Tolleranza
1. La fine della tolleranza
Nel 1791 Thomas Paine sosteneva in The rights of man che la Costituzione francese "aveva abolito la tolleranza, o rinunciato a essa, ma aveva fatto la stessa cosa con l'intolleranza, e aveva stabilito un diritto universale di coscienza": infatti la tolleranza, che concede la libertà di coscienza, è una forma di 'dispotismo' come l'intolleranza, che la toglie. Effettivamente la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 aveva inserito la tolleranza entro la libertà di opinione, stabilendo all'art. 10 che "nessuno deve essere importunato per le sue opinioni, neppure per quelle religiose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge". Traspariva qui una certa diffidenza per le opinioni religiose, assente dai documenti costituzionali americani originari. Il Bill of rights della Virginia (sez. 16) stabiliva che "la religione, ossia il dovere che abbiamo nei confronti del nostro Creatore, e il modo di ottemperare a esso possono essere diretti soltanto da ragione e convinzione, non da forza o violenza; e perciò tutti gli uomini hanno il medesimo titolo al libero esercizio della religione, secondo il dettato delle coscienze; ed è mutuo dovere di tutti praticare sopportazione, amore e carità cristiani l'uno verso l'altro". La Declaration of rights della Pennsylvania (art. 2) sanciva che "tutti gli uomini hanno un diritto naturale e inalienabile ad adorare Dio onnipotente secondo il dettato della propria coscienza e intelletto". Questi toni in parte furono sfumati nel Bill of rights della Costituzione americana, che con il primo emendamento poneva la libertà religiosa accanto alle altre libertà, senza richiamare doveri religiosi o invocare coscienza e ragione. Inoltre, per evitare la ricostituzione di una Chiesa di Stato, vietava "leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione o per proibire il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica".I documenti costituzionali scritti nel corso delle due rivoluzioni settecentesche, che per Paine avevano chiuso la storia della tolleranza, erano l'esito di due percorsi lungo i quali la sua storia si era snodata. Uno passava per il riconoscimento della tolleranza come un tratto intrinseco della religione, specialmente cristiana, l'altro conduceva a un'affermazione più ampia di libertà, non soltanto religiosa, di cui la tolleranza era solamente una tappa.
2. La preistoria della tolleranza
All'inizio del VII secolo d.C. Isidoro da Siviglia (Etymologiorum VI, 16; VIII, 3-5) poteva dichiarare che, da quando Costantino aveva concesso loro di praticare liberamente la propria religione, tra i cristiani non c'erano più state divisioni, anche perché dopo di allora i grandi Concili, da quello di Nicea del 325 a quello di Calcedonia del 451, avevano fissato i dogmi principali. Del resto i cristiani avevano ereditato l'abitudine di distinguersi in gruppi al proprio interno dagli ebrei, che si erano divisi in farisei, sadducei ed esseni, e dalle scuole filosofiche greche: 'eresia' deriva dalla parola greca háiresis, che significa appunto 'scelta' e finché si trattava di filosofia, ciascuno poteva scegliere come voleva la scuola cui aderire. Accanto all'eresia Isidoro poneva la setta, che è una separazione interna alla Chiesa in fatto di culto, e lo scisma, che non comporta differenze nelle credenze o nel culto, ma una separazione da altri credenti, considerati ingiusti o impuri.Erano stati gli ebrei dell'età di Filone a usare la parola háiresis per indicare la divisione fra sadducei, farisei ed esseni, ma nessuna delle sette era esclusa dalla comunità ebraica né correva il pericolo di subire una persecuzione. Gli ebrei praticavano una rigida chiusura nei confronti delle pratiche religiose degli altri popoli, che consideravano idolatri: perciò, anche dopo aver perso l'autonomia politica, si opponevano all'ingresso dei loro culti nel proprio territorio, ma accettavano la promiscuità religiosa nelle altre parti del mondo ellenistico.I cristiani, che da principio si considerarono, e furono considerati dai pagani e dagli ebrei, un gruppo ebraico, nel momento in cui decisero di portare anche ai gentili il proprio messaggio non diedero più un'interpretazione territoriale del rifiuto ebraico dell'idolatria: perciò respinsero i culti pagani, ovunque li incontrassero. E in parte su questo atteggiamento si fondò la persecuzione romana contro di loro.
Per i pagani la religione era un aspetto importante dell'ordine sociale, ma non lo era altrettanto l'unità religiosa, che del resto non era concepita come un'unità dottrinale. In Grecia era un reato l'empietà (asébeia), cioè la mancanza di rispetto per gli dei e per le cose sacre, ma in generale nel mondo antico i culti stranieri potevano essere ospitati nella comunità, oppure si poteva procedere contro le innovazioni religiose considerate inaccettabili, come quella di cui fu accusato Socrate; e contro i filosofi o retori si levavano di tanto in tanto ostilità. Ma non si ha notizia di tentativi di stabilire un corpo di credenze religiose sul quale vigilassero dei sacerdoti. A Roma, all'inizio del II secolo a.C., fu repressa una manifestazione dei seguaci di Bacco, ma non se ne fece una questione di ortodossia religiosa. All'ortodossia religiosa pensarono semmai i filosofi: Socrate pretendeva di avere una specie di mandato divino, Platone codificò precise credenze religiose, polemizzò contro l'ateismo, e nella città ideale descritta nelle Leggi immaginò un tribunale apposito con il compito di inquisire le opinioni religiose dei cittadini.Invece per i cristiani l'unità dottrinale diventò importante quando, oltre a difendere la propria posizione di fronte alle autorità romane, dovettero respingere lo gnosticismo, una religione simile a quella che i filosofi antichi non erano mai riusciti a fondare. In queste circostanze nacque una teologia cristiana, e Ireneo e Tertulliano costruirono l'immagine di una tradizione cristiana uniforme, che si pretendeva risalisse agli Apostoli e che dava diritto di escludere tutti coloro che se ne discostassero. Quando gli imperatori romani si furono convertiti, l'ortodossia cristiana diventò la base per esercitare la repressione religiosa. A partire dal 381 l'imperatore Teodosio emanò le leggi contenute nelle sezioni de haereticis e de apostatis del Codice teodosiano, nelle quali erano considerati eretici coloro che deviavano anche di poco dalla dottrina stabilita dal Concilio di Nicea. E con il Concilio di Calcedonia del 451 ortodossia, eresia e scisma diventavano distinzioni non soltanto religiose ma anche politiche.
