tirannide
La questione della t. è meno cruciale nel pensiero di M. di quanto non lo sia stata presso i suoi lettori dal Cinquecento a oggi. Infatti, il topos di M. come maestro di tirannia è sempre stato tra i più diffusi, dalle prime condanne del cardinale Reginald Pole (→) e dell’ugonotto Innocent Gentillet (→) – quando, mezzo secolo dopo la morte di M., era tornata alla ribalta la questione del tirannicidio durante le guerre civili di religione –, fino a Federico II di Prussia, e poi fino a contemporanei quali Leo Strauss (→) o Raymond Aron (→). Valgano, per tutte, le parole di Strauss nelle pagine di apertura dei suoi Thoughts on Machiavelli (1958): «E la tirannide dei nostri giorni ha le sue radici nel pensiero del Machiavelli, nel principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi» (trad. it. 1970, p. 6). In questa concezione risiede lo zoccolo dell’antimachiavellismo in quanto capitolo della storia del pensiero politico occidentale.
Quanto all’antitesi libertà (o repubblica) vs tirannide, una parte consistente della storiografia fece di essa un patrimonio della storia fiorentina e di M. una sua illustrazione repubblicana (cfr. la nozione di «umanesimo civile» e il fortunato libro di Hans Baron, The crisis of the early Italian Renaissance. Civic Humanism and republican liberty in an age of classicism and tyranny, 1955).
Ciononostante va detto che l’argomento e le parole della t. non hanno nei testi maggiori di M. una funzione strutturante. Il campo semantico della tirannia è addirittura formalmente assente nel Principe e nell’Arte della guerra, nonché poco presente negli scritti di cancelleria. Nondimeno, specialmente nei Discorsi e nelle Istorie fiorentine, la nozione è ben presente, anche quando le parole manchino (il che sarà perfettamente identificato dal Nifo del De regnandi peritia e dal Guicciardini delle Considerazioni). La questione si presenta, essenzialmente, a un duplice livello: come elemento polemico e come lascito di una tradizione antica, greco-latina, ma anche cristiana (lascito integrato nell’argomentazione di M., che pure intende superare la tradizione alla luce della «verità effettuale»). Significativa è anche la scarsa presenza del tirannicidio. I verbi attivi associati a t. (occupare, tenere, fondare, mantenere, prendere la t.) dimostrano, inoltre, che essa non va ricondotta a un unico significato stabile e fisso, ereditato dalla trasmissione del linguaggio della teoria politica antica e medievale: va studiata secondo una logica dinamica, giacché il governo è sempre la posta in gioco di un rapporto evolutivo delle forze in campo.
Nel carteggio di cancelleria il lessico della t. è raro e rimanda per lo più alla stigmatizzazione – quasi meccanica – di uno degli attori. Il discorso non mira ad analizzare la t., ricorre a un patrimonio dottrinale per squalificare il nemico. In tale prospettiva, M. prende posizione nella vexata quaestio del giudizio da dare su Cesare, e i Discorsi dichiarano che fu lui il primo tiranno di Roma (Discorsi I xxix 19 e xxxvii 20). In tutta l’opera machiavelliana, d’altronde, viene mantenuta l’opposizione tra repubblica (o ‘vita civile’ o ‘libertà’) e tirannia. Ma questo punto fermo teorico non è tanto un lascito del cosiddetto Umanesimo civile quanto un segno dell’influenza della più recente dicotomia Consiglio grande/tirannia impostasi nel clima politico della Firenze savonaroliana e soderiniana. M. rimane legato a quell’esperienza, tanto da chiedere al cardinale de’ Medici nel Discursus florentinarum rerum di «riaprire questa sala», la sala del Consiglio grande (§ 79). La definizione della t. è proposta a metà del primo libro dei Discorsi: «quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa [...]» (xxv 6). In questa definizione, M. riconduce senza sorpresa la t. alla «potestà assoluta» (si sa che l’aggettivo assoluto – ab-solutus – rimanda al non essere legato dalle leggi); ma lo fa in un inciso («la quale [...] tirannide»), quasi di sfuggita e, inoltre, riporta la definizione ad «autori» non meglio definiti (il riferimento alquanto vago suona come una potenziale presa di distanza nei confronti della doxa). Più delle definizioni e dei nomi contano quindi le pratiche politiche e il ragionamento sulla vastissima questione degli ordini. L’impostazione sofisticata, tutt’insieme teorica, prammatica e storica, porta in sé una potenziale presa di distanza nei confronti di un’eredità giuridica ancora vivace. Perfino quando la t. viene studiata alla luce delle ‘ragioni’, ossia del diritto, sorge una forma di superamento ironico della logica dottrinale, illustrato dall’esempio che segue:
Era pervenuto al pontificato Benedetto XII, e parendogli avere perduto in tutto la possessione di Italia, e temendo che Lodovico imperadore non se ne facesse signore, deliberò di farsi amici in quella tutti coloro che avevano usurpato le terre che solevono allo imperadore ubidire, acciò che avessero cagione di temere dello Imperio e di ristrignersi seco alla difesa di Italia; e fece uno decreto che tutti i tiranni di Lombardia possedessino le terre che si avevano usurpate, con giusto titulo. Ma sendo in questa concessione morto il Papa e rifatto Clemente VI, e vedendo lo Imperadore con quanta liberalità il pontefice aveva donate le terre dello Imperio, per non essere ancora egli meno liberale delle cose d’altri che si fussi stato il papa, donò a tutti quegli che nelle terre della Chiesa erano tiranni le terre loro, accioché con l’autorità imperiale le possedessero (Istorie fiorentine I xxx 1-2; corsivo nostro).
