Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alexis de Tocqueville è uno degli interpreti più acuti dei processi di modernizzazione sociale, politica e culturale che nei primi decenni dell’Ottocento rivoluzionano le società occidentali, europee e americane. L’irresistibile affermazione della “democrazia”, intesa non come ordinamento politico, ma come assetto sociale fondato sull’uguaglianza, è per Tocqueville l’aspetto centrale. Il problema politico che si pone è quello della salvaguardia della libertà in una società nella quale l’uniformità sociale e culturale e la debolezza degli individui di fronte al potere dello stato e dell’“opinione comune” fanno sorgere il rischio di un nuovo tipo di dispotismo.
Tocqueville: un pensiero e una vita “in equilibrio tra il passato e l’avvenire”
Trovare per Alexis de Tocqueville una collocazione intellettuale e politica adeguata è sempre stato un problema, per i suoi interpreti e per lui stesso. La sua iscrizione a diversi settori disciplinari nell’ambito delle scienze sociali – sociologo, politologo, storico – è comprensibile ma discutibile, anche perché in certi casi (i primi due) anacronistica. Anche la sua ubicazione politica è problematica, come testimonia una carriera parlamentare e istituzionale tortuosa. Se si escludono gli estremi del legittimismo ultras da una parte, e del proto-socialismo di inizio Ottocento dall’altra, tutte le altre tendenze politiche presenti nel panorama politico della Francia e dell’Europa della prima metà del secolo hanno qualche ragione per richiamarsi a Tocqueville, dai monarchici moderati, borbonici o orleanisti, ai liberali, fino ai repubblicani. Del resto i suoi stessi tentativi di definire la propria posizione sono quasi sempre in negativo, o accostano elementi opposti per prendere subito da entrambi le distanze. “Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto […]”, “Non sono né del partito rivoluzionario, né del partito conservatore [...]”, “Ero così ben in equilibrio tra il passato e l’avvenire da non sentirmi naturalmente e istintivamente attratto né verso l’uno né verso l’altro, e non ho affatto avuto bisogno di grandi sforzi per gettare uno sguardo tranquillo dalle due parti”. Neppure una delle sue rare auto definizioni positive – “un liberale di tipo nuovo” – aiuta molto.
Le “due parti” di cui parla Tocqueville non sono solo schieramenti politici, sono due epoche, due modalità storiche di organizzazione sociale, due universi antropologici. Il tema centrale di tutta la riflessione di Tocqueville è infatti la transizione da un ordinamento sociale aristocratico, gerarchico e fondato sulla diseguaglianza giuridica fra gli uomini, a uno democratico, egualitario e individualistico. Non si tratta quindi di spiegare solamente le specificità sociali e politiche degli Stati Uniti o le complesse vicende della Francia rivoluzionaria, ma di rintracciare il significato profondo della discontinuità epocale rappresentato dall’avvento della modernità. Una discontinuità che Tocqueville, discendente da un’antica famiglia della nobiltà normanna, imparentata con Chrétien-Guillaume de Malsherbes e con François-René de Chateaubriand, ma consapevole non solo dell’inevitabilità dell’avvento della democrazia ma anche della sua superiorità etica, avverte tragicamente. In realtà la sua, più che una condizione di “equidistanza”, come egli la definisce, appare una condizione di spaesamento, ma è proprio questo spaesamento a far sì che il suo sguardo sulla transizione verso il mondo moderno sia particolarmente ricco, anche se tutt’altro che “tranquillo”.
Democrazia, uguaglianza, individualismo moderno
Più ancora che con l’affermazione della democrazia come ordinamento politico, o dell’uguaglianza giuridica come caratteristica dell’organizzazione sociale, la rivoluzione antropologica della modernità si identifica per Tocqueville con il trionfo dell’individualismo moderno, del quale coglie appieno la novità rispetto al banale egoismo che è “amore appassionato ed esagerato di se stessi”. L’individualismo moderno è invece un sentimento “riflessivo e tranquillo, che porta ciascun cittadino ad isolarsi dalla massa dei suoi simili e a ritirarsi in disparte, in compagnia dei suoi familiari e dei suoi amici”. L’individualismo è quindi qualcosa di più di una passione, più o meno riprovevole, è il cuore di quella che Louis Dumont ha definito l’“ideologia moderna”, ovvero un’ideologia che pone l’essere umano individuale come unità fondamentale di valore.
