Tiberio Claudio Nerone
(Tiberius Claudius Nero; dopo l’adozione di Augusto, Tiberius Iulius Caesar) Imperatore romano (n. 42 a.C.-m. Capo Miseno 37 d.C.). Figlio di Tiberio Claudio Nerone e di Livia, che, divorziata, sposò poi Ottaviano. Educato aristocraticamente, conosceva il greco perfettamente e aveva gusto per l’erudizione. Dopo una rapida carriera militare e politica, durante la quale partecipò alla guerra contro reti e vindelici (15 a.C.), fu console (13). Alla morte di Agrippa (12) appariva come unico possibile successore di Augusto (almeno come l’unico successore immediato, mentre si profilavano come possibili eredi i due figli di Agrippa e di Giulia, Gaio e Lucio Cesare), onde forse l’ordine dell’imperatore di separarsi dalla moglie amata, Vipsania Agrippina (da cui aveva avuto un figlio, Druso, e ne attendeva un secondo), e di sposare la vedova di Agrippa e figlia di Augusto, la scandalosa Giulia, dalla quale ben presto si separò. Represse le ribellioni pannonica (12 a.C.) e dalmatica (11); dopo la morte del fratello Druso continuò l’opera di consolidamento del dominio romano in Germania, ciò che gli valse il trionfo e il consolato (7) e poi (6 a.C.) la tribunicia potestas per cinque anni. Poco dopo tuttavia si ritirò dalla vita pubblica rifugiandosi a Rodi, non si sa se spinto da sazietà di onori e di comando oppure dall’infelicità del matrimonio e dalla rivalità con il nipote di Augusto, Gaio Cesare. Nel suo amaro isolamento fu raggiunto dalla notizia della condanna di Giulia (2 a.C.). Ma, morti Lucio Cesare (2 d.C.) e Gaio Cesare (4 d.C.), T. apparve di nuovo l’unico possibile successore: fu perciò adottato da Augusto ed ebbe la tribunicia potestas per dieci anni. Riprese allora l’opera di pacificazione in Germania, diresse la repressione della ribellione della Pannonia e della Dalmazia, riorganizzò il confine renano dopo il disastro di Varo, e (12) celebrò il trionfo pannonico, ottenendo che gli fosse rinnovata la tribunicia potestas. Dopo la morte di Augusto (14) gli organi dello Stato giurarono fedeltà a T., che qualche settimana dopo accettava la successione. Continuando l’azione di Augusto, accentuò l’affermazione del potere imperiale nei rapporti col senato, fatto che provocò, anche per l’asprezza e la tendenza al sospetto propri del suo carattere, un attrito continuo con l’aristocrazia e la forte ostilità che registrò nei suoi confronti la storiografia successiva. La sua politica mirò in realtà a consolidare l’opera di Augusto: seppe mantenere la pace ai confini, fu eccellente nella gestione finanziaria (come si vide particolarmente nella crisi finanziaria che colpì l’Italia nel 33) e fu provvido nell’amministrazione provinciale. T. rifiutò onori divini; perseguitò le religioni straniere che recassero comunque turbamento alla vita dell’impero. Nei riguardi della Germania condusse una politica apparentemente rinunciataria, accontentandosi della frontiera augustea del Reno e impedendo a Germanico di avventurarsi in imprese pericolose, ma in realtà riuscì a sfruttare le rivalità interne dei germani (in tal modo furono eliminati Maroboduo e Arminio). Di Germanico si valse per sistemare la situazione in Oriente: la Commagene fu annessa alla Siria, la Cappadocia divenne provincia e fu imposto Zenone sul trono di Armenia. Le gravi rivolte di Tacfarinate in Africa, di Giulio Floro e Giulio Sacroviro in Gallia, di Rescupori in Tracia furono stroncate con fermezza e rapidità. Ma l’aristocrazia, che si vedeva così poco considerata da T., gli contrappose idealmente un proprio campione in Germanico e accusò T. di averlo fatto avvelenare (19). Si formò così un ambiente di opposizione intorno ad Agrippina, moglie di Germanico. In questa atmosfera di sospetto prese vigore, con l’aiuto di delatori, l’accusa di lesa maestà, i processi si moltiplicarono e tesero a colpire persone vicine alla famiglia di Germanico. Ispiratore di questa politica fu L. Elio Seiano, prefetto del pretorio, che, avendo ottenuto di raccogliere in Roma le coorti pretorie, aveva in mano la vera forza militare d’Italia, mentre l’imperatore, preoccupato della propria tranquillità, esasperato per l’ostilità dei romani, decideva di ritirarsi a Capri (27). Seiano, che mirando alla successione era riuscito a fare avvelenare Druso, figlio di T., fece esiliare Agrippina a Pandataria, dove morì, e a Ponza il figlio di lei Nerone, che si uccise. Nel 32, venuto a conoscenza di una congiura che Seiano ordiva contro di lui, T. ne preparò abilmente la destituzione e quindi la condanna a morte. Ma l’asprezza e l’irrequietezza di T. si fecero maggiori, le denunce si infittirono; tra coloro che si uccisero per terrore furono Druso, figlio di Germanico, e Livilla, vedova di Druso figlio di Tiberio. Pur non tornando più a Roma, T. non perse tuttavia di vista gli interessi dell’impero: regolò la questione pratica della successione di Zenone con l’imposizione di Tiridate sul trono di Armenia. Morì nella villa di Lucullo a Miseno il 16 marzo del 37, lasciando eredi alla pari il nipote Tiberio Gemello e Gaio (Caligola).