A più di cinquecento anni di distanza da Isidoro e dopo più di un millennio di cristianesimo Tommaso d'Aquino avrebbe trovato un panorama religioso molto meno unitario. C'erano ancora gli ebrei, e a essi si erano aggiunti i musulmani. L'Islam, per il quale appartenenza politica e religiosa dovevano coincidere, di fatto tollerava cristiani ed ebrei, pur non riconoscendo loro diritti politici. Ma la guerra aperta tra musulmani e cristiani aveva provocato un irrigidimento interno al mondo cristiano e a quello islamico, e il cristianesimo si era di nuovo trovato alle prese con le eresie. I nuovi eretici, più che la Trinità o la divinità di Gesù, mettevano in discussione la gerarchia ecclesiastica, il potere e la ricchezza della Chiesa, e si richiamavano alla povertà evangelica.Tommaso riteneva che si potessero tollerare, cioè sopportare, i culti di musulmani ed ebrei, accettando le diversità che Dio stesso non sopprimeva. D'altra parte era non peccato, ma "semplice negazione", quella di chi non aveva accolto la fede, della quale non aveva potuto ascoltare l'annuncio. Agli infedeli si poteva resistere anche con la guerra, ma non si poteva esercitare su di loro nessuna costrizione, neppure per indurre i prigionieri a convertirsi. Gli eretici erano però tutt'altra cosa, perché avevano prestato il loro assenso a Cristo, ma poi avevano "corrotto" le credenze cristiane con novità suggerite dalla "loro propria mente". Essi non dovevano essere "tollerati" e, dopo uno o due tentativi di costringerli a tener fede alla promessa, con la quale si erano legati a Cristo, si doveva cacciarli dalla comunità e affidarli "al giudizio secolare, perché fossero sterminati dal mondo con la morte" (Summa theologiae, II IIae, qq. 10-11).
3. Il primato della fede
Tommaso aveva posto a fondamento della propria teoria della tolleranza di ebrei, pagani e musulmani l'idea di Agostino che la fede, opera della grazia, non può essere imposta dagli uomini. Questa interpretazione diventò centrale nel concetto di libertà cristiana ampiamente utilizzato dalla Riforma protestante. Nell'opuscolo Sulla libertà cristiana Martin Lutero sosteneva che Gesù, liberata l'umanità dalla legge religiosa ebraica, aveva fatto della fede in Cristo la sola condizione per la salvezza, mentre le leggi civili ed ecclesiastiche servivano soltanto per mantenere l'ordine e disciplinare il culto. Ma i principali rappresentanti della Riforma non erano disposti a discutere anche i dogmi del cristianesimo, che erano serviti a distinguere i veri cristiani dagli eretici. Così nel 1553 Calvino fece condannare al rogo Michele Serveto che nel 1531 aveva pubblicato De Trinitatis erroribus. Calvino non si rifaceva all'interpretazione tomistica dell'eresia come rottura di una promessa, ma si appellava all'Antico Testamento, che assegnava ai re la punizione di coloro che offendevano Dio: negare gli articoli di fede era una bestemmia contro la divinità e anche uno scandalo che poteva essere contagioso. Contro la decisione di Calvino, in De haereticis an sint persequendi del 1554, Sebastiano Castellione sostenne che le disparità dottrinali sono eresie quando c'è ostinazione nel difendere degli errori e che l'eretico può essere allontanato dalla comunità soltanto dopo molti pazienti tentativi di persuasione, perché la fede è una credenza, che può essere corretta con interventi puramente spirituali, e il cristianesimo è fatto di amore. Nei Satanae stratagemata del 1565 Giacomo Aconcio rilevava che i persecutori, non gli eretici, sono ostinati, insofferenti di critica, mossi da ambizioni personali, veri strumenti di Satana e nemici della fede.
Nell'aspettativa dei protestanti la libera manifestazione della fede avrebbe dovuto condurre all'unità dei credenti, ma le cose sembravano andare in un'altra direzione: i protestanti non riuscivano a darsi un'unità neppure al proprio interno, e il concetto di eresia, uno strumento essenziale per garantire l'uniformità religiosa, rischiava di diventare inutilizzabile. Questo processo giunse all'estremo nell'Inghilterra del Seicento, dove i puritani esaltarono la molteplicità delle comunità ecclesiastiche come un tratto proprio del cristianesimo e la tolleranza diventò un vero e proprio programma positivo. Nell'Epistola de tolerantia John Locke sostenne che le credenze speculative (articoli di fede che richiedono soltanto di essere creduti) non possono essere introdotte per opera della legge civile, perché credere non dipende dalla nostra volontà e perché le credenze non hanno nessuna relazione con i diritti civili degli altri uomini. Invece il magistrato non deve tollerare nessuna credenza pratica, cioè capace di agire sui rapporti tra gli uomini, che metta in pericolo la società umana e sia in contrasto con le leggi morali, presupposto necessario di qualsiasi società umana. Il magistrato può imporre o vietare atti esterni indifferenti, cioè né buoni né cattivi, purché il suo intervento promuova l'utilità pubblica. Gli atti moralmente indifferenti sui quali il magistrato non interviene, e che pertanto sono leciti se compiuti da singoli cittadini, non possono diventare illeciti o obbligatori se fanno parte di un culto divino; anzi in questo caso escono dalla competenza del magistrato ed entrano nella sfera della Chiesa, perdendo ogni connessione con le cose civili. Perciò il magistrato non può imporre con la legge civile riti o cerimonie di culto divino, perché tutto ciò che si offre a Dio nel culto ha una ragion d'essere solo se viene ritenuto una cosa grata a Dio da parte di coloro che lo praticano.Una Chiesa deve far rispettare la propria disciplina prima con esortazioni e moniti e poi anche con la scomunica, ma questa non deve avere effetti sui beni materiali e sui diritti politici degli scomunicati. Né Chiese diverse devono pretendere di avere la supremazia l'una sull'altra per intervento del magistrato, ma devono tollerarsi reciprocamente. Pertanto le cariche religiose valgono soltanto all'interno della Chiesa cui appartiene chi ne è titolare, ma non possono essere accompagnate da forme di potere su coloro i quali non ne sono membri. La Chiesa è una società libera e volontaria, nella quale non si deve essere costretti a entrare e dalla quale si deve poter uscire senza subire conseguenze di carattere civile.
La tolleranza è la caratteristica di un'autentica Chiesa cristiana: l'amore (la principale virtù cristiana), e non la perfetta coincidenza delle credenze, rende cristiana una comunità. È eretico tanto chi si separa per divergenze su credenze non chiaramente contenute nella Scrittura quanto chi caccia i confratelli per la stessa ragione, e non sono necessariamente eretici il singolo o la minoranza che rifiutano la disciplina ecclesiastica. Accusare i confratelli di essere eretici e separarsi da essi è un tradimento dello spirito del cristianesimo, soprattutto se si pretende che il potere politico perseguiti coloro che sono stati scomunicati e li escluda dalla società politica. E la stessa cosa vale per lo scisma che, come l'eresia, è una separazione, ma riguarda il culto e la disciplina ecclesiastica in senso proprio. Anche in questo caso è scismatico chi provoca la separazione per aspetti del culto non importanti e non contenuti con parole esplicite nella Scrittura.Locke escludeva dalla tolleranza cattolici e atei: i primi perché ritengono di poter rivolgersi a un potere spirituale capace di scioglierli da impegni e promesse e perfino dall'obbedienza al loro sovrano, i secondi perché solo il riferimento alla divinità rende attendibili patti e promesse. Locke riteneva che la tolleranza avrebbe assicurato concordia e tranquillità alla società civile, perché Chiese diverse, ciascuna privata di potere politico, avrebbero potuto convivere in pace e nessuna di esse avrebbe potuto costituire una minaccia per il sovrano.Dopo la fine della monarchia Stuart il Toleration act introdusse la tolleranza in Inghilterra, non proprio secondo la teoria lockiana, perché continuò a riconoscere il primato della Chiesa anglicana. Il protestantesimo non anglicano, erede delle tradizioni puritane, serbò traccia delle idee di Locke, e un progetto politico compatibile con quelle idee ispirò i documenti che misero capo alla Costituzione americana, anche se essi si rifacevano direttamente alla tradizione puritana, senza passare attraverso le teorie lockiane. E così Paine poteva ritenere che dopo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino fosse incominciata l'era della libertà, nella quale la tolleranza non era più necessaria.