Coloro che vivono in una società “aristocratica”, osserva Tocqueville, sono maggiormente disposti a riconoscersi come componenti di un organismo più vasto, “quasi sempre legati strettamente a qualcosa che è al di fuori di essi e spesso in suo nome sono disposti a dimenticare se stessi”. Quindi, “presso i popoli aristocratici, tutti gli uomini sono legati fra loro e dipendono gli uni dagli altri. Sussiste un forte legame gerarchico in virtù del quale si può mantenere ciascuno al suo posto e l’intero corpo sociale nell’obbedienza”. Il principio gerarchico che impronta le società aristocratiche implica dunque una concezione organica della società come corpo, organismo integrato. L’uguaglianza invece, tende “a isolare gli uomini gli uni dagli altri, e a far sì che ciascuno di loro sia indotto ad occuparsi solo di se stesso”. Essa “pone gli uomini gli uni a fianco agli altri, senza un legame comune che li unisca”. La democrazia “spezza la catena” del legame sociale, rende l’uomo più libero ma nel contempo più solo.
Ma l’indebolimento della coesione sociale, del senso di appartenenza a una comunità, non è l’unico pericolo che Tocqueville vede nell’inarrestabile avanzata della democrazia. Anche la libertà è minacciata. La democrazia ha imposto una nuova nozione di libertà come diritto universale e “imprescrivibile” di ciascun uomo all’autodeterminazione, e Tocqueville riconosce esplicitamente la superiorità di questa “giusta nozione di libertà” rispetto alla libertà come privilegio di ceto, riservato a pochi, che caratterizzava le società aristocratiche. Ma il suo timore è che proprio l’isolamento dei singoli individui, uguali nella loro impotenza, e indifferenti alla dimensione collettiva e politica perché interamente assorbiti nella ricerca del benessere materiale e nella competizione per lo status sociale, ponga le premesse per un nuovo tipo di dispotismo. Un “dispotismo dolce”, che si installa al di sopra “della folla innumerevole di uomini simili ed eguali immersi nel perseguimento dei loro piccoli e volgari piaceri”, ai quali sacrificano senza rimorsi libertà e virtù.
“Monsieur de Tocqueville, parlateci dell’America…”
Nel suo soggiorno negli Stati Uniti, tra il 1831 e il 1833, Tocqueville, ufficialmente incaricato di studiare il sistema penitenziario, cerca dunque sia “un’immagine della democrazia in quanto tale”, sia una risposta alle inquietudini sul futuro della libertà nella società democratica che, pure in forme diverse da quelle americane, rappresenta inevitabilmente anche il futuro dell’Europa. Nella Démocratie en Amerique, [La democrazia in America], il cui primo volume esce nel 1835, il secondo nel 1840, Monsieur de Tocqueville dunque, ci parla sì dell’America, come richiestogli da Luigi Filippo, ma anche e forse soprattutto della Francia e dell’Europa.
Gli Stati Uniti rappresentano per Tocqueville al tempo stesso una sorta di idealtipo della società democratica, e un’eccezione storica. Negli Stati Uniti la democrazia, ovvero l’uguaglianza delle condizioni giuridiche e una minore disuguaglianza in quelle economiche e sociali, non è stata una conquista o un punto d’arrivo di un processo storico. L’uguaglianza ha contraddistinto la vita degli Americani fin dalle origini della nazione e dello Stato. Questa uguaglianza di condizioni, che naturalmente esclude gli schiavi, ha improntato tutta quella che Tocqueville chiama la “costituzione sociale” americana, ma ha inciso anche sulla cultura e le forme che assumono le relazioni interpersonali e famigliari. Quella che Tocqueville osserva con sguardo non solo sociologico e politologico ante litteram, ma anche etnografico, è insomma un mondo antropologicamente altro rispetto a quello europeo della prima metà dell’Ottocento, dove l’ancien régime, scosso e delegittimato ma non smantellato, consuma il suo tramonto.
