Tipologie di lavoro autonomo
ll saggio analizza le novità apportate dalla riforma Fornero, l. 28.6.2012, n. 92, in materia di lavoro autonomo (contratto di lavoro a progetto e partite Iva), evidenziando i limiti e le contraddizioni di un approccio volto, soprattutto, ad irrigidire la disciplina e disincentivare l’uso delle collaborazioni autonome.
L’intenzione di ripristinare un più rigoroso discrimine tra i (genuini) contratti di lavoro autonomo e la sfera della subordinazione ha condotto il legislatore a ridurre drasticamente la convenienza economica e gli spazi di operatività giuridica dei sostituti funzionali del lavoro subordinato, contrastando «l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali» (l. 28.6.2012, n. 92, art. 1, co. 1, lett. c). La riforma interessa principalmente il campo del lavoro autonomo (contratto a progetto e partite Iva), la cui disciplina risulta fortemente irrigidita entro le maglie strette della novella, accompagnata al rincaro della contribuzione dell’1% annuo dal 1 gennaio 2013 fino a raggiungere l’aliquota del 33,72% a gennaio 2018 (24% per chi è già assicurato o pensionato).
Il legislatore ha seguito un ragionamento economico fondato su un assioma del tutto indimostrato, secondo il quale la riduzione delle tutele in materia di licenziamento è funzionale ad una dinamica ottimale del mercato del lavoro e, quindi, ad una “naturale” riduzione dell’impiego atipico. Alla riduzione delle rigidità in materia di licenziamento si è accompagnata una eccessiva compressione del lavoro autonomo di nuova generazione, compendiabile nella formula del lavoro parasubordinato o economicamente dipendente. Peraltro, i presupposti del compromesso realizzato con la riforma sono facilmente revocabili in dubbio, così come lo sono gli effetti positivi sperati, o semplicemente attesi, dal legislatore. Uno scambio tra maggiore flessibilità tipologica (nell’ambito della subordinazione) ed una maggiore rigidità (nel campo dell’autonomia) si era già realizzato con la riforma Biagi (d.lgs. 10.9.2003, n. 276), che compensava la proliferazione della flessibilità tipologica in entrata con una più rigorosa disciplina delle collaborazioni coordinate e continuate, che venivano trasformate in contratto a progetto. Questo scambio non ha affatto funzionato: da un lato gli obiettivi che il legislatore si era posto in termini occupazionali non sono stati raggiunti, mentre l’aumento indiscriminato della flessibilità tipologica ha determinando una mera redistribuzione dell’occupazione esistente a favore di rapporti di lavoro precari. Secondo i più recenti dati dell’Istat, il lavoro autonomo non è diminuito e si è diffuso anche nelle imprese di piccole dimensioni, benché sottratte al regime di stabilità reale. Il lavoro a progetto, dal suo canto, ha continuato a mascherare fattispecie di subordinazione, così come la crescita esponenziale delle partite Iva pone seri problemi dal punto di vista della corretta qualificazione dei relativi rapporti.
È opportuno procedere ad una disamina delle principali novità che hanno interessato le due fattispecie di riferimento: il contratto a progetto e le partite Iva.
