa posizioni già positivistiche. La Chiesa è intesa da H. come un’associazione privata, a cui è lasciata la cura delle cose spirituali, cioè esclusivamente religiose, ma senza possibilità alcuna di interferenze politiche o giuridiche. Il potere ecclesiastico è solo quello di educare e insegnare, e la Chiesa come tutte le istituzioni di questo tipo (per es., le università) è sottoposta al rigido controllo dello Stato sulle ideologie. Il modello proposto da H. è quello di una Chiesa di Stato, che tutela l’intangibilità delle fondamentali verità religiose, ironicamente paragonate dal filosofo alle pillole che inghiottite giovano e, masticate, possono nauseare. Lo Stato hobbesiano, dunque, pur dotato di una costituzione tipicamente assolutistica, ha le caratteristiche di un assolutismo ‘laico’, ossia fondato su basi razionali (le leggi naturali che impongono di scambiare la libertà con la sicurezza), e non tradizionali e religiose; esso, inoltre, trae la sua legittimità (sia pure irrevocabile) da un contratto, e quindi dal consenso dei futuri cittadini cui sarà chiesta un’obbedienza assoluta. Esso rispecchia il contemporaneo fenomeno storico dell’affermazione dell’autorità monarchica contro i privilegi di origine feudale: pur accogliendo la tripartizione tradizionale delle forme di governo, H. dice che quella monarchica è la più adatta all’esercizio della sovranità. Unico limite della sovranità è l’inalienabile diritto del singolo all’autoconservazione: egli può disobbedire al sovrano solo se questi gli comanda di compiere atti contrari a tale suo diritto, per es. di uccidersi o ferirsi. Ma in questo caso è il sovrano che viene meno alla sua ragion d’essere, e in sostanza cessa di essere sovrano. Infatti, questi casi estremi equivalgono a quelli di vacanza del potere, quali si verificano per es. quando in un regime monarchico non si abbia successione, o in caso di guerra civile. Allora lo stato civile cessa e si ricade nella libertà naturale. A questo proposito, nelle pagine, forti e drammatiche, del De cive e del Leviatano si coglie spesso l’eco delle esperienze storiche della rivoluzione e della guerra civile inglese, del contrasto tra l’assolutismo di Cromwell e quello degli Stuart e delle lotte tra potere monarchico e organi costituzionali.
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