4. La tolleranza protetta
Il caso Serveto contribuì a disseminare in Polonia, Olanda e Inghilterra coloro che vedevano nella Riforma anche la possibilità di rivedere i dogmi, e in Olanda essi si scontrarono con i calvinisti, quando Jacob Harmensz (Arminio) osò negare il dogma calvinista della predestinazione. I suoi seguaci cercarono la protezione delle autorità politiche, alle quali chiesero di promuovere la concordia religiosa puntando sulle sole credenze fondamentali contenute nella Scrittura. E per gli arminiani le verità fondamentali del cristianesimo erano pochissime, facilmente riconoscibili attraverso l'esame individuale del testo sacro, condotto dalla ragione liberata dal vincolo dell'autorità. Gli arminiani riferivano anche alle credenze, e non solo al culto, la distinzione tra aspetti necessari e aspetti indifferenti della religione, che era stata utilizzata in Germania dai luterani per cercare un compromesso con i cattolici, e riconoscevano alle autorità politiche un potere di intervento anche in questa materia. Su questa base i protettori politici degli arminiani instaurarono una specie di 'tolleranza protetta', fondata sulla proibizione di propagandare le dottrine che dividevano i fedeli, confinate tutte nella sfera delle cose indifferenti.
I fondamenti teorici di questo programma furono stabiliti da Ugo Grozio nel De imperio summarum potestatum circa sacra, pubblicato postumo nel 1647. Grozio attribuiva al sovrano il potere di intervenire anche sulle cose sacre, per tutto ciò che non è contenuto nella Scrittura e può giovare alla concordia. La Chiesa non è una forma di potere, i pastori non hanno funzioni di comando, nemmeno all'interno della Chiesa, e possono solo persuadere o spiegare. I governanti possono consultarli come farebbero con dei medici, ma debbono accertarsi che siano dotti e pii. Se il sovrano supera i propri limiti perde la capacità di imporre obbligazioni, ma non è lecito resistergli con la forza, neppure quando si tratta di religione, perché la scorrettezza di un atto non comporta la sua nullità, e nessuno può essere esonerato, in nessun campo, dall'obbedienza al sovrano che sbagli. Grozio riconosceva l'intangibilità della fede e della coscienza, ma riconosceva all'autorità politica il potere di vietare ogni forma di discussione pubblica intorno a credenze che non fossero condivise e potessero suscitare divisioni. Il programma arminiano fu ripreso da Spinoza nel Tractatus theologico-politicus, pubblicato nel 1670, nel quale la legislazione ecclesiastica veniva interamente assorbita nella sfera politica. Obbedire alle leggi di una società politica che faccia coincidere nella misura maggiore possibile l'utilità di ciascuno con quella di tutti significa seguire la propria ragione, perché quanto più uno Stato di questo genere è forte tanto più lo sono i suoi membri; ma è anche obbedire al comando eterno di Dio, che esercita la propria autorità sul mondo attraverso i dettami della ragione naturale, fondamento del potere politico. Perciò le autorità politiche devono poter regolare anche la vita religiosa e nessuno può far valere obbligazioni religiose all'infuori dei magistrati civili. Ma Spinoza riconosceva che, quando non è in questione l'utilità dei singoli e di tutti, i pareri su questioni speculative sono liberi: in questo senso non si può reprimere la coscienza e perciò, mentre si può regolare il culto esterno, ciascuno deve poter esprimere anche il proprio dissenso, purché non pretenda di trasformare il giudizio privato in legge da imporre ad altri. Quando nel corso degli anni ottanta del Seicento, sempre in Olanda, formulò una teoria della tolleranza, anche Pierre Bayle osservò, come Spinoza, che paesi privi di unità religiosa possono essere pacifici e prosperi, perché esistono leggi morali, che la ragione detta in modo evidente agli uomini e che sono fondamento e limite del potere politico, ma anche della religione. Infatti i dettami pratici della ragione sono il terreno comune alle fedi religiose e la rivelazione va interpretata in modo da evitare ogni contrasto con essi. La coscienza, incoercibile e inaccessibile da parte degli uomini, è il terreno riservato alla divinità, ma essa si riferisce a credenze che possono essere varie, ma non sono rilevanti per l'ordine politico e la pace della comunità.
L'idea che gli aspetti importanti della religione coincidessero con il contenuto della ragione naturale e che le credenze per le quali le religioni sono diverse fossero soltanto modi attraverso i quali i dettami della ragione si adattano alle capacità di comprensione degli uomini risaliva alla cultura medievale: Boccaccio aveva parlato delle religioni ebraica, cristiana e islamica come di tre anelli indistinguibili. E la cultura rinascimentale aveva nutrito il progetto di una religione filosofica capace di risolvere i conflitti tra i seguaci delle diverse religioni. Questo progetto a volte aveva messo capo a trasfigurazioni filosofiche dei dogmi cristiani, costruite utilizzando gli strumenti del neoplatonismo, a volte aveva favorito un atteggiamento scettico nei confronti delle differenze tra i diversi credo religiosi. Il primo indirizzo aveva ispirato la tolleranza immaginata da Tommaso Moro in Utopia (1516): in questa città ideale i cittadini possono professare religioni diverse, ma concordano in una specie di religione naturale, che ammette la provvidenza divina e giuste ricompense dopo la morte. Chi nega questi pochi principî può essere considerato eretico, ma non dovrebbe subire punizioni. Lo stesso Moro aveva cambiato idea dopo il 1533, ricuperando il concetto di eresia e giustificando la persecuzione contro gli eretici. In lui, come in parte in Erasmo da Rotterdam, si era manifestata la delusione per il fatto che dalla Riforma non era nato un cristianesimo filosofico e comprensivo.
Lungo una direzione del tutto diversa si era mosso Montaigne che nei Saggi, usciti tra il 1580 e il 1588, era arrivato a quello che è stato spesso considerato un atteggiamento scettico di fronte alle differenze religiose. Una religione unitaria era ormai impossibile, e appartenere a un gruppo religioso piuttosto che a un altro pareva a Montaigne un fatto casuale, come essere di un paese piuttosto che di un altro. Del resto nel 1598 la Francia avrebbe conosciuto la fine delle guerre di religione soltanto con l'editto di Nantes, che riconosceva la divisione del paese in zone a predominanza protestante e zone a predominanza cattolica. A questa soluzione aveva condotto l'opera di quelli che venivano chiamati politiques proprio perché vedevano in uno Stato non legato a nessuna confessione il mezzo per stabilire la pace religiosa. Tra i fautori di questa soluzione, pur con qualche tentennamento, c'era anche Jean Bodin, che nell'Heptaplomeres riprendeva l'idea di una concordia universale tra tutte le religioni. Ma Bodin non pubblicò quest'opera, mentre in De la république del 1577 dichiarò normale la presenza di credenze religiose diverse in un medesimo paese.