Le ‘ragioni’, ossia i diritti, la legittimità, contano. Ma l’allusione alle politiche incrociate di papi e imperatori, ossia delle due fonti maggiori di legalità, mostra che, se i titoli e le ‘ragioni’ sono questioni non solo formali, l’auctoritas si dissolve tuttavia in maneggi che banalizzano e strumentalizzano il ricorso alla potenza del diritto. Non molto diversa sarebbe l’analisi di un altro passo che concerne i papi:
Non mancavano ancora al Papa ragioni da giustificare la causa sua: e per ciò allegava appartenersi ad un pontefice spegnere le tirannidi, opprimere i cattivi, esaltare i buoni; le quali cose ei debbe con ogni opportuno rimedio fare (Istorie fiorentine VIII xi 5; corsivo nostro).
In una prospettiva sempre omogenea alla tradizione giuridica dominante, la t. si definisce anche dai suoi ‘modi’, dai comportamenti del tiranno, nella linea della classica distinzione, impostasi dopo i trattati trecenteschi di Bartolo da Sassoferato, tra t. ex defectu tituli e t. ex parte exercitii, ossia dovuta alle forme di esercizio del potere. Ma, come si è intravisto sopra, M. sa che sono molti i regimi e i poteri privi di «titoli», e dedica lo spazio più importante alla seconda delle grandi categorie bartoliane, attraverso la nozione di ‘modi’ (seppure non si interessi molto della questione classica dei ‘vizi’ del tiranno). Scrive, per es., che «per torgli [a Corso Donati] il favore popolare, il quale per questa via si può facilmente spegnere, disseminorono che si voleva occupare la tirannide: il che era a persuadere facile, perché il suo modo di vivere ogni civile misura trapassava» (Istorie fiorentine II xxii 14; corsivo nostro); oppure che «era messer Benedetto [Alberti] uomo ricchissimo, umano, severo, amatore della libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i modi tirannici» (Istorie fiorentine III xx 8; corsivo nostro). Un episodio significativo della riflessione sui modi della t. nella vita fiorentina lo si trova nell’ordinanza militare, dopo il 1506, soprattutto con la questione della nomina di Miguel Corella (→), un ex capitano di Cesare Borgia, come capitano della guardia del contado: in quella vicenda – un po’ drammatizzata da Francesco Guicciardini, come ha mostrato recentemente John M. Najemy – il gonfaloniere Piero Soderini, che era consigliato da M., venne accusato da alcuni ottimati di avere mire tiranniche, tradite dal disegno di costituire una guardia armata personale. Uno degli obiettivi importanti di M., nei Discorsi, sarà proprio quello di confutare l’idea secondo la quale un popolo armato favorirebbe l’instaurazione della tirannide.
L’attenzione ai ‘modi’ tirannici, secondo un lascito anch’esso classico, è utile per trattare di una questione che è cruciale per M., ossia i cambiamenti di regime e, particolarmente, i passaggi da un governo tirannico a un governo non tirannico, o viceversa. Così nei Discorsi rende esplicitamente conto della tradizione rimandando – caso raro in M. – ad Aristotele (ma anche a sé stesso):
E Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, con stuprarle o con violarle o con rompere i matrimoni; come, di questa parte, nel capitolo dove noi trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico adunque, come i principi assoluti e i governatori delle republiche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare i disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro o della loro republica (Discorsi III xxvi 10-11).