Negli Stati Uniti Tocqueville individua tutti gli elementi salienti dell’epoca democratica: l’amore appassionato per l’uguaglianza, quello, più intermittente per la libertà, il gusto del benessere materiale, l’inquietudine costante per la propria posizione sociale e l’ansia del riconoscimento, la scarsa considerazione per le occupazioni intellettuali, se prive di ricadute pratiche immediate, il prevalere della razionalità strumentale, il ripiegamento affettivo su una ristretta cerchia di famigliari e amici, la tendenziale indifferenza per le virtù civiche e, in verità, per la virtù in generale.
Ma ciò che in realtà interessa maggiormente Tocqueville sono quei fattori grazie ai quali la nazione americana riesce a sottrarsi a quelle che egli considera le minacce più gravi, tra loro correlate, che incombono sulle società democratiche, ovvero la disgregazione individualistica della società e il dispotismo, che rende gli uomini uguali nell’asservimento anziché nella libertà. Due sono gli elementi che attirano in particolare l’attenzione dell’osservatore francese: la vitalità delle istituzioni locali e delle associazioni fra privati e quella lo spirito religioso.
L’“interesse ben inteso” e la religione
“Senza istituzioni comunali – scrive Tocqueville a proposito delle townships americane ma pensando alla Francia – una nazione può dotarsi di un governo libero ma non avrà mai lo spirito della libertà”. La celebrazione del patriottismo locale, delle piccole patrie e del legame sentimentale con il pays, all’epoca di Tocqueville fa parte dell’arsenale ideologico conservatore o apertamente reazionario, tingendosi di paternalismo aristocratico e di cattolicesimo tradizionalista. Ma nel caso di Tocqueville siamo molto lontani da questa prospettiva. La sottolineatura dell’importanza delle istituzioni di autogoverno locali non deve nulla al passatismo nostalgico, ma neppure alla tradizione del repubblicanesimo classico, cara ai rivoluzionari. Per Tocqueville l’interesse privato, l’ambizione personale, costituiscono i sentimenti più autentici e vitali dell’epoca democratica, e da essi occorre partire per ricostruire, quasi paradossalmente, il sentimento civico che fa naturalmente difetto alle società individualiste democratiche.
Gli interessi economici e sociali della maggior parte degli uomini sono infatti circoscritti all’ambito locale ed è a questo livello che può più facilmente svilupparsi l’abitudine alla partecipazione alle istituzioni di governo e, più in generale, la propensione all’azione collettiva attraverso associazioni con le più varie finalità. Non è quindi sull’amore disinteressato per la patria o la comunità che occorre far conto, quanto sull’“interesse ben inteso”, su quello che potremmo chiamare un “egoismo razionale” che spinge l’uomo a rendersi utile ai suoi simili e alla collettività in vista dei benefici economici e sociali a lungo termine che può trarne: “per conquistarsi l’affetto e il rispetto della popolazione che vi circonda, è necessaria una lunga successione di piccoli favori resi, di oscuri buoni uffici, un’abitudine costante alla benevolenza e una reputazione consolidata di onestà”. La coesione sociale non nasce quindi da un’adesione emotiva, da un sentimento a priori di appartenenza, ma dall’esperienza di condivisione di progetti e pratiche concrete.
Altrettanto, se non più fondamentale è però il ruolo della religione. Il cristianesimo, e soprattutto il cattolicesimo, può dunque costituire un contrappeso etico al materialismo connaturato alla società democratica e al dispiegarsi senza freni dell’egoismo individuale. E questo è possibile perché per Tocqueville la contrapposizione fra religione e democrazia è solo un malinteso contingente, dato che proprio il cristianesimo, con la sua sottolineatura della fratellanza degli uomini e della loro uguaglianza di fronte a Dio, è all’origine storica della dinamica inarrestabile della democrazia. Ancora una volta Tocqueville prende le distanze sia dalla tradizione della cultura politica che si richiama all’Illuminismo e alla grande rivoluzione, ostile al cattolicesimo, sia dalla riproposizione dell’alleanza fra trono e altare degli ultras della restaurazione.