Bayle aveva voluto rispondere alla revoca dell'editto di Nantes nel 1685, un evento che ebbe ripercussioni fin oltre la metà del Settecento. Nell'Esprit des lois (1748) Montesquieu avvertiva che il sovrano non ha molto potere sulla religione, e perciò farebbe bene a non avvalersene per governare, ma anche a non reprimerla. E dopo il 1750 la Francia fu inondata da scritti sulla tolleranza, tra i quali il maggior successo toccò a quelli di Voltaire, pubblicati tra il 1763 e il 1766 intorno ai casi Calas e Sirven, e soprattutto al Trattato sulla tolleranza del 1763. Si trattava di scritti polemici, non paragonabili per elaborazione concettuale alle opere di Locke, di Spinoza o di Bayle. Ma Voltaire riconduceva la tolleranza alla regola aurea (non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fatto a se stessi), espressione della legge morale, e in questo modo riprendeva la tesi che l'ordine civile si fonda sulla legge morale razionale, la quale protegge anche le differenze religiose, sebbene spesso i credenti siano spinti a perseguitare chi non la pensa come loro.
L'idea che Stato e religione costituiscano due sfere distinte e che lo Stato debba assicurare soprattutto la pace religiosa affidandosi alle semplici leggi morali, senza intervenire troppo nelle materie religiose, avrebbe messo capo all'art. 10 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Fin da allora, ancor prima di Paine, ci fu chi ebbe l'impressione che una storia fosse finita: per Mirabeau la tolleranza ha in sé qualcosa di oppressivo, perché considera positiva la semplice sopportazione, mentre la vera libertà dovrebbe rendere inutile la parola stessa tolleranza. E così con la Costituzione del 1791, che riconosceva al titolo I "la libertà di ciascuno di esercitare il culto religioso al quale tiene", e con la Dichiarazione dei diritti della Costituzione del 1793, che all'art. 7 menzionava "il diritto di manifestare il proprio pensiero e le proprie opinioni", ma stabiliva anche che "il libero esercizio dei culti non può essere proibito", si affacciava la tendenza a ricondurre la tolleranza alla libertà e a fare della religione un'opinione privata.
Tuttavia gli stessi legislatori ritennero che lo Stato dovesse organizzare una forma pubblica di religione, della Dea ragione o dell'Ente supremo, progetti che sono stati ricondotti all'influenza della filosofia di Rousseau. Rousseau aveva indicato nella teocrazia una minaccia non tanto per la libertà dei singoli, quanto per il potere civile dei sovrani, e aveva scorto forme di teocrazia anche nella struttura interna dei piccoli gruppi religiosi, pur disposti a tollerarsi reciprocamente. Tutto risaliva al cristianesimo. Nel Contratto sociale (IV, 8) Rousseau sosteneva che la "religione dell'uomo", contenuta nel Vangelo, "rompe l'unità sociale" e mette l'uomo in contraddizione con se stesso, mentre la "religione del cittadino" è buona, perché "riunisce il culto divino e l'amore delle leggi" e fa "della patria l'oggetto dell'adorazione dei cittadini". Poiché una religione civile angusta potrebbe rendere gli uomini intolleranti e sanguinari, il sovrano dovrebbe ridurre gli articoli di "una professione di fede puramente civile" a pochi dogmi: "l'esistenza della Divinità [...] benevola [...] e provvidente, la vita futura, la felicità dei giusti, la punizione dei cattivi, la santità del contratto sociale e delle leggi". L'autorità politica "non può obbligare nessuno a credere in essi, ma può bandire dallo Stato chiunque non crede in essi". Tuttavia si potrebbero "tollerare tutti coloro che tollerano gli altri, per quel tanto per cui i loro dogmi non contengono nulla che sia contrario ai doveri del cittadino". Così Rousseau, riprendendo temi che erano stati propri di Bayle e di Spinoza e che rientravano nel filone della tolleranza autoritaria, salvava il cristianesimo, collocandolo nell'ambito delle credenze limitate alla vita interiore e alle aspettative sulla vita futura.
La professione pubblica di fede, con la possibilità di espellere o di imporre il silenzio a chi non l'avesse accettata, era stata ammessa da Samuel Pufendorf nel De habitu religionis christianae ad vitam civilem del 1687. Pufendorf era un teorico della divisione territoriale tra i diversi gruppi religiosi, che aveva ispirato l'editto di Nantes ed era stata realizzata più sistematicamente in Germania dopo la pace di Westfalia. Ma in Germania c'era anche chi, come Lessing, aveva ripreso l'idea umanistica della parità tra le diverse religioni. Mentre Locke e coloro che facevano della tolleranza un fine in sé, dotato di un proprio valore religioso, evitavano di ridurre sia la religione sia la politica alla morale, proprio nella morale cercava la chiave dell'unità religiosa e della connessione tra religione e politica il filone che affidava allo Stato la protezione dall'imposizione religiosa arbitraria. E fu Federico II di Prussia che fondò un ampio programma di tolleranza sull'idea della superiorità morale dello Stato rispetto alle fedi religiose. Quando dovette affrontare le restrizioni ecclesiastiche tornate in vigore dopo Federico II, nella Risposta alla domanda: che cos'è illuminismo Kant riprese i temi tipici della tolleranza autoritaria, riconoscendo che l'ordine politico è fondato sull'obbedienza, tanto che in privato nessuno può appellarsi alla ragione per disobbedire all'autorità politica. Ma accanto all'uso privato c'è un uso pubblico della ragione, quello "che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori". Perciò "un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo la confessione della Chiesa da cui dipende, perché egli è stato assunto a questa condizione: ma come studioso egli ha piena libertà ed ha anche il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri [...] e di fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa".
Kant riteneva che l'uso pubblico della ragione avrebbe condotto a una pura religione razionale, nella quale ravvisava la vera natura del cristianesimo, ma proiettava all'infinito la realizzazione dell'ordine politico fondato sulla legge morale e, a differenza di Rousseau, lo vedeva non localizzato nelle piccole comunità ma proiettato su scala mondiale. Hegel diffidava dell'orizzonte storico infinito e dell'impostazione internazionale delle dottrine kantiane, e preferiva riferirsi a Stati nazionali, che ricordavano piuttosto la piccola comunità di Rousseau. La separazione fra Stato e Chiesa, misconosciuta nel dispotismo orientale, era stata favorita in Europa dalla rottura dell'unità ecclesiastica prodotta dal protestantesimo e aveva permesso il riconoscimento della superiorità dello Stato universale di fronte alle Chiese particolari. Nella Filosofia del diritto Hegel sosteneva che lo Stato deve pretendere che tutti facciano parte di una qualsiasi comunità ecclesiastica senza intromettersi nel contenuto della fede. Ma lo Stato deve anche evitare una scissione con la Chiesa favorita dal fanatismo religioso, cioè dal rifiuto di ogni forma di convivenza politica e civile, della proprietà, del matrimonio, dei rapporti di lavoro e così via: la religione diventerebbe un rifugio in cui sottrarsi allo Stato e la Chiesa potrebbe pretendere una libertà di insegnamento assolutamente incondizionata, lasciando allo Stato soltanto la difesa della vita, della proprietà e della libertà individuale arbitraria. Per evitare tutto ciò occorre uno Stato che si presenti come razionalità e rispetto al quale la Chiesa si muova nella sfera del sentimento e dell'interiorità. Allora esso si configurerebbe come "sapere" rispetto alla Chiesa, cui apparterrebbe la "convinzione soggettiva", e, pur tutelando "la libertà del pensiero e della scienza", vigilerebbe perché religione e scienza, scadute a semplice opinione, non esercitino una funzione "corrosiva della realtà". Lo Stato deve cioè far valere la verità oggettiva e i principî della vita etica. Può farlo uno Stato "forte", che può anche essere "liberale" e accontentarsi di un "adempimento passivo dei doveri" verso se stesso, sopportando comunità religiose che non riconoscano quei doveri, purché non siano troppo numerosi i cittadini che vi aderiscono. Nei confronti di questi gruppi, come i quaccheri e gli anabattisti, lo Stato instaura un rapporto di tolleranza in senso proprio.