Parlando di «mutazioni» di governo e istituzionali, si pensa ovviamente all’anakỳklosis di matrice polibiana (Discorsi I ii 10-13): il trapasso alla t. così come la caduta di essa sono inevitabili, nel ‘cerchio’ dei governi, a meno che lo Stato stesso non venga meno per via di una corruzione eccessiva. Da un altro punto di vista, tale dinamica viene studiata alla fine del cap. ix del Principe, nelle conseguenze del «salire dall’ordine civile allo assoluto» (§ 23, espressione nella quale, a nostro avviso, è comunque presente la sostanza della tirannia). Per costruire o ricostruire una stabilità politica è necessario il ricorso a una costituzione mista, rispettosa dei «desideri» o «appetiti» attribuibili ai vari attori della società politica. Infatti, identificare il cerchio della corruzione non basta: l’illustrazione storica di quelle considerazioni generali porta a precisare il ruolo degli umori nel movimento della storia e consente in particolare di mettere in luce – soprattutto – il ruolo sempre decisivo del «popolo», nonché quello dei suoi avversari, i «grandi». La prospettiva prammatica e sociale sposta le logiche prettamente giuridiche ed etiche delle definizioni tradizionali della tirannide. Così anche nei Discorsi:
Notasi adunque per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo inconveniente di creare questa tirannide, per quelle medesime cagioni che nascano la maggior parte delle tirannidi nelle città: e questo è da troppo desiderio del popolo d’essere libero, e da troppo desiderio de’ nobili di comandare. E quando e’ non convengano a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide surge (Discorsi I xl 27-28).
In ogni caso, la convinzione che anche il tiranno debba appoggiarsi al popolo non viene meno:
[...] quegli tiranni che hanno amico l’universale e inimici i grandi, sono più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze che quella di coloro che hanno per inimico il popolo e amica la Nobilità (Discorsi I xl 37).
La tassonomia dei modi dell’azione politica non è mai statica e richiede un adattamento alle condizioni dell’agire, perché gli stessi modi sono suscettibili di conseguire effetti diversi a seconda dei casi:
Conchiudo pertanto il procedere di Valerio essere utile in uno principe e pernizioso in uno cittadino, non solamente alla patria, ma a sé: a lei, perché quelli modi preparano la via alla tirannide; a sé, perché, in sospettando la sua città del modo del procedere suo, è costretta assicurarsene con suo danno. E così per il contrario affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, e in uno cittadino utile, e massime alla patria [...] (Discorsi III xxii 41-42).
Lo studio dei ‘modi’ dimostra che la t. non va considerata come un’aberrazione o una patologia: bisogna quindi render conto del suo posto nella lista di tutte le forme di governo possibili. Non basta più, con i ‘modi’, qualificare la t. delineandone i confini; bisogna illustrarne le caratteristiche per capirne gli effetti. Le stesse modalità possono infatti essere condivise da regimi e attori politici molto diversi, con conseguente offuscamento delle tipologie ereditate. Come la problematica dei «titoli» e «ragioni», anche l’interrogazione sui ‘modi’ non è sufficiente per conferire alla t. un perimetro chiaro. Ciò non significa che ogni principe sia un tiranno: non è possibile condividere qui l’assunto di Strauss secondo il quale M., nel Principe, rinuncia alla distinzione fra re e tiranno.
La tipologia dei governi, mai stabile per M., viene ulteriormente indebolita dalla categoria di t., per la quale non si dà un quadro di riferimento complessivo all’infuori dell’opinabile riferimento a una lacunosa legittimità giuridica o a eccessi passionali nell’esercizio del potere. Come distinguere, quindi, tra capi di Stato i quali, a seconda di un giudizio soggettivo sul loro comportamento o sull’origine del loro potere, potranno essere qualificati come principi o dittatori, o tiranni, o imperatori, o vicari, o signori? Lo stesso M. a volte pare esitare. Il termine tirannide assume un’accezione non più spregiativa quando, per es., M. considera che
Papa Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna per cacciare di quello stato la casa de’ Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre della Chiesa (Discorsi I xxvii 2; corsivo nostro).