La riforma, recependo l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso, incide sulla nozione di progetto, connotando la fattispecie in senso restrittivo. Anzitutto è stato eliminato il riferimento ai «programmi di lavoro o fasi di esso» che compariva nella originaria definizione di cui all’art. 61 del d.lgs. n. 276/2003. La novella specifica inoltre che il progetto deve «essere funzionalmente collegato ad un risultato finale» che si intende conseguire, il quale deve essere puntualmente descritto nel contratto. Il legislatore accentua quindi il profilo teleologico del lavoro a progetto collegandolo più strettamente al «risultato» dell’attività esecutiva, per distinguerla più nettamente da prestazioni aventi ad oggetto una mera faciendi necessitas. Il restyling del contratto a progetto lo connota quindi come una tipica forma di locatio operis consistente nella produzione di un risultato utile (materiale o immateriale), cioè un contratto ad esecuzione istantanea, benché necessariamente protratta. Rimane, peraltro, impregiudicata, la densa questione teorica relativa all’identificazione dell’oggetto dell’obbligazione in relazione al progetto. A giudizio di chi scrive rimane preferibile la tesi, in altra sede sostenuta, secondo la quale l’oggetto dell’obbligazione non è il «progetto» in sé quanto la prestazione d’opera di cui all’art. 409 c.p.c., che evidentemente richiama la nozione di cui all’art. 2222 c.c. Coerentemente con le prospettazioni largamente accreditate nel campo della teoria civilistica dell’obbligazione, l’oggetto del contratto non è il risultato atteso dal creditore ma è la prestazione del debitore, ossia il suo comportamento, onde, secondo le teorie personalistiche, oggetto del dovere del debitore non è il risultato del comportamento, cioè la soddisfazione dell’interesse del creditore, ma piuttosto un determinato compito, dal quale potrebbe anche non seguire la realizzazione dell’interesse creditorio. Peraltro, ogni rapporto obbligatorio, in quanto costituito per soddisfare un interesse del creditore (art. 1174 c.c.), implica aspetti di comportamento e aspetti di risultato, nella misura in cui l’oggetto dell’obbligazione è costituito dal comportamento del debitore ed il risultato di tale comportamento è destinato a produrre il soddisfacimento dell’interesse tutelato dall’ordinamento giuridico o dall’autonomia privata. La prestazione del lavoratore a progetto consiste quindi, in ogni caso, in un comportamento del debitore; potrà, a seconda delle singole fattispecie ed in relazioni agli elementi di materialità/intellettualità della prestazione stessa, discutersi della proporzione tra i due elementi (comportamento e risultato), che, secondo una vasta gamma tipologica, rappresentano insieme considerati i fattori individuatori del rapporto obbligatorio rispetto ad altre situazioni giuridiche. Alla luce del nuovo disposto coesiste in modo problematico una nozione sostanzialmente legata alla struttura dell’obbligazione (il progetto-risultato) con una modalità della prestazione (la continuità) che attiene al profilo della durata del vincolo e dovrebbe, in principio, corrispondere ad un interesse duraturo del committente. A fronte del nuovo rilievo assegnato dal legislatore al risultato nella struttura dell’obbligazione, sembra coerente con la ratio dell’intervento correttivo prospettare una lettura più rigorosa e tecnica del requisito della continuità, ravvisabile solo nelle ipotesi di compimento di più opere ripetute nel tempo, collegate e coordinate ad un interesse più ampio di quello derivante dal singolo adempimento. In difetto, il protrarsi dell’attività prestatoria non sufficientemente collegata al raggiungimento di un risultato (cioè una continuità della prestazione in senso tecnico) dovrebbe suggerire all’interprete di revocare in dubbio la qualificazione del contratto nei termini di cui all’art. 61, appuntando l’analisi sulle caratteristiche della continuità per verificare se essa si atteggi, in realtà, a sostituto funzionale dell’assoggettamento ad eterodirezione, a stregua di indice discretivo sussidiario impiegabile laddove, manifestandosi debolmente la dimensione attiva della subordinazione, la base di giudizio si fa più evanescente.
Per temperare questo rigore, si è tuttavia obiettato che la circostanza che il progetto debba coincidere con un risultato finale non esclude di per sé che quel risultato sia identificabile in una serie di risultati parziali aventi determinate caratteristiche, cosicché proprio quella serie di risultati parziali possa identificare l’opus o risultato finale: per esempio la vendita di certi prodotti rileverebbe non in sé ma in quanto risultato finale (vendita di un numero predeterminato di prodotti)1. In questa prospettiva, comunque, si realizzerebbe una situazione analoga a quella sopra descritta (la continuità avrebbe rilievo come substrato temporale di preadempimento, essendo l’adempimento ravvisabile nella vendita di un certo numero di prodotti). In secondo luogo viene specificato che il progetto «non può consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente». La precisazione normativa riduce sensibilmente l’ambito di incidenza del lavoro autonomo a progetto rispetto alle normali attività di lavoro autonomo rese a favore di un imprenditore, committente o preponente, che generalmente, invece, ben possono coincidere con l’oggetto sociale di quest’ultimo, e in particolare avere lo stesso contenuto e la stessa causa dei contratti che il committente stipula con i terzi secondo lo schema del sub-contratto. Il riferimento alla mera riproposizione dell’oggetto sociale sembra comunque consentire la funzionalizzazione di un contratto di lavoro a progetto al raggiungimento di obiettivi produttivi che rientrano nell’attività standard dell’impresa committente e nel relativo substrato produttivo, e non, invece, ad attività straordinarie e comunque eccedenti la normale attività produttiva. In sostanza, specie se l’oggetto sociale del committente non è particolarmente dettagliato, il disposto non dovrebbe precludere all’impresa di predisporre un progetto che, in ciò rispettando il requisito della specificità di cui all’art. 61 del d.lgs. n. 276/2003, puntualizzi adeguatamente la commessa ricevuta dal cliente e, in quest’ambito, definisca nel progetto le caratteristiche dell’attività da svolgere in funzione del risultato. Inoltre, «il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Anche questa norma lascia perplessi: non è certo dalla esecutività o ripetitività dei compiti che si può ricavare l’autonomia della prestazione, bensì dalle modalità con cui la prestazione è resa in concreto. Non è chiaro, peraltro, quali siano le conseguenze della rilevata presenza nel progetto di compiti esecutivi o ripetitivi. Si tratta di mancanza di progetto con conseguente applicazione della sanzione di conversione? La risposta affermativa pare imporsi, dato che il disposto che vieta lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi compare nella norma definitoria, ed assurge quindi a condizione di validità del progetto.