5. La tolleranza liberale
Un decennio dopo il Quarantotto che aveva scosso l'Europa, John Stuart Mill scriveva in On liberty che "l'intolleranza è così naturale per gli uomini in tutto ciò che sta loro a cuore, che a stento la libertà religiosa si è in pratica affermata da qualche parte, eccetto dove l'indifferenza religiosa, per la quale non si vuole che la propria pace sia disturbata da dispute teologiche, ha fatto sentire il proprio peso sulla bilancia. Nella mente di quasi tutte le persone religiose, anche nei paesi più tolleranti, il dovere di tolleranza è ammesso con tacite riserve". Paine aveva creduto che la tolleranza fosse stata sostituita dalla più elevata libertà religiosa, mentre Mill ne faceva il prodotto dello scetticismo e dell'indifferenza. Ma lo scetticismo non aveva per lui una connotazione esclusivamente negativa, se giustificava la stessa libertà di pensiero osservando che nessuno è infallibile, e poneva nella discussione pubblica l'unica possibilità di correggere gli errori. Inoltre nessuna opinione è totalmente vera, al punto di non aver bisogno di essere integrata da altre opinioni: le eresie sono talvolta proprio le parti di verità soppresse, che potrebbero benissimo essere accettate per completare verità parziali ammesse, anche se spesso gli eretici pretendono anch'essi di possedere tutta la verità. La libertà di opinione non è un rimedio determinante contro il settarismo e non impedisce che i settari lo diventino ancora di più, ma la discussione giova a chi è disinteressato, e la soppressione della metà della verità è più grave del conflitto violento tra le sue due metà. Per questo "la diversità di opinioni è vantaggiosa e continuerà a esserlo fino a quando l'umanità non sarà entrata in uno stadio di progresso intellettuale che al momento sembra a una distanza incalcolabile"; e per il momento il "conflitto con gli errori opposti è essenziale a un apprendimento chiaro e a un senso profondo della verità". Perciò impedire anche a una sola persona di esprimere la propria opinione "è depredare la specie umana, i posteri come la generazione presente, coloro che dissentono da quella opinione ancor più di quelli che la condividono: se si tratta di un'opinione vera essi sono privati dell'opportunità di ottenere la verità in cambio dell'errore, se è falsa, perdono la possibilità di avere una percezione più chiara e un'impressione più viva della verità dovute al suo scontro con l'errore. E si tratta di un beneficio quasi altrettanto grande".
Secondo Mill solo a paesi che abbiano raggiunto la maturità, nei quali cioè "si possa migliorare per mezzo di una discussione libera e paritaria", si addice "la libertà di coscienza nel senso più ampio, cioè come libertà di pensare e di sentire, libertà assoluta di opinione e sentimento su qualsiasi tema, pratico o speculativo, scientifico, morale o teologico". Mill considerava l'Inghilterra un paese di libertà filosofica e riteneva che uno Stato fondato sulla giustizia e sulla forza e una Chiesa costruita sulla fede e sulla conoscenza vera non debbano temere. La concezione milliana della libertà, che comprendeva anche la libertà di associazione tra "persone mature, non costrette o indotte con l'inganno" a unirsi, purché lo scopo dell'associazione non fosse di arrecare danno ad altri, poteva ricordare la libertà dei moderni di Benjamin Constant: infatti Mill contrapponeva le istituzioni inglesi a quelle continentali, osservando che in Inghilterra, dove "c'è una notevole diffidenza nei confronti dell'interferenza diretta del potere legislativo o di quello esecutivo nella condotta privata", può nascere un individualismo ingiustificato, ma nel continente può instaurarsi la tirannide della maggioranza, che esercita il potere effettivo sotto il principio della sovranità della legge. Di fatto Mill riprendeva un motivo ben radicato nella tradizione inglese, nella quale fin dal 1644 era stato John Milton a difendere nell'Areopagitica la libertà di stampa, sostenendo che leggere libri "di ogni specie" va bene e che la soppressione dei libri, creature vive come le persone, oltre a essere una specie di omicidio, è "uno scoraggiamento di ogni cultura e un ostacolo alla verità", perché impedisce l'esercizio delle capacità che possediamo già e la scoperta di cose ulteriori, che potrebbero essere utili nel campo civile e religioso.
A questo modo Milton ricuperava temi che erano propri della cultura puritana, in primo luogo l'idea che solo la libera convinzione può introdurre fede e verità tra gli uomini. Con Mill, un tema che in Milton era connesso al principio puritano del primato della fede si laicizzava completamente e acquistava un'impostazione spiccatamente individualistica. Mill accostava le proprie alle posizioni di Wilhelm von Humboldt, con il quale diceva di condividere la preoccupazione di conciliare gli interessi della comunità con lo sviluppo dell'individuo. Ma la giustificazione milliana della tolleranza era il contrario di quella fondata sul primato dello Stato, che secondo Mill caratterizzava i paesi dell'Europa continentale. Nonostante avesse subito non poche trasformazioni, restava in Mill molto dell'utilitarismo originario, soprattutto l'idea che fosse possibile un apprezzamento uniforme del danno che gli individui non devono subire e dai quali lo Stato li deve difendere. L'interpretazione difensiva dello Stato poteva far pensare all'ordine politico cui si erano riferiti i teorici della tolleranza protettiva, da Grozio a Hegel. Ma per questi autori quell'ordine si reggeva su leggi razionali che, se apparentemente dovevano garantire la perfetta coincidenza di interessi individuali e interessi collettivi, in realtà presupponevano che gli interessi autentici degli individui fossero quelli compatibili con gli interessi della società: alla fine Hegel aveva contrapposto l'idea di uno Stato liberale forte a quella di uno Stato che si limiti a tutelare libertà individuale e proprietà. Messi in ombra i presupposti religiosi che avevano fondato la teoria della tolleranza sul primato della fede, sembrava che il liberalismo individualistico potesse praticare soltanto una tolleranza intesa come sopportazione di differenze per le quali nessuno dovesse subire danni, anche se Mill aveva sostenuto il valore in sé delle differenze, che contribuiscono all'arricchimento complessivo della società.