La Francia, l’antico regime e la Rivoluzione
Con il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 Napoleone III inaugura una lunga parentesi di governo autoritario che spinge lo stesso Tocqueville a ritirarsi definitivamente dalla vita politica attiva dopo aver ricoperto cariche importanti, tra le quali quella di ministro degli esteri nel 1849. La svolta politica sembra anche dimostrare l’incapacità della Francia di coniugare stabilità e libertà. Questo fallimento è all’origine dell’altra grande opera, meno nota, di Tocqueville, L’Ancien Régime et la Revolution, [L’antico regime e la Rivoluzione], rimasta incompiuta per la morte dell’autore il 16 aprile 1859.
La dittatura bonapartista, con il suo fondamento plebiscitario, rappresenta qualcosa di profondamente diverso dall’assolutismo dell’antico regime e sembra confermare i timori di Tocqueville sul possibile avvento di nuove forme di dispotismo compatibili con la natura ormai “democratica”, nel senso di egualitaria, delle società europee moderne. Se nella Democratie en Amerique Tocqueville ha analizzato le ragioni del successo americano nel coniugare uguaglianza e libertà, nella sua ultima opera cerca invece le ragioni storiche dello speculare fallimento francese.
La democrazia come uguaglianza è l’approdo inevitabile delle società moderne, ma le modalità e gli esiti politici e istituzionali di questo approdo possono essere molto diversi. “Smettiamo dunque di considerare il popolo americano come il modello per ogni nazione democratica”, ammonisce Tocqueville. L’America è al tempo stesso un modello e un’eccezione perché è una nazione senza precedenti storici. In Europa, e in Francia in particolare, la storia fa invece sentire tutto il suo peso.
La grande rivoluzione, esaltata o deprecata, era considerata universalmente uno spartiacque epocale. Per repubblicani e liberali essa era l’alba di un nuovo mondo, per i legittimisti una catastrofe senza redenzione. Ancora una volta l’analisi di Tocqueville rimescola le carte intellettuali e politiche. La Rivoluzione più che un momento di discontinuità rappresenta l’accelerazione e il compimento di processi storici plurisecolari. L’assolutismo monarchico aveva infatti preparato il terreno al dispotismo “democratico” giacobino o bonapartista, concentrando il potere nelle mani del governo centrale e smantellando sistematicamente tutti quei contrappesi, come l’influenza politica delle nobiltà, che nella società tradizionale limitavano il potere del monarca. L’assolutismo ha quindi contribuito potentemente all’affermazione dell’uguaglianza sociale, rendendo però gli uomini uguali nella comune servitù a un potere che si voleva assoluto. A loro volta, i rivoluzionari, ossessionati dal dogma dell’unità inscindibile della nazione, impauriti dai movimenti separatisti e minacciati dalla controrivoluzione interna ed esterna, hanno compresso ogni forma di autonomia locale e soffocato il pluralismo politico.
La tirannia dell’“opinione comune”
Per una società democratica, la forma forse più insidiosa di dispotismo non è però quella esercitata da un potere centrale senza contrappesi, ma quella delle opinioni della maggioranza. Il principio d’autorità in campo morale e intellettuale non è infatti assente nelle società democratiche, solo agisce in modo diverso da quanto accade nelle società “aristocratiche”. In queste ultime, l’abitudine alla diseguaglianza di potere, ricchezza e cultura, rende gli uomini disposti ad accettare le opinioni dei loro superiori sociali e a conformarsi a esse. Quando invece la stessa nozione di superiorità sociale è rifiutata, viene meno ogni disponibilità a riconoscere una superiorità morale e intellettuale individuale, ma, osserva Tocqueville, “questa uguaglianza che rende l’uomo indipendente da ciascuno dei suoi concittadini individualmente preso, lo lascia isolato ed esposto senza difesa a l’azione della maggioranza”. Rispetto a questa insidiosa forma di tirannia, gli Stati Uniti sembrano ancora più vulnerabili, proprio perché qui il processo di livellamento è più avanzato e la considerazione per la cultura e i saperi astratti minore: “negli Stati Uniti la maggioranza si incarica di fornire agli individui una folla di opinioni già pronte, sollevandoli così dall’obbligo di formarsene di proprie”.