2.1 Mancanza del progetto
Con norma di interpretazione autentica dell’art. 69, co. 1, del d.lgs. n. 276/2003, l’art. 1, co. 24, dispone che in caso di mancanza del progetto – da intendersi, secondo la giurisprudenza consolidata, sia come mancanza in toto del progetto, sia come carenza degli elementi qualificanti dello stesso, quali il contenuto caratterizzante, la determinatezza e la specificità2, sia, ora, per la presenza di compiti esecutivi o ripetitivi –, si costituisce un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’innovazione è di particolare rilievo, quindi, per la pesante ricaduta applicativa che comporta: non sarà più possibile per il committente, a fronte di un progetto mancante o carente, provare la natura comunque autonoma del rapporto in questione. Superata definitivamente la querelle, a lungo dibattuta da dottrina e giurisprudenza, circa la natura (assoluta o relativa) della presunzione di subordinazione contemplata dall’art. 69, co. 1, la riforma decreta, quindi, la fine del contenzioso sviluppatosi su questo tema.
2.2 Presunzione di subordinazione per prestazioni analoghe a quelle dei dipendenti del committente
Il legislatore ha previsto una presunzione iuris tantum di subordinazione «nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente, fatte salve le prestazioni di elevata professionalità». Anche questa innovazione normativa appare criticabile, in quanto distorce un principio generale di interpretazione giudiziale, onde, a dispetto della maldestra previsione legislativa deve ritenersi la piena facoltà del giudice di riqualificare il rapporto nei termini della subordinazione in presenza di elementi di eterodirezione, non confutati dal committente (al quale incombe l’onere di rovesciare il quadro indiziario fornito dal prestatore), nonostante la prestazione sia di elevata professionalità.
Facendo salve le prestazioni di elevata professionalità, la norma condiziona la ripartizione degli oneri probatori circa la natura del rapporto alla sussistenza di un elemento in sé neutro (la professionalità), la cui presenza e gradazione (elevatezza) non può comunque escludere la riqualificazione del rapporto laddove la prestazione sia resa in concreto con modalità analoghe a quelle tipiche della subordinazione. Sotto questo profilo, il disposto rappresenta una grave incoerenza rispetto alla ratio legis: in sostanza, costituisce una specie di lasciapassare per abusi dell’istituto giustificati dall’elevato livello professionale del prestatore, che dovranno essere comunque portati all’attenzione del giudice.
2.3 Disciplina del contratto a progetto nell’ambito delle professioni intellettuali
Il contenuto della prestazione viene direttamente in rilievo nella previsione che, con riferimento alle professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad albi professionali, dispone che l’esclusione dalla disciplina del lavoro a progetto ex art. 61, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 opera solo nell’ipotesi in cui il contenuto concreto dell’attività svolta dal collaboratore sia riconducibile alle attività professionali per cui è richiesta l’iscrizione all’albo professionale (art. 1, co. 27). In caso contrario, «l’iscrizione del collaboratore ad albi professionali non è circostanza idonea di per sé a determinare l’esclusione» della disciplina del lavoro a progetto (art. 1, co. 27), onde, qualora la fattispecie ricondotta in tal modo nell’alveo dell’art. 61 sia priva di progetto, in virtù del requisito ora richiesto a pena di validità del negozio dal co. 24, si potrà determinare la “trasformazione” del contratto d’opera intellettuale caratterizzata da coordinamento e continuatività in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’aver ancorato l’esclusione dal campo di applicazione delle norme sul lavoro a progetto alle sole collaborazioni il cui contenuto concreto sia riconducibile alle professioni protette, impone di distinguere tra attività tipiche ed esclusive della professione intellettuale per l’esercizio della quale è richiesta l’iscrizione all’albo, e attività non esclusive, esercitabili anche da esperti o professionisti non iscritti all’albo. Ne consegue che l’esclusione dal campo di applicazione del lavoro a progetto sarà possibile solo ove il professionista iscritto all’albo deduca nel contratto di collaborazione prestazioni esclusive (id est tipiche e tassativamente proprie della professione protetta), il cui contenuto concreto attiene a quell’attività professionale protetta, mentre per le attività rese da un soggetto iscritto ad albo ma non esclusive, si deve applicare sempre la normativa sul lavoro a progetto.