Se già con Mill la tolleranza era assorbita nel concetto più generale di libertà politica, l'attenzione per la tolleranza si affievolì nel corso dell'Ottocento e della prima metà del Novecento, via via che la libertà stessa si ancorava all'ordinamento dello Stato e si affermavano il primato dello Stato sulla religione e il modello di tolleranza autoritaria: anche se non si accettava in modo diretto la dottrina hegeliana, quel primato sembrava derivare dalla prevalenza del carattere pubblico dello Stato sul carattere privato della religione. Come traspariva dalle pagine di Rousseau e di Hegel, nonostante i loro riconoscimenti per le dottrine classiche della tolleranza, questa era intesa come una forma di accettazione e perfino di sopportazione di qualcosa che poteva minacciare l'autonomia e la sovranità dello Stato, la sua capacità di formulare una propria religione. A questo si aggiungeva il fatto che lo Stato assumeva sempre più la forma di Stato nazionale, nel quale l'unità territoriale, la centralità amministrativa e l'uniformità legislativa erano i fini più importanti. In questa prospettiva qualsiasi libertà che non fosse garantita dall'ordinamento statale tendeva ad apparire come una falsa libertà, una pretesa infondata. Questo modo di vedere raggiunse il culmine nei regimi totalitari del XX secolo. Nei regimi fascisti la libertà fu fatta consistere nell'identificazione completa dell'individuo con lo Stato nazionale, e a risultati analoghi arrivarono, attraverso un'ideologia diversa, i regimi socialisti che pretesero di garantire quella che Isaiah Berlin avrebbe chiamato 'libertà positiva', contrapposta alla 'libertà negativa', nella quale semmai la tolleranza rientrava.
6. La tolleranza repressiva
La caduta dei regimi fascisti dopo la seconda guerra mondiale risvegliò l'attenzione per il liberalismo anglosassone, ma sollecitò anche atteggiamenti critici, che si ispiravano alla tradizione filosofica tedesca e al marxismo. La teoria classica della tolleranza fu considerata uno degli strumenti con i quali i regimi liberali occultano il proprio collegamento con il capitalismo ed esercitano una forma mascherata di repressione, rendendo marginali tutti i gruppi che possano mettere in discussione il potere dei gruppi dominanti, all'interno dei quali soltanto c'è un certo riconoscimento di reciproca libertà. La presenza di un pubblico dibattito e la ricerca della diversità, per usare due indicatori milliani, non danno una descrizione realistica delle democrazie tradizionali - osservava Barrington Moore jr. in A critique of pure tolerance del 1965 -, che del resto non potrebbero perseguire la diversità anche quando essa potrebbe produrre cambiamenti rivoluzionari.
Nella stessa opera Herbert Marcuse respingeva la proclamazione liberale che la storia della tolleranza era finita, perché "ciò che oggi si proclama e si pratica come tolleranza è [...] al servizio della causa dell'oppressione", mentre la tolleranza, quella autentica, "appare di nuovo ciò che era all'origine, all'inizio dell'età moderna: un obiettivo di parte, un'idea e una pratica sovversiva e liberante", e per realizzarla è necessaria "l'intolleranza verso le politiche, gli atteggiamenti, le opinioni dominanti e l'estensione della tolleranza alle politiche, agli atteggiamenti e alle opinioni che sono banditi o soppressi". Pertanto la tolleranza non può essere universale, perché "la tolleranza liberatrice [...] significherebbe l'intolleranza contro i movimenti di destra e la tolleranza dei movimenti di sinistra", tolleranza e intolleranza che dovrebbero estendersi "allo stadio dell'azione come a quello della discussione e della propaganda, dei fatti come delle parole". Era un capovolgimento della teoria liberale, perché indice di tolleranza autentica diventava la repressione dei gruppi di destra e fascisti e il danno arrecato ai membri delle classi dominanti. In questa trasformazione quello religioso non era più il campo nel quale si esercitano tolleranza e intolleranza, né le Chiese erano gli agenti principali dell'intolleranza. Al posto delle minoranze religiose, protagonisti della tolleranza diventavano ora i gruppi sociali, non interpretabili però in base alla teoria delle classi socialista e marxiana: si trattava piuttosto dei gruppi marginali, come i neri negli Stati Uniti, le donne, i giovani o, sul piano mondiale, i popoli oppressi dal colonialismo.
L'agente principale dell'intolleranza o della tolleranza repressiva era l'organizzazione tecnologica della società, che tende a subordinare il comportamento di tutti gli uomini alle esigenze della tecnica stessa, o come produttori o come consumatori o in entrambi i modi. In questa prospettiva Jürgen Habermas osservava in Strukturwandel der Öffentlichkeit del 1962 che la tolleranza nel senso di Mill era frutto non del riconoscimento positivo del valore della diversità, ma della "rassegnazione di fronte all'insolubilità del problema di una conciliazione razionale degli interessi concorrenti nella sfera pubblica" e dell'incapacità di trovare un "interesse generale". Infatti "nelle società evolute dell'Occidente si sono sviluppati [...] conflitti che [...] divergono dal modello del conflitto distributivo istituzionalizzato proprio dallo Stato sociale" e "sorgono piuttosto in ambiti della riproduzione culturale, dell'integrazione sociale e della socializzazione". I protagonisti della protesta si trovano nei movimenti antinucleare ed ecologico, pacifista, nei movimenti autonomistici che lottano per l'indipendenza regionale, linguistica, culturale, anche per quella confessionale, in minoranze, come quelle di anziani, omosessuali, handicappati, nei fondamentalismi religiosi, o nel movimento delle donne. Sono tutti gruppi che cercano di arginare la tendenza della tecnica a modellare tutta la società e cercano di conservare o realizzare rapporti che hanno per scopo la comunicazione. Soltanto a partire di qui è possibile sostituire la tolleranza rassegnata di stampo milliano con il perseguimento di un autentico interesse generale.
7. La revisione liberale
Le critiche grosso modo ispirate dalla teoria della tolleranza repressiva hanno avuto eco nella cultura liberale. Da un lato essa ha riconosciuto che la condizione posta da Mill (le differenze accettabili non devono arrecare danni a nessuno) è insufficiente, in quanto impone sulla libertà un vincolo dipendente dalla forma della società e dalla distribuzione di potere tra i suoi gruppi. Dall'altro ha ammesso che gli strumenti, disponibili nei regimi liberali capitalistici, per accrescere la ricchezza globale, distribuirla meglio e ampliare la sfera delle differenze compatibili, possono estendere a nuove classi di individui i diritti dei quali avevano goduto soltanto alcuni gruppi, ma non riparare le ingiustizie subite dai gruppi esclusi: le cosiddette azioni 'affermative', cioè le pratiche di discriminazione inversa, che creano condizioni di favore per gruppi svantaggiati, come le donne o, in molte società dominate da bianchi, i neri, devono compensare le disuguaglianze che quei gruppi hanno subito. Inoltre politiche di questo genere prevedono trattamenti diversi secondo il gruppo cui gli individui appartengono, e il gruppo deve essere trattato nel rispetto della sua identità culturale, indipendentemente dai processi nel corso dei quali si producono e distribuiscono le ricchezze. Così, anche in una prospettiva liberale, la tolleranza diventa una questione che coinvolge non tanto gli individui quanto i gruppi, che si configurano non come istituzioni attraverso le quali gli individui prendono parte alla cooperazione sociale, ma sulla base di eredità culturali, definite da appartenenze familiari, di sesso, di etnia o di religione. E la religione, quando tornava ad affacciarsi nelle discussioni sulla tolleranza, era intesa più come un modo in cui il gruppo si definisce, che come una fede.