In questo caso ci si può chiedere perché il governo dei Bentivoglio a Bologna meriti la qualifica di «principato», mentre i Baglioni di Perugia – e altri – vengono considerati come «tiranni». Altrove ancora, sorge una certa ambiguità tra principe e tiranno quando si allude a «quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni» (Discorsi I xvi 16) richiamando così una forma di principe civile (Principe ix) e ricordando che certi attori possono essere a seconda dei momenti chiamati da M. principe o tiranno (è il caso di Nabide o di Pandolfo Petrucci). Altre volte ancora, la terminologia confonde principi, imperatori e tiranni, nella Roma antica, quando M. segnala che «ci sono assai esempli e intra gl’imperadori romani e intra gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine» (Discorsi I lviii 16; corsivo nostro). Ci si può perfino chiedere se e come si possa distinguere fra vicari e tiranni, a proposito della ben nota questione dei vicari di Romagna (che trent’anni dopo sarà anche il pretesto del famoso excursus sul potere temporale dei papi scritto da Guicciardini nella Storia d’Italia IV 12), quando M. scrive:
Degli stati principali, la reina Giovanna II teneva il regno di Napoli; la Marca, il Patrimonio e Romagna, parte delle loro terre ubbidivano alla Chiesa, parte erano dai loro vicarii o tiranni occupate: come Ferrara, Modona e Reggio da quegli da Esti, Faenza da e Manfredi, Imola dagli Alidosi, Furlì dagli Ordelaffi, Rimino e Pesero dai Malatesti e Camerino da quelli da Varano (Istorie fiorentine I xxxix 2; corsivo nostro).
Altre volte, in accordo con una parte della lezione tomista che considera la possibilità della t. di un piccolo gruppo o della maggioranza, il tiranno diventa collettivo. Ma per M. questa modalità peculiare della t. consente soprattutto di tornare su due principi chiave della sua concezione politica: diffidare delle manovre dei «grandi» e ribadire il ruolo cruciale del popolo (persino per aiutare un tiranno nella conquista o nella conservazione del potere). Dei «grandi» si svelano le ambizioni: si rimpiange così che, dopo la caduta del duca d’Atene – illustrazione storica dell’ascesa di un tiranno a Firenze –, «per uno tiranno che era spento, n’erano nati mille» (Istorie fiorentine II xxxix 6). Può farsi strada addirittura una realtà ossimorica che mescola ‘libertà’ e ‘tirannide’, ossia due concetti a priori incompatibili, come nel caso genovese:
Esemplo veramente raro e da i filosofi in tante loro imaginate e vedute republiche mai non trovato, vedere dentro ad uno medesimo cerchio infra i medesimi cittadini, la libertà e la tirannide, la vita civile e la corrotta, la giustizia e la licenzia (Istorie fiorentine VIII xxix 12).
Non si tratta qui di discutere l’analisi proposta da M. per la storia di Genova, ma di evidenziare come l’ambiguità terminologica sia perfettamente consapevole e dimostri la duttilità della nozione di tirannide.
Non è casuale che in una simile mobilità semantica, il tirannicidio non occupi molto spazio, seppure esso sia stato, dal Duecento in poi, un argomento topico del discorso sulla tirannide. Per es., pur implicandolo in un capitolo intitolato Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o d’uno regno, tanto quelli d’una tirannide sono vituperabili (Discorsi I x 1), M. non approfondisce il dibattito classico circa l’ultimo canto dell’Inferno di Dante (ossia sulla scelta di condannare, accanto a Giuda, gli assassini di Cesare, Cassio e Bruto). Anzi, è su un altro Bruto, il nemico dell’ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo, che M. insiste in due capitoli dei Discorsi (I xvi, III iii) che tornano sulla condanna a morte dei figli del patrizio romano in nome della difesa del bene pubblico contro il tiranno. Su questa decisione, il parere di M. è ribadito due volte (cfr. Discorsi I xvi 11 «non ci è più potente rimedio, né più valido né più sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto»; e Discorsi III iii, il cui titolo non può essere più chiaro: Come egli è necessario, a volere mantenere una libertà acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto). Ma M. non propone qui un giudizio etico sul pericolo o sui misfatti della tirannide. La sua impostazione è sintetizzata in questa frase: «chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo» (Discorsi III iii 4). L’analisi degli effetti e la stabilità dello Stato prendono il sopravvento sul giudizio positivo o no circa la natura del regime. A ogni situazione – repubblica o t. – corrisponde un’azione più efficace, quand’anche l’autore abbia le sue preferenze repubblicane e quand’anche, come abbiamo visto, consideri che Cesare sia stato il capostipite dei tiranni romani. Come M. dirà poi qualche capitolo dopo:
debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna impresa, o in favore della libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese loro. Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E perché di sopra si dice che gli uomini nell’operare debbono considerare le qualità de’ tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel sequente capitolo (Discorsi III viii 20-22).