2.4 Il recesso
Ai sensi del nuovo art. 67, co. 2, «le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa. Il committente può altresì recedere prima della scadenza del termine qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto». L’aver previsto un recesso causale non può che comportare – pur nel silenzio del legislatore sul punto – l’applicazione nella fattispecie in esame di quegli effetti di impegnatività del vincolo che, a prescindere dalle diverse locuzioni usate dal legislatore («danni» nel mandato, «mancato guadagno» nel contratto d’opera), riguardano la materia del recesso nel lavoro autonomo. In particolare, al lavoratore a progetto, in caso di recesso ingiustificato, dovranno essere corrisposte le seguenti poste:
a) il rimborso dei lavori eseguiti sino al recesso, valutati in base al compenso contrattualmente convenuto e nel rispetto dei minimi previsti, ora, dal novellato art. 63, a prescindere dalla concreta utilizzabilità di quell’adempimento parziale;
b) le eventuali spese sostenute dal lavoratore a progetto, cioè le spese non ancora conglobate nell’attività esecutiva fino ad allora compiuta (vi rientrano, ad esempio, materiali acquistati ma non incorporati nel risultato finale, e le spese generali);
c) il mancato guadagno relativo alla parte ineseguita, la cui cifra netta è rappresentata dall’utile conseguibile dal prestatore qualora avesse potuto completare l’esecuzione del progetto, come pattuito.
Qualche perplessità suscita invece la previsione, accanto alla giusta causa, di una ulteriore giustificazione del recesso, consistente, come si è visto, nella emersione di «oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto». Occorre chiedersi, anzitutto, perché il legislatore non abbia limitato il profilo della giustificazione del recesso al profilo della giusta causa. È pur vero, tuttavia, che il recesso causale, nonostante la nozione generale di giusta causa, è per sua natura plurale3, onde la previsione in esame si risolve, a ben vedere, in una nuova ipotesi qualificata di recesso come mezzo di impugnazione del contratto, accostabile a quella prevista in via generale dall’art. 2224, co. 2, c.c., in cui l’artifex dimostra, nel corso dell’opera, un’inadeguata peritia artis. Il potere estintivo indicato dal legislatore nel novellato art. 67 contribuisce quindi ad arricchire sul piano sistematico la varietà tipologica del concetto di recesso straordinario o causale, quale rimedio di tipo potestativo connesso ad un inadempimento il quale prevede, come sanzione per l’imperizia del prestatore un meccanismo del tutto analogo a quello della risoluzione ex art. 1454 c.c.
Resta da analizzare la nozione di «oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto». È evidente che soccorrono, nell’interpretazione del disposto, i criteri oggettivi della diligenza e perizia nelle obbligazioni di facere in riferimento ad uno scopo determinato (art. 1176 c.c). In tal prospettiva l’idoneità professionale, da intendersi come mancanza di diligentia-peritia, opera come criterio oggettivo che indica non semplicemente un atteggiamento volontaristico o uno sforzo della volontà del prestatore, bensì una esecuzione esperta della prestazione e, quindi, l’adeguatezza del suo risultato a quanto specificamente richiesto dal rapporto obbligatorio. Va ancora osservato, tuttavia, che in tale fattispecie non viene necessariamente in rilievo il mancato risultato dell’attività prestatoria, bensì, anche, e forse principalmente, l’attività in sé e per sé. Si potrà trattare quindi anche di un adempimento in fieri, e non, come nell’art. 1454 c.c., di un inadempimento che si è già manifestato, nel senso che il lavoro si sta svolgendo, sia in senso materiale che giuridico. In tal caso sarà quindi la cattiva esecuzione a determinare l’inadempimento, ed il conseguente recesso del committente; il criterio della responsabilità contrattuale scatta in presenza della colpa, intesa come difformità da un paradigma di diligenza forgiato su criteri di valutazione oggettiva.