Nonostante il riconoscimento del fatto che i gruppi da prendere in considerazione sono il risultato di una storia culturale complessa e che il loro trattamento deve essere il frutto di una scelta di giustizia essenzialmente etica, e non di un progetto di ingegneria politica o sociale, oggetto primario della giustizia rimaneva pur sempre la distribuzione equa delle risorse, e il fondamento della tolleranza era costituito dalla possibilità, che ciascuno dovrebbe avere, di realizzare le proprie preferenze morali senza essere in partenza svantaggiato a causa di esse. Per John Rawls in una società giusta di questo genere non si dovrebbero reprimere neppure i gruppi che professano la negazione della tolleranza, anche perché, se non mettono in pericolo la costituzione della società, finiscono col non essere più una minaccia. La tolleranza era così giustificata in parte con ragioni di principio, in parte con considerazioni 'prudenziali', che del resto erano sempre state presenti nelle teorie tradizionali della tolleranza, perché la distribuzione delle risorse continuava a essere considerata lo strumento principale di correzione della società. Tutto ciò sembrava presupporre che differenti modi di intendere le cose, fini da perseguire, culture potessero essere espressi in termini di assegnazione di risorse, e dunque fossero in qualche modo comparabili. Ma da molte parti si sono formulate riserve sulla possibilità di mettere a confronto modi di vita radicalmente diversi, e si sono proposte teorie liberali della giustizia fondate più sul riconoscimento di diritti che sul confronto delle risorse da distribuire. Ronald Dworkin ha proposto di collocare l'uguaglianza non nella "distribuzione di risorse di opportunità", bensì nel trattamento dei cittadini "come uguali, cioè come aventi titolo a uguale interessamento e rispetto".
Via via che si sono allontanate dai progetti ridistributivi di risorse, propri della teoria della giustizia di Rawls, le revisioni del liberalismo hanno dissociato le teorie della tolleranza dalla teoria della libertà, rescindendo il nesso stabilito da Paine e Mill. Se già le azioni affermative esigono interventi nella distribuzione di risorse, che dovrebbero essere guardati con sospetto in base al criterio milliano di evitare danni ai singoli, le proibizioni legali esplicite, per esempio contro la pornografia a tutela della dignità delle donne, possono apparire violazioni della libertà di stampa, e contro la libertà di espressione sembrano andare tutte le proibizioni degli usi linguistici che devono garantire ciò che è stato chiamato 'politicamente corretto'.
8. Il pluralismo.
Le teorie moderne classiche della tolleranza, formulate nell'età dell'eclissi della filosofia morale antica e medievale, hanno utilizzato concetti che, come il primato della legge (morale o positiva) o l'intangibilità dell'individuo, le culture antica e medievale avevano impiegato in maniera soltanto subordinata. Le teorie neoliberali hanno invece ripreso concetti come quello di bene o virtù propri dell'etica filosofica antica, pur evitando di accettarne le tesi che il bene sia unico o che le virtù costituiscano un sistema unitario. In polemica con il liberalismo la riabilitazione della nozione di virtù è stata perseguita in modo radicale da chi ha proposto il ricupero delle nozioni di comunità e di tradizione, le sole che possano permettere di restituire alla virtù il primato che le spetta.
Secondo Alasdair MacIntyre (After virtue, 1981) i neoliberali intendono indebitamente le tradizioni come totalità uniformi e chiuse in se stesse, e non si avvedono che esse possono contenere "corsi di azione alternativi", ciascuno dei quali "deve essere riconosciuto come tale da condurre a qualche bene autentico e sostanziale. Sceglierne uno non significa sminuire le pretese dell'altro"; due tradizioni morali possono essere rivali e tuttavia riconoscersi, e anzi una può aiutare l'altra a meglio comprendersi. Un'interpretazione della società che tenga conto di questa prospettiva dovrebbe soddisfare meglio del liberalismo antitradizionalistico l'esigenza milliana di differenziazione: infatti potrebbe interpretare le differenze come sistemi di virtù, eventualmente alternativi o parzialmente alternativi, e perciò apprezzarli non per il loro eventuale contributo indiretto alla scoperta della verità, ma per i loro meriti intrinseci. Mettendo in primo piano l'appartenenza degli individui a tradizioni e culture si è così sostituita all'idea di tolleranza quella di riconoscimento. Secondo Charles Taylor (Multiculturalism and "the politics of recognition", 1992) "la nostra identità è plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone [...] Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito". Destinatario del riconoscimento non è l'individuo isolato, perché l'identità di ciascuno "dipende in modo cruciale dalle [...] relazioni dialogiche con altri". Il rispetto che la teoria della tolleranza imponeva va rivolto perciò non tanto all'identità individuale quanto alla cultura cui gli individui appartengono. Per questo "recentemente è nata, almeno in un contesto interculturale, una richiesta molto più forte" di quella che chiamava in causa gli individui: "quella di accordare un uguale rispetto a tutte le culture che di fatto si sono formate".
Pur essendo entrambi basati sulla nozione di uguale rispetto, tolleranza e riconoscimento possono entrare in conflitto, perché per la prima "il principio dell'uguale rispetto impone di trattare gli esseri umani in un modo cieco alle differenze [...] Per l'altro dobbiamo riconoscere la particolarità e addirittura coltivarla. La critica che la prima modalità fa alla seconda è che viola il principio di non discriminazione; la critica che la seconda fa alla prima è che nega l'identità facendo rientrare a forza gli esseri umani in uno stampo omogeneo che non è la loro immagine fedele" ed è ricalcato su "una cultura unica ed egemone, cosicché solo le culture minoritarie od oppresse sono costrette ad assumere una forma estranea". La teoria del riconoscimento respinge perciò il primato della libertà intesa come la difesa degli individui dalle intrusioni nella loro sfera privata o come accettazione di un ordinamento statale universale, cieco alle differenze individuali. Anche le revisioni liberali di John Rawls, Ronald Dworkin, Bruce Ackermann, accettando la tesi secondo la quale "i diritti individuali vengono sempre per primi e devono (accompagnati da misure contro la discriminazione) avere la precedenza sui fini collettivi", sotto il pretesto di utilizzare procedure eticamente neutrali, rifiutano "l'idea che un qualsiasi pacchetto di diritti possa avere in un certo contesto culturale un'applicazione diversa da quella che ha in un altro, che la sua applicazione debba tener conto di fini culturali che variano". In gruppi che si riconoscono in una concezione condivisa di ciò che viene descritto come bene e delle prestazioni considerate virtù, spesso connotati etnicamente o percorsi da fondamentalismi religiosi, che vietano ai propri membri condotte legalmente lecite o impongono condotte legalmente non obbligatorie, come abbigliamenti, pratiche sanitarie, usi linguistici, comportamenti sessuali o procreativi e così via, i diritti dei singoli non contano come in una società liberale tradizionale, e il gruppo può pretendere di far valere obblighi nei confronti dei suoi membri. Per riconoscere gruppi di questo genere la società politica deve rinunciare a fare dell'autonomia individuale il proprio scopo principale. Perciò non deve basarsi su una concezione procedurale della giustizia, intesa come garanzia di oggettività e di neutralità rispetto ai contenuti culturali e, anche se non deve sacrificare i diritti individuali fondamentali, deve considerare le culture significative come meritevoli di considerazione e di conservazione attiva. Alla base di tutto ciò sta l'idea che la stessa società politica debba nascere non da intese o compromessi tra interessi, ma dalla condivisione di valori, concezioni del bene e virtù. In questa prospettiva 'tollerare' significa non accettare con sfumature diverse, tutte giustificabili, che vanno dalla comprensione alla sopportazione, ma sostenere e promuovere le forme di cultura alle quali non si appartiene.