Anche in quest’ambito, Tocqueville accorda alla religione un ruolo privilegiato: “Le idee generali relative a Dio e alla natura umana sono dunque tra tutte le idee quelle che conviene meglio sottrarre all’azione abituale della ragione individuale e per la quale c’è più da guadagnare che da perdere riconoscendovi un’autorità”. La delegittimazione di ogni autorità religiosa, quale quella operata in Francia nel periodo prerivoluzionario e rivoluzionario produce conseguenze perniciose. Innanzitutto perché rende ardua la formazione di un comune sentire su temi fondamentali, e quindi fragilizza la società e la espone ulteriormente al rischio del dispotismo: “Personalmente dubito che l’uomo possa mai sopportare, a un tempo, una completa indipendenza religiosa ed un’intera libertà politica. E sono anche indotto a pensare che, se non ha fede, occorre che obbedisca, mentre, se è libero, è necessario che creda”.
Inoltre, nella società democratica, l’oblio della dimensione religiosa conduce a un completo abbandono di ogni dimensione spirituale e all’assorbimento dell’esistenza individuale nelle preoccupazioni materiali quotidiane che monopolizzano la vita dell’homo democraticus. È infatti solo grazie alla religione che, “di tanto in tanto, l’Americano si estranea in qualche modo da sé stesso e, tirandosi fuori per un momento dalle piccole passioni che agitano la sua vita e dagli interessi momentanei che la riempiono, penetra, per un attimo, in un mondo ideale dove tutto è grande, puro, eterno”.
La trama del tempo e l’esprit de famille
Vi è un’altra dimensione, quella temporale, nella quale il sentimento religioso può offrire un contributo importante alla correzione di una deriva indesiderabile della società democratica. “Le religioni – afferma Tocqueville – infondono l’abitudine generale a comportarsi in vista dell’avvenire”.
Se sul piano sincronico l’individualismo allenta i legami fra uomo e uomo, in primo luogo i legami di solidarietà famigliare, sul piano diacronico esso spezza i legami fra le generazioni: “Nel movimento continuo che agita la società democratica, il legame che unisce le generazioni tra loro si allenta o si spezza. Ciascuno smarrisce le tracce delle idee dei suoi antenati o non se ne preoccupa affatto”. Quindi “presso le nazioni democratiche, ogni nuova generazione è un nuovo popolo”. L’avvento della democrazia comporta quindi anche la transizione a una prospettiva esistenziale tutta risolta nel presente e alla perdita di senso della temporalità. È questa frattura a rendere inutile la conoscenza del passato per la comprensione del presente. La modernità si presenta come una rottura radicale con il passato, che cessa di essere una risorsa di intelleggibilità (e di legittimazione) per l’avvenire: “Poiché il passato non rischiara più l’avvenire, lo spirito avanza nelle tenebre”. Questa frattura è però anche avvertita come un depauperamento estetico: “L’aristocrazia conduce naturalmente lo spirito umano alla contemplazione del passato e ve lo fissa. La democrazia, al contrario, induce negli uomini un’istintiva avversione per tutto ciò che è antico. Per questo l’aristocrazia è ben più favorevole alla poesia, perché le cose appaiono più grandi man mano che ce ne allontaniamo […]”.
Il punto d’osservazione privilegiato per analizzare queste molteplici discontinuità della modernità è l’istituzione famigliare, caratterizzata da un modo di porsi totalmente differente rispetto alla famiglia come istituzione fondamentale della società aristocratica. “Presso i popoli aristocratici – scrive Tocqueville – le famiglie conservano per secoli la stessa condizione e spesso risiedono negli stessi luoghi. Questo rende, per così dire, contemporanee tutte le generazioni. Un uomo conosce quasi sempre i suoi avi e li rispetta. Crede di poter scorgere i suoi pronipoti e li ama. Sente di avere dei doveri nei confronti di entrambi e spesso giunge a sacrificare il suo vantaggio personale in nome di esseri che non esistono più o non ancora”. Il concetto di esprit de famille, riassume questa presunta e auspicata dedizione di coloro che vivono in una società tradizionale, a un interesse sovraindividuale, quello appunto della conservazione e, se possibile, dell’accrescimento del prestigio della casata, e a una prospettiva di lungo periodo, radicata nel passato ma anche proiettata nel futuro. Una prospettiva diventata impensabile nella società democratica, individualista e ripiegata sul presente.