2.5 Il corrispettivo
La riforma innova solo parzialmente la materia del corrispettivo, che aveva già subito una metamorfosi nel 2007, grazie ad un intervento che aveva introdotto, al posto dell’originario riferimento ai compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto (art. 63 d.lgs. n. 276/2003), una prospettiva di sostanziale parificazione dei corrispettivi dovuti ai collaboratori con le retribuzioni corrisposte per analoghe prestazioni ai lavoratori subordinati. La legge finanziaria 2007 (co. 772), stabiliva infatti che «in ogni caso» i compensi corrisposti ai collaboratori a progetto «devono essere proporzionati alla quantità e qualità del lavoro eseguito e devono tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni di analoga professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi nazionali di riferimento». Ne deriva che il collaboratore è sostanzialmente assimilato al lavoratore subordinato per quanto attiene alla situazione di dipendenza economica, onde la necessità di assicurare l’ancoraggio della misura del compenso a quei dati di mercato che nell’ambito dei rapporti di lavoro sono rimessi alla determinazione dell’autonomia collettiva, vero e proprio agente (costituzionalmente riconosciuto) per la definizione del giusto prezzo dello scambio lavoro-mercede. In tal prospettiva si spiega, peraltro, il rinvio alla contrattazione collettiva, perché preveda, attraverso accordi interconfederali, nazionali e decentrati, condizioni più favorevoli ai lavoratori a progetto (cfr. il novellato art. 63, co. 1). Si apre quindi uno spazio di contrattazione dei compensi minimi dei lavoratori a progetto sulla base di parametri – quelli del lavoro subordinato – che non possono essere modificati in peius. In tal modo si determina una diversa prospettiva nella lettura complessiva del disposto, che porta a rendere per questa via applicabile in subiecta materia l’art. 36 Cost., con riferimento al duplice criterio della proporzionalità e della sufficienza, e quindi al principio di giustizia distributiva tipica del lavoro subordinato. Infatti, anche in mancanza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non potrà comunque essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle «retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza ed esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto» (art. 63, co. 2).
2.6 Le partite Iva
La riforma intende contrastare il falso lavoro autonomo anche nell’ambito di prestazioni rese «da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto». In presenza delle condizioni poste dalla legge ed in assenza di prova contraria, il contratto si considera di prestazione d’opera coordinata e continuativa (art. 1, co. 26, che introduce nella disciplina di cui al d.lgs. n. 276/2003 l’art. 69 bis). Posto che in questi casi, trattandosi di partite Iva, il progetto sarà del tutto assente, questa previsione rischia di determinare l’automatica “trasformazione” del rapporto di lavoro autonomo in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (con la sola eccezione dei casi in cui le collaborazioni non ricadono nel campo di applicazione del lavoro a progetto: art. 61 d.lgs. n. 276/2003, così come specificato dalla novella nell’art. 1, co. 27).
2.7 La presunzione di co.co.co. (ma in realtà di subordinazione)
L’art. 1, co. 26, modificato dall’art. 46 bis, co. 1, lett. c), del d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito con modificazione della l. 7.8.2012, n. 134, prevede che la presunzione di collaborazione coordinata e continuativa operi se ricorrono almeno due dei tre presupposti di seguito specificati: «a) che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi; b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più dell’80 per cento dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi; c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente».
La presunzione in esame è relativa, quindi ammette la prova contraria. Tuttavia, la scelta del legislatore è il chiaro indice di una postura culturale errata, assai distante da quanto ritenuto in altri contesti normativi stranieri ove il lavoro autonomo economicamente dipendente viene al contempo riconosciuto, valorizzato e protetto, ma non forzatamente ricondotto alla sfera della subordinazione (sia pure mediante il macchinoso “doppio passaggio” prefigurato dalla riforma: dall’autonomia alla parasubordinazione e da questa alla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c.).