Lungo questa strada, sviluppando in parte l'eredità della teoria critica, di ascendenza hegeliana e marxiana, in parte motivi della cultura solidaristica americana, Axel Honnet in Kampf um Anerkennung: zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte (1992) ha sostituito al concetto, ritenuto limitativo, di "tolleranza passiva" quello di "solidarietà", nella quale c'è "una partecipazione affettiva alla particolare condizione individuale dell'altra persona". Così intesa, la solidarietà non esige né una precisa simmetria quantitativa né la postulazione di qualche "finalità collettiva che di per se stessa possa essere fissata quantitativamente in modo tale da consentire un esatto paragone tra il valore dei singoli contributi": esige piuttosto "che ad ogni soggetto sia offerta senza graduazioni collettive l'opportunità di sapersi prezioso per la società, in virtù delle proprie prestazioni e delle proprie attitudini". Le politiche del riconoscimento dovevano affrontare non soltanto i problemi posti dalle violazioni delle libertà individuali all'interno dei gruppi, ma anche le pretese di gruppi particolari di imporre divieti a membri di altri gruppi. Il revisionismo liberale si è sempre più spesso appellato ai diritti individuali, eventualmente sanciti dalle costituzioni e comunque fatti valere dagli organi giudiziari, contro i quali non dovrebbero poter nulla le deliberazioni politiche, neppure quelle delle maggioranze. Invece le teorie che hanno riconosciuto nei gruppi il proprio riferimento hanno dato la preferenza alle decisioni politiche: prodotto di processi che concernono valori e non diritti o interessi, esse possono anche imporre restrizioni ai diritti e alle libertà individuali. Da questo punto di vista si può violare la condizione di simmetria propria delle teorie classiche della libertà: per proteggere culture oppresse si possono vietare comportamenti linguistici che offendano donne o minoranze culturali, mentre è lecito offendere gruppi dominanti; si può violare la libertà di pensiero e di espressione considerando reati opinioni che neghino fatti storici, come lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti; per tutelare soggetti deboli, come embrioni, feti o nascituri, si possono proibire aborti o pratiche sia procreative sia contraccettive, indipendentemente dalle opinioni delle persone coinvolte.
La cultura liberale ha respinto l'accusa di fondare la teoria della tolleranza sulla neutralità etica e sul conferimento di un primato assoluto all'autonomia individuale, e ha tenuto conto delle prospettive dei propri avversari, riformulando la teoria classica della libertà in termini di virtù. Le scelte individuali, alle quali la tolleranza deve consentire la massima apertura possibile, sono appunto scelte tra sistemi di virtù: per Joseph Raz (Autonomy, toleration, and the harm principle, in Justifying toleration. Conceptual and historical perspectives, a cura di Susan Mendus, 1988) la persona è autonoma in quanto "abita un mondo in cui le è aperto il perseguimento di molte virtù", e perciò "se si apprezza l'autonomia si è condotti ad accettare il pluralismo morale". Al pluralismo multiculturale si oppone così un pluralismo etico presentato come "competitivo", costituito dall'esistenza di "virtù morali distinte e incompatibili", addirittura di "virtù che tendono [...] a incoraggiare l'intolleranza di altre virtù". La tolleranza consiste perciò nella repressione delle tentazioni di intolleranza che ogni sistema di virtù sollecita nei confronti di ciò che appartiene a un altro sistema di prestazioni. Per realizzarla occorre riconoscere che esiste una molteplicità di "forme di vita" e astenersi dall'intervenire "ponendo un freno alla propria indignazione alla vista di un'ingiustizia o di qualche altro male morale, o piuttosto alla vista di un comportamento che si ritiene abbia il carattere di ingiustizia o di male morale". Tutte le forme di vita devono essere considerate come realizzazioni di qualche bene e di qualche virtù, e perciò la tolleranza è un atteggiamento di rispetto e di apprezzamento e non di semplice accettazione.
Nata all'interno del cristianesimo, come risposta alle sue divisioni interne, la tolleranza aveva trovato due sostegni nella dottrina del primato e dell'incoercibilità della fede e del carattere razionale e pubblico dell'ordine politico: in entrambi i casi la tolleranza si collocava nella sfera della vita privata, talvolta esaltata come sede dei rapporti diretti tra l'uomo e la divinità, talvolta garantita dalla legge dello Stato, ma talvolta anche sopportata come sede della soggettività arbitraria. Caduti però i due presupposti che fungevano da fondamento (la fede e la superiorità dell'ordine politico), la tolleranza si presentava essenzialmente come una forma di libertà negativa, giustificata dal vantaggio globale che poteva derivarne alla collettività, ma sospettata di indifferenza. Contro questa interpretazione della tolleranza si sono pronunciati i teorici della tolleranza repressiva, muovendo da un'idea di libertà positiva, in base alla quale la tolleranza autentica esige una qualche forma di repressione di qualcuno: da quel momento è parso che la tolleranza consistesse non tanto nel diritto di subire il minimo impedimento possibile ai propri comportamenti e all'espressione di giudizi (positivi, negativi o di indifferenza) sui comportamenti altrui, quanto nel dovere di comprendere e apprezzare i comportamenti altrui. Il punto più delicato della teoria liberale laicizzata era costituito dalla necessità di individuare un limite da imporre alla libertà individuale, limite che Mill trovava nella proibizione di infliggere un danno a qualcuno, presupponendo l'esistenza di un metro comune per rilevarlo. Il punto delicato delle teorie postliberali consiste nella demarcazione tra le attività che possono e quelle che non possono essere descritte in termini positivi: perché neanche i sostenitori del pluralismo competitivo ritengono che tutte le attività possono essere tollerate, e anzi giustificano o esigono misure repressive a protezione della tolleranza.
Con le teorie classiche della tolleranza, che si richiamavano al primato della fede cristiana o alla razionalità e universalità della legge morale, si poteva pensare di disporre di salde garanzie. Le teorie liberali considerate individualistiche presupponevano l'apparato descrittivo del comportamento umano costruito dall'utilitarismo, mentre originariamente i teorici della tolleranza repressiva facevano affidamento su una filosofia della storia di derivazione hegeliana e marxiana. Le teorie più recenti si presentano come esplicitamente normative, oppure fanno affidamento su un'interpretazione dell'azione umana e della storia fortemente condizionata dalle soluzioni che intendono sostenere. In questo senso le teorie della tolleranza soffrono di ciò di cui soffrono molte teorie etiche e politiche contemporanee, cioè di un notevole dislivello tra la potenza delle soluzioni proposte e quella dell'apparato descrittivo che dovrebbe giustificarle, e tendono a presentarsi più come programmi per combattere le discriminazioni a danno dei gruppi svantaggiati che come strumenti teorici atti a chiarire e prevedere le condizioni per la possibilità di convivenza tra individui e gruppi eterogenei.
(V. anche Liberalismo; Libertà; Pluralismo; Religione).
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