In questa prospettiva, una delle interrogazioni più feconde rimane quella sul dittatore romano, sia per il posto che assume nei Discorsi, sia per l’assenza di riflessione su quella magistratura romana prima di M. – come nota giustamente Gabriele Pedullà (2012) –, sia, infine, per la fortuna storica del campo semantico affine nella riflessione sulla tirannia. Non a caso sarà in quell’occasione che M. enuncerà un dato fondamentale per lo studio del suo lessico: «sono le forze che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze» (Discorsi I xxxiv 4). La notazione conclude il passo decisivo sulla dittatura:
E’ sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono in quella città modo di creare il Dittatore, come cosa che fosse cagione col tempo della tirannide di Roma; allegando, come il primo tiranno che fosse in quella città la comandò sotto questo titolo dittatorio, dicendo che, se non vi fusse stato questo, Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare la sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d’ogni ragione creduta. Perché e’ non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l’autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio: e se in Roma fusse mancato il nome dittatorio, ne arebbono preso un altro [...] (Discorsi I xxxiv 4).
Il dittatore non è l’anticamera della t., ma la soluzione a una questione d’emergenza (gli «accidenti istraordinari», Discorsi I xxxiv 11). Non è quindi condannabile nella misura in cui s’iscrive in una soluzione prevista dalle leggi, nonché rispettosa delle altre istanze istituzionali e regolata strettamente nel tempo. Matrice di t. non è il potere conferito al dittatore, ma piuttosto «la lunghezza dello imperio», il prolungamento dei comandi militari. Compare qui un criterio che non ha mai occupato un posto importante nella tradizione teoretica sul tiranno – seppure aveva suscitato, nelle pratiche politiche, la generale rotazione rapida delle cariche nei comuni centro-settentrionali: il tempo.
Non solo il tiranno è colui che rimane troppo a lungo al potere, ma alcuni dei problemi messi in luce dalla riflessione sulla t. sono questioni ‘temporali’: il ritmo della mutazione, la necessaria rapidità della decisione politica in tempo di crisi, la scelta del momento per passare a un regime assoluto, la stabilità e la resistenza al tempo del governo, la considerazione della qualità dei tempi per decidere quale atteggiamento prediligere e così via. Da questo punto di vista, non sono più, o non solo, determinanti nel discorso sulla t. né la «potestà assoluta» del capo di Stato, né i «modi» del governare (sospetto, crudeltà, furti, violenza), né i suoi comportamenti personali (gli eccessi delle passioni). La lunghezza del tempo crea l’eccesso, la scelta del momento sbagliato porta al fallimento, la trascuratezza della congiuntura fa correre rischi, la «tardità» porta alla rovina. La considerazione dei tempi del governo consente di non sottoporre i «principi nuovi» al vaglio della tirannia (purché le loro azioni siano utili per la salvaguardia dello Stato), senza che pertanto venga negata ai principi «vecchi» la possibilità di un regime non tirannico (a patto di mantenere leggi e ordini, come hanno fatto i re di Francia con i parlamenti).
Rimane tuttavia che ‘storicamente’, nella lunga durata, la t. non è mai una soluzione, anche e soprattutto perché rende impossibile la crescita della potenza (ricchezza e dominio) dello Stato:
[...] subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso, il quale per animo e per virtù d’arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio; perché e’ non può onorare nessuno di quegli cittadini, che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le città che esso acquista sottometterle o farle tributarie a quella città di che egli è tiranno, perché il farla potente non fa per lui, ma per lui fa tenere lo stato disgiunto e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui. Talché de’ suoi acquisti solo egli ne profitta, e non la sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide (Discorsi II ii 15-19).
Prendono un altro significato qui le considerazioni di M. secondo le quali la repubblica è il regime che ha maggiore vita e più tempo (Principe v 9); questo è vero quando le leggi e gli ordini sono buoni, ma, quando le repubbliche non sono bene ordinate, passano da un regime negativo e instabile all’altro, cioè dalla t. alla licenza:
Di simili leggi e ordini molte republiche antiche, gli stati delle quali ebbono lunga vita, furono dotate; di simili ordini e leggi sono mancate e mancano tutte quelle che spesso i loro governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell’altro, hanno variato e variano (Istorie fiorentine IV i 4).