2.8 Esclusione della presunzione
Viceversa, pur ricorrendo i presupposti sopra indicati, la presunzione di co.co.co. è comunque esclusa laddove la prestazione sia:
a) connotata da «competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività»;
b) svolta da un soggetto titolare di un reddito da lavoro autonomo annuo non inferiore a circa 18.000 euro; evidentemente la soglia sposta l’onere della prova in giudizio: se si superano i 18.000 euro tocca al lavoratore dare prova che il rapporto è qualificabile come co.co.co. senza progetto;
c) concernente prestazioni lavorative per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale o «a registri, albi, ruoli o elenchi professionali qualificati e detta specifici requisiti e condizioni». Alla ricognizione delle predette attività si provvede con decreto del Ministero del lavoro da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della novella, «sentite le parti sociali» (anche qui v’è da chiedersi quale sia la competenza e soprattutto la rappresentatività delle parti sociali, se con esse si intendono le organizzazioni sindacali). Frutto di evidenti compromessi in itinere, la norma è redatta tecnicamente male, e pone fra i propri criteri applicativi un parametro individuabile solo ex post, quale l’ammontare del corrispettivo percepito dal collaboratore nell’arco dell’anno solare.
2.9 La prova contraria
La riforma ammette invero la prova contraria da parte del committente, posto che la presunzione introdotta è iuris tantum. Tuttavia, in tal caso, il committente dovrà essere in grado di dimostrare in concreto che si tratti di una prestazione d’opera genuina e “pura” ex art. 2222 c.c., caratterizzata in particolare dall’assenza del coordinamento. Una prestazione d’opera continuativa, insomma, ma non coordinata, con tutte le difficoltà di stabilire in concreto se è presente, e con quale intensità, il coordinamento del creditore della prestazione, la cui ingerenza deve assolutamente arrestarsi a fronte dell’autorganizzazione del prestatore. In caso contrario, infatti, il combinato disposto della presunzione di co.co.co. in esame con il divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici (art. 69 d.lgs. n. 276/2003), ora assistito dalla sanzione della conversione senza appello, comporta inesorabilmente la successiva trasformazione del contratto (che in questi casi, trattandosi di partita Iva, non contempla un progetto) in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Letta in questi termini la presunzione semplice di co.co.co. assomiglia molto, in realtà, ad una presunzione iuris et de iure di subordinazione: un deterrente all’impiego del lavoro autonomo, che finirà per ampliare di fatto l’ambito della subordinazione e restringere quella del lavoro autonomo come sostituto funzionale di quello dipendente.
La disciplina del lavoro autonomo sembra realizzare, nell’impianto complessivo della riforma del mercato del lavoro, una delle poste del compromesso tra coloro che invocavano una maggiore flessibilità in uscita (nuova disciplina dell’art. 18 st. lav.) e quanti richiedevano una riduzione della flessibilità in entrata (disciplina delle assunzioni), da tempo giudicata eccessiva e foriera di una deprecabile segmentazione del mercato del lavoro.
In questa prospettiva il lavoro autonomo è stato giudicato terreno elettivo per una politica di riduzione della flessibilità, con eccessiva penalizzazione per le forme genuine di lavoro indipendente, benché “economicamente dipendente”. La riforma del lavoro a progetto rende l’istituto difficilmente impiegabile, al punto da poter pronosticare la sua progressiva scomparsa. Quanto alle partite Iva, il rischio è da un lato il permissivismo nei confronti delle false forme di lavoro autonomo, dall’altro la penalizzazione delle vere partite Iva, sia per l’aggravio contributivo introdotto dalla nuova regolazione sia perché essa inibisce la committenza ad “ingaggiare” professionisti genuini non iscritti ad albi, per timore di subire contenziosi sulla qualificazione del rapporto. Questo segmento del mercato del lavoro, particolarmente dinamico benché a concreto rischio di abusi, attendeva piuttosto un intervento incentivante e nuove forme di tutela, come accaduto in altri paesi europei (Spagna, Francia e Germania, in particolare), e non la forzata riconduzione nell’alveo della subordinazione, sotto l’ombrello di una inedita tecnica presuntiva che rischia di condurre alla sostanziale estinzione del lavoro autonomo personale, continuativo e funzionalmente coordinato alle esigenze dell’impresa.
1 Marazza, M., Il lavoro autonomo dopo la riforma del Governo Monti, in Argomenti dir. lav., 2012, 4-5.
2 Cfr. Trib. Milano, 13.12.2006: «per mancata indicazione del progetto deve intendersi sia la mancata indicazione formale del contenuto del progetto o programma sia la non configurabilità di un effettivo progetto».
3 Mancini, G.F., Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, Milano, 1962, 106.