La t. è una realtà con la quale la verità effettuale richiede di fare i conti, senza accettarla, ma senza accontentarsi di una sua critica astratta: va integrata e pensata in una razionalità politica che non si riduca, come fu il caso in una parte consistente della tradizione del pensiero politico medievale, a una semplice condanna. La dittatura serve qui come pietra di paragone utile per sottolineare tre dati: l’importanza del controllo della temporalità dei governi, il rifiuto di collegare il governo di uno con la t., la necessità di lasciare uno spazio anche nella logica repubblicana a un’istituzione di stampo autocratico, come intervento ‘straordinario’ nella storia dello Stato. Ma la t. rimane improponibile come regime duraturo: essa risulta radicalmente instabile, come ha mostrato Gennaro Sasso (1987) nelle sue riflessioni sul concetto di principato civile e sull’esempio storico del duca d’Atene (Istorie fiorentine II xxxiii-xxxvii). Solo una simile considerazione rende compatibili la condanna di fondo della t. (in nome del primato di ordini e leggi e dell’opposizione radicale tra t. e governo civile), la ripresa di una parte consistente della tradizione dottrinale e teoretica antitirannica, l’abbandono di tale tradizione per giudicare alcuni fenomeni storici in modo spregiudicato, l’attenzione alla t. come realtà storica e forma possibile di governo di uno, la richiesta di salvaguardare lo Stato. In questo modo M. lascia spazio a una partizione tra repubblica e forme diverse di un governo ‘assoluto’ (ossia sciolto dalle leggi) «di uno» – donde, nei testi, alcune possibili confusioni episodiche tra le varie forme del governo «di uno» (signorie, tirannidi, principati, regni, vicariati ecc.). Di fronte a una tradizione che fa della relazione con la legge il criterio dirimente del regime politico, distinguendo in modo chiaro tra governi illegittimi e legittimi, la riflessione di M. sulla t. mantiene ferma l’opposizione tra governo civile (repubbliche per lo più, ma anche regni come quello di Francia) e governo tirannico. E per quanto complessa sia la situazione, ai tiranni resta, alla fine, solo un’alternativa: la rinuncia al potere o la morte. «Né può da questo omore [il desiderio di liberare la patria] alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino male» (Discorsi III vi 23-24).
Bibliografia: L. Strauss, La tirannide. Saggio sul Gerone di Senofonte (1950), a cura di F. Mercadante, Milano 1968; L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe 1958 (trad. it. Milano 1970); R. Esposito, Politica e fondamento. Il mito del tiranno tra ‘antico’ e Rinascimento, «Il Centauro», 1981, 3, pp. 3-37 (ora, con il titolo La fondazione etica della politica. Il mito del tiranno tra ‘antico’ e Rinascimento, in Id., Ordine e conflitto, Napoli 1984, pp. 40-74); D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il De tyranno di Bartolo da Sassoferato, Firenze 1983; G. Sasso, Principato civile e tirannide e La ‘tirannide’ del duca d’Atene (Istorie fiorentine II 33-37), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1987, rispettiv. pp. 351-490 e 491-510; H.C. Mansfield Jr, Taming the Prince. The ambivalence of modern executive power, New York-London 1989; R. Aron, Machiavel et les tyrannies modernes, Paris 1993; D. Quaglioni, Tirannide e democrazia. Il ‘momento savonaroliano’ nel pensiero giuridico e politico del Quattrocento, in Savonarola. Democrazia, tirannide, profezia, Atti del III Seminario di studi, Pistoia 23-24 maggio 1997, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1998, pp 3-16; M. Turchetti, Tyrannie et tyrannicide de l’antiquité à nos jours, Paris 2001; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, in partic. pp. 200-16; J.M. Najemy, Occupare la tirannide. Machiavelli, the mlitia, and Guicciardini’s accusation of tyranny, in Della tirannia. Machiavelli con Bartolo, Atti della Giornata di studio, Firenze 19 ott. 2002, a cura di J. Barthas, Firenze 2007, pp. 75-108; G. Giorgini, The place of the tyrant in Machiavelli’s polit ical thought and the literary genre of the Prince, «History of political thought», 2008, 29, 2, pp. 230-56; A. Prosperi, Machiavelli e la tirannia. Note sui Discorsi, «Quaderni di storia», 2010, 71, 1, pp. 5-28; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2012.